III Seminario Redattore Sociale 8-10 Novembre 1996

Periferie umane

Fotografi, i grandi esclusi. La nascita del fotogiornalismo. Ripartire dalla fotografia. Il fotografo-cronista, in fuga dalle redazioni. Il mercato "occulto"

Intervento di Roberto Koch

 

Roberto Koch*

Intanto vi ringrazio per aver voluto inserire in questi incontri il punto di vista di chi lavora con le immagini fotografiche, che è quasi assente nella tradizione del giornalismo italiano; credo che la sua assenza contribuisca, in questo periodo difficile, a rendere più acuta la crisi. L'assenza del punto di vista delle immagini dei giornali è anche confermata dal fatto che in tutte le rassegne stampa o nelle cosiddette "Edicole", in televisione o alla radio, la presenza nelle prime pagine dei giornali di una fotografia viene semplicemente descritta come una fotografia, senza specificare che cosa sia il contenuto di quell'immagine e come questa immagine sia in relazione con il testo o il titolo della prima pagina.

La nascita del fotogiornalismo

Permettetemi una piccola nota storica. Si parla di civiltà delle immagini, di comunicazione visiva di massa. Tutto è iniziato, per quanto riguarda la fotografia e comunque l'epoca della comunicazione visiva di massa, con la guerra di Spagna. Prima i fotografi lavoravano con apparecchiature troppo ingombranti, troppo faticose da spostare, che li rendevano in qualche maniera immobili nei loro punti di vista, troppo statici e quindi il compito di riportare l'istante, il momento nelle pagine dei giornali era affidato ai disegnatori. Nella guerra di Spagna nasce un rapporto completamente nuovo e non esistito prima con la tragedia. Ci sono degli "autori fotografi", che apprendono cioè il punto di vista dell'autore e che contemplano allo stesso momento un punto di vista umano - quindi la partecipazione, la passione, la compassione con l'evento - e un punto di vista tecnico che comprende anche la loro visione estetica e si esprime nell'inquadratura, nella proporzione, nella ricerca di una composizione che porti ad un'inquadratura cosiddetta perfetta al momento decisivo, a una fotografia bella, e in quanto tale capace di rimanere nella memoria storica. In questo preciso momento nasce la comunicazione visiva di massa attraverso i giornali, che poi diffondono in migliaia di copie queste immagini, che arrivano ai lettori senza l'intermediazione di altri linguaggi, come per esempio erano le sale di proiezione dove si proiettavano i documentari. Questo è il punto di partenza che capovolge il rapporto del pubblico con la realtà.

Le immagini sono riproduzione della realtà e non elementi di verità. La verità è un concetto molto diverso dalla fotografia, di cui la fotografia ovviamente deve tenere conto. E' come un percorso parallelo, perché la presenza nel mondo di fatti e la presenza nel mondo delle immagini che raccontano questi fatti, sono entrambi autentici, veri, ma con una profonda diversità.

C'è un altro elemento che identifica la guerra di Spagna come il momento di partenza, di inizio vero e proprio della comunicazione visiva di massa, ed è il rapporto spazio-tempo, quello che poi verrà esaltato dall'avvento della televisione e che domina completamente nella nostra civiltà contemporanea. La ripresa diretta della televisione manca ancora in quel periodo, ma qualcosa del genere avviene ed è proprio alla base del grande successo nei giornali del fotogiornalismo degli anni successivi. Il fotografo è estremamente vicino all'evento, ne è compenetrato al punto tale che in alcuni casi ne viene coinvolto in maniera da morirne, ed è questo poi che cambia la percezione dei fatti nel pubblico, perché attraverso l'osservazione delle immagini si ha come la sensazione di essere sul posto. 

Ripartire dalla fotografia

Ho fatto questa piccola citazione storica perché vorrei in qualche maniera far notare come in parte la crisi dei giornalismo di cui si parla, la difficoltà del rapporto con la realtà, la distanza dalla realtà che ogni giorno sembra più grande, potrebbe in qualche maniera trovare attraverso la fotografia una diversa modalità di sviluppo. In un dibattito avvenuto qualche mese fa a Roma, sullo stato dell'informazione oggi, Antonio Polito, vicedirettore di "Repubblica", raccontava il travaglio del suo giornale, che un anno fa ha portato al lancio della nuova formula, per cui si è deciso, oltre alle varie innovazioni grafiche e all'uso del colore, in qualche maniera di ripartire dallafotografia, perché la fotografia, proprio per la sua immediata e obbligatoria presenza in rapporto diretto con la realtà, avrebbe potuto costituire uno stimolo per riportare anche nei lettori un rapporto diverso con i fatti. A questa affermazione è seguita immediatamente una domanda: se avete fatto una scelta di questo tipo, che altre decisioni avete preso, quanti fotografi avete assunto, avete creato una redazione fotografica? Ma le risposte sono state: "No, nessuno, nessuna redazione fotografica". Questo per dire come il rapporto con la fotografia sia ancora superficiale e tenda a preservare, a continuare delle modalità di utilizzo che sono tutt'altro che approfondite.

Viviamo in una civiltà cosiddetta dell'immagine, in cui assistiamo ogni giorno a decine di migliaia di immagini: la cosa sconcertante nel mondo del giornalismo, in particolare di quello italiano, è che queste immagini vengono sì usate in quantità enorme, ma non è sentita la necessità contemporanea della presenza di un settore dell'informazione, di un servizio interno al giornale che sia effettivamente deputato alla scelta, alla produzione, all'identificazione delle immagini da usare. Questo nasce da una specifica situazione italiana che in qualche maniera si può legare a due fattori: uno è la diffidenza degli intellettuali di formazione umanistica verso tutto quello che è tecnica e quindi che usa degli strumenti diversi dalla parola, soprattutto quando la tecnica è particolarmente buffa. Il fotografo all'inizio si presentava come un buffo personaggio che faceva esplodere della polvere al magnesio per poter realizzare dei ritratti: tuttora è identificato con un albero di natale a cui sono appese decine di macchine fotografiche con lunghi obiettivi: questo si presta anche a molti racconti folcloristici, che spesso poi sono l'argomento per occuparsi di immagini all'interno dei giornali. C'è quindi un pregiudizio tecnico di chi scrive.

Il giornalismo è legato alla nobile arte dello scrivere. I giornalisti ritengono che sia strettamente legato alla letteratura, da cui nasce e a cui ritorna. I grandi scrittori italiani, quando si sono cimentati in racconti giornalistici, non hanno mai ritenuto di dover viaggiare con un fotografo, diversamente da quanto accade in altri paesi. Cito per tutti gli Stati Uniti, in cui invece c'è una tradizione di grande affiatamento: ad esempio Hemingway e Capa giravano insieme in continuazione, così come Steinbeck nei suoi viaggi in Russia, e Kerouac e il suo rapporto con Robert Frank sulle strade americane. Quindi esiste una specie di autoprivazione di un rapporto con l'immagine che vada al di là del semplice riempitivo e "spezzapiombo", così come è stato definito negli anni passati. Questo nonostante tuttora sia evidente che il rapporto del lettore con il giornale nasce e si sviluppa anche e soprattutto a partire dall'immagine. Uno studio dell'università della California, fatto su una serie di quotidiani e di lettori, ovviamente con un test, ha concluso che l'87% dei lettori di un quotidiano ricordava tutti i disegni compresi nel quotidiano, l'85% era in grado di riferire, sottraendogli il quotidiano, quale fotografia era stata utilizzata in prima pagina, il 74% era in grado di ricordare il titolo principale del giornale e solo il 24% diceva di aver letto almeno un articolo.             

Non dico che questa sia una modalità con cui un lettore deve rapportarsi al giornale, ma è un dato di cui tener conto, soprattutto in una situazione in cui il giornalismo sembra voler rincorrere, come diceva prima Bettin, le pulsioni emotive della gente e in qualche maniera assecondarle per fare in modo che compri il giornale. Quindi, se il modo di comunicare passa immediatamente e prima di tutto attraverso l'immagine, è ben strano che questa immagine non venga scelta con modalità diverse, più approfondite e più appropriate. Non è un mistero che in nessun giornale italiano esiste una redazione fotografica, sono i capi servizio che, indipendentemente da una visione di insieme, scelgono le fotografie che poi vengono usate nelle loro pagine. La non esistenza di una redazione fotografica corrisponde all'assenza di un budget specifico per la produzione e l"acquisizione di immagini fotografiche, che vada al di là del rapporto immediato con le grandi agenzie di informazione a cui sono legati con abbonamento. La conseguenza di tutto questo è l'assenza dei fotografi dal mondo dei giornali.

C'è anche la scelta di allargare il campo dei collaboratori, aggiungendo altri fotografi, che nasce dall'osservazione e dal tener conto di lavori che questi fotografi hanno pubblicato in altre parti. Il modo in cui vengono identificati i possibili collaboratori della testata è sempre legato ad una capacità espressiva che vada al di là della semplice documentazione: si cerca una vera e propria interpretazione d'autore, e quindi si giudicano le pubblicazioni e i lavori che vengono presentati sulla base di questa capacità. Fatto ciò, l'entrata e l'inizio della collaborazione col giornale diventa la sistematica distruzione di queste capacità: tanto è vero che, scelto un collaboratore in quanto capace di sviluppare autonomamente un certo discorso con un linguaggio proprio, con una capacità d'indagine che va al di là della semplice esecutività, si pretende poi che costui si trasformi in un esecutore di idee altrui e quindi impoverisca progressivamente il suo bagaglio e la sua capacità di interpretare la realtà.

Il fotografo-cronista

Ritornando all'equilibrio nel rapporto tra testo e immagini, credo che questa necessità debba essere molto più presente nel giornalismo italiano. E' una specificità italiana: credo che in nessun caso, in nessuna scuola di giornalismo in Italia ci sia una parte importante legata all'approfondimento di come il testo deve essere presente insieme all'immagine, di come le immagini nascono. Perché la forza della fotografia è effettivamente il suo rapporto diretto con la realtà. In tutte le esperienze degli inviati sul campo in grandi eventi, siano essi eventi drammatici, di guerra o comunque legati all'evoluzione di un paese, noi fotografi che viaggiamo spesso ci troviamo a confronto con dei colleghi giornalisti che ci chiedono una testimonianza diretta, il racconto in prima persona di quel che abbiamo visto, perché in molti casi essi non hanno voluto - o per le modalità del loro lavoro non hanno potuto - recarsi sul posto. E' abbastanza comico, ma in realtà molti inviati si trasformano in repliche delle funzioni che hanno in redazione, quindi ricostruiscono sul posto una serie di strumenti che consentono loro di accedere all'informazione in maniera immediata e da lì, invece di recarsi direttamente dove gli eventi si svolgono, rimettono insieme tutte le informazioni per un racconto in prima persona. Questo perché le pressioni da parte delle redazioni sono spesso talmente forti che impediscono quel minimo di rischio che si corre nel riportare un racconto in prima persona: si ha così la mancanza di alcuni elementi d'informazione per l'impossibilità di essere presenti contemporaneamente in più luoghi. La preoccupazione di dover sentire da parte dei giornali la protesta per non aver riportato tutti gli elementi e tutte le informazioni del luogo e il timore che altri colleghi abbiano fatto un reportage più completo del proprio, conduce ad un continuo confronto delle informazioni che si hanno, e infine al fatto che tutti i pezzi dei vari quotidiani spesso si assomigliano. Occorre recuperare il rapporto con ciò che si racconta in prima persona e quindi il valore dell'inchiesta, del documento.

Un altro motivo di questa distanza è che il giornalismo in Italia è sempre stato un genere letterario più che un linguaggio a sé stante, quindi il rapporto con i fatti è meno importante della capacità e dello stile nello scrivere. Cito solo alcuni episodi, per dire in che stato versa il giornalismo italiano rispetto alle immagini, ma riguarda tutti i giornali. Dacia Maraini due anni fa venne incaricata da "L'Unità" di scrivere una pagina sul lavoro che un fotografo americano, James Nachtwey, aveva fatto in Somalia, proprio perché era stato talmente forte da aver suscitato in America e in altri paesi un dibattito molto importante e molto attuale. Perciò le hanno dato delle fotografie su cui scrivere, come a dire che le fotografie vengono nobilitate dal fatto che uno scrittore ne parli. Tutto il pezzo venne scritto attribuendo le fotografie ad un giornalista di "Panorama" che era quello che gliele aveva mandate. Questo è un episodio, ma la gravità è che poi non ha suscitato reazioni. Ettore Mo, che ieri sera veniva citato come uno dei giornalisti italiani più importanti - tutti sappiamo quale sia la sua forza e la sua reputazione nell'aver seguito tanti conflitti in un modo così personale - sta seguendo da alcuni mesi, insieme ad un fotografo, per il ''Corriere della Sera", un reportage sulla via della seta. E' un fatto molto particolare, nuovo nel giornalismo italiano, che ci sia un grande quotidiano che affidi, insieme ad un grande inviato, anche ad un fotografo, Luigi Baldelli, la documentazione di un reportage.

Ebbene, il primo pezzo, che è costato grande fatica sia a Mo per scriverlo che a Baldelli per fotografarlo e per spedire le fotografie al giornale, è stato pubblicato con delle foto d'archivio, perché la comunicazione interna al giornale è mancata nel momento in cui si doveva mettere in pagina l'articolo. La "Repubblica" fa una grande inchiesta sulla contemporaneità e su dove va il mondo alla fine del millennio, si affida ai più grandi giornalisti del proprio gruppo per raccontare lo stato dei vari continenti; Bernardo Valli fa un grande pezzo sulla Cina e all'interno del pezzo cita una fotografia di Cartier-Bresson che, proprio per i motivi che dicevamo sulla memoria storica, simboleggia un momento particolare della storia della Cina: la caduta del regime e quindi la gente che si affolla a vendere o a ritirare dalle banche i propri risparmi e l'oro.

La fotografia viene ricercata perché è stata citata nel pezzo, viene pubblicata, tagliata in modo tale che non si capisca proprio il punto centrale che poi era il motivo per cui era stata citata all'interno dell'articolo. Nel giornalismo italiano, anche là dove il rapporto con l'immagine - e cioè nelle pagine della cultura in cui dovrebbe essere più sviluppato - si assiste a delle cadute impressionanti e alla mancanza di una vera e propria cultura specifica, che consenta un'utilizzazione delle immagini ed una loro interpretazione più approfondita.

In fuga dalle redazioni

Come uscire da ciò, come rispondere al disagio dell'informazione? Credo che, per chi lavora con le immagini, ci sia di fatto una scelta analoga a quella che avviene per tanti giornalisti. In molti casi il rapporto con il giornalismo ha fatto sì che alcuni autori se ne siano allontanati per poter riconquistare una propria autonomia di professione e riprendere la libertà di scegliere autonomamente il tempo e le modalità con cui sviluppare dei reportage nelle zone del mondo di proprio interesse. Abbiamo visto come per esempio una grande figura come Capushinsky abbia provato che un giornalismo che si occupa di grandi reportage diventa letteratura, e su questo filone altri autori, anche italiani, hanno sviluppato una modalità di rapporto con quell'editoria che trova nella realizzazione di libri il modo principale di raccontare o di far arrivare ai lettori il proprio reportage. Lo stesso avviene per i fotografi. Una delle chiavi di volta per uscire da questo disagio credo sia la riconquista di un tempo adeguato alla possibilità di realizzare un'informazione corrispondente alla propria sensibilità, alla propria esperienza. L'impossibilità di poter disporre di un tempo aggiuntivo rende impossibile una qualità adeguata nell'informazione fotografica. Quindi alcuni fotografi hanno riconquistato questo tempo, facendo una scelta autonoma di approfondimento, che ha spostato il riferimento immediato nei rapporti della committenza al pubblico, e soltanto in un secondo momento e come un mezzo tra gli altri, di nuovo al giornale.

Vi leggo brevemente un estratto di un articolo di Francois Hebel per "Le Monde" dell'11 settembre scorso che fa proprio un'analisi di questo problema:
"Morto il fotogiornalismo come è stato creato negli anni '60. Si è suicidato, non sopportando più i colpi del genere people, i ritratti delle celebrità e soprattutto i reportage costruiti a uso e consumo del mercato, piuttosto che dei reali bisogni d'informazione della nostra società. Abbandonando le redazioni per le agenzie i fotografi ne hanno certamente guadagnato in libertà, spesso anche economicamente, ma allo stesso tempo hanno perso il loro potere all'interno delle riviste, lasciando il posto ai grafici e ai giornalisti della parola scritta. Una conseguenza è la scelta delle foto, troppo spesso fatta all'interno di cataloghi stereotipati e fabbricati in studio. Una caricatura, più che una reale informazione della società. Un'altra conseguenza è la moda delle figurine: tutte quelle piccole fotografie pubblicate in gran numero su una stessa pagina di giornale, che danno l'illusione dell'abbondanza dell'informazione. La quantità cerca di rimpiazzare la qualità". Se ci fate caso questa è una tendenza che sta prendendo sempre più piede, soprattutto all'interno dei quotidiani, dove le interviste vengono corredate da una decina di piccole faccine: elementi che però non hanno niente a che fare con il personaggio o il testo dell'argomento, tranne per le piccole citazioni delle frasi dell'intervistato.

L'avvenire del fotogiornalismo a questo punto sembra avere davanti a sé tre stradepossibili. Due sono emerse negli anni '80: quella dei paparazzi e quella dell'attualità, del genere news, in cui solo le grandi agenzie riescono a seguire il ritmo della televisione, che la fa da padrone, ovviamente per la capacità e la forza del mezzo stesso. La terza strada è stata aperta da un gruppo di fotografi. Si tratta di persone che da una decina di anni intraprendono progetti a lunga scadenza, impiegando da 5 fino a 7 anni di tempo per compiere una serie di reportages sullo stesso tema. Si chiamano Patrik Zachman, con un reportage sulla diaspora cinese; Sebastiao Salgado, sul lavoro dell'uomo; Abbas, sui differenti aspetti dell'Islam nel mondo; Francesco Zizola, sui problemi dei bambini nel mondo; Antonio Biasiucci, sulla realtà e il rapporto con i vulcani; Marco Pesaresi, sull'umanità delle metropoli. Non soltanto questi fotografi sono riusciti a vivere dei loro lavori, ma li hanno pubblicati sui giornali, stampati sui libri e questi reportage, soprattutto, costituiscono una base di riferimento per i testi scolastici, le enciclopedie o quant'altro esiste nel mondo dell'editoria. I dossier dei giornali spesso sono pieni di queste immagini. I giornali diventano quindi un supporto tra gli altri, un mezzo che, se da un lato raggiunge un gran numero di persone, dall'altro è il meno controllabile perché si muove spesso sull'urgenza della notizia. A questi fotografi che certamente sono giornalisti, ma non si riconoscono nella generica stampa d'informazione, rimane solo da conquistare questo nuovo territorio.

I lettori che sempre più spesso abbandonano i giornali d'informazione generica potrebbero trovare in questi nuovi documentari ciò che differenzia la fotografia dalla televisione e cioè il tempo e la memoria, perché il rapporto di sudditanza che i giornali italiani hanno con la televisione è uno dei motivi della loro crisi. Credo che ci sia stata, negli anni passati, una demonizzazione della televisione in realtà sbagliata, nel senso che il problema vero è che gli altri media hanno scimmiottato la televisione invece di reagire e di utilizzare le peculiarità del proprio linguaggio che gli consentisse di raggiungere un pubblico che voleva un tipo di informazione diversa da quella immediata e di diretto rapporto con gli eventi del giorno, offerta dalla televisione. L'hanno inseguita su un terreno su cui ovviamente la sconfitta era sicura.

Il mercato "occulto"

Due parole sul rapporto con il mercato. I giornali ovviamente sono dei prodotti che devono funzionare, devono vendere in edicola e tenere necessariamente conto del pubblico e di quanti lettori riescono a raggiungere. C'è però, rispetto all'immagine, una cosa che negli ultimi due anni è diventata veramente preoccupante e cioè il rapporto con gli inserzionisti pubblicitari che attualmente sono, soprattutto nella stampa periodica, il principale riferimento di qualunque direttore, molto più del numero dei lettori che riesce a raggiungere. Hanno occupato progressivamente degli spazi sempre maggiori all'interno delle parti informative vere e proprie del giornale, al di là delle inserzioni. Avrete probabilmente notato negli anni passati sempre più spesso copertine di settimanali con pretesti di inchieste sul mondo della moda o di interviste a grandi stilisti, che in realtà nascevano semplicemente dall'offerta gratuita che le case di produzione dei grandi stilisti facevano ai giornali: quindi di pubblicità vera e propria si tratta, e in modo non occulto, essendo chiari tutti gli elementi di promozione del prodotto, però non fatturata.

Quindi un'offerta gratuita di spazi e di possibilità di utilizzare questi spazi, però con il vincolo di usarli, per esempio, in copertina. L'inflazione dei personaggi di riferimento del grande pubblico, come le top model, quindi, servono ad offrire uno strumento più forte e non strettamente identificato come inserzione pubblicitaria, a degli importanti clienti. Questo fenomeno si sta manifestando in maniera sempre più vasta: in moltissimi articoli di grandi settimanali, attraverso un pezzo redazionale e quindi non specificamente di inserzione, si vogliono semplicemente offrire spazi diversi per la promozione di certi prodotti. Credo che questo sia un elemento che disturba, che rende ancora più problematico il rapporto con i lettori. In qualche modo la chiusura di cui si parlava è a doppio senso: da un lato i giornalisti e i giornali spesso hanno come riferimento se stessi più che la realtà di cui scrivono, ma un altro problema è che i giornali non hanno un vero e proprio rapporto con il loro pubblico di lettori. Non tutti: alcuni giornali hanno già una diversa modalità di comunicare con i lettori, ma credo che bisognerebbe fare dei cambiamenti o studiare delle nuove forme per rapportarsi al pubblico.

Stefano Ricci

Grazie per questa inaspettata modificazione della prospettiva: l'uso dell'immagine, che all'inizio trova il suo senso nella sua vicinanza alla realtà, ma che per sopravvivere e per recuperare la propria specificità deve attivare un differimento temporale, deve spostarsi dalla quotidianità, dall'immediatezza per recuperare un'identità, un'autonomia. Penso che il processo della rappresentazione, che dalla riproduzione della realtà va alla rappresentazione della realtà, nella televisione trova un suo specifico sviluppo. Parola, fotografia, televisione, non come processo lineare, ma proprio come una ricerca. Qualcuno dice che ormai la televisione rappresenta un mondo parallelo: l'altra realtà che paradossalmente rischia di essere il parametro per misurare e valutare la realtà degli umani, che esiste se e nella misura in cui entra nell'altra. Questo è vero sicuramente per il mondo della pubblicità, del varietà, dei programmi televisivi. Si pone la necessità di verificare se non ci sia stata anche una contaminazione di questa realtà verso l'informazione televisiva. Non solo una sorta di trascinamento, quindi di aiuto ai programmi, questo sicuramente è più vero per le televisioni commerciali, ma potrebbe essere vero anche per la Rai. Allora ci sono conduttori di Tg e giornalisti che fanno i conduttori in programmi di varietà o addirittura i testimonial pubblicitari - questo potrebbe creare della confusione. E' una visione un po' apocalittica del giornalismo televisivo, quindi mi sembra opportuno chiedere se sia vera, plausibile, o invece non proponibile a chi televisione l'ha fatta per dieci anni e due mesi, ci teneva a sottolinearlo: dieci anni da corrispondente, prima da New York poi da Mosca, e due mesi da direttore del Tg1, il telegiornale più importante. Ma questa è la domanda: si può risvegliare il guardiano che è il giornalista in una situazione del genere? Magari anche pagando di persona?  


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.