I Redattore Sociale Milano 29-30 settembre 2006

Città crudele

Allora, dov’è la notizia? Spunti dai workshop e dibattito con relatori e conduttori

Conduce Angelo Perrino. Partecipa Dario Di Vico

Angelo PERRINO

Angelo PERRINO

Direttore di Affari Italiani (www.affaritaliani.it), quotidiano on line gratuito da egli fondato nel 1996.

ultimo aggiornamento 17 aprile 2012

Dario DI VICO

Dario DI VICO

Giornalista, vicedirettore de Il Corriere della Sera.

ultimo aggiornamento 29 settembre 2006

Angelo Perrino

Cercheremo di capire insieme perché si determina questa rottura di comunicazione, se e in che misura le cause stiano nella distrazione dei giornalisti, nella superficialità, nel distacco della realtà del sociale, della disabilità, o se invece il problema stia dalla parte del comunicatore che forse propone in modo inadeguato al linguaggio dei giornali la notizia, da qui il titolo del nostro dibattito. Io chiamerei di fianco a me Dario Di Vico che è il vicedirettore del Corriere della Sera e che mi darà una mano a gestire questa discussione e poi chiamerei tutti i partecipanti ai workshop. Darei per ogni gruppo 5 o 6 minuti per riassumere gli elementi che sono venuti fuori nel loro lavoro, in modo che chi non ha partecipato a quel workshop ne sia informato; cominciamo con Ivan Berni con il workshop dal titolo: Da Rozzangeles al Gratosoglio: come le periferie cambiano il centro.

Ivan Berni

Il compito di riassumere è sempre improbo e certamente quello che riuscirò a dire è insufficiente rispetto a due ore abbondanti di confronto-incontro che io giudico molto ricco e interessante. Con un titolo simile a quello del nostro workshop, la prima domanda che ci si fa, che mi sono fatto io, che si sono fatti la professoressa Sclavi e Dario Anzani, è stato identificare un centro e una periferia e le differenze su un'idea di centro e di periferia diciamo di qualche anno fa e di quella con cui abbiamo a che fare oggi. A me la prima cosa che è venuta in mente è che una trentina di anni fa questa città è stata il teatro di una specie di assalto al centro da parte di una generazione, quella dei 18-20enni di allora nel movimento dei circoli giovanili che fu un po' l'anticipazione nel '77. Fu un elemento di rottura con la politica dei movimenti giovanili, studenteschi dal 1968 in poi, fu un tentativo di affermazione di un protagonismo diverso e fu davvero l'accerchiamento del centro da parte di circoli e di migliaia di giovani che rompevano coi codici della politica, almeno quelli conosciuti e dicevano di voler affermare i loro bisogni, soprattutto l'accesso ai loro consumi culturali. Qualcuno con un po' di anni alle spalle si ricorderà che sto parlando di un movimento che fece scalpore, fece titolo sui giornali, perché praticava l'autoriduzione nei cinema, non la faccio troppo lunga sull'esito di quella cosa, ma lì la rappresentazione era molto chiara, cioè c'era una generazione che viveva ai margini di una grande città, c'era un obiettivo, la riappropriazione del centro come luogo e come simbolo, c'erano delle pratiche e ci fu anche una deriva che poi negli anni successivi ebbe degli esiti anche pesanti e preoccupanti. 

Oggi quando noi parliamo di centro di cosa parliamo? Se pensiamo alla città fisica, Milano è la città radiale per eccellenza, è la città con un'unica piazza, grande piazza, è una città che in questi ultimi 30 anni ha diminuito la sua popolazione e non di poco, ma contemporaneamente ha molto esteso la sua area d'influenza. Milano è diventata una conurbazione, chiamiamo Milano una regione urbana molto vasta. Una sollecitazione è venuta anche da Marianella Sclavi: sarebbe più sensato ragionare in termini di policentrismo per capire di che cosa parliamo, ma contemporaneamente c'è qualcuno molto periferico rispetto agli abitanti originali, oppure tradizionali di questa città che invece un centro lo identifica e molto bene, perché Piazza del Duomo è diventata la piazza di alcune comunità d'immigrati ad esempio. Questo è un cambiamento visibile e molto preciso di questa città. Non è più rintracciabile quel percorso, quella fenomenologia che ho cercato di descrivere prima, di 30 anni fa, un certo grado di policentrismo Milano l'ha sviluppato, quanto positivamente poi è tutto da discutere. Posso ridere a pensare che quello era un movimento di migliaia di giovani che arrivavano in centro in Corso Vittorio Emanuele per andare a vedere i film gratis e pensare che oggi abbiamo avuto una moltiplicazione di multisale nella grande area periurbana milanese. In qualche modo quindi dobbiamo riaggiornare le categorie. 

Io ho trovato che la parte più forte del nostro workshop oggi pomeriggio l'ha data la testimonianza di Dario Anzani che lavora al Giambellino da una quindicina d'anni e ha un'esperienza da educatore di strada; ci ha raccontato la parabola della sua esperienza, di come, senza che in fondo se ne fosse accorto nessuno, la caratteristica primaria di quel quartiere operaio dove viveva anche la piccola e media borghesia, un mix sociale, un quartiere che aveva saputo esprimere intelligenza elaborazione, capacità di auto organizzazione durante gli anni 70, un quartiere molto vivace, si sia trasformato oggi in un elemento quasi di pericolosità sociale. Quel mix oggi è diventato una miscela quasi esplosiva, quasi ingovernabile. Nel Giambellino i muri invisibili fra un palazzo e un altro, fra lo stato sociale, un lato di via Giambellino e quello di un altro lato dove ci sono le case popolari, sono diventati abissi. Giambellino ha un'esperienza straordinaria da questo punto di vista, oggi si trova a reggere una fenomenologia di deriva sociale, quasi d'invisibilità dell'emarginazione. Le case popolari sono diventate le case delle persone con maggiori problematicità, perché una politica locale ma anche nazionale, ha bloccato lo sviluppo per l'edilizia popolare, ha prodotto questo tipo di cattiva omogeneizzazione sociale. 

Un altro provvedimento che noi, parlo da giornalista, non abbiamo mai letto in questa chiave, è la rottura dei bacini di riferimento nelle iscrizioni alle scuole, che ha prodotto un effetto terrificante in un quartiere come il Giambellino, perché le famiglie di medio basso reddito, anche alto reddito, hanno iniziato a spostare i figli in scuole del centro; quindi le scuole che erano uno straordinario elemento d'integrazione, di costruzione d'identità anche in un quartiere di confronto fra provenienze diverse, sono diventate sempre di più scuole ghetto e questa situazione ha provocato da un lato una forma d'incomunicabilità interna al quartiere, dall'altro un inaridimento dell'auto organizzazione e infine anche lo smarrimento nella capacità di rappresentarsi. Questo racconto che ci ha fatto Dario, la discussione che si è sviluppata poi attorno a questi elementi, riguarda gli operatori dell'informazione e gli operatori sociali.

Parlo un attimo degli operatori dell'informazione. Il punto interrogativo che ci si pone sempre: ma come si può raccontare questa cosa? La mia opinione è che prima di tutto i giornali dovrebbero forse fare un punto e a capo rispetto ai clichè con cui si racconta questa città, le sue contraddizioni, le sue problematiche. Non è detto che il racconto di questo cambiamento debba corrispondere per forza a un racconto della sfiga a puntate e del Giambellino… Ci sono esperienze di persone, storie, vicende che possono essere raccontate senza trasformare quello che si scrive in una forma di denuncia che il giorno dopo si tende a dimenticare. Io per esempio sono convinto che se un po' tutti avessimo fatto il nostro mestiere di raccontare il cambiamento reale di questa città in questi anni, forse anche alcune fenomenologie impazzite, alcuni comitatismi, alcune intolleranze, forse si sarebbero attenuate o avremmo avuto più strumenti per comprenderle prima. Certo il punto interrogativo c'è e rimane, forse chi opera sul territorio in queste condizioni di difficoltà ha bisogno di rimanere meno solo, io penso che un incontro come quello di questi due giorni abbia il suo senso principale proprio in questo. Forse se si facesse un po' più di opera di sensibilizzazione dentro le redazioni, si spiegasse che venire qua, dato che mi sembra di vedere pochi giornalisti, non è venire a perdere del tempo, sarebbe molto utile.

Angelo Perrino

Sentirei adesso Franco Bomprezzi sul workshop: Vivere da disabili a Milano. L'informazione invalida.

Franco Bomprezzi

Ci siamo trovati in una sala nella quale sui 20 partecipanti più o meno, di giornalisti ce n'era uno e credo che questo vada detto, intanto per ringraziare gli altri 19 che sono operatori del sociale, delle associazioni, che hanno tenuto duro e tra l'altro hanno portato dei contributi interessanti, però è mancato, se non nella fase finale proprio con una collega dell'agenzia Redattore Sociale, quel confronto fra punti di vista diversi, perché lì c'era veramente lo snodo fra i linguaggi. Il problema che abbiamo, credo, capito con evidenza, è che il mondo della disabilità di Milano è in rapida trasformazione come tutta la società, ha dei problemi reali da raccontare, ma non sono i problemi che i giornalisti credono che siano. Per cui il giornalista telefona all'associazione e dice: ma voi è vero che siete preoccupati per i falsi invalidi? No, per i falsi invalidi proprio no, perché il problema dei falsi invalidi riguarda il Ministero del Tesoro, non riguarda gli invalidi veri. Vi interessa la questione dei pass dati a tutti per parcheggiare in centro? Ma neanche per idea! Però a questo punto finisce la telefonata, perché la giornalista o il giornalista non trova quello che cercava, le associazioni dicono no, a noi ci interessano altre cose se volete ne parliamo e naturalmente non c'è tempo, fine. Ecco è questo il punto, che è venuto fuori con drammaticità divertente, drammatica ironia se vogliamo, dell'incomunicabilità: perché? Da un lato il mondo della disabilità e delle associazioni, ma credo che si potrebbe trasferire questo fuori dalla disabilità nel sociale in generale, fa fatica ad essere notizia, cioè pur avendone tante non riesce a tradurle. Un esempio per tutti: il problema numero uno per le persone disabili a Milano rispetto alla qualità dell'abitare è la solitudine. Questo è il tema vero, la mancanza di una rete di relazioni. Se vi ricordate, stamattina, io senza sapere di questa indagine, ho concluso con la parola solitudine, perché questo è il tema, è la relazione umana. Secondo me avendo dei dati di questa indagine, qualunque giornale ci si potrebbe buttare dentro, perché è un tema su cui costruire davvero un rapporto col lettore singolo, quello che si sente solo, non con il lettore associato. 

L'altra questione è invece il versante redazioni. La sensazione diffusa è che ci sia davvero poca attenzione e poca competenza, probabilmente perché questo è uno di quei settori del sociale laddove non esiste una figura specifica all'interno delle redazioni, come esiste il cronista di nera, il cronista di giudiziaria, il cronista di sport, o il cronista di moda, ma sicuramente non esiste da nessuna parte un giornalista che si specializza realmente nel sociale, all'interno del sociale, nella disabilità, salvo poi occuparsi dell'eutanasia in maniera cervellotica, cioè inseguendo un fatto del tutto occasionale come la lettere di una persona disabile al Presidente della Repubblica e costruire su questo una polemica che non esiste all'interno del mondo della disabilità. Le persone con disabilità anche in condizioni di gravità vorrebbero solamente vivere meglio, essere messe in condizione di vivere, poi ci sono quelli che individualmente pensano che con la vita sia meglio farla finita ed è un fatto assolutamente legittimo, ma il tema vero non è la contrapposizione tra eutanasia si ed eutanasia no, altro tema che a queste migliaia di persone non interessa. Credo che oggi noi abbiamo un problema di relazione e di scambio. Qualcuno da qualche parte deve partire e metterci diciamo i piedi a mollo, per sporcarsi un po' le mani. Quello che è la normalità della condizione umana, che è la normalità delle famiglie milanesi, quelle storie che noi conosciamo, non emergerà mai se il presupposto è: noi inseguiamo l'eccezionalità.

Giovanni Merlo

Approfittando dell'assenza dei giornalisti in realtà poi il gruppo ha fatto anche un'analisi critica al proprio interno. La difficoltà d'informazione e di comunicazione non riguarda soltanto il mondo della disabilità e un esterno generico, ma il mondo della disabilità al suo interno, la capacità delle associazioni di parlare un linguaggio comprensibile quando si tratta di alcuni temi centrali, con le proprie famiglie, con i propri soci, con le persone con disabilità, d'informare le persone con disabilità delle novità, delle urgenze che sicuramente arriveranno a seguito per esempio di alcuni provvedimenti normativi. C'è difficoltà a rendere notizia anche i fatti positivi che accadono all'interno del mondo della disabilità e questo è un grossissimo problema. Facciamo un esempio rispetto alla scuola, che è un tema abbastanza caldo, la questione dei tagli agli insegnanti di sostegno. Ecco i processi di inclusione scolastica in Italia, con tutti i loro limiti, sono una grandissima buona prassi. In nessun'altra parte del mondo succede quello che succede in Italia ed è un dramma non riuscire a trasformare le storie ordinarie di capacità d'inclusione sociale dei bambini con disabilità nelle nostre scuole in tante buone notizie, perché prima o poi a qualcuno viene in mente che questa cosa sia un lusso, che su questa cosa si possa tagliare i fondi, che forse erano meglio le scuole speciali. Si pensa ad esempio che prima o poi le barriere verranno abbattute, invece la notizia è che le barriere stanno aumentando; in nome per esempio dei provvedimenti per la sicurezza, le possibilità di accesso con le persone con disabilità motoria, ma anche intellettiva, le possibilità offerte dalla città diminuiscono. Le segnalazioni sono tantissime, non riusciamo a tramutarle in un flusso di notizie che possono cambiare, modificare un po' la visione che è molto stereotipata che tutti condividiamo delle persone con disabilità. Bisognerebbe raccontare l'unicità di alcune storie, di alcune situazioni e la generalità, l'ordinarietà dei problemi che le persone con disabilità per prime condividono, però, con il resto della popolazione.

Angelo Perrino

Passiamo al terzo workshop "Facce nuove! Non più… come oltre 20 anni di immigrazione hanno cambiato il volto della città". Matteo Scanni che è il tutor della scuola di giornalismo della Cattolica di Milano lo ha seguito e appunto l'immigrazione è un altro dei grandi temi del disagio.

Matteo Scanni

Nel nostro gruppo di lavoro sono scaturite diverse riflessioni tra cui quella che Milano resta pur sempre un mondo che contiene 1000 altri mondi diversi. Le inchieste di Fabrizio Gatti nascono anche da un'esigenza positiva che è quella di raccontare in positivo il mondo dell'immigrazione. Su questo ci siamo soffermati parecchio perché Fabrizio è portatore di un modello di giornalismo abbastanza particolare, in cui il cronista non solo testa sul campo il percorso, ma cerca veramente d'immedesimarsi nella posizione, nello stato d'animo. Attraverso le sue inchieste abbiamo ripercorso anche alcune delle pagine più significative della storia recente di Milano, attraverso una delle prime inchieste che Fabrizio ha fatto sul Cpt di Milano, che è stato chiuso anche grazie al fatto che lui stesso si sia messo sulla strada e calato nei panni dell'immigrato senza permesso di soggiorno, con un decreto di espulsione e con questo si sia fatto rinchiudere ed abbia potuto raccontare, documentare, anche sul filo della legalità, anzi andando addirittura contro la legge, beccandosi denunce ed essendo anche processato per questo. Resta comunque la necessità di raccontare storie come un'ultima ancora di salvezza di un certo tipo di giornalismo, non è inutile cercare di personalizzare certi tipi di notizie, soprattutto le notizie che riguardano fenomeni apparentemente marginali. Le redazioni dei giornali, soprattutto quelle dei quotidiani, non hanno, credo, perso capacità di osservazione, ce l'hanno tuttora, probabilmente molto spesso è mancanza di volontà; certi giornali raccontano notizie in fondo che interessano i lettori della cerchia interna delle mura, non si spingono facilmente e volentieri all'esterno, verso le periferie e quando lo fanno, molto spesso come si diceva, lo fanno cadendo dentro luoghi comuni. Probabilmente dicevamo, si scriverà bene di immigrati con cognizione di causa il giorno in cui tutti gli immigrati sapranno leggere e avranno anche partecipazione sui giornali, ma soprattutto a tutti gli immigrati sarà riconosciuto pienamente il diritto di voto, questo sarà un momento di svolta. Abbiamo visto come da molti punti di vista, come per i fenomeni dell'integrazione, dell'immigrazione, siamo ancora davvero molto indietro. In fondo anche dire "periferia" non significa nulla, perché molto spesso dalle periferie partono dei modelli, dei ragionamenti che tornano utili per il cuore della città, per la parte centrale della città, si tratta di raccoglierli, sistematizzarli e farli propri. 

Abbiamo anche visto che ci sono delle date storiche che segnano la storia di Milano e il '92 è stata una data particolarmente significativa perché si è passati da una criminalità di tipo italiano presente sulle piazze, attiva nei reati più minuti e in quelli più grossi, a un cambio della guardia che ha visto diventare protagonisti gli extracomunitari, che si sono trovati lì insomma, sono gli ultimi arrivati e sono stati anche utili per una certa politica come capro espiatorio sul quale scaricare volentieri un certo tipo di reati.

Angelo Perrino

Fabrizio, tu hai rilanciato il giornalismo d'inchiesta; diceva stamane don Gino che le persone che fanno delle cose come quelle che fa lui, sono delle persone da considerare normali. Io credo che anche il giornalismo d'inchiesta e il giornalista che fa l'inchiesta dovrebbe essere una persona normale, eppure di Fabrizio Gatti si parla appunto come un qualcosa di straordinario. Tu che feeling hai rispetto a quello che è accaduto intorno a te dopo queste tue meravigliose e sconcertanti inchieste?

Fabrizio Gatti

Grazie per la presentazione, ma non ritengo di fare un lavoro straordinario, faccio il lavoro del giornalista e non mi considero nemmeno un giornalista d'inchiesta, perché il giornalista già in sé, nei suoi compiti ha quello di andare, vedere, verificare e raccontare. Laddove c'è una chiusura o c'è una censura preventiva, perché abbiamo detto prima che la censura non è solo quella che blocca la pubblicazione di una notizia, ma è quella che impedisce al giornalista di andare ad accertare con la notizia, il compito del giornalista per verificare è quello di aggirare l'ostacolo e comunque andare a vedere, senza compiere gesti di eroismo o rischiare oltre il dovuto; in realtà il compito essenziale del giornalista è poi tornare intero per raccontare certe cose, per cui toglierei dal mio lavoro quell'aspetto di straordinarietà, forse perché se ne fa poco così allora sembra straordinario. Certamente il fatto di condividere alcune esperienze che quotidianamente sono vissute nel silenzio da migliaia di persone, ha portato in qualche modo le notizie di cui mi occupavo, dalle ultime pagine di cronaca alle prime pagine dei giornali. Questo forse è ancora il prezzo da pagare perché come dicevamo i mezzi d'informazione sono molto auto referenziali con il pubblico, cioè il giornalista cerca e pubblica le notizie che ritiene siano d'interesse per i suoi lettori, altrimenti non svolgerebbe il suo compito. Il fatto che sia io a raccontare il viaggio nel deserto, o Lampedusa, o via Corelli, o gli schiavi in provincia di Foggia, in qualche modo è un po' il limite della mancata integrazione, perché probabilmente se lo facesse un immigrato africano, o rumeno o non verrebbe creduto o sarebbe rintracciato ed espulso come spesso succede, oppure non avrebbe neppure l'accesso ai mezzi d'informazione. Se questo è il prezzo da pagare ben venga. C'è un bravissimo giornalista sud africano che ha contribuito a denunciare gli orrori dell'apartheid andando a viverli di persona, non era un giornalista nero, era un giornalista bianco, ma proprio per questo aveva l'accesso all'immigrazione e tra di noi anche oggi non credo ci siano immigrati stranieri, forse ce ne sono alcuni di altre regioni d'Italia.

Angelo Perrino

Nelle redazioni c'è la voglia di scoprire, di fare inchieste? Nelle redazioni c'è questo desiderio o prevale, come stamattina è stato detto, un approccio più superficiale?

Fabrizio Gatti

Dalla mia esperienza personale, avendo lavorato 3 anni a Il Giornale quando era direttore Indro Montanelli, 15 anni al Corriere della Sera ed ora da 2 anni all'Espresso, posso dire di aver sempre incontrato disponibilità a fare inchieste, alcune anche scottanti. La disponibilità c'è e le inchieste si fanno, non è vero che non si fanno. Prima abbiamo detto che probabilmente se l'inchiesta sul Watergate fosse stata fatta in Italia, Nixon sarebbe ancora il nostro presidente: è una questione della maturità etica del paese. In Gran Bretagna basta che un ministro non ascolti la commissione che consiglia sul conflitto di interessi la partecipazione a consulenze dei ministri e si dimette, non per aver violato la legge, soltanto per non aver ascoltato la commissione. In Italia se uno ha commesso dei reati viene tranquillamente eletto senza che questo comporti scandalo. L'Espresso, ma non solo, sta mantenendo fede alla sua storia perché di inchieste ne abbiamo fatte tante. Io sono lì da solo 2 anni, ma ci sono bravissimi colleghi che hanno fatto altre inchieste. Il problema è anche da inserire dove ricade l'inchiesta. Oggi abbiamo osservato come inchieste che addirittura vengono svolte dalla magistratura, pensiamo al sequestro dell'Imam egiziano Abu Omar, un gravissimo reato che sembra coinvolga i vertici del sistema di sicurezza italiano, comportato non altro che un'attesa di alcune persone che si fanno da parte in attesa che siano accertati i fatti e gli italiani non protestano per questo. Dalla televisione sono state cacciate delle persone e non dico persone faziose come qualcuno potrebbe sembrare, ma addirittura Enzo Biagi, e non c'è un solo italiano che abbia protestato minacciando di non pagare il canone. Alla fine se questo non accade è perché ciascuno di noi in qualche suo modo, nel suo piccolo è crudele, o comunque non è sensibile all'amore per la propria libertà, perché fare il giornalista vuol dire esercitare la libertà, esercitare i diritti sanciti dalla costituzione.

Angelo Perrino

Grazie. Dario Di Vico, abbiamo due corni del dilemma: abbiamo sentito toni critici e autocritici da giornalisti che dicono che prevale la superficialità, dovremmo impegnarci di più e invece ne viene fuori la rassicurazione che l'inchiesta non è morta, che nei giornali c'è ancora la voglia di occuparsi approfonditamente di quel che accade nella società. Tu dalla tua postazione privilegiata, dallo scranno alto della vice direzione del Corriere della Sera, il più importante giornale italiano, cosa ne pensi? 

Dario Di Vico

Io mi soffermerei al copione già scritto, che in genere prevede che il rappresentante del grande giornale venga qui, si batta il petto, faccia delle promesse, poi torni, il primo collega che incontri dici che hai vissuto una straordinaria esperienza…  Siccome ne ho avuti di direttori così, proviamo a cambiare copione. Il racconto della società lo considero un genere giornalistico di seria A, francamente se mi chiedessero di andare a seguire il consiglio di Medio Banca, o andare un pomeriggio all'Ikea, preferirei un pomeriggio all'Ikea, perché presumo che le facce della media borghesia italiana, ma di tutti noi adesso, raccontano moltissimo, anche delle contraddizioni, cioè del fatto che la gente la domenica preferisce andare all'Ikea che giocare con i figli; quindi non lo reputo un genere giornalistico di serie B. Osservare le facce di chi va a fare delle normali analisi del sangue la mattina ad esempio al Fatebenefratelli dove c'è la sanità privata e la sanità pubblica, la raffigurazione di due Italie, è una cosa interessantissima, se ne traggono elementi di riflessione interessantissimi. Ho fatto questa premessa perché mi sottraggo al copione, ripeto, secondo me è più interessante questo raccontare la società, sia quella dei caratteri del disagio più acuto, ma anche della domenica all'Ikea, nel senso che secondo me ci sono molte verità nei vuoti e nei pieni, non è necessario scegliere tra le due cose. 

La notizia è più debole nella rappresentazione, perché è venuta meno la grande agenzia che c'era 15-20 anni fa, l'agenzia del sociale si chiamava "sindacato". Il sindacato aveva non solo una grandissima forza contrattuale e quindi proponeva la società dentro i media, ma aveva la capacità di produrre immaginario: il termine "cipputi" che è una cosa fantastica ha retto alla polvere degli anni ed è solo un elemento della capacità che è stata la grande agenzia del sociale, il sindacato, ha avuto il merito di produrre immaginario, di produrre lessico, cioè di cose che rimangono negli occhi, rimangono negli orecchie, perché poi questo è l'elemento fondamentale. Il sindacato non era solo rapporti di forza, era la capacità di influenzare, tutta una metodologia tra la comunicazione tramite cartelli, tutta una serie di cose insomma, quella era stata la grande agenzia del sociale. Purtroppo per varie cose di cui vi risparmio, oggi non c'è più questa grande agenzia del sociale e quindi i rapporti di forza si sono modificati. Ci sono iniziative del no-profit che tentano in qualche maniera una supplenza, ma con un rapporto di forza molto più debole e ovviamente con una capacità di produrre lessico immaginario più bassa. Qui sta l'elemento fondamentale: si conquista "spazio" nella misura in cui si producono idee, rappresentazioni. Non esiste prima lo spazio e poi la capacità di produrre rappresentazioni. 

E arriviamo al giornalismo, io lo chiamo un po' il "giornalismo delle basse frequenze", quindi che va ad indagare non la società di Vanzina, ma che frequenta gli angoli, le periferie e così via, che ha ancora una tradizione troppo debole, fatica ad uscire; tutto sommato è un'offerta debole e si deve guardare al suo interno per diventare forte. Nel momento in cui è offerta forte guadagna anche lo spazio. Quindi non è che uno decide: fai l'inchiesta e qualunque sia il risultato dell'inchiesta uno la mette dentro: se l'inchiesta è una rappresentazione efficace, forte essa conquista spazio; con questo voglio dire che se uno degli schiavi della Puglia fa una rappresentazione debole, lo spazio non lo conquista. Nel momento in cui invece c'è una rappresentazione forte lo spazio c'è. Voglio dire che il giornalismo delle basse frequenze deve avere prima di tutto una capacità di guardare al suo interno, di irrobustirsi, anche scientificamente, perché poi bisogna anche studiare. La debolezza del giornalismo delle basse frequenze spesso è quello di proporre universi senza contraddizioni, ma è troppo facile. Perché? Parlare oggi dell'immigrazione senza parlare degli stupri è una rappresentazione a una sola dimensione, ci vuole il coraggio di mettere le mani dentro le contraddizioni, così il giornalismo delle basse frequenze diventa forte, si fa offerta forte, perché nel momento in cui racconta una sola faccia è debole, perché purtroppo le contraddizioni non attraversano solo il consiglio di medio banca, le contraddizioni attraversano la società. Non c'è una società unita e poi c'è un potere in cielo che si oppone. Le contraddizioni etniche culturali attraversano la società e vanno raccontate, anche se sono contraddizioni. Leggendo le inchieste di Fabrizio mi chiedevo: ma il sindacato di Epifani, Angeletti, Bonanni e compagnia bella dov'era? E' una contraddizione no? Se uno affronta questo tipo di contraddizioni, allora è anche più forte.

Angelo Perrino

Grazie Dario. Ho visto Marianella Sclavi drizzar le orecchie, quindi le passo la parola…

Marianella Sclavi

Sì, in effetti drizzavo le orecchie nel senso che forse era scontata la ricerca della pluralità dei punti di vista contrastanti, opposti. La settimana scorsa sono stata ad un convegno a Vicenza con delle persone provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia e dal Veneto, che si occupano dell'affido. Hanno raccontato delle esperienze interessantissime e avanzatissime di affido, nel senso che l'affido ormai si estende oltre che ai ragazzi di famiglie in crisi anche agli anziani, ha conquistato anche qui in Lombardia un approccio, che è partecipato, nel senso che la famiglia in crisi, insieme al ragazzo, insieme alla famiglia affidante, decidono insieme cosa fare. Diventava così un momento di crescita collettiva ed era un servizio fatto caso per caso, quindi totalmente non burocratico, ecc. Il punto a cui volevo arrivare è questo: il gruppo che opera a Cuneo ha portato un documentario della BBC, la quale televisione inglese è andata lì perchè trovava così interessante il modo con cui lavoravano con gli anziani. Nel servizio si vedeva quel tipo di volontariato che va a trovare la solitudine, si creano amicizie di volontariato con la frequenza, e anche parecchie famiglie che mettono a disposizione una stanza casomai volessero andare a passare o il weekend oppure anche a vivere con loro, in qualche modo adottano questi anziani che sono soli. La BBC ha fatto un servizio delizioso da vedere, su un caso in cui vedevi il punto di vista di quella signora che era diventata amica della signora anziana che viveva nel proprio appartamento da sola e poi della signora anziana e tutta la complicazione di andare a fare la spesa, e quindi il senso di affetto che si era creato di stare bene assieme, reciproco, i bambini, il punto di vista dei figli, del marito, tutti punti di vista leggermente diversi. La signora anziana viene invitata a casa di questa famiglia che aveva costruito una stanza apposta al piano terra in modo che non avesse le scale: il documentario finisce che sono le 9 e mezza di sera quando la giovane donna dice alla signora anziana che è ora di andare a dormire e la signora anziana dice no, mi dispiace guarda, io voglio proprio tornare a casa, io qui mi sento a disagio, non è la mia casa. C'è il senso di spiazzamento di tutta questa famiglia che si era fatta in quattro per farla sentire a suo agio, per ospitarla, si guardano in faccia e non sanno cosa fare in diretta con la BBC e poi si mettono a ridere tutti quanti e questa signora prende su la macchina e riporta a casa l'anziana… Siamo rimasti tutti lì incantati a vederlo per come veniva raccontato e la raffinatezza. 

Dunque anche se è duro chiedersi il sindacato cosa fa, è anche vero che obbligatoriamente un giornalista deve imparare a sapere che deve chiedere, cioè che quello è un pezzo fondamentale che costruisce la notizia. La notizia si costruisce non solo giustamente andando a intrufolarsi laddove non vorrebbero che tu vedessi. Mi piacerebbe vedere molto di più nel giornalismo italiano, questo tipo di consapevolezza per dare bene una descrizione adeguata di un fenomeno complesso e che richiede necessariamente la rappresentazione di almeno due punti di vista che si presentano come opposti, almeno, possibilmente di più. È un principio elementare della buona descrizione antropologica, neppure tanto scontata in antropologia, ma secondo me nel giornalismo deve essere proprio una delle prime regole e siccome ho vissuto per moltissimi anni negli Stati Uniti e in altri paesi dove invece, come nel giornalismo anglosassone è abbastanza scontato, devo dire che in quello italiano lo è meno. Seguendo come un'ombra delle persone con handicap, per esempio, scopri moltissime cose e i miei studenti lo hanno fatto, vengono fuori dei bellissimi servizi giornalistici. I miei studenti hanno fatto anche le fotografie ad un parcheggio per handicap con vicino un gradino di 25 cm, con la cabina del telefono, fatto in modo tale che se tu parcheggi non puoi aprire la porta della macchina, quindi dovresti scendere prima, poi spingere la macchina…

Franco Bomprezzi

Questa cosa come la BBC l'ha fatta Report come qualcuno lo avrà visto quando una giornalista giovane che penso voi ricorderete, purtroppo morta molto giovane, era stata mandata da Milena Gabanelli a rappresentare con me il percorso dalla Bicocca fino alla stazione in concorrenza con un ragazzo di Monaco con la sua carrozzina, che faceva la stessa cosa a Monaco ma che ci ha messo molto meno di me.

Angelo Perrino

Per la cronaca volevo ricordare, visto che piace molto ai frequentatori dei seminari di Redattore Sociale le bibliografie, Marianella Sclavi racconta queste sue metodologie nei suoi libri.

Matteo Scanni

Di Vico dice che il giornalismo delle basse frequenze dovrebbe avere quello che piagnucolosamente viene anche definito giornalismo sociale, una maggiore coscienza di sé…

Angelo Perrino

Scusa io sul giornalismo delle basse frequenze vorrei una definizione, perché vorrei capire.

Dario Di Vico

Ad una conferenza qui in Italia, Darendorf disse una cosa interessantissima: attenzione, voi in Italia non vi rendete conto del ruolo che la famiglia da voi ancora svolge come difensore d'ultima istanza. Se voi andate a considerare il numero delle ragazze madri in Inghilterra e il numero delle ragazze madri in Italia, vi renderete conto che i numeri sono assolutamente imparagonabili, ed è forse quello uno dei principali guasti in una società pur dinamica, pur fantastica per molte altre cose, come quella londinese. Ecco allora ad esempio, voi dite il giornalismo anglosassone, però a noi del giornalismo anglosassone non arriva la bassa frequenza, perché per esempio non ci viene raccontato questo… In Italia fortunatamente non ce l'abbiamo, è un giornalismo che dagli scuri fa capire anche dove sta andando una società, perché una società che è fatta per lo più o in gran parte da ragazze madri è una società profondamente malata. Ecco in questo senso io dico: questo elemento racconta di noi moltissimo, quanto per carità quello delle alte frequenze…

Matteo Scanni

Appunto dicevo a Di Vico che di questo giornalismo delle basse frequenze si dovrebbe prendere più coscienza di sé e guardarsi dentro. Ha ragione quando dice che anche i grandi quotidiani, i grandi mezzi d'informazione dovrebbero trattare, parlare degli stupri degli extracomunitari, il problema è che fanno solo quello, cioè ci hanno rotto con la storia degli extracomunitari per settimane, ma non hanno parlato del rovescio della medaglia, per esempio del lato buono dell'immigrazione. Il giornalismo delle basse frequenze esiste da 10-15 anni e c'è gente che tutti i giorni fa questo lavoro molto duro, e probabilmente Fabrizio Gatti se facesse le sue inchieste su Terre di Mezzo non se lo sarebbe filato nessuno, cioè non sarebbe diventato Fabrizio Gatti. Allora questo per dire che c'è anche una responsabilità credo, cioè tra le grandi inchieste che sicuramente sono molto documentate di Fabrizio e un vuoto io credo positivo, ci sarà una via di mezzo…

Fabrizio Gatti

Mi è sembrato che ci fosse una velata critica di completezza sul lavoro sulla Puglia. In realtà ci sono state varie puntate, sono stati intervistati anche Epifani, Divella che oltre ad essere presidente della provincia di Bari è anche uno dei maggiori produttori di pasta e derivati del pomodoro. 

La seconda cosa: la necessità di parlare di stupri anche quando si parla d'immigrazione, io credo che intanto su Foggia la violazione dei diritti fondamentali delle persone parli da sola senza in quel momento andare a chiedere al sindacalista che cosa ne pensa, perché quella situazione andava al di là, l'abbiamo chiesto nella puntata successiva. Poi mi rendo conto che da alcuni punti di vista ci sono testate che hanno molta paura del parere dei propri lettori. L'Espresso non ce l'ha e quindi noi l'abbiamo fatto in questo modo.

Stefano Trasatti

Io amo le definizioni originali, quindi mi è piaciuta molto quella delle basse frequenze, perché dà l'idea di questo lavorìo continuo, di questo cercare, cercare magari a vuoto per poi trovare; vorrei però che Di Vico completasse il suo ragionamento, perché secondo me manca un pezzo. Posto che il giornalismo delle basse frequenze, intendo il giornalismo che sta in tutte le grandi testate, se approfondisce, se fa emergere le contraddizioni, se studia produce giornalismo di serie A, perché allora nei giornali, a cominciare dai grandi, non si investe in questo giornalismo delle basse frequenze, non gli si dà i mezzi, il tempo, non ci si investe, non gli si dà mandato e quando va bene, occupa, nel giornale, lo sgabuzzino?

Dario Di Vico

Dico che in qualche maniera non lo considero un giornalismo di serie B, perché è quello che a me piace di più. Quando finirò di fare questo lavoro appunto andrò all'Ikea o nelle periferie, quello che mi capita, l'idea che mi viene, la cosa che avrò studiato, perché si studia anche per fare queste cose, quindi non è di serie B. Quando è forte proposizione vince, quando è debole perde, però è nella vita, no?

Angelo Perrino

Tra l'altro Dario personalmente rappresenta proprio un filone dell'approfondimento, lo dico perché siamo nati insieme alla professione 25 anni fa a Panorama, lui è un sociologo e viene dal sindacato…

Dario Di Vico

Io non la considero una concessione, però il prodotto deve essere buono…

Elena di Terre di Mezzo

Lei ha parlato di poca formazione, che siamo poco scientifici, che non c'informiamo. Noi studiamo, guardiamo i dati e le storie le raccontiamo per dare senso e poterle raccontare ai nostri lettori. A me sembra invece che sul Corriere e su La Repubblica le storie facciano solo colore. Io mi sono stancata di sentirle dire come sarebbe bello andare all'Ikea a vedere le famigliole… Voi sul Corriere l'estate scorsa avete parlato per un mese dei trentenni milanesi che si trovavano all'ottagono e si trovavano in centro. Bene, quella era documentata? Io non lo so, non credo e poi a chi serve?

Dario Di Vico

Ma non serve a nessuno, attenzione! Quando uno fa un lavoro non serve a nessuno, è una cosa complicatissima; è un pezzo, si fotografa e se il fotografo fotografa me in un certo modo a chi serve? Niente, è la realtà. I giornali non sono pedagogia, rappresentano la realtà, delle volte la rappresentano bene, altre volte male.

Angelo Perrino

Cerchiamo insieme di raggiungere dialetticamente dei punti di oggettività; c'era un'altra collega lì da quella parte…

Corrado Fontana di Affari Italiani

Io volevo solo citare due fatti che secondo me rientrano nel discorso che si è fatto fino ad adesso. Il primo riguardo quello che diceva Giovanni Merlo sull'approfondimento dei temi della disabilità. Io ho un occhio un po' più attento forse, però circa un mese fa sono andato a un centro commerciale e mi sono trovato a non poter entrare perché c'era un cancelletto che bloccava l'accesso ai carrelli per evitare che li rubassero. Mi rendo conto che per il centro commerciale se gli rubano il carrello è un problema, però per me il mio diritto fondamentale di entrare e uscire dal negozio quando voglio, è stato impedito. Questo è un fatto, puramente un fatto. La seconda cosa che volevo citare è che io lavoro anche in un'azienda che fa televisione e ho visto di recente, tanto per fare un esempi di cronaca sull'immigrazione, il servizio di un giornalista che a Padova, dove è stato eretto il famoso muro per salvaguardare gli abitanti di una certa zona residenziale, il giornalista si faceva accompagnare dagli agenti di polizia all'interno degli appartamenti dove abitavano questi immigrati. Gli immigrati non erano molto contenti di ricevere la visita della polizia, tanto meno del giornalista appresso, però il problema era: il giornalista che tipo di lavoro stava facendo e i poliziotti anche. Al di là di quello che poi è stato detto o non detto nel servizio, cosa che io non so, però è la prassi che mi aveva un pò stupito…

Angelo Perrino

Perfetto, grazie. Un intervento dal palco, Dario Anzani.

Dario Anzani

Io volevo ringraziare tutti dell'esperienza di oggi, perché fino ad oggi, in 15 anni di lavoro di periferia con i ragazzi ho incontrato e trovato ascolto da parte dei giornalisti; volevo anche ringraziare il mio omonimo vicedirettore. Vorrei fare anche una piccola polemica raccontandovi di una collega amica mia, meravigliosa, che è venuta su mia richiesta al Giambellino a confrontarsi con la nostra esperienza, ci ha messo una mattina intera ad ascoltarmi e l'articolo che poi è uscito era bello, peccato che in chiusura dell'intervista fatta per un quotidiano abbastanza importante di cui non dico il nome, mi abbia confessato che doveva corredare la pubblicità di un negozio di vestiti di tendenza per ragazzi. Lo dico perché mi sembra riduttivo attribuire al sociale la responsabilità più evidente di non essere capaci di comunicarsi e di non cercare di approfondire; la mia soddisfazione di oggi nel gruppo è questa. 

Noi oggi abbiamo sviluppato un tema rispetto alla periferia, alla nostra periferia, come dicevano Marianella e Ivan, che è quello della necessità di comunicare in una città in cui ci sono sempre più muri. Quando pensiamo al precariato noi dobbiamo anche ricordare, che in questa città da più anni c'è una manifestazione del precariato, dato che stamane si parlava di questo problema dei giornalisti, che riunisce decine di migliaia di ragazzi, ma che sulla stampa praticamente non viene assolutamente vista. Mi sembra che la difficoltà a farsi ascoltare di quel movimento dipenda anche dalla fragilità dei rapporti che questi ragazzi hanno tra di loro a proposito dell'assenza del sindacato. Questi come forma più moderna, più efficace di comunicazione si trovano su internet. Non stiamo forse parlando della necessità di comunicare, della necessità di avere relazioni fisiche, della necessità di avere davanti le persone con le loro emozioni a spiegarci quali sono i loro problemi, quando parliamo di noi e non è forse questo uno dei motivi per cui la cosa non funziona? Stiamo parlando sempre della stessa cosa. È questo il motivo per cui io spero che poi la notizia la troviate.

Luca Di Grazia - giornalista

Ho sentito poco fa dire che il giornalismo a bassa frequenza si fa da 10 anni su Terre di Mezzo. Con tutto rispetto, però mi sembra che Terre di Mezzo abbia un canale distributivo quanto meno curioso. Probabilmente si potrebbe fare di più, nel senso che io lo vedo vendere dall'extracomunitario che spesso ha un approccio scusatemi, fastidioso. Magari esiste la possibilità di un altro tipo di canalizzazione…

Matteo Scanni

Ma il punto non è quello che fa Terre di Mezzo, il punto è quello che non fanno gli altri.

Luca Di Grazia

Benissimo…ma chi lo legge?

Angelo Perrino

C'è un esponente di Terre di Mezzo?

Stefania Prandi - Terre di Mezzo e Redattore Sociale

Il metodo di distribuzione di Terre di Mezzo è una scelta: è nato come giornale di strada e vuole proprio essere luogo d'incontro come le terre di mezzo fra le persone, in modo che quegli extracomunitari che sono venditori e che fanno un lavoro onesto, possano venire in contatto con altre persone. Terre di Mezzo lavora e fa dei pezzi che poi vengono anche dati e venduti a testate come Repubblica, Il Sole 24 ore e non mi sembrano dei giornali di serie B, la scelta comunque è di passare attraverso gli extracomunitari. 

Credo, invece, che la professionalità delle persone che trattano di sociale, in particolare Terre di Mezzo, sia dimostrata dal fatto che il direttore che adesso è Carlo Giorni, collabora con testate come Il sole 24 ore, Espresso, Donna Moderna, ecc. Credo che questa sia la dimostrazione del fatto della professionalità non soltanto sua. Il fatto è che parlare di un giornalismo che resta in sordina perché analizza la complessità della società, perché prende soltanto un aspetto delle cose, dire che questo è il suo problema, credo che sia riduttivo. Ad esempio quando io trovo sul Corriere della Sera che il problema degli stupri viene enfatizzato oltre al limite, quando si legge: "stupri a Milano in aumento" e poi invece quando si va a vedere bene risulta che l'80% degli stupri viene commesso da conoscenti o amici e invece il dito viene puntato sull'extracomunitario, si cavalca un filone che alla fine è pericolo, perché vuol dire che io che mi sono sempre sentita sicura a Milano, invece adesso quando cammino per la strada, grazie al Corriere della Sera, mi sento in difficoltà.

Franco Bomprezzi

E' stato un dibattito molto interessante come spunti anche dialettici, cerchiamo tutti però di non essere auto referenziali. Il rischio che corriamo è di separare il mondo del sociale da una parte, il mondo del giornalismo sociale dall'altro, il mondo del giornalismo senza altre etichette in generale. Non funziona così. Io credo che una giornata e mezza come questa serva per far dialogare questi mondi, però ognuno di noi, da giornalista, si deve mettere in ascolto delle ragioni degli altri, forse impara qualche cosa e ne porta a casa un contributo in più. Probabilmente riuscirà a fare meglio il suo mestiere domani. Credo che una parte di ragione ci sia in quella di tutti.

Paola Pastacaldi

Scusatemi vi riporto a un passo indietro, all'intervento di Dario Anzani sulla giornalista che è andata a fare l'intervista e che poi ha spiegato in maniera molto onesta quale era la sua situazione. Come consigliera dell'Ordine dei Giornalisti sento la necessità di sottolineare un fatto che non è secondario. In questo momento, da qualche anno, il giornalismo italiano affronta delle problematiche di commistione, un termine un po' complicato per dire che dentro le notizie ci sono i prodotti, ma non perché il giornalista è reputato un prodotto interessante o innovativo; la pubblicità entra dove non dovrebbe entrare, ma non per moralismo dei giornalisti, ma perché ci sono delle regole. Purtroppo se non partiamo da questo problema, che è veramente diventato invasivo, non possiamo capire perché certe notizie non trovano ospitalità. Ci stiamo raccontando delle bugie. Il mio intervento vuole sottolineare che al di là di tutto c'è una disponibilità alla verità. Quando dobbiamo raccontare i fatti abbiamo delle gravi difficoltà, perché in questo rapporto tra l'informazione e la pubblicità che aiuta i giornali anche a esistere, c'è stata una sopraffazione. Noi come Ordine dei Giornalisti abbiamo un grosso lavoro da fare su questo e non so cosa riusciremo a fare. Certamente il problema riguarda tutti i giornalisti. I giornalisti devono essere consapevoli che vendendo gli articoli per mettere i prodotti, vendono anche le regole deontologiche. Stamattina si è parlato molto delle persone che hanno delle difficoltà. La parola che dal punto di vista giornalistico riassume questo è dignità della persona che è un elemento che permea tutte le leggi, anche quelle deontologiche. Purtroppo con una serie di operazioni, anche tragiche, come ad esempio il mobbing, nelle redazioni si è creato il silenzio. Quindi i giornalisti non sono in grado di fare quello che era il loro lavoro, un lavoro intellettuale, il racconto dei fatti.

Angelo Perrino

Ottima questa puntualizzazione deontologica dell'ordine. Un'ultima domanda.

Matilde Ambrosioni

Non lavoro per nessuno, quindi posso dire la mia in modo obiettivo. Di sociale se ne parla troppo poco, mi dispiace, se ne parla poco nei giornali, se ne parla pochissimo in televisione. Io sono milanese doc e ho vissuto 25 anni a Catania e soltanto lì ho trovato una piccola televisione che mi ha detto: faccia quello che vuole, senza sponsor… Ho avuto per 8 anni una rubrica di un'ora ogni settimana per 6 mesi l'anno e mi hanno pagata, mi dispiace per la collega di Palermo che non è stata pagata. Sono venuta a Milano dopo 20 anni, io so confezionare chiavi in mano una trasmissione, sono stata da Telenova, Telelombardia, ho chiesto non un'ora, ho chiesto un quarto d'ora al mese per il sociale, mi hanno risposto: lei è matta!

Angelo Perrino

Stefano Trasatti stamane ricordava che una caratteristica dei seminari di Redattore Sociale è la bellezza dei luoghi, ma ce n'è una seconda che è anche il momento dell'intrattenimento e quindi sul modello consolidato da Redattore Sociale, anche noi avremmo un passaggio d'intrattenimento dopo la cena con una performance teatrale. E' in arrivo poi Lella Costa che farà per noi un incontro-spettacolo. Grazie a tutti e buon appetito.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.