XVII Redattore Sociale 29-28 novembre 2010

Oltre L'apocalisse

Quattro domande sul giornalismo nella post modernità

Incontro con Marino Sinibaldi e Francesco Tullio Altan. Conduce Vinicio Albanesi

 
Parte 1
Durata: 16' 44''
 
Parte 2
Durata: 09' 55''
 
Parte 3
Durata: 11' 13''
 
Parte 4
Durata: 16' 01'
 
Parte 5
Durata: 05' 10''
 
Parte 6
Durata: 10' 56''
 
Parte 7
Durata: 07' 36''
 
Parte 3
Durata: 09' 11''
 
 
 
 
Marino SINIBALDI

Marino SINIBALDI

Direttore di Rai Radio Tre, dove ha lavorato per molti anni inventando e conducendo, tra l’altro, la trasmissione “Fahrenheit”. Dalla prima metà degli anni 1980 collabora in veste di autore e conduttore a programmi culturali radiotelevisivi della Rai. Dal 2014 al 2017 è stato Presidente del Teatro di Roma. È tra i fondatori della rivista "Linea d'ombra"; è autore di saggi di storia e di critica letteraria, collabora con quotidiani e periodici. Ha pubblicato nel 2014 per Laterza il libro “Un millimetro in là. Intervista sulla cultura” (a cura di Giorgio Zanchini). 

ultimo aggiornamento 10 ottobre 2018

Francesco Tullio ALTAN

Francesco Tullio ALTAN

Autore di fumetti, disegnatore, disegnatore, sceneggiatore e autore satirico. Pubblica le sue vignette, tra le altre testate, su Repubblica e L’Espresso. L’ultimo suo libro è “Altan.Terapia” (Salani, 2010).

ultimo aggiornamento 26 novembre 2010

Vinicio ALBANESI

Vinicio ALBANESI

Sacerdote, presidente della Comunità di Capodarco e di Redattore sociale. Dal 1988 ha ricoperto la carica di presidente del tribunale ecclesiastico delle Marche per 15 anni ed è stato direttore della Caritas diocesana di Fermo per altri dieci. Dal 1990 al 2002 è stato presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca).

 

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LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Vinicio Albanesi

Qui con me ci sono Marino Sinibaldi e Francesco Altan. Di quest'ultimo tutti conosceranno le opere, però credo che la maggior parte di voi non l'abbia mai visto, eccolo qua, insieme alla signora Mara. Per la presenza di Altan, essendo loro amici d'infanzia, dobbiamo ringraziare Mario Dondero, un fotografo che abita a Fermo, e che voi non conoscete ma che ha fatto un pezzo di storia della fotografia. Abbiamo quindi qui due interlocutori che narrano l'uno con la parola, l'altro con la grafica, in maniera molto diversa.

Avevo proposto loro quattro domande e siccome sono intellettuali raffinati hanno detto che erano complicate, fanno i timidi, i modesti, in realtà hanno molto spessore; queste domande le sintetizzo non per loro ma per voi.

La prima domanda è questa: è vero che sono terminate le grandi ideologie, la trasmissione delle sintesi della vita, dei significati della storia della vita? E' vero che questo legame si è spezzato? In altre parole, è vero che i ragazzi di oggi non vivono più ciò che i loro genitori trasmettono, come avvenuto per i loro genitori rispetto ai loro nonni? Una delle tesi dominanti è che questa trasmissione non c'è più e che i cosiddetti valori si sono frantumati. E' vero ciò oppure questi valori si sono trasformati, si sono in qualche modo collocati in maniera e in termini molto diversi?

Marino Sinibaldi

Sul serio non è facile. La prima domanda riprende il titolo generale di questo foglietto intimidatorio che si intitola proprio "Quattro domande sul giornalismo e post-modernità" . A me già il termine post-modernità non piace e non in sé bensì solo perché ingombrante come tutte quelle parole che pretendono di definire un'epoca. Queste parole mi mettono in imbarazzo, al di là del fatto che siano vere o no, perché rischiano di schematizzare, di sclerotizzare cose appunto complesse; queste parole qua sono come dei segnalibri che servono forse per vedere dove sei arrivato però poi il libro, cioè la realtà, è un'altra cosa. La parola post-modernità la coniò il filosofo francese Jean-Francois Lyotard alla fine degli anni '70 per indicare la fine delle grandi ideologie, un'epoca che per molti di noi era ancora piena di grandi narrazioni. Per me ha un senso discutere di questo perché credo che serva per il lavoro quotidiano giornalistico, perché chi vuol guardare la realtà ha bisogno di riferimenti, a volte correndo anche il rischio di essere schematici, ma occorrono. Non m'interessa il discorso teorico che pure è affascinante, o meglio ritengo che pure questi frammenti di discorso teorico sono utili se riusciamo a dire come possono servire a raccontare il mondo che abbiamo davanti.

Per un verso si, quelle ideologie ottocentesche sono finite però non ancora del tutto. La crisi, lo scontro di civiltà ad esempio sono delle grandi narrazioni dentro le quali si fanno rientrare cose diverse perché le narrazioni funzionano o si fanno funzionare infilandoci dentro molti elementi, eliminando invece quelli che sono contraddittori. Un esempio, la lotta di classe che era una grande narrazione, una cosa vera e in parte ancora lo è. Quand'è che non è più vera la lotta di classe? E' finita la lotta di classe? No, ma è finita la sua narrazione, è forse finita la capacità di far entrare dentro quello schema le società come le abbiamo conosciute e di escludere invece quello che in effetti dentro non c'entrava. Le grandi narrazioni finiscono quando ci si accorge che le cose che stanno fuori sono troppo grandi, forse persino più importanti di quelle che stanno dentro. Non è finita la lotta di classe, credo invece che sia finita l'ideologia della lotta di classe e credo pure che sia salutare se non trascina con sé l'idea che non esistono le classi e che quelle differenze là non hanno nessuna importanza. Parlo della lotta di classe ma troppe cose, troppe sfere persino del conflitto pubblico rimangono fuori questo schema. Questo per dire che c'è chi invece dice che le grandi narrazioni sono finite tutte l'11 settembre 2001. La post-modernità ci dice che in fondo la realtà è qualcosa di flessibile e che quello che conta sono le interpretazioni, perché poi la realtà si rifà viva in maniera molto più eloquente, e questo ha molto a che fare col lavoro di Altan.

Il tema che poneva ieri Diamanti su chi forma l'opinione pubblica secondo me è decisivo dal punto di vista sia del sociologo che del giornalista. Diventa difficile capire quali sono le grandi centrali che orientano l'opinione pubblica e che dunque fanno circolare quelle narrazioni. Ieri Diamanti diceva che c'è chi decide che c'è un'emergenza o un'altra e questo significa spostare l'attenzione dell'opinione pubblica su quel tema; ma chi è oggi che sposta l'opinione pubblica? Naturalmente esistono gli imprenditori della paura, questa la formula usata ieri, e sono coloro che sono capaci di diffondere e di affermare sentimenti e valori. Ancora più che in passato ognuno di noi ha molte forme di informazione, di conoscenza, però poi alla fine la centralità, spero residua, ce l'ha ancora la televisione. Ricordate la curva della percezione dei reati e quella dell'informazione dei reati: la curva della percezione non era proporzionale a quella dei reati bensì a quella dell'informazione, quindi abbiamo la prova che l'informazione forma la realtà più che non la realtà stessa, perché sennò la curva sarebbe stata piatta come quella dei reati. Più che dire che l'insicurezza percepita è figlia delle narrazioni m'interesserebbe sapere come si forma ognuno di noi la sua opinione. Per questo è bello che ci sia Altan, perché io mi sono sempre chiesto come lui e i suoi personaggi si formano le idee. I suoi personaggi sono esemplari da questo punto di vista, perché sembrano diciamo quelli cattivi cioè quelli che ripetono frasi fatte; molto spesso sembra che questi personaggi di Altan siano attraversati da un sacco di influssi, per cui alla fine recuperano dei frammenti di frasi anche complesse e superiori alla loro capacità di elaborarle e le usano più o meno a sproposito; lì si genera un effetto comico. E' utile e interessante parlarne con Altan perché le sue figure sono proprio queste specie di recettori di parole: ma da dove arrivano queste parole? Solo dalla televisione? Dai social network ancora lo escluderei ma probabilmente l'Altan del futuro farà parlare ai suoi personaggi anche la lingua che arriva da lì.

Francesco Tullio Altan

L'idea è proprio questa: partire dalle frasi fatte e dai luoghi comuni che mi servono moltissimo per avere il punto di partenza, poi ci si può agganciare un discorso completamente diverso. L'ultima vignetta de l'Espresso ci dice: "E non ti girano? No, ho staccato la spina... ". E' una frase che negli ultimi due mesi si sarà sentita 200 milioni di volte, in qualsiasi discorso si mette la frase "ho staccato la spina" quindi con tutto un riferimento a ciò che è stato detto da Fazio sulla morte, la vita... Però è molto diverso lo staccare la spina di una persona o di un governo, insomma il secondo mi sembra un gesto più facile, dal punto di vista morale…

Rispetto ad alcuni fatti succede che non hai una reazione immediata, a volte succede, e invece l'argomento ti sembra importante e devi trovare il modo di aggredirlo e lì in qualche modo queste frasi fatte sono molto utili.

A proposito della discontinuità di cui si diceva prima: io credo che abbia ragione Marino . Credo che comunque in ognuno di noi e quindi forse nei nostri figli, si perdono forse delle formule più generali però restano dei punti di riferimento sotterranei che diventano quasi, come dire, più sentimentali che razionali, ma che poi servono.

Vinicio Albanesi

La narrazione dunque che si interrompe però non scompare a detta di loro due, si frantuma, ci dice Altan, molto spesso va addirittura in emozione e non in razionalità.

La seconda domanda: su questi frammenti molto spesso non razionali ma emozionali quanto influisce poi il giudizio di ciascuno? Qui possiamo fare tanti esempi: il ragazzino diceva che la nonna gli aveva insegnato la preghierina all'angelo custode; un ragazzo di oggi dice che è una sciocchezza però ricorda la nonna e la sua preghiera all'angelo custode, in termini emozionali o di rifiuto, ma in genere di ricordi. Questi frammenti poi vengono rielaborati con tutto quello che uno ha intorno a sé, la televisione, internet, i media, gli amici, l'ambiente, il quartiere e poi come vanno ad influire sui giudizi personali? In alcuni momenti abbiamo la sensazione non solo di non essere un popolo ma di non essere nemmeno una comunità. Se noi facciamo qui delle indagini rapide su ogni argomento, le maggioranze si spostano. Se così fosse significherebbe che i comportamenti personali diventano l'unico criterio etico. La domanda allora è: perché? Se io elaboro frammenti attraverso l'emozione ossia quello che io percepisco, non esiste legge, né quella materiale dei magistrati, ma nemmeno quella interiore e quella naturale; non esiste legge se non quella che io elaboro.

Marino Sinibaldi

L'emozione e la ragione si mescolano però c'è anche l'evento. Per me l'evento più bello è la rivoluzione francese perché è un esito del processo della più grande affermazione della ragione mai avvenuta sulla faccia della terra; il pensiero illuminista ha diffuso le cosiddette grandi paure, quindi l'intreccio della ragione al punto forse più alto che ha raggiunto nella storia umana, con l'emozione più violenta che è appunto la grande paura, tanto per dire una parola che quest'anno circola parecchio. Quell'intreccio di ragione ed emozione violenta, spesso artificialmente prodotta, ha generato un qualche cosa che in grande parte sembra bella, però non è che poi possiamo lamentarci quando invece l'intreccio di ragione e emozione genera altro.

Zygmunt Bauman più che di post-modernità parla di modernità liquida: le paure sono diventate liquide, quindi si attaccano via via a qualcosa e si spostano periodicamente, si concentrano su una cosa, però rimane sempre questo enorme serbatoio di paura diffusa. La paura dello straniero diciamo è un sottofondo perché è sempre diverso quello che fa paura, è sempre quello che sta fuori. A proposito di razionalità, noi sappiamo benissimo che gran parte non solo dei delitti ma diciamo dei malori, avvengono all'interno delle nostre case, ma non siamo sicuri se non piantiamo un paletto che irrazionalmente ci concentra e ci chiude nel luogo più pericoloso per la nostra vita. La paura quindi è liquida e si attacca; in effetti abbiamo visto che la paura della crisi economica ha per un certo periodo persino attenuato la paura dello straniero, così è accaduto nelle cronache italiane degli ultimi mesi, ma basta un evento o che un addensatore di paure si sposti e questa specie di reazione ondivaga attacca, che poi è l'aspetto ondivago c'è in ognuno di noi. Una delle frasi più famose di Altan che a me piace molto è quella "Poteva andar peggio o no"; io per anni ho vissuto in una redazione dove questa vignetta era attaccata al muro, ogni giorno veniva corretta, cioè passava uno e scriveva si, poi un altro scriveva no e ci stava una lunga discussione su chi fosse più pessimista quindi potrebbe andare ancora peggio e non si è ancora toccato il fondo...

Francesco Tullio Altan

Si può sempre scavare, come diceva quell'altra storiella, sul fondo...

Marino Sinibaldi

Questo è il paradosso dell'ottimismo e pessimismo, se l'ottimista pensa che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili e il pessimista pensa che sia vero.

Francesco Tullio Altan

Io sono un po' lì come posizione, d'altra parte io faccio questo mestiere perché un filo di ottimismo ce l'ho ancora, perché sennò sarebbe veramente impossibile. Ogni tanto però è difficile farselo riemergere questo ottimismo, mi sembra difficilissimo riportare delle regole generali per qualsiasi tipo di cosa insomma e non so se possa servire, perché in realtà quello che forse si dovrebbe capire è a chi serve questo tipo di spostamenti delle paure, se sono cose contingenti o semplicemente un movimento sismico della società, del mondo che lavora così. In quel senso lì allora è meglio non essere né ottimisti né pessimisti, quel che viene viene e buonasera...

Marino Sinibaldi

Il nichilismo che teme Vinicio...

Vinicio Albanesi

E' una persecuzione ma ancora va avanti. Nella ricerca personalizzata si è giunti al nichilismo che porta alla consumazione di ogni esperienza culturale, politica, religiosa, con disincanto della spiegazione strutturata e delle relative leggi. Non esiste più una legge che riesca a spiegare razionalmente niente. Perché? Perché si consuma in termini personali e nella consumazione in termini personali, ogni volta rielabori, quindi se sei felice guardi il cielo con speranza, se sei depresso guardi l'apocalisse. Ogni volta sei soggetto a questa mobilità non solo emozionale, ma anche razionale, e questo è ancora più grave, per cui i tuoi riferimenti scompaiono, non esistono. Vogliamo fare un elenco? Non esiste Dio, non esiste la patria, non esiste la legge, non esiste sesso, non esiste famiglia, non esiste comunità, non esiste nulla, perché? Perché tutta questa roba viene rielaborata di volta in volta. Allora se ti prendi il cancro riscopri la Madonna di Loreto, voi ci ridete ma c'è da piangere, se vinci un concorso dici che lo Stato è eccezionale, se ti nascono due gemelli che hai aspettato per dieci anni la natura diventa meravigliosa... La domanda è: di fronte a questo scenario noi giornalisti, scrittori, artisti, che cosa narriamo, il momento che fugge, l'emozione del momento, le grandi sintesi storiche, le grandi avventure future, che cosa vogliamo narrare?

Marino Sinibaldi

Io ridevo perché questa domanda l'avevo letta quattro o cinque volte e non l'avevo capita, adesso però ho capito.

Vinicio Albanesi

Il parroco di campagna ha le scarpe grosse ma non è scemo...

Marino Sinibaldi

Al contrario infatti è molto meglio la spiegazione che la domanda. Le cose più preziose per il mio lavoro me le ha insegnate la letteratura. La risposta a questa domanda la danno a mio parere Stendhal e Tolstoj, però non voglio fare l'intellettuale. E' interessante quello che diceva ieri Diamanti sul fatto che l'Italia è il paese in cui i delitti hanno una continua narrazione. Ciò che emerge da quell'inchiesta sulle paure, non è solo l'aspetto più desolante e preoccupante che ci dice che ad esempio nel Tg ci sta il 20% di notizie di cronaca, mentre in Germania solo l'1% e non perché ci siano più o meno delitti; risulta anche, infatti, che in Italia si impianta una vera e propria narrazione. La specificità italiana nel mondo non è solo il numero enorme di notizie, quindi l'attenzione esasperata che diamo alla cronaca nera, di sangue, ma anche la narrazione che ci costruiamo sopra, cioè il fatto che durano anni, ci si costruiscono sopra le casette, i plastici… Stendhal è venuto in Italia e ha scritto una raccolta di cronache italiane, una sorta di racconti che nascono tutti dal suo stupore per la spettacolarità che assumono in Italia certi eventi; ha raccontato tutte storie di intrighi, di delitti, di complotti, di tradimenti. Non è che queste storie non esistessero negli altri paesi, però qui c'è una narrazione che le sostiene e infatti noi abbiamo avuto il melodramma e altri paesi il romanzo sociale, cioè qualcosa che raccontava perfino la lotta di classe. Queste sono le differenze, poi forse è anche vero che nel Medioevo e nel Rinascimento abbiamo avuto più delitti che negli altri paesi, come diceva Orson Welles in quel film, per cui l'Italia ha avuto in duecento anni delitti, tradimenti, i Borgia, Michelangelo, Raffaello, la Cappella Sistina, la Svizzera invece ha avuto trecento anni di pace e ha prodotto l'orologio a cucù… Questa storia, questa tradizione, non sappiamo quanto sia un prodotto della realtà o della nostra capacità di narrarla.

Francesco Tullio Altan

Se non c'è Borgia e Michelangelo dobbiamo contentarci di qualcos'altro…

Francamente non saprei cosa aggiungere, non sono abituato a riflettere troppo, lavoro con un altro sistema che è appunto di ricevere e poi reagire quando una certa misura è colma. Mi mette molto in imbarazzo sempre dover sistemare, mettere in ordine, organizzare. Io lavoro sperando sempre che la collana di tutte queste faccende abbia un senso sia rispetto a un discorso generale, sia rispetto alla mia testimonianza, ma che si va accumulando pezzettino per pezzettino, non c'è un disegno preciso.

Marino Sinibaldi

E' l'arte...

Vinicio Albanesi

E' arte, l'espressione più bella della frantumazione, il fatto che reagisci in termini immediati; però quello che si nota della tua grafica, dalla tua arte, non è una semplice reazione, è una raffinatezza di reazione che lascia intendere altre sintesi, anche nell'ovvietà di cui tu parli.

Francesco Tullio Altan

Avviene per accumulazioni, se per esempio devi affrontare lo stesso problema sei volte all'anno per quindici anni, questo ti provoca l'esigenza di cambiare un pochino i punti di vista, di trovare le parole più adatte; diventa un meccanismo di produzione quasi inconscio, e lì, ripeto, c'è poco raziocinio, c'è molto mestiere, mestiere nel senso di saper riconoscere certe cose rapidamente, muoversi con questi elementi, sempre con la speranza di mantenere un filo di coerenza per i posteri...

Vinicio Albanesi

Il filo di coerenza di Cipputi però si nota, lì dietro c'è un'idea, c'è una sintesi, al di là di come lui reagisce alle varie situazioni.

Francesco Tullio Altan

La sintesi può darsi che ci sia nel senso che qualcuno la riconosce, però non è un prodotto mio...

Vinicio Albanesi

Quarta domanda e cambiamo quadro: la cosiddetta globalizzazione porta ad una conflittualità tra la sensazione di appartenere ad un proprio mondo con invece una prospettiva universale , per cui noi, per capirci, saremmo cittadini contemporaneamente di un piccolo territorio e del mondo, oscilliamo da una parte oltre i confini del nostro vivere e dall'altra invece cerchiamo riferimenti nella nostra lingua, addirittura nel nostro dialetto. Noi oscilliamo contemporaneamente tra questa identità universale, per cui i nostri piccoli artigiani vanno in India e in Cina a vendere le scarpe, poi vivono nel piccolo villaggio. Quando racconti, cosa racconti e come lo racconti, tra queste sensazioni personalizzate e provinciali e le tensioni mondiali, oppure condizionato dalla propria storia locale e in alcuni momenti invece allargato alla dimensione universale? Perché da una parte si fanno i calcoli sulla propria piccola economia che ha i confini molto stretti, poi in contemporanea si dice che l'economia dipende da grandi disegni che non gestiamo. Tutto questo nella narrazione dei giornalisti come incide?

Marino Sinibaldi

Questa cosa però è seria, è un po' il problema, ma non di chi racconta. Io mi chiedo sempre un po' il punto di vista di chi ascolta. Secondo me c'è qualcosa di peggiore della paura e della sopravvalutazione del nuovo, cioè peggio ancora: la paura del nuovo è qualcosa che abbiamo catalogato con il termine misoneismo, una bellissima parola, perché fin da ragazzo mi è sembrata ciò contro cui ognuno doveva combattere anche dentro di sé... Sapete la polemica tra Brecht e

Lukács, io la penso come Brecht per cui non bisogna allacciarsi al buon vecchio, ma al cattivo nuovo che è la sfida vera. Dico questo perché invece in altri casi mi sembra che insomma, non dico che esageriamo però… Da tempo ho in mente una citazione che mi porto dietro mentalmente come un amuleto, che dice che di dieci errori che facciamo nove consistono nel considerare ancora vere cose che non lo sono più, ma il decimo, che spesso è decisivo, è considerare non più vera una cosa che lo è ancora. Ora ovviamente è impossibile distinguere quale sennò sarebbero capaci tutti, però ogni volta bisogna attraversare questa sfida. C'è un'altra frase a tal proposito, tra l'altro una delle più belle di Altan: "Edizione straordinaria, il Papa non ha detto niente!".

L'opinione pubblica ha sempre avuto ragione, emozione, anche quando ancora non si chiamava opinione pubblica ed era qualcosa di molto diverso; invece questo è un sentimento davvero nuovo, questa specie di spaesamento prodotto dalla vertigine del piccolo dove viviamo e che ci sembra sempre più piccolo in confronto all'enorme. Così è la situazione attuale, c'è una crisi economica che non capiamo bene perché arriva, sono cose che passano talmente al di sopra di noi, come è evidente. Tutto ciò però non genera la reazione sociale, culturale e anche politica che in altre epoche avrebbero prodotto le crisi; la crisi economica attuale sta producendo smarrimento, spaesamento, uno shock senza però reazioni, siamo tutti scioccati ma non abbiamo la capacità di reagire. Credo che una delle ragioni sia proprio il fatto che si tratta di un qualcosa che è fuori dalla portata delle nostre azioni, concretamente non possiamo far nulla, nemmeno e soprattutto usando le forme più tradizionali della mobilitazione politica, perché questa crisi economica non si capisce da chi dipende, non riusciamo ad individuare il colpevole; ovviamente poi qualcosa si potrebbe fare…

Noto poi che riguardo alle varie questioni parlano sempre più delle voci medie, per medie intendo quindi mediocri, voci che non arrivano mai dall'esperienza concreta né da una competenza reale; sto pensando alla gran parte delle figure che vengono continuamente coinvolte nei talk show, nei dibattiti a volte anche giornalistici, non solo televisivi. E qui devo dire che proprio recentemente la stessa televisione ci ha mostrato come invece un'altra narrazione, un altro giornalismo, perfino un'altra televisione è possibile. Avete già capito che faccio riferimento a "Vieni via con me" con Fazio e Saviano. E invece parlano sempre voci medie che non hanno né esperienze reali né competenze teoriche quando invece nella società le esperienze, le competenze esistono. Ogni volta che vedo l'annuario di Redattore Sociale mi colpisce la quantità delle competenze sia teoriche che concrete che ci stanno. Il capitolo della droga quest'anno mi sembra bellissimo, perché dice delle cose molto interessanti compreso la diffusione della droga tra gli ultra sessantacinquenni, una cosa meravigliosa, narrativamente parlando ovviamente. Bisogna far parlare le esperienze e le competenze, bisogna far parlare le persone che conoscono il territorio insieme alle esperienze teoriche e queste ci stanno come anche i ricercatori, non sappiamo se ce ne saranno in futuro... Sul muro alla radio dove lavoro ho attaccato la vignetta di Altan che dice: "Investiamo nella ricerca, con un po' di culo qualcosa si trova".

Francesco Tullio Altan

Ce l'hanno richiesta anche al CNR...

Marino Sinibaldi

A me questa vignetta piace molto, questa è la mia religione, voglio dire che uno ci prova, dopo si ha bisogno, come direbbe Vinicio, della provvidenza, Altan dice del culo... questa è un po' la differenza tra loro...

Francesco Tullio Altan

A proposito di competenze: le persone competenti, che hanno l'esperienza, parlano pochissimo e non vanno in televisione, probabilmente perché non litigherebbero come si vuole , quindi fanno poco spettacolo. E dunque o fai dei bei programmi dove le competenze parlano anche per quattro ore, per avere tutto il tempo di spiegare , oppure bisogna litigare, non c'è una via di mezzo, a parte forse la trasmissione di Saviano, dove c'è una competenza che si unisce ad una grande capacità di esprimere.

Marino Sinibaldi

Saviano fa due cose, narra e connette, ed è questo che dà fastidio; per esempio connette il nord al sud e avete visto come hanno reagito. Il problema dell'informazione è proprio il raccontare a frammenti, non c'è continuità nel racconto ad esempio dell'immigrazione, della violenza sulle donne, dell'immondizia… Non è vero come si dice a volte che neanche più sull'immigrazione c'è informazione, a volte ce n'è pure troppa. C'è invece una specie di disturbo bipolare dell'informazione, come quella personalità che oscilla tra euforia e depressione, per cui a volte c'è una rimozione lunghissima poi improvvisamente come una sorta di sovra illuminazione di un fatto che può essere l'immigrazione, l'immondizia di Napoli, la violenza sulle donne, quattro o cinque giorni di illuminazione violenta e ampia, con molti giornalisti, articoli, interventi e spiegazioni; poi dopo la luce si spegne e il set, come se fosse una troupe satellitare, si monta da un'altra parte, dove c'è un'altra emergenza e di quello che continua ad accadere dove eravamo prima non ne sappiamo più nulla. Questo provoca il fatto che siamo disconnessi, cioè sappiamo molto, più che in ogni altra epoca dell'umanità, però sono tutte informazioni disconnesse. Quello che fa Saviano è connettere i fatti. Attraverso il libro Gomorra non ha solo raccontato la camorra napoletana, la sua grandezza o la sua importanza sul piano teorico non è solo il potente effetto narrativo, Saviano ha connesso, ha allargato gli scenari. Io penso che ciò abbia un effetto conoscitivo formidabile e ne ha anche uno politico, ma non ne parliamo qui.

Giustamente Altan prima ha fatto riferimento al tempo: ne parlammo quando venne qui ad una edizione del seminario, Marianella Sclavi che ci parlò dell'arte dell'ascolto, la principale delle caratteristiche a cui abbiamo ceduto tutti nella nostra professione . Per raccontare occorre tempo, se le cose sono un po' complesse ne occorre un po' di più, venti minuti sono i tempi del monologo di Saviano, sono un tempo enorme cui non siamo più abituati. Vedere ciò stordisce o consola, perché ha un tempo infinito, non smette più. Non è vero che nella comunicazione normale parliamo un tempo infinito. I monologhi di Saviano, ed è meraviglioso questo, vanno contro ogni legge della televisione, dell'informazione, e andando contro ha battuto ogni record di quello stesso mondo, cioè del terreno nemico dove si collocano. Se c'è una tecnica o comunque qualcosa da imparare, secondo me è proprio questo: il narrare e connettere genera un salto emotivo e conoscitivo improvviso, al quale non eravamo più abituati. Dobbiamo riconoscere che Saviano ha una superiorità narrativa e comunicativa che genera il suo del tutto imprevisto e indigeribile successo, perché non lo stanno digerendo e questo per ragioni politiche come è evidente, ma anche proprio per ragioni profonde, per così dire tecniche. Non è da poco che quella televisione che non si pensava che si potesse fare, invece abbia avuto successo. Saviano è riuscito ad aprire il varco a un'editoria che prima non esisteva, quella delle grandi inchieste, ci sono intere case editrici come "Chiarelettere" che sono nate proprio su questa scia. In televisione dubito che ce la faccia ad aprire il varco ad altri modelli di narrazione, però a tutti noi ha dimostrato che è possibile farlo.

Vinicio Albanesi

A proposito della tesi che vi volevo esporre rispetto al nuovo, all'apocalisse, è semplice, io l'ho tratta da questo piccolo libro dal titolo "Il respiro della benedizione" di Elmar Salmann, un frate tedesco che applica questo ragionamento alla Chiesa e alla religione;per analogia poi lo applichiamo al tema che abbiamo affrontato. Salmann dice: "Non abbiamo trovato una forma di religione per una società opulenta, fino al 1960 la religione ha vissuto in una società segnata dalla necessità".- Conclude questo capitoletto dicendo: "La Chiesa non è più il tutto della vita e della società, non siamo più la zuppa della vita, la minestra, ma siamo di nuovo condannati a essere sale della terra, che Dio conceda che non sia insipido". Fuori dalla metafora e fuori dalla religione, la mia tesi è che in realtà non è il nuovo che ci fa paura, sono i nostri strumenti inadeguati di affrontare il nuovo che creano paura. Non avendo gli strumenti, le liturgie, i linguaggi e nemmeno gli strumenti per capire, questo nuovo diventa un grande buco nero. Salmann sostiene che il nuovo è sempre esistito di generazione in generazione, il problema è attrezzarsi perché possa essere prima capito, poi affrontato e quindi in qualche modo ci si confronta. Un esempio che fa Salmann è su come si fa oggi a proporre ad un ragazzo la processione della Madonna trattandosi di una cosa inventata nel 1700, come pretendere che nel 2000, nel Terzo Millennio, si riproponga esattamente lo stesso strumento. Pensate lo stravolgimento per il mondo cattolico fatto di dogmi, di roba molto fissa, questo non solo è sconvolgente, ma ti dà una prospettiva molto diversa, ci dice che narriamo un Dio inesistente per chi oggi ti ascolta, ci serviamo di strumenti, di parole, di linguaggi, che ieri funzionavano, ma che oggi non funzionano più. Finita l'analogia, i problemi che affrontiamo sono di una novità assoluta e allora bisogna che ci attrezziamo, invece di averne paura, per capirli, comprenderli, apprenderne i linguaggi e rispondere. Questo è il superamento dell'apocalisse, altrimenti cadiamo nelle forme pentecostali della fine del mondo che i testimoni di Geova di generazione in generazione rinnovano. Io finisco qui, loro sono a vostra disposizione per le vostre domande, approfittatene.

Daniela De Robert (Tg 2)

Una domanda per uno: una ad Altan perché le sue vignette a volte sono dei veri editoriali. Uno le guarda, le legge, ci ride, ci pensa e raccontano e narrano più di quanto non facciano articoli più complessi, è anche un modo di ridere della paura, se vogliamo stare al tema. A me interessava capire: arrivano su ordinazione? Come nasce l'idea di scegliere un tema o un altro? Come si arriva alla sintesi di una storia, che poi è un mix complessissimo di irrazionalità e di razionalità, cioè di emozione e di ragione che è veramente un ridere su una realtà a volte drammatica? Vedi la vignetta "Poteva andare peggio o no".

 

La domanda per Marino: hai parlato della trasmissione di Saviano che si basa solo sulla parola e sulla narrazione… Credo sia stata una grande scommessa, non aver bisogno di contorni, di balletti o di lustrini, è la parola che vince. Tu hai fatto una cosa analoga con Fahrenheit alla radio, tre ore a parlare di libri, non per parlare di libri, bensì del mondo; anche quella è una scommessa in qualche modo vinta. Sono modelli replicabili? Perché poi Fahrenheit è rimasto uno, Saviano tu dici non sai se si potrà riprodurre... C'è la speranza di fare un'informazione televisiva, radiofonica, e anche su web diversa, insomma un modo diverso di raccontare la realtà?

Francesco Tullio Altan

Il mio modo di fare vignette è una storia lunga, non è una ricetta di adesso, è una cosa che viene da quando disegnando per conto mio, per gli amici, tentavoo di ripetere o di provare a fare quello che facevano gli autori che io leggevo, che mi piacevano, è stato quello che mi ha spinto a dire provo anch'io. Le prime vignette erano un po' più come dire narrative, c'era un'ambientazione spesso per caratteristiche di abbigliamento, pian piano tutto si è un po' stilizzato, si è ridotto al supporto per la battuta. Io scelgo chi dice una certa cosa, la dice quella donna, la dice Cipputi, la dice il padre o il figlio, c'è oramai proprio un catalogo di mascherine. Per il resto il mio mestiere è quello di stare attento, anche questa è una cosa che mi capita di ripetere spesso, sto attento a quello che leggo, a quello che sento alla radio, a quello che vedo in televisione, a quello che sento per la strada… Io sono cresciuto dagli otto ai diciotto anni a Bologna dove si andava il cinema non per vedere il film, ma per sentire le battute che la gente diceva ed erano straordinarie; ho passato sei anni in Brasile, a Rio dove ci sono dei battutari non professionisti, ma anche lì straordinari, con una capacità che ha quella lingua, estremamente flessibile, di sintetizzare in tre parole, senza articoli, senza troppe complicazioni dal punto di vista della grammatica. Poi in quasi quarant'anni di mestiere uno mette a punto dei meccanismi che non sa neanche come ha fatto, ma ci sono e li adopera.

Ho sempre avuto la fortuna di lavorare per un settimanale ed anche con La Repubblica non ho un giorno fisso per pubblicare, non ho un numero fisso di vignette , l'accordo è sempre stato: manda quando ti viene in mente, perché è difficile fare vignette per la prima pagina, ci vuole uno stimolo di quello che è successo il giorno prima o qualcosa che si è accumulato durante la settimana così forte che valga la pena di metterla lì. Io non sono capace di fare la cosa giornaliera, mi era stata proposta tanti anni fa, ma non ho accettato. Ellekappa invece è bravissima, la più brava di tutti sull'immediato. Ognuno all'interno di questo mestiere fa delle cose un po' diverse insomma, di solito l'etichetta della satira è un po' così ossia che ingloba tutto ma non è vero, ognuno ha un settore, una parte, un linguaggio diverso...

Marino Sinibaldi

Sono contento che si parli di Saviano, tutti ne parlano male però il programma è andato bene. Secondo me hanno fatto una cosa straordinaria che dovremmo dissezionare, imparare, dovremmo anche difenderla per far sì che si replichi. La cosa che ha fatto notare Daniela è che non c'erano immagini, solo qualche foto dietro, avete visto no? E' una cosa incredibile che si faccia televisione senza immagini, oggi che esistono delle cose notiziabili e altre no, oggi che le notizie devono essere addirittura titolabili, ossia deve non solo essere sintetica, ma contenere già in sé la notizia, l'articolo, la sintesi che permette di estrarne il famoso titolo, non so 30-25 battute, e lo stesso in televisione. Insomma non si era mai pensato ad una televisione senza grandi immagini, una scenografia. Devo dire che già ci sono altri esempi in tal senso, di talk show di terza generazione, come quelli di Fazio o la Bignardi, oppure un po' la Dandini. Il successo di Saviano spiega che questo si può fare però da questo punto di vista ahimé non credo sia replicabile televisivamente, perché in Italia lo può fare solo Saviano che ha la capacità e soprattutto la credibilità, l'autenticità è una parola troppo impegnativa anche se sulla sua autenticità ci giurerei conoscendolo da tanti anni. Saviano ha una fortissima credibilità e tra l'altro questo è molto importante perché contraddice un'idea appunto relativista e nichilista della maschera in cui tutti interpretiamo delle parti. Le ragioni per cui Saviano è credibile andrebbero studiate, come è noto sono state messe in discussione, c'è proprio chi andando ad analizzare Gomorra ha detto che è impossibile che abbia visto certe cose, invece lui c'ha messo il corpo e naturalmente la persecuzione ha moltiplicato, anzi ha assolutizzato la sua credibilità; in più è anche un martire potenziale, per fortuna, e la credibilità quindi è massima.

Rai Radio Tre è un po' così, non adesso perché la dirige chi faceva Fahrenheit, da sempre è un posto dove si parla un sacco, come sapete, come dicono sempre quelli che invece vorrebbero ascoltare la musica. La radio ha solo la parola, a me non sembra una cosa così enorme fare programmi come Fahrenheit, a me sembra il modo normale di fare la radio. Se la televisione prende queste forme, cosa che vivo ovviamente come concorrenza, la radio che ci sta a fare? La radio è sempre stato il luogo dove c'è solo la parola per distese di tempo più lunghe, almeno nel nostro caso…. Io spero che ci siano molti altri esempi come Saviano, un po' già ce ne sono, vedi i servizi di Report e di Santoro, ovviamente più brevi però sempre forme di narrazione diverse. L'aspetto molto singolare è che il successo di questo tipo di televisione avviene in un momento in cui invece tutto il resto, soprattutto dal punto di vista politico, non va così.

Intervento

Avete cercato un po' di sfuggire alle domande: secondo me, molto umilmente, sotto il vostro lavoro così diverso, un'idea di uomo, un'idea di società, c'è, non è vero che non c'è...

Francesco Tullio Altan

C'è, ma io non so qual è, mi divertono tantissime cose e mi fanno arrabbiare tante altre, non saprei scegliere…

Marino Sinibaldi

Un'idea di uomo c'è, è l'uomo che ascolta, può sembrare banale ma non è così perché non basta accendere la radio per dire che si ascolta; già mi sembra tantissimo sapere di indirizzarsi a qualcuno che ha voglia di ascoltare, ha voglia di far uscir fuori le cose che sa, di saperne un po' di più insomma...

Intervento

Probabilmente avete già introdotto quello che volevo chiedere: quando fate il vostro lavoro avete in mente un destinatario? Per esempio a me accade di pensare a mio nonno quando scrivo i miei pezzi, volevo sapere se anche voi avete un destinatario ideale o personale a cui far riferimento. E poi un'idea per Don Vinicio: magari la processione della Madonna potrebbe diventare un gruppo della Madonna su Facebook, forse questo permetterebbe di attualizzare un po' il linguaggio...

Francesco Tullio Altan

Adesso io so chi è il destinatario perché con il tempo si è fatto vivo, mi ha detto delle cose , lo ho incontrato insomma, ma all'inizio no, era un lavoro abbastanza solitario. Conoscete la vignetta sull'innovazione tecnologica? Il padrone dice nella prima vignetta: "Mi faccia la creazione del mondo" e Dio risponde: "Oggi?".

Marino Sinibaldi

Io più che pensare al destinatario cerco di capire l'attenzione che uno ti può dedicare . Avendo questo modello di molte parole, discorsi lunghi e apparentemente tutti intensi, la vera domanda è: ma quanta attenzione richiedi, quanto ne sa già chi ti ascolta? Questo è un problema serissimo quando parli. Adesso nel caso del lavoro radiofonico è tutto cambiato da quando esistono le mail e soprattutto gli sms, in realtà qualcosa di micidiale, perché prima invece si parlava in una specie di vuoto pneumatico. David Grossman che da giovane ha lavorato molto alla radio, mi ha raccontato che nei suoi corsi ripete spesso di pensare sempre quando si parla perché c'è uno che ascolta.

Questa è la differenza tra la scuola di Grossman e la nostra che invece ci dice di pensare di parlare concentrati su sé stessi e su quello che si deve dire. Adesso invece con le mail e gli sms è tutto diverso. Molti di voi hanno esperienza in piccole radio ma non è che la grande radio sia così diversa, si lavora in condizione di assoluto isolamento e solitudine, hai sempre l'impressione che stai parlando da solo, cosa che all'inizio per me era molto rassicurante, lavoravo la domenica, pensavo che i miei ascoltatori vedessero la partita quindi abbassassero il volume per non essere disturbati… Invece adesso gli sms, le mail ti dicono che c'è qualcuno di là, soprattutto gli sms sono terribili, anche perché sapete che esprimono soprattutto l'umore, nemmeno l'emozione, uno scrive al volo perché non ne può fare a meno in 160 caratteri, ed esprime perlopiù un sentimento violento, in qualche caso anche di ammirazione, però solo in qualche caso…

Intervento

Una domanda a Marino. Tu dici che Saviano può mettere in difficoltà la radio, perché è tutto parole mentre la mia domanda è dettata dal fatto che penso il contrario. Saviano è l'immagine ed è talmente forte che se la togli le parole non le ascolta più nessuno. E' un fenomeno interessantissimo, perché ha a che vedere ahimé, con una tendenza politica molto precisa, molto inquietante, spaventosa, per cui il carisma, la presenza scenica, quasi quasi ti fa passare sopra alle immagini. Nella prima puntata per esempio vi ricordate, Saviano faceva il discorso su Falcone ma a noi spettatori stava a cuore solo Saviano, Falcone era diventata una specie di controfigura, strano no?

Francesco Tullio Altan

E' questa la maniera che ha trovato lui di navigare nella valle di lacrime, questa è la sua forza e la sua tenerezza.

Marino Sinibaldi

Per me Saviano è insieme a Elsa Morante il più grande scrittore del '900, non solo perché è bravissimo ovviamente, ma perché è uno che è riuscito a parlare un linguaggio che oggi è difficilissimo . Saviano parla anche il linguaggio dei consumi di massa, che è una cosa incompatibile con la grande letteratura e soprattutto con quella critica. Tutto ciò sembrava incompatibile poi è vero anche che è molto bravo a lavorare sulle paure, è uno scrittore che ha preso proprio le paure del nostro tempo... Non a caso "Mattatoio n. 5" di Kurt Vonnegut è uno dei libri più terribili per il senso di paura, scritto come testimonianza della guerra e ambientato durante uno dei più grandi bombardamenti di tutti i tempi, quello di Dresda. Per me è difficile riassumere perché Vonnegut è un grandissimo scrittore ma se dovessi dire una delle ragioni è perché ha parlato una lingua che non si pensava fosse compatibile con la letteratura, la lingua della cronaca politica. Vonnegut ha scritto anche un grande romanzo sul Watergate, un altro sul libero arbitrio "Cronosisma", lo dovreste leggere, anche se non è il suo migliore: è la storia di una paralisi del tempo per cui praticamente tutti rifanno le stesse cose, smettono di pensarci, c'è un blocco del corso del tempo e quindi della libertà personale. Si tratta di un romanzo teologico bellissimo, soprattutto all'inizio, per cui nessuno ha più responsabilità, e siccome la storia si ripete, tutti fanno la stessa cosa, ovviamente a un certo punto c'è un cronosisma, cioè si rompe questa continuità: il suo genio comico fa sì che uno che guida il camion e non ci pensa, perché tanto non c'è il libero arbitrio, in curva sbanda e ammazza dei passanti poveracci e da quel momento si capisce che c'è la libertà.

Per quanto riguarda Saviano, sì, hai ragione per la prima parte, sono d'accordo è vero, è un uomo che ha una fortissima immagine, che è la sua persona appunto, però non sono d'accordo sul timore del carisma . Ce l'hanno in pochi, però per una volta che ce l'ha qualcuno che ci piace... ma insomma... Dio santo! Capisci, no? Voglio dire che anche io ho la tua stessa diffidenza per il fatto che la storia non la fanno i movimenti, a me piace quando la fanno le masse, va bene, d'accordo; penso però che sia necessario che qualche carisma ci sia, che insomma qualche persona si assuma il compito di strapparci alla nostra indifferenza, assuefazione…

Sapete già che dei 10 milioni di telespettatori di quel programma di Saviano, quasi 2 milioni vengono direttamente dal Grande fratello ed è quasi impossibile credere che uno in pochi minuti si sposta tra due spettacoli così diversi; non mi chiedete una spiegazione, ci sono dei misteri, la trinità del Grande fratello, non lo so spiegare... però credo che in quella cosa ci sia anche, usando le formule giornalistiche, un disperato bisogno di comunità se non un disperato bisogno di politica. A me non sembra nemmeno disperato, mi sembra resistente, stimolante, una sfida, però c'è. A me non sembra così degradante insomma che si esprima anche attraverso il telecomando, se con il telecomando si è espresso anche tutto il male. Io uso queste formule molto cristiane, come dire, lo spirito soffia dove vuole, pure dentro al telecomando, direbbe Don Vinicio...

* Testo non rivisto dagli autori.