XVI Redattore Sociale 27-29 novembre 2009

Disorientati

Psichiatria: cliniche/comunità

Sintesi del workshop: interventi di Gisella Trincas e Giuseppe Dell'Acqua

 
Durata: 26' 27''
 
 
 
 
Gisella TRINCAS

Gisella TRINCAS

Presidente dell’Unasam (Unione nazionale associazioni salute mentale).

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

Giuseppe DELL'ACQUA

Giuseppe DELL'ACQUA

Psichiatra, già collaboratore di Basaglia. 

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

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LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Ilaria Sotis

Lavoro a Radio Uno dove conduco la trasmissione sociale "La Radio ne parla", questo per dire che per il sociale c'è qualcosa, magari a fatica e trovando dei linguaggi particolari però c'è. Il giornalismo sociale, come ben sapete tutti quanti voi che siete qua evidentemente interessati all'argomento, è cittadino di serie B nel grande mondo della stampa, anzi quando decidi di occuparti di questi temi vieni guardata un po' in modo strano. C'è tutta una serie anche di pregiudizi come dappertutto. Io credo invece che il giornalismo sociale oggi sia quello che racconta la verità, la verità di tutti i giorni, i famosi microaspetti di cui si parlava ieri, dal macro al micro, non è un problema di audience, di impatto, di cercare di catturare l'attenzione, è un problema essenzialmente di cose fastidiose. A nessuno fa piacere sapere che tanta gente soffre di malattie mentali, che un giorno ciascuno di noi potrebbe soffrirne, a nessuno fa piacere che tanta gente vive in condizione di emarginazione, a nessuno fa piacere doverci ragionare, se mi dicono che il PIL cresce di 0,5 punti, io non devo ragionare, ma se mi dicono che la povertà è in aumento, io devo ragionare, il tema è questo.

Ieri mi ha molto colpito come Saskia Sassen abbia definito la crisi in atto, una crisi di codardia, e come don Vinicio abbia trovato un valore umano, un atteggiamento umano a questa crisi, togliendola dalle borse che vanno giù e vanno su, togliendola dai numeri e umanizzandola. Ugualmente don Vinicio, umanamente, ci dà una chiave per uscire da tutto questo, con coraggio. Tra codardia e coraggio, io vi propongo oggi per analizzare la psichiatria e la salute mentale, una terza parola che è paura, per cui ragioniamo attorno a queste tre parole.

Per riprendere invece il tema molto bello che quest'anno è stato scelto da Capodarco, la sfida di questo workshop è utilizzare questa mancanza di punti di riferimento in un tema che per antonomasia non ce li ha i punti di riferimento , perché la follia, la malattia psichiatrica, il disagio mentale, poi le parole che diremo sono tante, davvero è disorientante all'origine. Trovare invece un punto di riferimento rispetto a questo argomento, per chi è operatore dell'informazione ma prima di tutto cittadino, è davvero una sfida. Allora oggi questa sfida proviamo a raccoglierla con le due persone che sono qui al mio fianco, Gisella Trincas che rappresenta l'Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale e Peppe Dell'Acqua psichiatra e responsabile del Dipartimento di salute mentale di Trieste che ha una storia personale ma anche sociale per questo paese molto importante. Loro due sono quasi sempre le fonti a cui un giornalista fa riferimento, per cui hanno anche loro delle responsabilità; ovviamente nessuno di loro due oggi farà l'errore che comunemente viene fatto cioè dare la colpa ai giornalisti. Quando si scrive un pezzo, si fa un articolo, un servizio, questo è sempre un prodotto di vari contributi di quello che le fonti fanno sapere, di come il giornalista prende le informazioni che dà le fonti, di come lo racconta, lo scrive, lo dice, lo illustra con le immagini, si tratta sempre di un prodotto collettivo. Per cui c'è un lavoro da fare sulle fonti molto importante su questo tema.

Approfittando della presenza appunto di Gisella e Peppe, ci faremo dire da loro, che cosa è giusto fare quando ci si trova di fronte una notizia attinente la salute mentale , ma non ci daranno lezioni di giornalismo, ci daranno invece delle coordinate, ci diranno dov'è il nord, l'est, il sud e l'ovest, che cosa vuol dire dipartimento di salute mentale, centro di salute mentale, oppure essere un familiare di una persona malata, e che cosa vuol dire andare a cercare i soldi per portare avanti una comunità. 

Dell'Acqua è stato un grande amico, oltre che un grande collaboratore di Basaglia e comincerei chiedendo a lui non tanto a che punto è il dibattito sulla legge 180, bensì se davvero in Italia la situazione sulla malattia mentale è affrontata a macchia di leopardo, perché in alcuni posti si fanno delle cose straordinarie come esperienze di psicoradio, teatro, sport, ecc. e in altri invece non c'è niente.

Giuseppe Dell'Acqua

Sono appunto Peppe Dell'Acqua, ho compiuto 62 anni, comincio a sentire in maniera abbastanza evidente gli acciacchi del tempo che è passato. Il tempo su di me è passato compromettendo il mio cuore, tutti dicono che sono una persona di cuore e di fatto è stato proprio così, un infarto e un bypass. Sono salernitano di origine ma da 40 anni sto a Trieste. Sono andato via da Salerno appena laureato in medicina e chirurgia all'università di Napoli, mi sono specializzato all'università di Parma, ma comunque lavoro a Trieste e da lì è cominciata la mia storia di essere testimone assolutamente fortunato immeritevole di 10 anni di cambiamenti straordinari che hanno stravolto la mia vita. Ho fatto l'università nei famosissimi anni Sessanta, e credo che bisognerebbe ritornare a studiare quello che invece oggi molti di quegli anni vorrebbero cancellare. Ho avuto la fortuna di fare l'università in quel periodo e sull'onda di quel clima, abbastanza inconsapevolmente, sono andato a trovare questo Basaglia a Parma.

Sono il direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste da ormai 15 anni, troppo. Ho un figlio psichiatra che ha 37 anni e che lavora a Battipaglia, ed è un banco di prova terribile avere un figlio psichiatra ed essere il suo direttore . Il nostro rapporto è ricchissimo di affetto, di amore, ma questo rapporto molto forte rischia continuamente di allontanarci proprio per la questione lavoro, su che cosa fa lui, su che cosa faccio io, su che cosa può fare lui, su che cosa posso fare io. Lui conosce molto bene il lavoro che faccio io a Trieste, poi se avete curiosità in poche parole ve lo illustro anche, però è molto diverso da quello che fa lui a Battipaglia. Il suo lavoro è frustrante, io invece faccio un lavoro ricco di soddisfazione e quando ne parliamo è ovvio che mi addoloro, perché vorrei che lui facesse un lavoro ricco di soddisfazioni, dal momento che le mie grosso modo ce le ho già avute. Il problema che io sento oggi e con me molti amici e colleghi che lavorano nei vari campi intorno a queste questioni, è proprio quello di come è possibile trasmettere il senso e le radici fortissime di un cambiamento che è avvenuto nel nostro paese e che nella perdita generale e collettiva di memorie, finisce per assottigliarsi al punto tale da stravolgere completamente il senso della nostra storia. I tempi politici e culturali nel nostro paese rendono sempre più difficile un lavoro che vuole spostarsi sempre più intorno a quelli che sono i diritti, la dignità e i bisogni.

Sulla questione della legge le cose da dire sarebbero tante, anticipo che è molto difficile parlare di salute mentale in così poco tempo. Se posso aiutarvi ad orientarvi, la prima cosa che vi dico è che dovete sapere che quando si parla di salute mentale, dobbiamo cercare di capire su quale livello stiamo parlando, perché su queste due parole s'incrociano moltissimi ordini di discorso che hanno a che vedere con l'etica, con i campi disciplinari, con le politiche, con delle questioni assolutamente irrisolvibili e incerte del nostro vivere, che sono per esempio la presenza-assenza delle persone con disturbo mentale. Con presenza-assenza intendo dire responsabilità e irresponsabilità, libero arbitrio e mancanza di libero arbitrio. Vorrei ragionare ad esempio sull'uso dell'argomento delle perizie psichiatriche di cui anche voi giornalisti vi ritrovate a scrivere o a parlare; pensate solo per un attimo alla signora di Cogne e algrandissimo e stupendo lavoro che ha fatto il giornalista che si chiama Bruno Vespa e un altro criminologo che si chiama Francesco Bruno che ha delle opinioni terribili… Lasciamo stare però questi miei commenti che non dovete condividere, perché sono i miei e nascono dalla pancia, però la signora di Cogne ad esempio, per dirvi di un ordine di discorso, è stata sottoposta a perizia psichiatrica, ci sono stati la bellezza di 12 esperti che l'hanno ascoltata, sono uscite tre perizie, una fatta dall'accusa, una chiesta dal giudice e una fatta dalla difesa. Le tre perizie rispondono in tre modi differenti, nei tre modi possibili che una perizia prevede ai quesiti, non so se è chiaro. Alla domanda: ma la signora era in grado d'intendere e di volere?, uno dice si, uno dice ni, un altro dice no. Capite di cosa stiamo parlando? Allora noi abbiamo una nostra capacità di orientarci e capire che cosa stanno facendo? Se per esempio un cittadino pensa che la perizia psichiatrica è come fare una lastra, allora dici caspita, uno avrà ragionee gli altri avranno sbagliato…; invece hanno ragione tutti e tre o hanno torto tutti e tre. Ma non è un problema né di torto, né di ragione. Vi sto facendo un esempio molto forte per dirvi come la psichiatria si gioca dentro quelli che sono i meccanismi di potere all'interno di una società.

Chiudo questa parentesi semplicemente per dirvi su che cosa dobbiamo cercare di orientarci. C'è qualcuno ovviamente che dice che adesso le perizie sono oggettive perché ci sono gli strumenti tecnologici che possono fare l'analisi dei geni. Non so se avete letto un'Ansa uscita proprio da Trieste, ma non c'entro io per fortuna o forse per sfortuna, perché se c'entravamo noi non sarebbe uscita questa notizia, dove si diceva che il presidente della corte d'appello nel giudicare appunto in appello un uomo algerino che aveva ucciso un colombiano 3 anni prima, ha accettato una perizia genetica di un neuro scienziato dell'università di Padova che ha dichiarato che questo imputato ha dei geni i quali darebbero un po' di via libera all'aggressività, per cui questo uomo è più disposto a rispondere impulsivamente e aggressivamente alle provocazioni. Gli è stati tolto un anno di carcere, sono contento ovviamente per l'amico algerino che si fa un anno di carcere in meno, ma sono assolutamente terrorizzato da questa immagine. Gli amici francesi, Libération e altri giornali scientifici hanno scritto molto di questo e positivamente, ma d'altra parte dal paese di Lombroso cos'altro ci si poteva aspettare?

Due immagini per dirvi un po' che cosa è la malattia mentale, che cosa sono io e da dove vengo: sono andato al manicomio di Parma dove sapevo che lavorava Basaglia che avevo 24 anni: c'era uno straordinario portiere in questo manicomio che era appassionato di musica lirica, come ho saputo dopo essere tutti i parmigiani e cantando dei pezzi de L'Aida mi ha fatto entrare in un reparto, si chiamava reparto Chiaruggi, c'era anche il reparto Tamburrini, tutti nomi di grandi psichiatri della psichiatria positivista italiana. Questo il mio primo ingresso. Io conoscevo fino a questo momento solo la clinica psichiatrica universitaria, non avevo mai visto un posto del genere, 150 uomini in una stanza… È un'immagine che colpisce, soprattutto sono gli odori che poi impari a riconoscere, l'urina fermentata, il cibo vecchio, il sudore… per quanto fosse primavera e c'erano le porte aperte. C'era anche un uomo che cantava ininterrottamente una canzone, faceva lalalalalà senza usare le parole mentre io aspettavo il mio contatto, come dire, che era Luciano Carlini, uno psichiatra napoletano sposato con una ragazza francese, entrambi arrivati dalla Francia appositamente per lavorare con Basaglia. Mentre stavo lì, non sapevo che fare in questo luogo, questi uomini mi guardavano, e sono rimasto colpito quando è arrivata una bella ragazza, la dottoressa del reparto che era appunto Marie Claude la moglie di Carlini, con un vestito leggero e fiorato che mi saluta, mi dice "adesso andiamo dal direttore" e nel frattempo questi uomini le si avvicinano, chi la tocca, chi le dà la mano e lei bella, così leggera che risponde, sorride e a un certo punto uno di loro tira fuori dalla tasca della propria giacca una caramella, sto parlando del 1971, le caramelle non erano sigillate come adesso, erano accartocciate a quella carta come dire quasi gommosa, lei prende questa caramella, la scartoccia e se la mette in bocca. A me è venuto un conato di vomito, sono dovuto fuggire nel parco di fuori e solo dopo sono andato da Basaglia.

Il primo incontro con Basaglia è stato emozionante, tutti i medici, nessuno con camice bianco, stavano seduti in maniera non gerarchica intorno a un tavolo e Basaglia mi viene incontro e mi dice di unirmi a loro. Io gli do del lei perché era un uomo stimato e conosciuto, era appena uscito un bel libro che potete leggere che si chiama "L'istituzione negata" pubblicato da Baldini e Castoldi, che aveva avuto molto successo, aveva ricevuto il premio Viareggio per la saggistica. Mi dice di dargli del tu e io rimango assolutamente sbalordito. Mi ricordo questa posizione dove ci sta lui davanti che parla con le persone, è un'immagine fortissima credetemi, dove c'è questo paternalismo, questo parlare oggettivante del tipo "come state signora oggi? Avete visto sta bene la signora!", e si rivolge a noi per spiegarci come sta la signora. Un'altra bella immagine che mi porto dietro è quella della scena dell'incontro tra una ricoverata che arriva nel giardino dove c'è una piccola festa, tira fuori dalla tasca una mezza stecca di sigarette avvolta in una carta di giornali e la dà silenziosamente e quasi imbarazzata a un mio amico psichiatra più anziano di me, Franco Rotelli, una persona che è stata importantissima per la mia formazione, il quale più imbarazzato di lei prende questo pacchetto. Restano per circa 30 secondi con le mani nelle mani dopodiché lei va via. Non succede nulla. Se non fossi stato lì a vedere certe immagini e fossi rimasto solo all'università, di lì a qualche mese in una situazione similare avrei detto "grazie signora che bel regalo che mi avete fatto… avete visto la signora mi ha regalato le sigarette, che gentile" ecc… No, un rispetto silenzioso straordinario.

Che cos'è importante per potersi orientare? Prima di entrare nel merito della legge 180 sviluppatasi a macchia di leopardo devo fare una premessa. Perdonatemi se vi faccio una domanda provocatoria ma non in maniera malevola: ma voi sapete davvero cos'è la legge 180? I giornalisti, anche quelli grandi, sanno davvero che cos'è la legge 180? Hanno mai letto qualcosa, non dico dei commenti o dei saggi di Peppe Dell'Acqua che sono assolutamente illuminanti, pensate voi… ma l'avete letta questa legge? E' piccola ci vuole poco, poi con la velocità di lettura dei giornalisti, credo che in tre minuti vi siete bella e risolta la questione. Allora se io vi domandassi adesso che cos'è la legge 180, la maggior parte di voi mi direbbe: quella che chiude i manicomi, però è assolutamente parziale questa risposta, perché in realtà tutto l'impianto di questa legge non ha proprio nulla a che vedere con la chiusura dei manicomi. La chiusura dei manicomi diventerà una conseguenza di questa legge. Dunque primo orientamento: se voi dovete parlare di questo, io perderei prima un'ora di tempo per capire che cos'è sta roba. Non riesco a capire inoltre come si possa utilizzare nel giornalismo anche per la questione malattia mentale il principio della par condicio. La mia missione è quella di organizzare servizi e cercare di far star bene e di guarire le persone con disturbo mentale ma se parlo io deve parlare un altro che non la pensa come me. Ma allora guarire le persone con disturbo mentale è una questione di come uno la pensa? La risposta è si, è di come uno la pensa, perché gli psichiatri che si muovono intorno a tutte queste cose sono terribilmente autoreferenziali o etero-referenziali. Allora il giornalista, che poi verrà bastonato se non fa questa cosa, intervista Dell'Acqua poi deve andare a cercare Cassano per par condicio. Mi immagino dunque come voi parlate della 180. Ultimamente ho sentito anche l'augusta opinione del Cardinale Ruini, ho sentito l'opinione del Sottosegretario Letta, cioè son persone che pensano, eminenze grigie…

Si è sempre chiamata la legge Basaglia ma erroneamente perché Basaglia non ha fatto questa legge, è stato sicuramente intervistato ed ha fatto qualche dibattito, ma la legge si dovrebbe chiamare con il nome della grandissima Tina Anselmi , una giovane partigiana democristiana, donna straordinaria che ha condotto la commissione che ha portato a questa legge. C'è tutta una serie di principi della grande legge Basaglia che ad esempio libera i malati i quali non si possono curare se non vogliono. Si dice sempre che la legge Basaglia è disattesa perché non ci sono le strutture ma oggi, 30 anni dopo, se io domando a un giornalista o a qualsiasi altra persona che cosa sono le strutture di cui parlano, ognuno direbbe la sua. La legge è stata fatta ma non ci sono le comunità: e che cosa sono le comunità? La maggior parte delle persone mi chiede: avete un posto in comunità? E che è la comunità? Cosa c'entra la legge con la comunità? Ci sono alcune regioni che hanno costruito un'idea della comunità, la Lombardia per esempio spende milioni di euro in cosiddette comunità. C'è una mamma di un paese della costa marchigiana che mi telefona frequentemente, suo figlio di 45 anni sta in comunità da quando ne aveva 21, e da allora sta in comunità, 24 anni in comunità. Che questa legge dovesse produrre le comunità è uno dei tanti luoghi comuni. Il primo orientamento che vi ho dato dunque è: se parlate di legge 180 per favore, cercate di sapere di che cosa state parlando perché la maggior parte delle persone non lo sa più.

Adesso vi dico una cosa che può sembrare ancora una volta una provocazione, ma questa davvero non lo è, è semplicemente un ulteriore possibile orientamento . E' luogo comune dire che la legge 180 è parzialmente applicata, è applicata a macchie di leopardo, è un'utopia, se solo ci fossero le strutture… Per orientarvi vi dico che non esiste una sola legge in Italia approvata e promulgata nel secondo dopoguerra, che non sia stata realizzata così totalmente, così completamente, come la legge 180 ovvero come la legge 833 articoli 34, 35 e 36, perché per far sfoggio di conoscenze dovreste anche dire che la legge 180 non esiste più, perché alla fine di quello stesso anno venne assorbita nella grande legge della riforma sanitaria ossia la L.833. Bisognerebbe conoscere bene la L.833, perché mentre in America stanno tentando di fare il sistema sanitario nazionale, noi rischiamo di buttare alle ortiche uno degli strumenti più straordinari prodotto in Italia in campo sanitario negli ultimi anni.

Ilaria Sotis

Io brutalmente fermo Peppe Dell'Acqua perché secondo me questo è un punto importante da mettere in rilievo: non esiste legge così applicata come la 180, faccela chiamare così . Ieri si parlava di cattivi maestri, e devo dire che se ne parla spesso, ma ci sono anche giovani che vogliono imparare, altri che invece non vogliono imparare assieme a buoni maestri disposti a tutto. Ha perfettamente ragione Dell'Acqua: il primo atteggiamento corretto di un giornalista che cerca di avere dei punti di riferimento è informarsi, non si può fare informazione se non si è informati. Non è neanche questione di avere o non avere i punti di riferimento, come appunto si diceva, per cui punti cardinali sono saltati in questi tempi. Stiamo attenti a non cercarceli da soli gli alibi: ci si dice sempre attenzione all'autocensura, certo, ma stiamo attenti agli alibi, perché spetta a noi, a ciascuno di noi nella nostra individualità andare a cercare le informazioni, non è una questione di diritto, è un dovere. Se io devo scrivere un pezzo appunto sulla velina della polizia che mi dice: "il folle ha ucciso dopo che è uscito dal manicomio per la 180", io non la posso prendere così quella velina. Rispetto a quello che diceva prima Dell'Acqua riguardo alla notizia Ansa del giudice che chiede la perizia genetica, mi piacerebbe sapere se è stato detto solo quello oppure se al caporedattore di Trieste gli è venuto il barlume magari di andare a fare l'intervista a qualcun altro, e non per par condicio, ma per cercare di mettere un po' più di punti a posto.

A proposito di provocazione, ne voglio lanciare un'altra riprendendo la cosa che ho detto all'inizio, cioè che in questo seminario ci muoviamo su un crinale, essere orientati in un mondo che è disorientante . Dell'Acqua prima ci ha raccontato della sua esperienza e del suo primo incontro con Basaglia, una persona che faceva saltare i punti di riferimento, forse per quello che era lo spirito dell'epoca, il nord lo metteva al posto del sud e il sud al posto del nord, perché un medico che sta senza camice, che si fa dare del tu, è un medico che i punti di riferimento li fa saltare all'inizio, dopodiché l'importante è capire dove si vuole arrivare, cioè avere un orizzonte.

A Gisella Trincas, già presentata, voglio chiedere due cose: anzitutto quanto spesso l'informazione, giornali, radio, televisioni, siti internet, anche a dimensione locale raccontano quella verità di cui si è tanto parlato ieri, la realtà quotidianità di chi vive il disagio mentale, sia esso una persona che ha una qualche malattia psichiatrica, o comunque vive un periodo di difficoltà, sia esso un familiare o anche un datore di lavoro. Voi non sapete quant'è importante il tema del lavoro riferito alla salute mentale: ci sono degli imprenditori, che io ho avuto la fortuna di intervistare, straordinari, che fanno veramente delle cose molto belle, che hanno creato delle strutture apposite per far si che quelle persone che magari hanno un certo talento, una certa abilità, una singola attitudine, riescano a tirarla fuori. Questo applicato al tema della salute mentale non è un fatto di sole idee, poi naturalmente ci sono quelli che pagano per non prendere le persone disabili al lavoro e sono purtroppo la stragrande maggioranza. Per cui la prima cosa è questa, cioè quanto spesso c'è la verità sui giornali.

 

Chiedo poi sempre a Gisella Trincas di raccontarci il caso Sardegna: quello che è successo negli ultimi anni in Sardegna è assolutamente a mio avviso una metafora del rapporto tra questo tema e l'informazione. Sentirete come veramente tutto si lega.

Giuseppe Dell'Acqua

In un'intervista che ho fatto a Norberto Bobbio prima che morisse gli ho chiesto, dato che in quel periodo si stava parlando di riforma, che cosa fosse la riforma nel nostro paese ; Bobbio ha pensato un attimo e poi mi ha detto: "la vera riforma è quella che riguarda le persone malate di mente. La loro situazione, la loro vita è cambiata da così a così. Ma non è cambiata da così a così a Trieste piuttosto che a Salerno, è cambiata in tutto il territorio nazionale". Questo vuol dire che la legge 180 aveva come primo, primissimo obiettivo, quello di restituire cittadinanza e diritti alle persone con disturbo mentale. Esiste un articolo della nostra Costituzione, l'art. 32 il quale dice che chiunque sia su questo territorio ha diritto alla cura e alla salute, nel rispetto della libertà e della dignità e poi nella legge sanitaria si aggiungerà nell'inviolabilità del corpo. I legislatori, cioè la Tina Anselmi e quelli che lavoravano con lei, si sono chiesti: i malati di mente, li chiamavano così allora e li dovremmo chiamare diversamente oggi, poi vedremo come, sono cittadini di questo paese? E la loro risposta coraggiosamente fu: si, sono cittadini di questo paese a tutti gli effetti. Da quel momento le persone con disturbo mentale hanno avuto diritto alla cura e alla salute. La legge che viene fuori è una legge che deve garantire diritto di cura, salute, libertà per tutte quelle persone. E da lì nasce la contraddizione. La legge 180 è anzitutto una riforma straordinaria che dice che tutto quello che attiene alla realizzazione, all'organizzazione, alle politiche dei servizi, viene delegato alle regioni; è la prima legge nel 1978 che riconosce la regionalizzazione. E lì si apre un altro capitolo: cosa fanno le regioni da quel momento in avanti? Voi vedete cosa ha fatto la Sardegna, la Calabria, la Lombardia, Le Marche ecc., ma i cittadini marchigiani, come i cittadini triestini, hanno quello stesso diritto fondamentale. Anche l'istituto dell'amministratore di sostegno nasce da questa affermazione, perché ci si chiede il motivo per cui le persone debbano essere interdette. E' inutile che continuiamo a dire che schifo il manicomio giudiziario, ricordiamoci che c'è quella legge che permette di dire, attraverso giuristi e sentenze della corte costituzionale, che è incostituzionale. Ma avete mai scritto qualche cosa, porca miseria, di questa roba qui?

Gisella Trincas

Io credo che prima di raccontare il caso Sardegna, che è proprio una storia emblematica, dovrei spiegarvi un po' da dove vengo e che cosa rappresento, perché altrimenti è difficile anche capire quello che sta accadendo nella mia regione e che mi vede molto coinvolta. Io rappresento in Italia la federazione delle associazioni dei familiari, per affrontare di nuovo la questione della par condicio, diciamo delle associazioni dei familiari che si sono costituite in difesa della legge 180, perché quando i giornalisti s'interessano a cosa pensiamo noi familiari di questo, intervistano me e anche la rappresentante di un'associazione che invece definisce la legge 180 un grande danno per le famiglie e per le persone. Perché io sto dentro questo movimento, perché ho contribuito a costruire questo movimento che rappresenta in Italia 160 associazioni? Perché io sono un familiare, quindi io da molto tempo ossia da 40 anni, vivo la condizione di una famiglia che ha al suo interno delle persone che vivono l'esperienza della sofferenza mentale. Quando mia sorella si è ammalata, chiamiamola così questa sua cosa che qualcuno chiama malattia, io avevo 18 anni e lei 19 e i nostri fratelli e sorelle erano tutti più piccoli di noi, il più piccolo aveva 4 anni e anche lui dopo 15 anni si è ammalato.

Prima della legge 180 com'era lo scenario che avevamo di fronte? Il deserto totale, la disperazione nostra, perché l'unica possibilità offerta dal servizio pubblico, in grado d'intervenire in qualche modo a sostenere le necessità di cura di mia sorella, era l'ospedale psichiatrico. Dopo quattro anni di difficoltà e di disagio, anche di difficile gestione interna della nostra famiglia, l'unica possibilità d'intervento che ci hanno offerto è stato il manicomio. Così mia sorella all'età di 22 anni è stata ricoverata nell'ospedale psichiatrico di Cagliari. La diagnosi che le ha fatto il dottore è stata schizofrenia, la stessa che le hanno fatto oggi; questo dottore non sapeva niente di lei, forse neppure ci aveva parlato più di cinque minuti, ha detto che si trattava di una persona pericolosa e ha quindi disposto il suo ricovero in ospedale psichiatrico, e a quel punto mia sorella si è ribellata e gli ha morso un dito. Le sue difficoltà consistevano in un atteggiamento aggressivo nei confronti in particolar modo di mia madre, ma non solo, anche nei confronti dei fratellini più piccoli, quindi capitava che lei all'improvviso colpisse qualcuno in casa, magari Raffaele che aveva 4 anni, o gli altri appena più grandi e queste sue manifestazioni all'interno della famiglia non si comprendevano, venivano interpretate come delle azioni pericolose, gravi, che nessuno in casa era in caso di fronteggiare e di capire. Per cui la risposta è stata: sua figlia deve stare nel luogo dove stanno le persone pericolose, quindi nel manicomio. Non vi racconto che cosa è stato il suo ricovero all'interno dell'ospedale psichiatrico, perché il manicomio era quello che ha descritto Beppe, comunque un luogo brutto, puzzolente, terrificante, dove le persone non erano considerate in quanto tali, erano delle diagnosi, dei casi clinici, venivano governate dagli infermieri, dalle suore, laddove c'erano, i medici raramente passavano in reparto e raramente dedicavano il loro tempo ai ricoverati. Pensate che quando mia sorella è stata ricoverata abbiamo parlato con i medici la prima volta solo dopo diversi giorni, nessuno di loro ha pensato di chiamarci per dirci quello che stava succedendo, per informarci sul perché questa ragazza così giovane era lì. È stato fatto dopo. Mia sorella entrava e usciva continuamente dall'ospedale psichiatrico e questo fino al 1980, quindi dopo la legge 180, quando l'ospedale psichiatrico poteva ricoverare solo persone che erano già state ricoverate precedentemente, nuovi ricoveri non se ne facevano ; quindi mia sorella fino al 1980 ha avuto il privilegio di poter essere ricoverata, anche se ogni volta per brevi periodi, per pochi giorni, mentre tutti gli altri andavano nei servizi di diagnosi e cura che nel frattempo erano stati attivati anche in Sardegna, luoghi molto simili al manicomio, porte chiuse, elettroshock… Alcune di queste risposte sono offerte ancora oggi in gran parte del territorio nazionale. Ci trovavamo quindi in Sardegna davanti a una situazione di totale deserto e le persone come mia sorella che vivevano una situazione di difficoltà e di grande sofferenza, non avevano delle risposte adeguate.

Nel frattempo è successo che noi sorelle abbiamo cominciato a domandarci se quello era il posto che avrebbe potuto curare nostra sorella. Ci siamo date la risposta che quello non poteva essere il posto giusto, abbiamo rifiutato immediatamente quella come soluzione ai suoi e ai nostri problemi e quindi abbiamo iniziato a guardarci attorno, ad andare in giro per l'Italia. Incominciammo a scoprire l'esistenza di Trieste, l'esistenza di servizi di salute mentale diversi e molto all'avanguardia per quegli anni e ho cominciato ad incontrare degli altri familiari impegnati in altre regioni d'Italia, e insieme a loro a costruire delle speranze per noi. Si iniziano così a costituire in Italia le prime associazioni di familiari che chiedevano con forza l'attuazione della legge 180, perché per noi questa legge significava non solo il superamento del manicomio, ma anche il poter costruire nel territorio quei servizi, quelle possibilità per le persone di guarire. Io pensavo cioè che mia sorella dovesse guarire da questa strana malattia che qualcuno chiamava malattia mentale, a me pareva assurdo che lei, che prima di questo momento era stata una persona assolutamente normale, si trovasse in una situazione di non ritorno, io non pensavo possibile un non ritorno. Quindi quello che io andavo a cercare erano delle risposte: perché mia sorella non può guarire? Le nostre associazioni erano degli strumenti per poter chiedere con forza alle istituzioni che nelle nostre città si potesse offrire ai nostri familiari la possibilità di guarire da questa malattia, questo noi chiedevamo. Inoltre io mi domandavo perché non poteva essere data la possibilità a mia sorella che viveva questo grande conflitto con la famiglia, di poter percorrere, come dire, un percorso proprio di cura, cioè qualcuno che parlasse con lei, che potesse capire che cosa l'aveva portata a stare così male. Lei doveva fare questa cosa fuori dalla sua famiglia, quindi fuori da quella situazione conflittuale, ma non in manicomio, un luogo di forte segregazione che aumentava la sua sofferenza e non la diminuiva. Anch'io allora come tanti pensavo che il luogo poteva essere una casa-famiglia, allora si parlava molto di case-famiglia, di luoghi con degli operatori bravi, sensibili, capaci, molto preparati, che potessero capire che cosa stava succedendo a queste persone e quindi aiutarle a stare meglio. Badate che queste domande che io mi facevo allora, stiamo parlando di 40 anni fa, se le fanno oggi tanti altri familiari di persone che non hanno mai conosciuto il manicomio, che magari non sono neanche mai stati ricoverati in un servizio di diagnosi e cure, che quindi non hanno subìto quei trattamenti disumani. Tanti familiari oggi si chiedono: ma perché mio figlio non può affrontare questa sua difficoltà in una condizione adeguata al suo bisogno?

Il nostro impegno è stato da subito quello di chiedere per noi che cosa significava attuare la legge 180: non significava solo cancellare dal nostro paese la vergogna del manicomio e quindi lavorare concretamente per il superamento e la chiusura degli ospedali psichiatrici, ma significava affrontare le questioni della sofferenza mentale in termini completamente diversi. Significava porre anche la questione della formazione, della preparazione degli operatori della salute mentale, perché noi consideravamo e consideriamo ancora oggi insopportabile che un operatore della salute mentale, uno psichiatra, affronti questo tipo di problema, senza porsi, come dire, con serietà, la questione della qualità della vita di quella persona, della speranza che quella persona ha di uscire da quella condizione, non di starci dentro per tutta la vita. Quindi non solo chiedevamo che i manicomi venissero chiusi, che il territorio si attrezzasse con i dipartimenti di salute mentale, i servizi residenziali, le residenze, ma che si ponesse molto forte la questione della formazione degli operatori della salute mentale, perché era inaccettabile che si affrontasse questa questione con superficialità, alcune volte anche con interventi che danneggiavano ancora di più la persona, che peggioravano le condizioni di vita delle persone. Questo movimento ha portato negli anni in Italia a tutta una serie di conquiste, perché dopo la legge 180 ci sono stati i progetti obiettivo, le linee guida, governi regionali e anche nazionali che hanno fatto delle cose. Non tutti hanno fatto le cose giuste, non tutti le hanno fatte in tempi veloci, tanto che oggi a distanza di 30 anni dalla legge di riforma sanitaria, abbiamo nel paese delle situazioni molto diversificate tanto che dove la questione non si affronta in maniera tempestiva, immediata, qualificata, la persona con problemi psichiatrici ritorna continuamente nel reparto psichiatrico ospedaliero. Quando noi diciamo che la legge di riforma deve essere completata, stiamo dicendo che le regioni, non la legge 180, i governi delle regioni, le aziende sanitarie, i dipartimenti di salute mentale, devono mettere in campo risorse umane, finanziarie, per rendere possibile in ogni territorio, in ogni comunità locale, in ogni comune, un sistema complessivo di interventi sanitari, sociali, culturali, che mettano la persona con disturbo mentale nella condizioni di poter migliorare la propria vita, di poter sperare veramente in una guarigione. Quello che invece accade in gran parte del territorio nazionale è ricacciare con forza la persona nella sua condizione di difficoltà, tenerla inchiodata alla malattia mentale e non liberarla da questa condizione.

Andiamo all'esempio Sardegna. Attraverso anche l'esperienza che abbiamo fatto, ci siamo conquistati una consapevolezza abbastanza significativa non solo di quelli che sono i nostri diritti di cittadini che incontrano una difficoltà nella vita, ma abbiamo capito anche dove stanno le responsabilità, abbiamo capito cosa si può fare concretamente per migliorare la qualità della vita delle persone, di una comunità intera. Abbiamo quindi individuato i nostri interlocutori che sono le istituzioni locali, quindi i governi regionali. La nostra associazione in Sardegna opera da 23 anni, quindi prima e dopo la legge 180, stiamo dentro tutto il percorso culturale che ha portato all'approvazione della legge e quindi ai ripetuti tentativi di renderla praticata in tutto il territorio. In Sardegna noi avevamo un piano regionale per la psichiatria vecchio di 20 anni, tra l'altro che abbiamo ottenuto grazie ai nostri impegni, alle nostre battaglie di 23 anni fa quando abbiamo presentato una petizione regionale con 12mila firme, non è poco in una terra come la nostra mettere insieme 12mila persone che chiedevano con forza alle istituzioni regionali l'attuazione della riforma della legge 180. Un aspetto che la nostra petizione conteneva e che l'allora consiglio regionale aveva accolto era la questione dei servizi sulle 24 ore: noi avevamo capito da subito che bisognava puntare ad un'organizzazione territoriale dei servizi che fosse in grado di governare il bisogno nelle 24 ore, per cui chiunque si trova in difficoltà in un qualunque momento della sua esistenza, deve avere un servizio capace di affrontare questa difficoltà e di dare delle risposte. Già 23 anni fa noi questo chiedevamo perché conoscevamo l'esperienza di Trieste e tutte le esperienze più avanzate presenti in Italia, che già davano dei risultati straordinari.

Nel 1998 sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici in Sardegna - come in tutta Italia perlopiù tra il '98 e il 2000 - perché è intervenuta una legge finanziaria da tutti noi fortemente voluta , che penalizzava le regioni inadempienti alle quali venivano tagliate quote consistenti di finanziamenti pubblici al sistema sanitario. Gli ospedali psichiatrici si chiudono con una deportazione: chiudono gli ospedali psichiatrici e aprono delle strutture per accogliere le persone che ancora erano ricoverate in quelli che di fatto rimangono manicomi, il funzionamento era esattamente lo stesso. Nel territorio si incominciano a costituire i servizi territoriali, meglio di prima certamente, pensate che nella città di Cagliari c'era solo un centro di igiene mentale per tutto il territorio dell'azienda sanitaria, mentre oggi abbiamo diversi servizi territoriali di salute mentale, CSM anche sulle 24 ore.

Il cambiamento c'è stato anche a seguito della vittoria alle elezioni regionali del governatore Soru che ha portato in Sardegna Nerina Dirindin a governare la sanità ; noi abbiamo fortemente voluto che la sanità venisse affidata ad una persona estranea alle dinamiche interne della Sardegna, perché la sanità pubblica nella nostra regione aveva molte pecche e la salute mentale ancora di più. In Sardegna ci sono molti interessi trasversali, le politiche e i partiti politici hanno sostenuto negli anni le cliniche private, gli istituti di grande concentrazione di persone internate, questa era come dire, la tipologia delle risposte che arrivavano e che venivano create in Sardegna. Sono stati inventati in seguito i moduli, per cui in un grande stabilimento potevate trovare 300 persone organizzate per moduli, 20 qua e 20 là, però sempre 300 persone in un grande contenitore di sofferenza, completamente sradicate dal contesto urbano e cittadino, persone che incontravano raramente i loro familiari, che uscivano raramente da questi luoghi. E' arrivato l'assessore Dirindin che ha messo mano ad un sistema che andava completamente rivoluzionato, perché se vuoi restituire la dignità alle persone, intanto devi restituire la normalità alla loro vita, devi restituirle alla loro comunità, devi coinvolgere le famiglie e le comunità locali, devi fare in modo che la società si faccia carico di tutti, anche delle persone più fragili. Il lavoro che l'assessore Dirindin ha fatto in Sardegna è stato quello di provare anche a restituire alle persone la speranza di venir fuori da queste istituzioni totali. La Dirindin è andata a Trieste, perché noi le abbiamo detto che doveva conoscere la situazione lì, ha conosciuto Beppe Dell'Acqua e lo ha nominato, insieme all'azienda sanitaria triestina, suoi consulenti. Beppe Dell'Acqua che già conosceva la Sardegna perché aveva già dei rapporti con noi, inizia con l'assessore, con le associazioni dei familiari, con gli operatori della salute mentale, con le comunità locali, a delineare un progetto, un programma d'intervento che ponesse al centro proprio le questioni che dicevo: la formazione degli operatori, l'organizzazione dei servizi, la ricerca delle risorse finanziarie. L'assessore ha anche istituito la commissione regionale salute mentale dove dentro ci stavano tutti i direttori dei dipartimenti di salute mentale, i rappresentanti delle associazioni dei familiari, dei comuni, della cooperazione sociale, quindi tutte quelle istituzioni che rappresentavano in qualche modo il mondo del sociale e della salute mentale. Nei suoi anni di attività l'assessore Dirindin ha riorganizzato anche alcuni servizi di diagnosi e cura: ad esempio, uno dei progetti che sono stati approvati dalla giunta è stato quello sulla umanizzazione dei luoghi e delle pratiche, quindi gli SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura) andavano umanizzati e l'umanizzazione, riguardava non solo le pratiche, quindi no alla contenzione, no alle porte ecc, ma anche il clima, gli arredi… Ci sono stati dei servizi di diagnosi e cura che sono stati completamente riorganizzati. Ricordo una seduta della commissione salute mentale, quando il direttore dell'SPDC di Nuoro - completamente riorganizzato e ristrutturato - ha portato le fasce di contenzione ed è stata fatta quasi una cerimonia solenne a testimoniare la fine di una pratica che era assolutamente intollerabile. L'altra cosa straordinaria che l'assessore ha fatto è stata quella di aver dato risorse finanziarie alla salute mentale, risorse che fino a quel momento non c'erano state. E' stata così data l'opportunità di fare delle cose, sono stati costruiti dei percorsi che hanno portato le persone a fare, a frequentare delle borse lavoro, ad essere assunte in cooperative, ad avere progetti di sostegno personalizzato nella propria abitazione. Si sono inoltre cominciate ad aprire le prime piccole residenze per la salute mentale: nella riorganizzazione dei servizi sanitari è stato approvato il nuovo piano per la salute mentale, che prevedeva tutta una serie di percorsi di questo tipo, per cui le residenze avrebbero dovute essere somiglianti alle case vere, a diversa intensità di assistenza, sulla base delle esigenze reali di ciascuna persona, ma case vere nei contesti urbani, non istituzioni totali.

A Cagliari poi è stata chiamata a riorganizzare il dipartimento di salute mentale Giovanna Del Giudice, un altro medico psichiatra triestino, e anche il suo arrivo è stata una rivoluzione; questa dottoressa ha posto le basi per ripensare la psichiatria di comunità a Cagliari e ha lavorato per realizzare i centri di salute mentale sulle 24 ore. A Cagliari, per la prima volta in Sardegna, sono stati organizzati 3 centri di salute mentale sulle 24 ore, luoghi completamente riorganizzati e ridefiniti negli spazi e anche negli arredi; per la prima volta le persone di un dato territorio potevano essere accolte in un centro di salute mentale e quindi poteva essere evitato un ricovero ospedaliero. In programma c'era l'apertura di altri di questi centri.

Ilaria Sotis

Fermo solo un attimo Gisella sempre per riprendere un po' gli interventi di ieri, a proposito del contesto urbano, quello che ci diceva Saskia Sassen, perché la grande sfida delle città oggi è rendere civile quello che altrimenti è conflitto. Cosa è successo poi? In tutto questo ci devi dire come questo però viene raccontato dalla stampa.

Gisella Trincas

Diciamo che questo è stato un percorso di cambiamento, noi l'abbiamo chiamato così, che era rivoluzionario ovviamente per la nostra situazione, che ha visto in campo molti soggetti, le famiglie, gli utenti dei servizi, gli operatori, gli amministratori, i cooperatori… Mentre nel territorio si lavorava e anche noi lavoravamo come associazioni di familiari verso questo obiettivo, succedeva che la stampa invece rappresentava quello che accadeva in maniera totalmente difforme. La stampa da subito, proprio dal primo giorno in cui Nerina Dirindin ha messo piede in Sardegna, ha attaccato in maniera frontale questo processo di cambiamento insieme anche ad alcuni operatori della salute mentale, in particolare gli operatori di un servizio di diagnosi e cura dove è morto un uomo, un ambulante che disturbava Quartu, il comune dove risiedeva, che riceveva multe tutti i giorni dai vigili urbani, e che quindi ad un certo punto è stato prelevato con la forza, portato al servizio di diagnosi e cura, legato per 7 giorni e poi morto; è stato detto che non lo potevano slegare perché era pericoloso e aggressivo, le motivazioni sono sempre queste, lo facciamo per il suo bene perché si fa male e fa male agli altri… Sono morte anche altre persone a Cagliari comunque, prima e dopo questo fatto, c'è un'inchiesta adesso un po' più ampia al riguardo. La stampa quindi in generale ha reagito in maniera feroce, L'Unione Sarda, il quotidiano più diffuso in Sardegna, ha attaccato pesantemente il governo regionale, il presidente Soru e l'assessore Dirindin in particolare e ha attaccato pesantemente diffamandoli, con azioni diffamatorie continue; non c'era giorno che sulla stampa non venisse fuori non tanto quello che di importante accadeva in Sardegna, la vita delle persone che cambiava, bensì gli attacchi personali all'assessore, a Beppe Dell'Acqua, a Giovanna Del Giudice, a me e a tutti quelli che sostenevano il progetto di cambiamento. Il proprietario-editore de L'Unione Sarda è Zuncheddu che è un costruttore, quindi interessato a costruire nelle coste sarde, quelle coste che il presidente Soru voleva proteggere e lo ha fatto con delle leggi. Questo ha portato ad una seconda campagna elettorale feroce, proprio feroce durante la quale L'Unione Sarda ha continuato a fare, a sostenere il candidato antagonista di Renato Soru, falsificando assolutamente la realtà delle cose. Una delle questioni che ricorreva continuamente era quello di dire che questo governo aveva portato la Sardegna alla disperazione, che i lavoratori stavano perdendo il loro posto di lavoro, la sanità pubblica era un disastro, i bilanci della sanità pubblica in passivo, tutte notizie assolutamente false, che però hanno, come dire, fatto buon gioco nella campagna elettorale a favore del candidato di centro-destra. Ha vinto il centro-destra chiaramente, quindi tutti a casa, il processo di cambiamento in salute mentale si è arrestato completamente. La prima operazione di Liori, il nuovo assessore regionale alla sanità, che aveva attaccato continuamente Dirindin in consiglio regionale, è stata quella di cancellare la commissione regionale di salute mentale, commissione democratica, rappresentativa anche di Cittadinanza attiva, ha nominato una sua commissione tecnica, i cui rappresentanti sono stati i più feroci oppositori del processo di cambiamento. Tutte quelle persone che hanno scritto sul giornale, che hanno diffamato quelli che cercavano di cambiare la psichiatria in Sardegna, adesso fanno parte della commissione e stanno ridisegnando il nuovo piano regionale per la psichiatria. L'apertura dei nuovi centri di salute mentale prevista nei mesi successivi è stata bloccata, hanno già dichiarato che i centri sulle 24 ore sono un errore, che vanno rivisti e che la psichiatria deve essere ricondotta alla sanità e alla clinica. Secondo loro sono tutte storie queste dei progetti personalizzati, di recupero della dignità delle persone: le persone con disturbo mentale devono essere curate dai medici punto, l'ospedale è centrale nella cura, anzi chiedono l'apertura di nuovi posti letto… Secondo loro il territorio giocava quando parlava di reinserimento sociale, di restituzione dei diritti di cittadinanza, ecc., tutto deve essere ricondotto nel suo luogo legittimo, quindi la clinica e il sanitario. I finanziamenti sono stati bloccati, non più finanziamenti per i progetti personalizzati e chi ha osato sostenere negli anni questo processo è fuori: Beppe Dell'Acqua non è più consulente, Giovanna Del Giudice ha concluso il suo mandato, quindi in campo sono rimaste le associazioni dei familiari, in particolar modo io che le rappresento tutte.

Ilaria Sotis

La storia della Sardegna è davvero significativa, non è una questione di appoggiare Soru o l'assessore Liori, evidentemente il punto non è assolutamente questo.Innanzitutto mi sembra molto interessante che non ci sia traccia di una storia del genere in nessun giornale, almeno io non ne ricordo traccia, probabilmente l'unica cosa che si può fare è andare a cercare nell'informazione locale. Io sono una grandissima sostenitrice dell'informazione locale, ho proprio l'abitudine, quando arrivo in redazione la mattina, di cominciare dalla cronaca della mia città che è Roma o del posto dove mi trovo. Se davvero però l'unico mezzo di comunicazione importante in Sardegna è L'Unione Sarda, allora ho un unico pensiero, un'unica realtà, un'unica verità e questo è oggettivamente disorientante per chi vuole raccogliere delle informazioni, per chi si vuole informare. Per questo è molto importante per noi operatori dell'informazione, quando cerchiamo di trovare questi punti cardinali, sapere bene come interloquire con le nostre fonti. Allora qui oggi abbiamo avuto una fortuna immensa, secondo me, che è quella di sentire parlare per lungo tempo proprio le fonti. Ieri il filosofo Merlini ha detto di far attenzione ad un aspetto molto fuorviante oggigiorno che è quello che ha definito la temporaneità abbreviata: tra l'immediatezza del vissuto e la narrazione del fatto non c'è più spazio. Credo che il suo discorso fosse molto legato a l'informazione e la tecnologia, gli sms, i cellulari, io penso invece che sia ancora più pericoloso di così: la temporaneità abbreviata è un qualcosa che noi giornalisti per primi nella nostra testa produciamo. E' un errore da non fare, concediamoci il tempo della critica ragionata, anche se hai il capo redattore che ti chiama e ti dice: ho il giornale tra un minuto… conceditelo quel tempo. La critica ragionata necessita del sapere e questo è un punto importantissimo.

Giuseppe Dell'Acqua

Sul sito www.triestesalutementale.it trovate tutto ciò di cui potreste aver bisogno di sapere riguardo al sistema territoriale di salute mentale , c'è un archivio fotografico e video, credo che a voi possa interessare molto.

Ilaria Sotis

Ci sono delle domande o delle considerazioni su questa prima parte?

Alessandro Sansa - Freelance della carta stampata

Devo ammettere che a volte durante questa prima parte un po' l'attenzione mi si è un po' distorta se non altro per questo splendido panorama coi monti Sibillini innevati, il piccolo Tibet d'Europa come viene definito, noi della stirpe appenninica ne siamo molto orgogliosi… Devo ammettere che mi sono trovato un po' spaesato nel senso che pensavo che si potesse andare anche oltre il discorso basaglismo o antibasaglismo. Credo che oggi le condizioni per andare oltre questo discorso ci siano; personalmente considero anche abbastanza datato questo discorso, dico abbastanza, perché come diceva Gisella poi quello che ci arriva dalla cronaca, morti per contenzione, ecc., dimostra che non è una cosa superata, e infatti dico datato, e non superato. Questo dibattito sul basaglismo o antibasaglismo mi dà un po' la sensazione di una falsa dialettica, come a Porta a Porta dove c'è un finto dibattito perché tutti in realtà sostanzialmente dicono la stessa cosa, cioè le vere voci alternative non ci sono mai da Vespa. Allora io dico, non sarà che si rischia di fare come nel 1500 quando si discuteva se gli indigeni che andavano a scoprire i conquistadores disponessero di un'anima oppure no? Perché era quella la diatriba che ha monopolizzato il dibattito per un secolo però parallelamente a quello c'era un movimento che portò alla liberazione dalla schiavitù, ecc. Ho l'impressione che continuare su questo dibattito basaglismo o antibasaglismo, faccia perdere di vista un movimento che va oltre questa contrapposizione. Per esempio a maggio a Firenze durante un simposio di psichiatri c'è stata una manifestazione di 4mila persone, che si è vista solo su youtube, perché ovviamente i media non ne hanno dato informazione. Adesso non voglio essere polemico, anche se mi rendo conto che è la mia indole naturale, però quello che per lei è un dettaglio, riguardo alla diagnosi di quella ragazza, per me invece è la questione centrale. Le cifre parlano di 100mila vittime all'anno causate dalla psichiatria, che non è una psichiatria basagliana o antibasagliana, è la psichiatria tout court; è l'uso della prescrizione degli psicofarmaci. Credo che siano questi i termini esatti della questione oggi nei confronti della psichiatria, cioè sua sorella incarcerata, perché di questo si tratta, perché rispondeva male ai genitori o perché mordeva il dito al medico e bene faceva, detto tra noi? Allora quante Alda Merini, uno dei geni d'Italia, che si è fatta 10 anni di manicomio, e quanti Antonio Ligabue, grande maestro della pittura naϊf, anche messo in manicomio, quanti ce ne sono adesso? E' di questo che oggi il dibattito sulla psichiatria si deve occupare, cioè la psichiatrizzazione per gente che viene semplicemente etichettata ancora nel 2010 come strana solo perché legge Baudelaire, i poeti maledetti, questo accade ancora oggi in una nazione da semi-terzo mondo come l'Italia.

Gabriella Ramoni - inviato speciale di televideo Rai

Mi occupo di sociale da parecchi anni e la curiosità mi è nata sui letti di contenzione, sulle morti che pare ci siano ancora oggi dovute a ciò. Non c'è un'alternativa di cura farmacologica per evitare di ricorrere ai letti di contenzione, a questa cura coatta, non so, magari un intervento immediato farmacologico e poi una terapia di riabilitazione sociale?

Antonella Patete - Redazione romana Redattore Sociale

Vi chiedo di aiutarci a trovare le trappole. Mi è capitato qualche mese fa di dovermi occupare di psichiatria senza averlo mai fatto precedentemente, perché noi ci occupiamo di sociale che come si sa è vasto, e mi son trovata a dover fare il punto sulle leggi di riforma in parlamento, ho intervistato anche Gisella. Ero stata allertata che c'era qualcosa che non andava e appunto me lo confermava Gisella, però facendo quella lettura rapida di cui si parlava prima, tendenzialmente le proposte di legge mi sembravano di buon senso, nel senso che facevano grandi cappelli in cui si parlava di come era prima la psichiatria, di come è oggi la centralità della persona, del bisogno del paziente, dell'importanza della famiglia e così via. Ho fatto veramente una fatica grandissima e non ne sono venuta a capo, poi sono stata stritolata ovviamente dai tempi stretti, e non sono riuscita a capire quali erano le questioni in ballo veramente e quali erano le parole che mi dovevano allertare. Come facciamo dunque ad orientarci?

Paola Vetta - pensionata Rai

Ogni tanto si sente dire che si, sono stati chiusi i manicomi che sono delle strutture assolutamente negative, coercitive, violente, però si dice anche che così le famiglie sono rimaste senza aiuto di fronte a un malato che è grave, pericoloso. Allora quello che io voglio sapere è se effettivamente esistono dei malati pericolosi per cui è necessaria una situazione coercitiva.

Francesca Mezzelani - Ufficio Stampa Assessorato Sanità Regione Lazio

Troverei sicuramente molto utile una rapida spiegazione sui servizi, a partire dai dipartimenti di salute mentale, su come funzionano.

Rispetto a quello che si è detto dell'esperienza in Sardegna, troverei utile un breve racconto di qualche storia, cioè di una stessa persona trattata in maniera coercitiva, relegante, ecc., e poi invece l'esperienza del progetto come servizio protetto però in comunità, con la possibilità di lavorare, di vivere in una casa dignitosa, come è cambiata la vita di quella persona e della sua famiglia e anche l'accoglienza eventualmente nella società.

Giordano Mariano

Ho fatto il redattore per 20 anni in una rivista femminile e più che una domanda vorrei portare una piccola testimonianza di carattere personale, mi spiace perché devo coinvolgere mia moglie e sua madre, le protagoniste di questa vicenda che è una storia vera, che riguarda appunto una diagnosi di schizofrenia; lo faccio senza il permesso di mia moglie, spero che me lo perdonerà e consentirà. Vorrei ringraziare prima di tutto il prof. Dell'Acqua per il tono con il quale ha condotto il suo intervento, che mi ha commosso, perché ha introdotto un elemento che è abbastanza sconosciuto nella pratica assistenziale oggi ossia l'elemento umano. Quando ha raccontato quell'episodio con la tacita intesa tra due che si scambiano mi sono commosso e vi chiedo scusa perché effettivamente questo è il senso di ciò di cui dovremmo parlare rispetto alla patologia. La diagnosi di schizofrenia è stata quella che ha riguardato anche mia suocera in un primo tempo, della quale io sono stato badante per quasi 4 anni, visto che da quando sono uscito dal giornale nel quale lavoravo, vengo mantenuto da mia moglie per sopravvivere, quindi io ricambio facendo i lavori di casa, occupandomi di tutto il resto. Durante questa esperienza la cosa più drammatica è stata quella di riuscire a conseguire qualcosa che fosse una vera diagnosi. Dopo 4 anni noi ci stiamo ancora chiedendo se la mamma di mia moglie sia una persona malata o se invece siamo malati io e mia moglie e questo non solo perché ce lo poniamo noi come domanda, ma anche perché nell'immaginario collettivo l'accettazione dell'abnorme, l'ho scoperto con mio grande disappunto, è ancora una cosa che dà profondamente fastidio, e infatti tutti i suoi parenti più vicini parlano di problemi caratteriali, di sospensioni della responsabilità temporanea, di finestre di responsabilizzazioni temporanee ecc. Io e mia moglie siamo rimasti soli ad un punto tale che abbiamo dovuto abdicare anche alla legge dell'amore, che noi consideravamo quella fondamentale per la via della guarigione e ci siamo dovuti affidare all'amministratore di sostegno, stiamo adesso praticando quella via. Io qui non ho visto nulla di basagliano o di antibasagliano, io qui ho visto la riproposizione di una storia che purtroppo si sta manifestando con sfumature assai diverse e sulla quale dovremmo interrogarci a partire dal tema di questo seminario che è disorientamento, perché qui siamo in tanti disorientati, io per primo forse più di tutti, perché alla base delle mie scelte c'è stato questo disorientamento profondo di ordine umano e non solo professionale.

Marco Magheri - Responsabile comunicazioni Ospedale pediatrico Bambino Gesù - Roma

Volevo portare l'attenzione sul fatto che i suicidi in età pediatrica tra i 5 e i 18 anni sono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. Si è parlato in questo dibattito molto di terapia, ma su prevenzione e diagnosi in che modo ci si muove?

Ilaria Sotis

Io personalmente ho scelto di tirar fuori tutto il tema degli artisti, ci sono tematiche a mio avviso più specifiche, però qui avevamo la possibilità di affrontare solo alcuni aspetti di un grande argomento, ne usciremo tutti quanti delusi come sempre proprio perché l'argomento è gigantesco. Penso inoltre che ci siano delle cose interessanti da dire, ho scelto io di tenerle fuori, per cui me ne assumo pienamente la responsabilità.

Gisella Trincas

Io credo che sia sbagliato porre la questione in questi termini: io mi ritrovo spessissimo davanti a questa situazione quando incontriamo i giornalisti che partono subito ponendo la questione in termini di voi basagliani e gli altri antibasagliani. Quando noi affrontiamo questi problemi, parliamo di cose concrete, non stiamo parlando di Basaglia, della legge, parliamo della nostra vita di persone umane, dei nostri familiari, di quello che noi ci aspettiamo che la società faccia attrezzandosi per permettere a noi una normalità di vita pur in presenza di situazioni di sofferenza mentale. Quando le nostre associazioni di familiari, anche nei ragionamenti con le istituzioni o con le persone comuni, pongono queste questioni, chiedono attenzione e sensibilità alla sofferenza umana e a quella mentale in particolare, prescindendo dalle leggi. Non ci interessano le leggi, non è questo il punto, la legge è là, ce la siamo conquistata, punto, e lì resta. Quello su cui noi qui stiamo ragionando è come questa società risponde ai bisogni delle persone, quindi al bisogno del lavoro, delle relazioni affettive, della casa e come si può rispondere a questi bisogni senza distruggere la vita delle persone, perché se tu non affronti il problema della sofferenza di mia sorella, tu istituzione, tu società, tu comunità non affronti insieme a me questo problema e me lo scarichi tutto addosso; quindi tu lasci che io viva insieme a lei una vita di sofferenza, quando la nostra vita, la mia e la sua, potrebbe essere migliore se tutti ci attrezzassimo e ognuno di noi facesse la sua parte. Noi stiamo chiedendo questo.

Non mi piace questa cosa degli schieramenti, io proprio me ne tiro fuori ogni volta, certamente però non posso sopportare che qualcuno dica, addirittura la stampa dica, che la mia difficoltà di familiare deriva dalla legge 180 . Io questo non lo posso accettare, perché le mie difficoltà derivano dal fatto che non ho i servizi di cui ho bisogno.

Di storie se ne possono raccontare un'infinità, io ne potrei raccontare migliaia, storie mie, della mia famiglia e di altri familiari . Potrei raccontarvi l'esempio di un gruppo di persone con disturbo mentale importante che vivevano da lungo tempo, alcuni anche da più di 10 anni, in una locanda in condizioni pessime, in una strada elegante nel centro di Cagliari, fino a quando i Nas, anche su nostra segnalazione, non ne hanno ordinato la chiusura. A quel tempo a Cagliari c'era Giovanna Del Giudice e noi eravamo già dentro il cosiddetto processo di cambiamento. Il dipartimento di salute mentale poteva scegliere tra due alternative: una era quella di trasferire le persone in una delle istituzioni che già esistevano in Sardegna, nei centri Aias per fare un esempio, li prendevi e li portavi lì come dei pacchetti, come generalmente si fa; l'altra alternativa era quella di costruire attorno alle persone un progetto di vita diverso. Quindi cosa ha fatto l'azienda sanitaria? Ha scelto questa seconda possibilità: ha preso in affitto un appartamento in un condominio normale in un quartiere della città di Cagliari vicinissimo a dove stavano prima queste persone, e ha permesso loro di vivere lì. Qual è il punto che distingue questa casa da un'altra delle abitazioni del condominio? Che in questa casa le persone sono sostenute da operatori sulle 24 ore, quindi operatori che stanno là, che vivono la quotidianità di una vita normale con gli abitanti della casa. Adesso queste stesse persone, sono in 6, hanno la loro casa, entrano, escono, vanno a fare le commissioni, mangiano insieme, incontrano i familiari, hanno cioè riconquistato per la prima volta nella loro vita, il diritto a una normalità di vita pur nelle difficoltà, pur nella sofferenza; hanno anche migliorato i rapporti con i familiari.

Un'altra storia: una persona che io conosco molto bene, prima di questo processo di cambiamento in Sardegna, viveva tra una comunità e l'altra, pesando sulla famiglia in maniera significativa, una persona che andava in crisi continuamente; i familiari non reggevano più questa situazione, si decide allora di mandarla ad abitare in un appartamento da sola con il servizio territoriale che insieme al comune di Cagliari la sostiene con dei progetti personalizzati. Adesso quindi questa persona conduce una sua normalità di vita nella sua casa, con un suo contratto d'affitto, e con l'appoggio di persone che la sostengono grazie alle risorse che sono state date dal dipartimento di salute mentale e dal comune.

* Testo non rivisto dagli autori.