VI Redattore Sociale 26-28 novembre 1999

Di razza e di classe

Il cinico non è adatto a questo mestiere...

Maria Nadotti incontra Ryszard Kapuscinski. Partecipa Vinicio Albanesi

 

Maria Nadotti, scrittrice, saggista, critica letteraria e cinematografica*

In uno dei tuoi primi libri, Another day of life, un reportage sulle guerre in Angola ancora inedito in Italia, hai scritto: "è sbagliato scrivere di qualcuno senza  averne condiviso almeno un po' la vita" (pag.66). In Imperium, testimone della "modernizzazione" di una città, scrivi: "Davanti all'albergo dove abito stanno demolendo un vecchio quartiere di Erevan. Buttano giù antiche casette, porticati, logge, giardinetti pensili, aiole, zolle, miniruscelli e cascatelle in miniatura, tetti coperti da tappeti di fiori, staccionate soffocate da viluppi di vite; abbattono scale in legno, spaccano panchine appoggiate contro i muri delle case, distruggono ripostigli per legna e pollai, portoni e cancelletti. Tutto svanito. La gente guarda i bulldozer avventarsi su questo paesaggio scolpito dagli anni (al suo posto saranno piazzate le fondamenta di un grande blocco abitativo in cemento), stritolare e trasformare in immondizia queste stradine verdi, questi cantucci raccolti e silenziosi. La gente sta lì e piange. Sto lì anch'io e piango con loro" (pag.101) In La prima guerra del football e altre guerre di poveri, in una sorta di digressione autobiografica che fa luce sulla natura e la misura del tuo impegno di scrittore e giornalista, scrivi: "In Africa mi sono ammalato spesso, perché i tropici producono tutto in eccesso, a dismisura.... Non c'è scampo: se si vuole penetrare negli angoli più oscuri, traditori e intatti di questa terra, bisogna essere pronti a pagarlo con la salute se non con la vita. Ma così accade per tutte le passioni rischiose.... Qualcuno risolve la situazione con un'esistenza paradossale, vale a dire che appena arrivato in Africa si rintana in un buon albergo, non esce mai dai quartieri dei bianchi e, anche se da un punto di vista geografico si trova in Africa, in realtà continua a stare in Europa, in un surrogato d'Europa a formato ridotto. Si tratta comunque di un espediente indegno di un vero viaggiatore e impossibile per un corrispondente che deve verificare tutto sulla propria pelle" (pag.161). La tua opera più recente, Ebano, è la fotografia di un'Africa vista da dentro e dal basso, il tentativo riuscito di un'osservazione partecipante e a suo modo militante delle mille vite di un continente che per molti continua a essere niente più che un immenso buco nero sulla mappa del mondo.
Vorrei dunque invitarti a partire proprio da qui, dal racconto e dalle motivazioni di un agire giornalistico improntato a una scelta etica molto forte e alla necessità del rischio, dell'esperienza diretta, della condivisione.

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter*

Innanzi tutto vorrei esprimere la mia grande gioia di essere qui. Non è la prima volta che partecipo a un meeting di giornalisti qui in Italia e ho bellissimi ricordi di questi incontri. In secondo luogo vorrei dire che sono contento di vedere tanti giovani. La nostra professione ha bisogno di nuove forze, nuove visioni, nuova immaginazione, perché negli ultimi tempi è cambiata in modo tremendo. Voi siete nati per portare a compimento un lavoro appena avviato. Il giornalismo sta attraversando una grande rivoluzione elettronica. Le nuove tecnologie facilitano enormemente il nostro lavoro, ma non ne prendono il posto. Tutti i problemi della nostra professione, le nostre qualità, la nostra manualità rimangono inalterati. Qualsiasi scoperta o miglioramento tecnico può certamente aiutarci, ma non può sostituirsi al nostro lavoro, alla nostra dedizione ad esso, al nostro studio, al nostro esplorare e ricercare. Nel nostro mestiere vi sono alcuni elementi specifici molto importanti. Il primo elemento è una certa attitudine ad accettare di sacrificare qualcosa di noi. È una professione molto esigente, questa. Tutte lo sono, ma la nostra in modo particolare. Il motivo è che noi ci conviviamo ventiquattro ore al giorno. Non possiamo chiudere il nostro "desk" alla quattro del pomeriggio e passare a occupazioni diverse. Questo è un mestiere che prende tutta la vita, non c'è altro modo di esercitarlo. O almeno di farlo in modo perfetto. Va detto, naturalmente, che esso può essere svolto appieno a due livelli molto diversi. A livello artigianale, come avviene per il novanta per cento dei giornalisti, non differisce in niente da un lavoro comune come quello del calzolaio o del giardiniere. È il livello più basso. Ma c'è poi un livello più alto, che è quello creativo: è quello in cui, nel lavoro, mettiamo un po' della nostra individualità e delle nostre ambizioni. E ciò richiede davvero tutta la nostra anima, il nostro attaccamento, il nostro tempo. Il secondo elemento della nostra professione è il costante approfondimento delle nostre conoscenze. Vi sono professioni per le quali normalmente si va all'università, si ottiene il diploma e lì finisce lo studio. Per il resto della vita si deve semplicemente amministrare ciò che si è imparato. Nel giornalismo, invece, l'aggiornamento e lo studio costanti sono la conditio sine qua non. Il nostro lavoro consiste nell'indagare e nel descrivere il mondo contemporaneo, che è in continuo, profondo, dinamico e rivoluzionario cambiamento. Da un giorno all'altro noi dobbiamo seguire tutto questo e essere in grado di prevedere il futuro. Perciò bisogna costantemente studiare e imparare. Ho molti amici di grande talento insieme ai quali ho cominciato a fare il giornalista e che dopo pochi anni sono spariti nel nulla. Essi credevano molto nelle loro capacità interne, ma queste capacità nella nostra professione si esauriscono molto presto; così sono rimasti senza risorse e hanno smesso di lavorare.
C'è una terza qualità importante per la nostra professione, ed è non considerarla come un semplice mezzo per arricchirsi. Per questo ci sono professioni che consentono di guadagnare molto meglio e più velocemente. All'inizio il giornalismo non dà molti profitti. Infatti quasi tutti i giornalisti alle prime armi sono gente povera, e per vari anni non godono di una situazione finanziaria molto florida. Si tratta di una professione dalla precisa struttura feudale: si sale di livello solo con l'età e ci vuole tempo. Si incontrano molti giovani giornalisti pieni di frustrazioni, perché lavorano tanto ad un salario molto basso, poi perdono il lavoro e magari non riescono a trovarne un altro. Tutto questo fa parte della nostra professione. Perciò, siate pazienti e lavorate. I nostri lettori, ascoltatori, telespettatori sono persone molto giuste, che riconoscono in fretta la qualità del nostro lavoro e altrettanto velocemente cominciano a associarla al nostro nome; sanno che da quel nome riceveranno un buon prodotto. Questo è il momento in cui si diventa giornalisti stabili. Non sarà il nostro direttore a deciderlo, ma i lettori.
Per arrivare fin qui occorrono, però, le qualità di cui ho parlato all'inizio: sacrificio e studio continuo. La domanda di Maria riguardava il peso che l'esperienza personale ha su ciò che si sta scrivendo. Dipende. Nella nostra professione si possono fare cose molto diverse. Con l'età ci si specializza in una particolare carriera. 
In generale i giornalisti si dividono in due grandi categorie. La categoria dei servi della gleba e la categoria dei direttori. Questi ultimi sono i nostri padroni, coloro che dettano le regole, sono dei re, decidono. Io non sono mai stato direttore, ma so che oggi non occorre essere un giornalista per essere a capo dei media. Infatti, la maggioranza dei direttori e dei presidenti delle grandi testate e dei grandi network non sono affatto giornalisti. Sono dei grandi manager. La situazione ha cominciato a cambiare quando il mondo ha capito - non molto tempo fa - che l'informazione è un grande business. Prima, all'inizio del secolo, l'informazione aveva due facce. Poteva mirare alla ricerca della verità, all'individuazione di ciò che accade veramente, e a informarne la gente nel tentativo di indirizzare la pubblica opinione. Per l'informazione la verità era la qualità principale. Il secondo modo di concepire l'informazione era di trattarla come uno strumento di lotta politica. I giornali, le radio, la televisione ai suoi esordi erano strumenti di diversi partiti e forze politiche in lotta per i propri interessi. Così, ad esempio, nel diciannovesimo secolo, in Francia, Germania o Italia, ogni partito e ogni grande istituzione avevano la loro stampa. L'informazione, per questa stampa, non era la ricerca della verità, ma era guadagnare spazio e sconfiggere il proprio nemico. Nella seconda metà del secolo, specialmente negli ultimi anni, dopo la fine della guerra fredda, con la rivoluzione dell'elettronica e della comunicazione, improvvisamente il grande mondo degli affari scopre che la verità non è importante, e che neanche la lotta politica è importante: che, nell'informazione, ciò che conta è l'attrazione. E, una volta che abbiamo creato l'informazione-attrazione, possiamo vendere questa informazione ovunque. Più l'informazione è attraente, più denaro possiamo guadagnare con essa.
Così l'informazione si è totalmente separata dalla cultura: ha cominciato a fluttuare nell'aria; chiunque abbia soldi può prenderla, diffonderla e fare ancora più soldi. Quindi, oggi, ci troviamo in un'era dell'informazione del tutto diversa. Nella situazione attuale il fatto nuovo è questo. Ed è questo il motivo per cui, improvvisamente, a capo dei più grandi network televisivi troviamo persone che non hanno assolutamente nulla a che fare con il giornalismo, che sono soltanto dei grandi uomini d'affari, legati a grandi banche o compagnie di assicurazione o a un qualsiasi altro ente fornito di molto denaro. L'informazione ha cominciato a "rendere" e a rendere in modo veloce. Quella attuale, pertanto, è una situazione in cui nel mondo dell'informazione stanno entrando sempre più soldi.
C'è anche un altro problema. Quaranta, cinquant'anni fa, un giovane giornalista poteva andare dal proprio capo e sottoporgli i propri problemi professionali: come scrivere, come fare un reportage alla radio o alla televisione. E il capo, che di solito era più anziano di lui, gli avrebbe parlato della sua esperienza e dato dei buoni consigli. Ora provate a andare da Mr. Turner, che in vita sua non ha mai fatto il giornalista e che raramente legge i giornali o guarda la televisione: non potrà darvi alcun consiglio, perché non ha la più pallida idea di come si faccia il nostro mestiere. Il suo scopo e la sua regola non sono di migliorare la nostra professione, ma solamente di guadagnare di più. Per queste persone, vivere la vita della gente comune non è importante né necessario; la loro posizione non è costruita sull'esperienza di giornalista, ma di"money-maker". Per noi giornalisti che lavoriamo con le persone, che cerchiamo di comprendere le loro storie, che dobbiamo esplorare e investigare, l'esperienza personale è naturalmente fondamentale. La fonte principale della nostra conoscenza giornalistica sono "gli altri". Gli altri sono coloro che ci dirigono, ci danno le loro opinioni, interpretano per noi il mondo che tentiamo di capire e descrivere.
Non c'è giornalismo possibile fuori dalla relazione con gli altri esseri umani. La relazione con gli altri è l'elemento imprescindibile del nostro lavoro. Nella nostra professione è indispensabile avere qualche nozione di psicologia, sapere come rivolgerci agli altri, come trattare con loro e comprenderli.
Credo che per fare del giornalismo si debba essere innanzi tutto degli uomini buoni, o delle donne buone: dei buoni esseri umani. Le persone cattive non possono essere dei bravi giornalisti. Se si è una buona persona si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro difficoltà, le loro tragedie. E diventare immediatamente, fin dal primo momento, parte del loro destino. È una qualità che in psicologia viene chiamata "empatia". Attraverso l'empatia si può capire il carattere del proprio interlocutore e condividere in maniera naturale e sincera il destino e i problemi degli altri. In questo senso, il solo modo per fare bene il nostro lavoro è scomparire, dimenticarci della nostra esistenza. Noi esistiamo solamente come individui che esistono per gli altri, che ne condividono i problemi e provano a risolverli, o almeno a descriverli ed aiutarli.
Il vero giornalismo è quello intenzionale, vale a dire quello che si dà uno scopo e che mira a produrre una qualche forma di cambiamento. Non c'è altro giornalismo possibile. Parlo ovviamente di buon giornalismo. Se leggete gli scritti dei migliori giornalisti - le opere di Mark Twain, di Hemingway, di Gabriel García Márquez - vedrete che si tratta sempre di giornalismo intenzionale. Stanno lottando per qualcosa. Raccontano per raggiungere, per ottenere qualcosa. Questo è molto importante nella nostra professione. Essere buoni e sviluppare in noi stessi la categoria dell'empatia. Senza queste qualità, potrete essere dei buoni direttori, ma non dei buoni giornalisti. E questo per una ragione molto semplice: perché la gente con la quale dovete lavorare - e il nostro lavoro sul campo è un lavoro con la gente - scoprirà immediatamente le vostre intenzioni e il vostro atteggiamento verso di essa. Se percepiscono che siete arroganti, non realmente interessati ai loro problemi, se scoprono che siete andati lì solo per fare qualche fotografia o raccogliere un po' di materiale, le persone reagiranno immediatamente in modo negativo. Non vi parleranno, non vi aiuteranno, non vi risponderanno, non saranno amichevoli. E certamente non vi forniranno il materiale che cercate.
E senza l'aiuto degli altri non si può scrivere un reportage. Non si può scrivere una storia. Ogni reportage - anche se firmato solo da chi l'ha scritto - in realtà è il frutto del lavoro di molti. Il giornalista è l'estensore finale, ma il materiale è fornito da moltissimi individui. Ogni buon reportage è un lavoro collettivo, e senza uno spirito di collettività, di cooperazione, di buona volontà, di comprensione reciproca, scrivere è impossibile. Questo è il minimo che io possa rispondere a questa domanda, che era molto lunga e complicata.

Maria Nadotti, scrittrice, saggista, critica letteraria e cinematografica*

L'altro scelto da Kapuscinski non è, però, un altro generico. Tu hai affermato in più occasioni che "l'altro" a cui sei interessato è il povero. In Lapidarium, per esempio, dici: "Il tema della mia vita sono i poveri". In La prima guerra del football e altre guerre di poveri, citando il Lévi-Strauss di Tristi tropici, hai scritto che la tua decisione di fare il reporter dai paesi del Terzo mondo esprimeva una profonda incompatibilità verso il tuo gruppo, la tua cultura, il tuo paese...

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter* 

 ... vedi, il problema dello scrittore che scrive da molti anni è che il mondo e noi stessi cambiamo continuamente. Tante volte mi ricordano che ho scritto questo o quello e io rispondo: è impossibile. Allora mi dicono: ma è scritto qui. Sì, ma il libro è stato stampato trenta o quaranta anni fa. Da allora tutto è cambiato. È impossibile vivere nel mondo contemporaneo senza cambiare e senza adattarsi ai cambiamenti. Perché la nostra materia è in costante mutamento. E noi stiamo tentando di descrivere il mondo contemporaneo con gli strumenti che andavano bene quaranta anni fa, e che oggi sono completamente obsoleti, fuori fuoco.
La nostra professione ha bisogno di continui aggiustamenti, modificazioni, miglioramenti. Certo, dobbiamo attenerci a certe regole generali. Essere eticamente corretti, ad esempio, è una delle principali responsabilità che abbiamo. Per il resto il nostro soggetto è in continuo movimento. Io, ad esempio, mi sono specializzato nei problemi dei paesi del Terzo mondo - Africa, Asia e America Latina -, ai quali ho dedicato quasi tutta la mia vita professionale. Il mio primo lungo viaggio fu in India, Pakistan e Afganistan, nel '56. Quindi sono più di quarant'anni che viaggio nei paesi del Terzo mondo. Ci ho vissuto permanentemente per più di vent'anni, perché cercare di conoscere altre civiltà e culture con una visita di tre giorni o di una settimana non serve a nulla. Quando ho iniziato a scrivere su questi paesi, dove la maggioranza della popolazione vive in povertà, mi sono reso conto che quello era l'argomento a cui volevo dedicarmi. Scrivevo, tuttavia, anche per alcune ragioni etiche: intanto perché i poveri di solito sono silenziosi. La povertà non piange, la povertà non ha voce. La povertà soffre, ma soffre in silenzio. La povertà non si ribella. Avrete situazioni di rivolta solo quando la gente povera nutre qualche speranza. Allora si ribella, perché spera di migliorare qualcosa. Nella maggior parte dei casi si sbaglia; ma l'elemento della speranza è fondamentale perché la gente agisca. Nelle situazioni di perenne povertà, la caratteristica principale è la mancanza di speranza. Se sei un povero agricoltore in uno sperduto villaggio indiano, per te non c'è speranza. La gente lo sa perfettamente. Lo sa da tempo immemorabile.
Questa gente non si ribellerà mai. Così ha bisogno di qualcuno che parli per lei. Questo è uno degli obblighi morali che abbiamo quando scriviamo di questa infelice parte della famiglia umana. Perché sono tutti nostri fratelli e sorelle. Ma sfortunatamente sono fratelli e sorelle poveri. Che non hanno voce.
La mia intenzione, però, è più ambiziosa. Non intendo limitarmi a scrivere di poveri o di ricchi, perché questo è principalmente compito di una serie di organizzazioni, dalle chiese alle Nazioni Unite. La mia intenzione è piuttosto quella di mostrare a tutti noi europei - che abbiamo una mentalità molto eurocentrica - che l'Europa, o meglio una sua parte, non è la sola cosa esistente al mondo. Che l'Europa è circondata da un immenso e crescente numero di culture, società, religioni e civiltà differenti. Vivere in un pianeta che è sempre più interconnesso significa tenere conto di questo, e adattarci a una situazione globale radicalmente nuova.
Prima era possibile vivere separati, senza conoscere nulla gli uni degli altri e da un paese all'altro. Ma nel ventunesimo secolo non lo sarà più. Quindi dobbiamo lentamente - o meglio rapidamente - adattare a questa nuova situazione il nostro immaginario, il nostro tradizionale modo di pensare. Cosa che è ovviamente molto difficile, in molti casi pressoché impossibile in tempi brevi.
Il nostro immaginario è stato educato a pensare per piccole unità: di famiglia, di tribù, di società. Nel diciannovesimo secolo si pensava in termini di nazione, di regione o di continente. Ma non abbiamo strumenti né esperienza per pensare su scala globale, per capire cosa essa significhi, per accorgerci di come le altre parti del pianeta ci influenzino e come noi influenziamo loro. In altre parole è molto difficile capire che ognuno di noi è un essere umano connesso agli altri esseri umani, che dobbiamo immaginarci come figure dotate di moltissimi fili e legami che vanno in ogni direzione; per molti è difficile accettare questa realtà, ecco perché viviamo tante tensioni, depressioni, stress. Nel mio caso, proprio perché vivevo in questi continenti, ho tentato di far capire attraverso i miei scritti che viviamo un momento di grande rivoluzione, a cui tutti prendiamo parte; e che in primo luogo dobbiamo comprendere la situazione e quindi adattarci ad essa.

Maria Nadotti, scrittrice, saggista, critica letteraria e cinematografica*

Quali sono le fonti su cui lavori e dove le cerchi?

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter* 

Le fonti sono diverse. In pratica sono di tre tipi: la principale sono gli altri, la gente. la seconda sono i documenti, i libri, gli articoli sul tema. La terza fonte è il mondo che ci circonda, in cui siamo immersi. Colori, temperature, atmosfere, clima, tutto ciò che è chiamato "imponderabilia", che è difficile da definire e che pure è una parte sostanziale della scrittura. Il problema principale, oggi, è che le prime due fonti stanno crescendo incessantemente. Da qualunque parte si vada, ci sono sempre più persone. La selezione delle persone che vogliamo come "materiale" per i nostri reportage è una questione di scelta fatta grazie all'intuito e alla fortuna. E su questo è impossibile dare definizioni o fornire ricette.
Una delle cose fondamentali da capire è che nella maggior parte dei casi la gente su cui scriveremo, la incontriamo per un brevissimo periodo della loro e della nostra vita. Talvolta vediamo qualcuno per cinque o dieci minuti, stiamo andando in altri luoghi e quella persona non la incontreremo ma più. Quindi il segreto di tutto sta nella quantità di cose che queste persone sono capaci di dirci in un tempo così breve. Il problema è che le persone, al primo contatto, sono di solito molto silenziose, non hanno voglia di parlare. È un'esperienza che appartiene a tutti: bisogna avere il tempo di adattarsi all'altro. Ma quei pochi minuti a volte sono gli unici che avete per parlare con una persona! Per un giornalista, se quei minuti passano in silenzio o danno vita a una comunicazione insoddisfacente, l'incontro è un fallimento. Il successo dipende allora da situazioni che sono completamente al di fuori del nostro controllo, quasi degli 'incidenti'. Un altro grande problema di questa professione, almeno sul piano del giornalismo internazionale, è quello della lingua. È un problema costante dell'umanità. Anche qui, oggi, tra di noi, esiste il problema della lingua. Se io parlassi nella mia lingua materna, il polacco, mi esprimerei in un modo assai più interessante. Ma parlando in inglese, la lingua di un altro popolo, non sono in grado di andare troppo per il sottile e una serie di sfumature vanno perdute. E Maria sta, oltretutto, traducendo da una lingua che a sua volta non è la sua. Quello della lingua è uno dei problemi crescenti nel mondo. Una delle caratteristiche del mondo contemporaneo è la crescita dei nazionalismi e delle lingue legate ad essi. Ogni nazione e ogni regione all'interno delle singole nazioni insiste sempre più a voler parlare la propria lingua e non quella degli "altri". Ciò si riflette anche sulla comunicazione interpersonale. Se qualcuno vuole parlare con me e deve farlo nella sua lingua, non riesce ad esprimersi appieno. Vi faccio un esempio: recentemente è stato pubblicato un libro sulla storia degli Stati Uniti. L'autore, quando ha cercato i documenti relativi agli accordi scritti e firmati dai colonizzatori europei che erano in fase di espansione e dai capi delle tribù indigene, gli indiani d'America, ha scoperto improvvisamente che tutti questi trattati - in qualsiasi anno, luogo o situazione fossero stati adottati - erano scritti in una lingua estranea a una delle due controparti. E in più gli indiani che li firmarono erano analfabeti: oltre a non parlare quella lingua non sapevano neppure leggere né scrivere. Si è scoperto così che tutti questi trattati, proprio a causa del problema della lingua, sono in gran parte dei falsi. E quindi la storia degli Stati Uniti d'America si fonda su un'errata comprensione della lingua. Il problema della lingua non è solo internazionale, ma anche nazionale. Persino in Italia la gente nel nord parla con un accento diverso da quella del sud, piccole minoranze usano una lingua diversa dall'italiano, e così via.
Il problema della comunicazione, dunque, è tremendo, specialmente per i giornalisti, perché l'uso di un linguaggio preciso è una questione molto delicata per la nostra scrittura. Ricapitolando: c'è un primo problema psicologico, che consiste nel dover parlare con persone mai incontrate prima di allora e nel cercare di ricavarne il più possibile in incontri di solito brevissimi. Il secondo problema è quello linguistico: spesso non riusciamo nemmeno a comunicare con l'altro, perché non conosciamo la sua lingua né abbiamo traduttori a disposizione. E così magari costruiamo la storia solo su una percezione visiva. Vi faccio un esempio riportato anche in un mio libro, Le Shah,scritto nel periodo della rivoluzione khomeinista. Tale rivoluzione si esprimeva sotto forma di grandissime manifestazioni di strada. Quando ero a Teheran, vent'anni fa, le lingue europee erano vietate; la lingua locale era il farsi e io non lo parlavo. Le fonti ufficiali non avevano nessun interesse a far sapere alla stampa estera che cosa succedeva davvero nel paese. Le notizie relative a manifestazioni di piazza, assembramenti eccetera, venivano regolarmente censurate. E, non conoscendo la lingua del posto, era davvero un problema trovare fonti alternative di informazione. Be', mi ci è voluto un po' di tempo, poi mi sono accorto che lavorando su certi indizi, su certi microsegnali in apparenza insignificanti, non era difficile prevedere quello che si stava preparando. Avevo notato che una piccola bottega di una via popolare di un certo quartiere, uno di quei negozietti che espongono le proprie mercanzie fin sulla strada, in determinati giorni non esponeva la propria merce o non apriva addirittura. Non mi ci è voluto molto a capire che potevo servirmi di questo segnale come di un dispaccio d'agenzia più che attendibile. A seconda dei movimenti di piazza, di cui era ovviamente al corrente, il proprietario della bottega sceglieva la sua linea di condotta, mandando così a dire a chiunque voleva capire l'antifona cosa aspettarsi, a che ora e in quale parte della città. Ci sono molti casi come questo, ma era solo per dire che nel nostro mestiere spesso bisogna fare grande attenzione non tanto alle cose che ci vengono dette dalla radio, dalla televisione o nelle conferenze stampa, ma a ciò che è semplicemente attorno a noi e che rientra, appunto, nell'imponderabilia'.
Altro problema: ognuno di noi vede la storia e il mondo in maniera diversa. Se ognuno di noi andasse in un posto dove sta succedendo qualcosa e volesse descriverlo, avremmo versioni completamente differenti di quegli eventi, ognuno li racconterebbe a modo suo. A chi credere? Quali sono i criteri?
Ho una sorella di un anno più giovane di me e a cui voglio molto bene; vive in Canada. Ci siamo visti due o tre anni fa. Da tanto tempo avevo in mente di scrivere un libro sulla nostra infanzia in un piccolo villaggio della Bielorussia, dove siamo cresciuti insieme e dove siamo sempre stati attaccatissimi. Così ho provato a rispolverare insieme a lei i nostri ricordi della seconda guerra mondiale. Le ho chiesto di dirmi cosa ricordava di quegli anni, poi ho tirato fuori le mie memorie. Ebbene, pur avendo vissuto sempre assieme, ciascuno di noi ricordava cose totalmente diverse. Continuavo a chiederle se ricordava alcuni episodi particolari e lei rispondeva di no. E la stessa cosa avveniva per me quando era lei a domandare.
Non è che un esempio di quanto sia difficile il nostro lavoro con gli altri. Non perché ci vogliano imbrogliare, ma solo perché la nostra memoria funziona come un meccanismo selettivo. Intervistando persone diverse, avremo diversi racconti dello stesso evento. Prendiamo l'esperimento fatto da una grande scrittrice messicana, Helena Poniatowska: nella storia recente del Messico è avvenuto un fatto molto tragico, il massacro di diverse centinaia di studenti a Città del Messico nel 1968, nella Piazza di Tlatemolco. Poniatowska ha scritto un libro - il cui titolo è appunto La notte di Tlatemolco - che consiste in una pura cronaca, senza alcun commento, di questo evento che avvenne tutto in quella singola piazza, raccontato però da alcune centinaia di persone che vi assistettero.
È un libro che rivela qual è il principale problema di chi fa giornalismo: i racconti di questi testimoni sono l'uno diversissimo dall'altro. Ma mentre Poniatowska ha scritto un libro di cinquecento pagine, per il giornale voi dovete raccontare una storia in tre pagine, oppure fare un servizio di appena un minuto per la radio o la televisione. La selezione delle cose da scrivere è interamente affidata al vostro intuito, al vostro talento e ai vostri principi etici. Possiamo mentire senza volerlo, solo perché la nostra memoria è limitata o i ricordi sono sbagliati, oppure a causa delle nostre emozioni.
L'ultimo problema riguarda il mutare dei nostri atteggiamenti e dei nostri ricordi col passare del tempo. Talvolta, tra l'evento su cui abbiamo raccolto del materiale e il momento in cui ci accingiamo a scriverne, trascorre un lungo periodo di tempo. E nel corso del tempo i nostri ricordi sono cambiati. Tutto questo è solo per dirvi quanto è difficile la nostra professione, se soltanto cominciamo a farla seriamente.

Domanda dal pubblico

Come ha cominciato a girare il mondo? E prima di cominciare a girarlo è stato un po' cinico anche lei nel cercare le notizie, come siamo un po' tutti noi?

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter* 

Ho cominciato a scrivere come poeta. Quando ero ancora a scuola ho pubblicato alcune poesie, il direttore di un quotidiano mi ha scoperto e mi chiesto di lavorare con loro appena avessi finito gli studi. Così ho completato la scuola a diciotto anni e il giorno dopo ho iniziato a lavorare come giornalista. Fin dal primo momento ho scoperto quanto questa professione sia affascinante. Eravamo appena usciti dalla seconda guerra mondiale, l'Europa era distrutta, molti profughi vagavano da una nazione all'altra, tra la povertà e le macerie. Può sembrare patetico, ma fu allora che si sviluppò in me la passione di descrivere la nostra povera esistenza umana. Mi interessava molto anche vedere il mondo, ma eravamo nel periodo comunista e per noi era impossibile andare all'estero. Poi venne un po' di tranquillità nei rapporti internazionali, e dopo la morte di Stalin ci fu a poco a poco concesso di viaggiare fuori dal nostro paese. Per il mio primo viaggio fui mandato in India, Pakistan, Afganistan. Fin da allora ho diviso il mio tempo professionale tra lo scrivere del mio paese e lo scrivere di altri paesi.  Sono convinto che il ventesimo secolo sia stato un secolo estremamente affascinante. Di solito viene descritto come un secolo di disastri: la prima e la seconda guerra mondiale, le dittature, i regimi totalitari, fascismo, comunismo. Io credo che nel ventesimo secolo abbiamo vissuto un'esperienza storica unica: la creazione di un pianeta indipendente. Se prendiamo una cartina del nostro pianeta com'era all'inizio del secolo e una di come è alla fine, avremo due situazioni completamente differenti. Nella prima abbiamo pochi stati indipendenti e il resto del mondo vive sotto la dipendenza coloniale o semicoloniale. Oggi abbiamo quasi duecento stati indipendenti, e il loro numero sta ancora crescendo. Il colonialismo ha cessato di esistere e le colonie non esistono quasi più. Benché il livello economico di moltissime nazioni sia bassissimo, benché ci siano società molto infelici, viviamo in un mondo in cui quasi sei miliardi di persone sono, almeno nominalmente, esseri umani politicamente indipendenti. Credo che questa sia una caratteristica positiva del nostro secolo, che non dovremmo passare sotto silenzio. Io sono stato uno dei testimoni di questo fenomenale evento, che non era mai avvenuto prima nella storia dell'umanità, né si ripeterà ancora. Tutte le mie opere sono dedicate alla descrizione di questa eccezionale esperienza umana.
Quanto alla seconda parte della sua domanda, la nostra professione non può essere esercitata al meglio da nessuno che sia cinico. Occorre distinguere: una cosa è essere scettici, realisti, prudenti. Questo è assolutamente necessario, altrimenti non si potrebbe fare giornalismo. Tutt'altra cosa è essere cinici, un atteggiamento incompatibile con la professione del giornalista. Il cinismo è un atteggiamento inumano, che allontana automaticamente dal nostro mestiere, almeno se lo si concepisce in modo serio. Naturalmente qui parliamo solo di grande giornalismo, che è l'unico di cui valga la pena occuparsi, non certo di quel cattivo modo di interpretarlo che vediamo di frequente.
Nella mia vita ho incontrato centinaia di grandi, meravigliosi giornalisti, di diversi paesi e in epoche differenti. Nessuno di loro era un cinico. Al contrario, erano persone molto legate a ciò che stavano facendo, molto serie, in generale persone molto umane. 
Come sapete, ogni anno più di cento giornalisti vengono uccisi e varie centinaia vengono messe in prigione oppure torturate. In varie parti del mondo si tratta di una professione molto pericolosa. Chi decide di fare questo lavoro ed è disposto a pagarne il prezzo sulla propria pelle, con rischio e sofferenza, non può essere cinico.

Domanda dal pubblico

Lei ha detto che uno dei grossi problemi di questo nostro mestiere è che i resoconti su un fatto sono diversi a seconda dei testimoni, mentre il fatto è uno e uno solo. Allora, la diversità dei resoconti non è una ricchezza? Entrando si è felicitato nel vedere tanti giovani, ma questo è anche un mestiere che fa invecchiare presto...

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter* 

Circa vent'anni fa nel mio paese si è posto il problema di creare un fondo pensionistico per i giornalisti, dato che la pensione dovrebbe arrivare alla fine di ogni carriera professionale. Nel sindacato dei giornalisti arrivammo a questa conclusione: che era un problema che non si poteva affrontare, in quanto nella nostra categoria quasi nessuno vive fino all'età della pensione. Questa è una delle caratteristiche della nostra professione, una professione fatta di stress costante, di nervosismo, insicurezza e rischio e dove si lavora giorno e notte. Quindi si invecchia presto e molto presto si esce di scena. Della mia generazione, pochissimi colleghi sono ancora vivi. Alcuni sono andati tranquillamente in pensione, ma di coloro che hanno iniziato con me nessuno è ancora in attività. Non è per spaventarvi....
Naturalmente ci sono forme della nostra professione in cui si può lavorare più o meno con tranquillità, ma non sono molte. Rispetto alla sua prima domanda, quello che lei dice è giusto, se si ha la possibilità di descrivere un evento da molte angolature, come quando si scrive un libro. 
Ma nella nostra professione, in tutte le forme in cui essa si esprime (stampa, televisione...), la tendenza è ad abbreviare sempre di più i resoconti. Se hai una o due cartelle da scrivere, tutte le sfumature se ne vanno. Devi condensare tutto in una battuta, in una frase. Non c'è posto per la ricchezza dei particolari, a meno che tu non sia uno scrittore.
Se sei un giornalista-scrittore, allora puoi permetterti di mostrare tutta la ricchezza delle opinioni, delle esperienze. Parlando della vita di tutti i giorni, di solito il giornalista deve fare una scelta drammatica, piegarsi a una lacerante riduzione che gli permetta di comprimere la realtà - che è sempre ricca e multidimensionale - in una descrizione breve e molto semplificata.

Domanda dal pubblico

Si è detto di un giornalismo che fa attenzione soprattutto ai deboli, di una professione pericolosa, che consuma. Vorrei sapere, nella sua esperienza prima di tutto di uomo e poi di giornalista, qual è stato il suo rapporto con il potere, in particolare con i regimi dell'est europeo, e quale dovrebbe essere oggi il rapporto del giornalista con il potere.

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter* 

È una domanda veramente complessa. Io ho una lunga storia giornalistica da raccontare e occorrerebbe scrivere un libro per rispondere compiutamente. Non c'è una sola regola. L'ideale è quello di essere il più indipendenti possibile, ma la vita è lontana dall'essere un ideale. Il giornalista è sottoposto a molte e diverse pressioni perché scriva ciò che il suo padrone vuole che egli scriva. La nostra professione è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo, che ci costringono ad essere invece dipendenti da interessi, punti di vista, aspettative dei nostri editori.
Ci sono paesi in cui esiste la censura, e allora bisogna lottare per evitarla e per scrivere quanto più possibile ciò che si intende scrivere, nonostante tutto. 
Ci sono paesi in cui c'è libertà di espressione, in cui non esiste una censura ufficiale, ma la libertà del giornalista è limitata dagli interessi della testata per la quale lavora. In molti casi il giornalista, specialmente se è giovane, deve sottostare a molti compromessi e usare varie tattiche per evitare il confronto diretto, e così via.
Ma non sempre è possibile, ed è questo il motivo per cui si verificano così tanti casi di persecuzione. Sono tecniche di persecuzione indubbiamente diverse da quelle violente di cui parlavo in precedenza: assumono la forma del licenziamento, dell'emarginazione di fatto dalla vita lavorativa, della minaccia di natura economica. In generale si tratta di una professione che richiede una continua lotta e un costante stato di allerta. Per rispondere concretamente alla sua domanda, bisognerebbe analizzare caso per caso, ma è comunque difficile dire se in un determinato paese la situazione sia migliore o peggiore che in un altro.
Le cose fluttuano, cambiano in pochi anni. In generale, la conquista di ogni pezzetto della nostra indipendenza richiede una battaglia.
Ognuno di noi, dopo un certo numero di anni di lavoro e di viaggi, ha nel suo curriculum almeno un caso personale di persecuzione, di espulsione da qualche paese, di fermo, di tensione con la polizia o le autorità, che magari rifiutano di concedere il visto, che usano centinaia di espedienti per renderci difficile la vita.

Domanda dal pubblico

All'inizio del nostro incontro lei ha detto che non bisogna mai stancarsi di studiare il mondo, perché esso ci cambia costantemente attorno. Dunque dobbiamo cercare di anticipare gli eventi, di prevedere il futuro. Questo mi ha ricordato una frase dello storico Hobsbawm nel suo libro Intervista sul nuovo secolo. Ma qual'è il rapporto tra cronaca e storia, tra giornalista e storico? Non ci accade talvolta di fare lo stesso mestiere?

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter* 

Io sono laureato in storia, e fare lo storico è il mio lavoro. Mentre stavo completando il mio iter scolastico, mi trovai a dover scegliere tra il continuare i miei studi storici per diventare un professore di storia, un accademico, e lo studiare la storia nel suo farsi, che è il giornalismo. Ho scelto questa seconda strada. Ogni giornalista è uno storico. Ciò che egli fa è ricercare, esplorare, descrivere la storia nel suo farsi. Avere un sapere e un intuito da storico è una qualità fondamentale per ogni giornalista. Il buono e il cattivo giornalismo si distinguono facilmente: nel buon giornalismo, oltre alla descrizione di un evento avete anche la spiegazione del perché è accaduto; nel cattivo giornalismo c'è invece la sola descrizione, senza alcuna connessione o riferimento al contesto storico. C'è il resoconto del puro fatto, ma non ne conosciamo né le cause né i precedenti. La storia risponde semplicemente alla domanda: perché? Nella nostra professione è fondamentale avere molta attenzione per il lettore (o telespettatore) a cui ci rivolgiamo. Noi conosciamo di un fatto molte più cose di lui, che anzi di solito non ne sa assolutamente nulla. Dobbiamo allora avere molto equilibrio. Dobbiamo introdurlo alla comprensione dell'evento, dicendogli cosa è avvenuto prima, narrandogliene la storia.

Domanda dal pubblico

Ci sono drammi della storia contemporanea che sono stati poco o nulla raccontati dai giornali. Mi riferisco per esempio alle persecuzioni di alcune minoranze religiose ed etniche in Iran. Come mai certi fatti non sono mai entrati nell'agenda della stampa internazionale?

Ryszard Kapuscinski, scrittore, reporter* 

Perché la stampa internazionale è manipolata. E le ragioni di tale manipolazione sono diverse. Ci sono, ad esempio, ragioni ideologiche: tra le attività umane, i mass media sono i più manipolati perché sono strumenti per influenzare l'opinione pubblica, cosa che può avvenire in vari modi a seconda di chi li gestisce. Ci sono diverse tecniche di manipolazione. Nei giornali si può attuare una manipolazione a seconda di cosa si sceglie di mettere in prima pagina, del titolo e dello spazio che diamo a un evento. Nella stampa ci sono centinaia di modi per manipolare le notizie. E altre centinaia ve ne sono nella radio e nella televisione. E senza dire bugie. Il problema della radio e della televisione è che non c'è bisogno di mentire: ci si può limitare a non riflettere la verità. Il sistema è molto semplice: omettere l'argomento. La maggior parte degli spettatori della televisione ricevono in modo molto passivo ciò che essa offre loro. I padroni dei network televisivi decidono per loro cosa debbono pensare. Determinano la lista delle cose a cui pensare e cosa pensarne. Non possiamo aspettarci che il telespettatore medio possa svolgere studi indipendenti sulla situazione del mondo, sarebbe impossibile persino per gli specialisti. L'uomo medio, che lavora, torna a casa stanco e vuole semplicemente starsene un po' con la sua famiglia, recepisce giusto quello che gli arriva in quei cinque minuti di telegiornale. Gli argomenti principali che danno vita alle "notizie del giorno" decidono che cosa pensiamo del mondo e come lo pensiamo.
Si tratta di un'arma fondamentale nella costruzione dell'opinione pubblica. Se non parliamo di un evento, esso semplicemente non esiste. Per i più, infatti, le "notizie del giorno" sono l'unica via per conoscere qualcosa del mondo. Sono stato personalmente testimone di questa situazione a Mosca nel '91 quando vi fu il tentativo di rovesciare il primo governo Eltsin e di restaurare il comunismo. L'evento principale, quello che decise tutto, avvenne a Leningrado, oggi San Pietroburgo. Tutte le troupes televisive, però, erano a Mosca. 
Il problema delle televisioni, in generale di tutti i media, è che sono così grandi, influenti e importanti che hanno cominciato a creare un mondo tutto loro. Un mondo che ha poco a che fare con la realtà. Ma del resto questi media non sono interessati a riflettere la realtà del mondo, bensì solo a competere l'uno con l'altro. Una stazione televisiva, o un giornale, non può permettersi di non avere la notizia che ha anche il suo diretto concorrente. Così essi finiscono per osservare non la vita reale, ma i propri concorrenti. Oggi i media si muovono in branchi, come pecore in gregge; non possono spostarsi separatamente. Per questo, su tutto ciò che viene riportato, leggiamo e ascoltiamo gli stessi resoconti, le stesse notizie. Prendete la guerra del Golfo: duecento troupes televisive si concentrano nella medesima area. Nello stesso momento tantissime altre cose importanti e anche cruciali avvengono in altre zone del mondo. Non importa, nessuno ne parlerà: tutti sono nel Golfo. Perché lo scopo di ogni grande network non è di offrire un'immagine del mondo, ma di non essere battuto dagli altri network. Se poi subito dopo c'è un altro grande avvenimento, tutti si muovono in quella nuova direzione, e tutti ci resteranno sopra senza avere il tempo di coprire altri luoghi. Questo è il modo in cui l'uomo medio si fa un'idea della situazione mondiale. Naturalmente ci sono riviste, bollettini e soprattutto libri che offrono un'immagine più bilanciata e completa, ma sono per minoranze, per piccoli gruppi di specialisti. Per il grande pubblico l'informazione è solo il risultato della competizione, della lotta tra i diversi media. Che è una un'altra storia.
L'altro tipo di manipolazione è quella cosciente. Oggi i media sono disposti a parlare di un avvenimento, solo quando sono in grado di spiegarne le cause e di fornire tutte le risposte necessarie. Ad esempio, la crisi in Kosovo è in corso già da otto anni, ma non se ne parla fino a quando non viene presa la decisione di cominciare a risolverne il problema. La notizia non esiste, se non si ha la risposta pronta sulle sue cause.

Maria Nadotti, scrittrice, saggista, critica letteraria e cinematografica*

Concludiamo questo incontro, che non ha certo esaurito né poteva esaurire tutte le questioni aperte, leggendo la pagina finale di L'ultima guerra del football e altre guerre di poveri, una sintesi perfetta e totalmente aperta del modo di lavorare, vivere e ricercare di Ryszard Kapuscinski: "Sono tornato di nuovo nell'altro emisfero e poi ancora in Africa. Ma ha ancora senso continuare questa storia? Descrivere la traversata dello Zambesi, la visita del maresciallo Idi Amin? La descrizione del mondo aveva senso solo quando gli uomini vivevano in un luogo piccolo come ai tempi di Marco Polo. Oggi il mondo è grande, è infinito. Si accresce continuamente e sarà certo più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per noi conoscere, sentire e comprendere tutto quel che compone l'esistenza di quasi dieci miliardi di persone. Leggo Moby Dickdi Herman Melville. Il protagonista, un marinaio di nome Ismaele, naviga sull'oceano. Insieme alla ciurma della nave dà la caccia a una pericolosa e inafferrabile balena, che alla fine emergerà dal fondo e assesterà alla nave il colpo mortale. A un certo punto sente il capitano, il terribile, implacabile Achab, gridare l'ordine: "Barca sopravvento, raddrizzala per il giro del mondo". Ismaele allora pensa: "Il giro del mondo? C'è molto in queste parole che ispira sentimenti d'orgoglio, ma dove conduce tutta questa circumnavigazione? Soltanto, attraverso innumerevoli pericoli, a quello stesso punto donde si è partiti. Dove quelli che abbiamo lasciato indietro, al sicuro, sono stati avanti a noi tutto il tempo". Eppure, Ismaele continua a navigare".

Vinicio Albanesi

È difficile incontrare dei maestri e noi questa sera abbiamo incontrato un maestro. I maestri non sono infallibili sono delle guide. Ascoltando Kapuscinski, ho sentito una riflessione piena di umanità e di speranza. Kapuscinski ha attraversato molti decenni ha iniziato come giovane corrispondente, ha visto la trasformazione dei mezzi tecnologici però non ha perso la bussola, ha continuato a navigare. È questo ciò che noi dobbiamo interiorizzare. Voi siete ragazzi, conoscerete altri mondi, altri mezzi. Però quello che abbiamo cercato di comunicarvi attraverso Kapuscinski è questa interiorità, questa umanità, questa dignità. Ringrazio Maria Nadotti che ce l'ha portato. Non è stato facile. "La Repubblica" stamattina ha pubblicato un'intervista per recuperare, l'ha inseguito fino a Zurigo. È un piccolo esempio di potere: non potevano sporcarsi a venirlo a intervistare a Capodarco, dovevano dimostrare che erano bravi e che erano i primi. Cercate degli esempi e li avete sotto gli occhi.
Grazie di cuore a Ryszard Kapuscinski. 

 

* Forniamo, qui di seguito, l'elenco delle opere di Ryszard Kapuscinski citate nel testo:
Another Day Of Life, (originale 1976), tr. inglese Picador, Londra 1987
Le Shah, (originale 1982), tr. francese Flammarion, Parigi 1986
La prima guerra del football e altre guerre di poveri, Serra e Riva, Milano 1990 
L'imperatore, Serra e Riva, Milano 1991
Imperium, Feltrinelli, 1994
Lapidarium, Feltrinelli, 1997
Ebano, Feltrinelli, 2000 

Tutte le opere pubblicate nel nostro paese sono tradotte da Vera Verdiani. 
I passaggi tratti dai libri ancora inediti in Italia sono tradotti da Maria Nadotti.

* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.