VI Redattore Sociale 26-28 novembre 1999

Di razza e di classe

La professione smarrita

Intervento di Vincenzo Zeno Zencovich

 

Vincenzo Zeno Zencovich - docente universitario*

Il giornalismo è ancora una professione? A questa domanda, la risposta almeno nel nostro Paese, appare essere: "sempre meno". Per le seguenti ragioni strutturali ed incidentali.

* La classe giornalistica o almeno i suoi settori più rappresentativi appaiono sempre (più) svolgere una funzione di trasmissione e di legittimazione del Potere. Questo termine, sia ben chiaro, non è utilizzato in alcun senso deteriore o, addirittura manicheo, bensì in senso sociologico per individuare il complesso di istituzioni e persone che decidono la "agenda", in senso lato, politica. Fino agli anni '80 questa era individuabile essenzialmente negli esponenti di governo e di partito ed in alcuni settori dell'impresa soprattutto pubblica. A partire dagli anni '90 ad essi si sono aggiunti - con fasi anche di preminenza - esponenti della magistratura in particolare inquirente. Ciò ha comportato e comporta che il principale punto di riferimento della classe giornalistica sono questi soggetti, i quali per un verso sono il primario oggetto notiziale, per altro verso coloro i quali interagiscono (pubblicamente, privatamente, indirettamente) sull'attività informativa. Il giornalismo di Palazzo (per dirla alla Machiavelli) rappresenta dunque il mondo nel quale vive e con il quale si trova in osmosi, se non in simbiosi. E tale rappresentazione finisce inevitabilmente per essere ipertrofica, in termini sia di spazio che di dettaglio.

* La concentrazione dell'attenzione sui protagonisti della politica tuttavia non si traduce in una specializzazione: salvo rare eccezioni è facile constatare che la conoscenza si arresta alla superficie dei fenomeni - il discorso, la riunione, la sintesi della decisione, la dichiarazione, la diceria. Non si scava, non si conosce l'immenso territorio sul quale il governo, la politica, i protagonisti poggiano, e cioè "la macchina" statale, i settori governati, gli interessi rappresentati. E' questa, una porzione rilevante della Società che per le ragioni che si vedranno, non viene ritenuta "interessante".

* Fuori dal Palazzo vi è solo il terrore, la paura, l'orrore, la violenza, l'ignominia da una parte; il sesso e il sentimentalismo dall'altra. Si direbbe quasi che la classe giornalistica sia in grado di vedere la Società attraverso schemi primordiali, cogliendo solo le manifestazioni che in essi rientrano ed ignorando quasi tutto il resto. Si tratta di una rappresentazione che in termini appropriati e senza intenti spregiativi, può definirsi "infantile". Il che si traduce in una scrittura di tipo fiabesco: sullo sfondo vi è la realtà ma essa è fantasticata, mira a colpire, impressionare, ammonire il lettore. E' indirizzata alla parte emotiva e non a quella razionale della persona (intendendo con ciò un processo cognitivo basato su costruzioni logiche). Con il che, ovviamente non s'intende sminuire il genere della fiaba ma solo sottolineare come esso  ha presupposti e finalità diversi dall'informazione.

* A ben vedere è la Società, nella sua inevitabile complessità, a non interessare la classe giornalistica se non nella misura in cui sia inquadrabile negli schemi elementari sopra evidenziati. La rappresentazione della Società richiede infatti un lavoro - una professione, appunto - cui non si è abituati: i protagonisti il più delle volte non sono a portata di mano, non sono conosciuti, non hanno strutture di comunicazione (uffici stampa p.r.) Le informazioni sono spesso raccolte in pubblicazioni non immediatamente o facilmente reperibili. Spesso hanno un contenuto tecnico o specialistico di non immediata comprensione o per la comprensione del quale sono necessari  studi di base e formazione. Per quanto la spiegazione possa sembrare banale, la principale causa della scarsa professionalità della classe giornalistica appare risiedere nella "fatica" di un approccio che non voglia restare alla superficie e che è ben sintetizzata dalla battuta creata dagli stessi interessati: "Che brutta la vita del giornalista ma è sempre meglio che lavorare!".

* D'altro lato lo schema tradizionale di inquadramento della professione giornalistica - l'Ordine dei Giornalisti - con conseguente monopolio sull'esercizio dell'attività informativa e sull'applicazione del CCNL si sta progressivamente sgretolando. Ciò è dovuto, per un verso all'espansione dell'area informativa attraverso mezzi tradizionali, per altro verso all'emersione di nuove tecnologie.
Sul primo versante si va ingigantendo l'attività di informazione specializzata: si pensi alla moda, al tempo libero, agli sport, alla casa, agli animali, all'arte, oggetto di pubblicazioni o trasmissioni apposite per le quali i soggetti coinvolti tendono sempre meno ad essere iscritti all'Albo professionale. E questo fenomeno non tocca solo le singole testate ma penetra all'interno della roccaforte del sistema - la stampa quotidiana - la quale sempre più fornisce "inserti" specialistici redatti da non iscritti all'Albo. E' evidente che in questo fenomeno giocano un ruolo non trascurabile esigenze di contenimento di costi con conseguente fuga dalle rigidità contrattuali e previdenziali connesse alle figure professionali tradizionali. Ma è proprio in questo modo che nascono categorie nuove. Sul secondo versante la diffusione di Internet oltre che consentire chiunque di realizzare un prodotto informativo incide in maniera profonda su quest'ultimo: la brevità, l'uso dell'inglese come lingua franca, la influenza della grafica, la possibilità/necessità di collegamenti (i links), la necessità di adattamento per consentire il reperimento dell'informazione sulla rete, sono tutti fattori che cambiano il modo di informare, con una impronta fortemente tecnologica. L'evoluzione non finisce qui, perché se è (e rimane) vero il principale teorema di Mc Luhan (il mezzo è il messaggio) ci si avvede facilmente della profonda differenza fra un messaggio che viene fruito attraverso la stampa o la televisione ed uno che, invece, viene fruito tramite monitor.

Come si innestano queste considerazioni sul fenomeno dell'informazione "sui temi del disagio e della marginalità"?

a)  In primo luogo si può osservare che tale informazione è assente - o quando c'è, è innescata da fenomeni di allarme sociale che incutono quei sentimenti di cui si è detto prima - perché manca l'informazione sulla Società. Non si informa sul disagio e sulla marginalità perché ad essa tocca lo stesso destino del resto dei fenomeni sociali, anche non inquadrabili in termini di devianza. A volersi esprimere in termini paradossali, gli zingari come i ragionieri, i tossicodipendenti come i malati di diabete, i barboni come gli artigiani.

b)  In secondo luogo, proprio perché è la Società a non essere rappresentata dalla classe giornalistica, non pare giustificato uno "statuto" speciale per i "temi del disagio e della marginalità". Nel momento in cui si riuscirà ad avere una rappresentazione dell'intero - la Società - si avrà - si dovrà avere - la rappresentazione anche delle sue parti. Ovviamente questa impostazione risponde ad una visione - non da tutti, anzi da pochi condivisa - secondo la quale la "emarginazione" non ha bisogno per essere riassorbita, di una rappresentazione enfatizzata della diversità, bensì al contrario di una "normalizzazione" della diversità: una società è fatta da una sommatoria di diversi, raggruppabili in una infinità di classi e sottoclassi (sesso, età, origine, residenza, professione, preferenze politiche e chi più ne ha più ne metta). Non siamo tutti uguali, né vorremmo esserlo. Ma la diversità non può, in quanto tale, avere effetti stigmatizzanti.

c)  La conseguenza è che non appare utile - ai fini di una effettiva professione giornalistica - la visione dell'informazione "sui temi del disagio e della marginalità" come "missione". Si finirebbe in tal modo per contrapporre una impronta ideologica (nel senso tecnico del termine) a quella dominante. Occorre infatti tener ben distinto il campo d'azione dell'operatore sociale, il quale difficilmente potrà essere alieno da simpatie, sintonie o intime comprensioni verso i soggetti cui indirizza la propria attività, da quello del giornalista il quale deve necessariamente mantenere il più possibile il ruolo di terzo, mediando i fatti verso la conoscenza collettiva. In altre parole sarebbe un ben modesto risultato se il "giornalista sociale" si trasformasse in un ulteriore palese ed occulto, portavoce degli emarginati, che si affianca a quelli del politico, della Procura, del grande imprenditore.

d)  Il che peraltro, non comporta che il giornalista non abbia - o debba avere - sentimenti, sarebbe impossibile. Ma sottolineare che più e prima della "simpatia" e del "calore umano" serve un istinto primordiale che è alla base dello sviluppo dell'umanità: la curiosità di conoscere e capire.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.