II Redattore Sociale Milano 5-6 ottobre 2007

Miglioratori del peggio

La responsabilità e l'etica nell'uso delle immagini

Condotto da Denis Curti e Marco Vacca

Denis CURTI

Denis CURTI

Direttore dell’Agenzia Contrasto a Milano.

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Marco VACCA

Marco VACCA

Fotoreporter e presidente di Fotografia&Informazione. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Marco Vacca

Faccio il fotoreporter e sono anche presidente di un'associazione che si chiama "Fotografia e informazione" e che fa della propria attività, diciamo così, la diffusione della cultura fotogiornalistica. Abbiamo un sito www.fotoinfo.net dove trattiamo in generale questi argomenti che vanno da una serie di considerazioni etiche al fare le pulci ai giornali che spesso e volentieri trattano una fotografia come dei calzini usati.

Denis Curti

Io sono il direttore dell"agenzia "Contrasto", un'agenzia fotogiornalistica che ha appena compiuto 20 anni di attività proprio quest"anno. E' un'agenzia diciamo abbastanza particolare, almeno in Italia, perché a fianco all'attività di produzione, distribuzione e vendita delle immagini abbiamo anche costituito da circa 10 anni una casa editrice di libri fotografici che ormai è diventata un punto di riferimento per l'editoria specifica del settore. Da un paio d'anni a questa parte abbiamo aperto un centro nazionale di fotografia che si chiama "Forma", che è qua a Milano; inoltre promoviamo mostre fotografiche e al contempo abbiamo una scuola di fotografia dove teniamo un master, che vuole orientare, o meglio che vuole disegnare delle figure professionali che ruotano intorno alla fotografia, quindi gli studenti che vengono sono tutti quanti già laureati, è un master che riconosce 60 crediti formativi, cerchiamo di disegnare questo profilo, che va dal curatore, al foto-editor, al consulente della comunicazione con le immagini, al ricercatore iconografico, ecc.

Marco Vacca

Parleremo dell'etica del racconto, del rapporto quindi tra la fotografia e l'etica; parleremo dello stato di salute dell'editoria italiana, parleremo di temi che spesso e volentieri non vedete sulle pagine dei giornali. Vi mostreremo anche dei reportages che ci siamo portati. Per poter migliorare il peggio, questo peggio bisogna vederlo sempre più dalle pagine dei nostri giornali, siano essi quotidiani, settimanali o mensili, questo peggio tende a sparire, anzi direi che è quasi completamente azzerato, per una serie di motivi che velocemente illustreremo. Il modello vincente nell'editoria italiana è il modello del gossip, a cui nessuno in qualche modo sfugge, può essere un gossip di basso livello, può essere un gossip di alto livello e la differenza con il panorama internazionale sta per esempio nel fatto che Vanity Fair pubblica un servizio sulla vita di Beckham e la fidanzata per finanziarsi ad esempio un reportage-inchiesta che racconta dove sono finiti 12 miliardi di dollari di piccolo taglio utilizzati dall'amministrazione americana per pagare i propri funzionari in Iraq e tutto quello che serve in Iraq. Ecco la differenza sta un po' in questo e sta nella trasformazione che l'editoria italiana ha avuto in questi ultimi tempi. Tutto sommato l'Italia dell'industrializzazione, l'Italia dell'immigrazione ecc. l'abbiamo conosciuta attraverso dei grandi reportages degli anni '60; la fotografia è curiosa, la fotografia ti rimane in testa, ti racconta che cosa era l'Italia, che cosa sei stato. Ho spesso l'impressione che gli italiani, o quanto meno i giornali, attraverso questo filtro, non vogliono più sapere del passato e non vogliono più sapere del futuro. Quello che vale è un modello di realtà televisiva, che si affaccia molto anche nei modelli editoriali dei giornali, l'approfondimento è completamente sparito. Io potrei per esempio citarvi dei dati che danno un po' la misura di tutto quel che sto in qualche modo riassumendo: Anna vende 100mila copie, Chi 480mila, Cioè 130mila, Confidenze 130mila copie, Di Più TV e Di Più Donna 598 e 230mila copie, Donna Moderna 360mila, Eva 100mila, Gente e Gioia 360mila, Gioia 150mila, così a seguire; gli unici giornali decenti, i veri news magazines settimanali rimangono l'Espresso con 200mila copie, Famiglia Cristiana con 260mila e Panorama con 274mila copie. Vedete bene che il panorama è per il 97% orientato verso un giornalismo in cui l'approfondimento non c'entra molto. Noi ovviamente cercheremo di ragionare e farvi vedere che a fronte di tutto questo la produzione fotografica è di altissimo livello, abbiamo un range di fotografi italiani molto più apprezzati all'estero che in Italia, molto più utilizzati all'estero che in Italia. È strana questa cosa: da una parte l'editoria non svolge il proprio ruolo, dall'altra invece rimane viva la curiosità, la voglia di raccontare, la parte di stuoli di fotografi molto bravi che sono in giro per il mondo e per l'Italia, i cui cassetti strabordano di belle fotografie che spesso e volentieri, se non per iniziative editoriali, molto difficilmente si affacciano sulle pagine dei giornali.

Denis Curti

Non posso altro che confermare quello che diceva Marco su questa crisi dell'identità dell'editoria, che diventa poi una crisi d'identità della fotografia. Io mi trovo in una situazione un po' imbarazzante, un po' paradossale, perché da una parte critico questa situazione, poi però di fatto l'agenzia Contrasto che è nota perché rappresenta la Magnum che lavora con le fotografie di Cartier Bresson e di Robert Kappa, insomma la grande fotografia, quella d'impegno, di approfondimento, però alla fine vende anche servizi come quelli dei Beckham… In qualche modo quindi noi stessi contribuiamo ad alimentare, anche se in minima parte, quello che il mercato chiede. Il problema vero è che per un altro tipo di narrazione i veri referenti non sono più i giornali bensì le organizzazioni non profit, le Onlus, le Ong, è incredibile questo. Ad esempio sono andato a presentare un libro per Wella che porta avanti un'iniziativa in Africa: due giornate di lavoro nei saloni di bellezza di Wella vengono devoluti a questo progetto dove Amanda Sandrelli è la testimonial… Anche con Anffas abbiamo fatto tantissime iniziative e i racconti passano proprio attraverso queste opportunità che ci vengono date, ovviamente Gino Strada, insomma tutto il mondo della solidarietà sostiene una parte della fotografia, proprio perché come diceva Marco ci sono certe notizie che non passano e le contraddizioni, il dialogo con il mondo diciamo dell'editoria, dei magazines è diventato sempre più faticoso. A noi arrivano, l'ho conservato, perché mi aveva molto colpito, dei fax o delle mail dove ci chiedono delle ricerche iconografiche e l'ultimo diceva "vogliamo delle belle foto di strage di bambini" come dire c'è questo cinismo, però è un cinismo che non ci deve neanche tanto sconvolgere, non ci deve neanche tanto portare ad esprimere dei giudizi, è come lavorare in un pronto soccorso… Se l'archivio di Contrasto fosse riempito soltanto dalle richieste dei giornali sarebbe pieno di cose poco interessanti lasciatemelo dire, allora c'è un impegno da parte dell'agenzia, che come dire, guadagna, investe su temi molto commerciali, per produrre altro. Recentemente abbiamo fatto un lavoro bellissimo sui giovani in Europa, "Eurogeneration" che poi è diventato un libro e una mostra, dove abbiamo preso 14 fotografi, li abbiamo forniti di carta di credito, di biglietti aerei, li abbiamo mandati in giro per l'Europa per 3 mesi a spese di  Contrasto e questi sono tornati ed hanno finalmente raccontato il volto dei giovani europei. Adesso il 23 ottobre alla triennale Bovina presentiamo un lavoro sulla Cina: abbiamo affittato un grande appartamento a Pechino, lo abbiamo attrezzato con computers, letti, cucine, ecc., 10 fotografi si sono alternati tenendo base a Pechino per andare poi in giro per la Cina, anche qua un investimento enorme, e questo perché siamo convinti da una parte che nel nostro archivio mancassero completamente le immagini dei giovani nel caso di Eurogeneration, così come eravamo e siamo tutt'ora convinti che nel nostro archivio mancavano le fotografie di una Cina diversa, di una Cina meno ufficiale.

Marco Vacca

Questo lavoro splendido che avete fatto insieme a Medici senza frontiere nelle campagne del meridione, che racconta le condizioni di vita dei lavoratori immigrati stagionali, dove è stato pubblicato? Perché quello è un  po' l'icona secondo me di quello che succede e che poi non finisce sulle pagine dei giornali, un lavoro meritorio.

Denis Curti

No, non finisce sulle pagine dei giornali, diventa una mostra, un libro, per cui quello che dicevo prima, ci sono dei circuiti assolutamente alternativi che danno poi visibilità a quello che noi produciamo. Da una parte c'è un atteggiamento di grande attenzione ad una produzione indipendente che ormai in Italia non fa più nessuno e i fotografi indipendenti ancora meno, perché come dire non hanno neanche il supporto dell'agenzia e quando lo fanno è veramente un sacrificio, perché poi tornano e non lavorano per un mese per tentare di vendere quel servizio che hanno realizzato in un mese di tempo, quindi sul piano economico prendono poco, come dire che non c'è rapporto economico tra lo sforzo e l'impegno. Dall'altra parte invece c'è un tema che è meno pratico, meno operativo, ma che è di schieramento, è di dichiarazione, è vicino a quella richiesta, mandateci delle belle foto di strage di bambini, perché in realtà il tema vero è quello di avere il coraggio di mostrare, un dibattito aperto, molto forte, specialmente nella fotografia. 

Sulla fotografia spesso si discute sulla moralità: è giusto pubblicare quell'immagine?Magari è molto forte, molto violenta, di guerra, ecc. Questo è un tema secondo me molto affascinante ed io sostengo che una prova documentale, cioè una fotografia anche se cruda ha la sua importanza e significato. Abbiamo fatto con Anffas un libro che si intitola "Il tempo di una vita" dove una mamma ha raccontato, nel tempo che aveva a disposizione per vivere con sua figlia che era malata e si sapeva sarebbe vissuta 8 anni, ha documentato il tempo dell'amore. Il libro è stato recensito nel bene e nel male, perché in qualche modo lei è stata accusata di aver speculato su questa vicenda, ma in realtà noi abbiamo anche conosciuto il personaggio, non c'è niente di più lontano dalla speculazione. Quindi secondo me ogni prova documentale, ogni fotografia contiene l'oggetto che sta mostrando, ma in modo particolare anche questa immagine ha a che fare con i diritti umani, ha a che fare con la sopraffazione, ha a che fare con la violenza, contiene quell'informazione, ma contiene l'esatto contrario ossia vuole dire questa cosa è così e non deve più essere così. E allora bisogna continuare a mostrare, continuare ad avere il coraggio di mostrare quello che sta succedendo, perché quello che è stato fotografato è tendenzialmente successo anche perché la fotografia ha sempre avuto un po' questa limitazione nel senso che non sa mentire, ma i bugiardi sanno fare le fotografie. Ad esempio sono rimasto veramente impressionato a questo proposito, dalle cugine di Chiara Poggi che per dimostrare di avere avuto una storia di sentimento, di amicizie, di parentela con la defunta cugina, non essendo sufficienti le parole hanno dovuto creare una prova documentale, hanno fatto un fotomontaggio per dimostrare di essere molto legate, che andavano tutte le sere alle feste, guarda qua tutte e tre vestite di rosso, un po' scollacciate… quella è la prova, il documento che era necessario, che diventava inconfutabile rispetto a questa storia che non è mai esistita, perché i giornali l'hanno detto, si frequentavano pochissimo, erano un po' distanti, ma voglio dire, non c'era nulla di male, però dovevano assolutamente creare questo documento. Allora la storia della fotografia naturalmente è ricca di questi esempi e a volte la fotografia appunto sa mentire, nella maggior parte dei casi invece la fotografia è capace di mostrare ed è proprio per questa sua natura così diretta, così assoluta che fa fatica a passare, le notizie fanno fatica a passare perché la fotografia ha questo potere enorme.

Marco Vacca

Una delle foto più emblematiche è quella di Paul Watson del soldato americano trascinato per le vie di Mogadiscio. Paul Watson è un fotoreporter americano che ha seguito questa e le tante altre guerre; in un'intervista alla radio pubblica americana racconta la storia di questa foto, le sue sofferenze anche drammatiche dovute alla sopportazione del peso di questa immagine. Watson fece questa fotografia perché diceva che ripetutamente il dipartimento di stato continuava a negare casi di ostilità nei confronti dei soldati a Mogadiscio e questa era in qualche modo la prova provata che il dipartimento di stato mentiva. Questa foto fu fatta, racconta Paul Watson, con grande sprezzo del pericolo, fu in qualche modo salvato dal linciaggio dalle sue guardie del corpo, che appena cominciarono a sentire parole di minaccia nei confronti del fotografo, lo presero di peso e lo portarono via. Questo dimostra in qualche modo che anche quella fotografia non era stata voluta dalla gente che aveva commesso in qualche modo quel crimine per veicolare un messaggio. Dall'altra parte Paul Watson racconta pure il grosso cruccio per questa immagine che la madre del soldato non gli perdonò mai. Questa fotografia gli ha portato un sacco di guai dal punto di vista psicologico per la sopportazione dell'essere non stato costretto, ma insomma dell'aver fatto anche questa cosa e sopportare la terribilità di questa immagine. Questa immagine però in qualche modo ha determinato anche il migliorare il peggio: sembra che abbia accelerato il percorso di ritiro delle truppe americane dalla palude di Mogadiscio, ma si dice anche che abbia determinato il non intervento nello stesso anno. Vedete quindi in una sola immagine quante implicazioni ci sono: fai una fotografia per desiderio di verità poi comunque scontenti qualcuno, qualcuno che non ti perdonerà il fatto che hai fatto vedere le immagini di suo figlio in quelle condizioni e ne sopporti il peso psicologico per tantissimo tempo. Quella fotografia in qualche modo determina o può determinare un altro evento.

Il fotografo fa il fotografo e cerca di riportare la verità . Il fotografo non è un politico, io non credo che si debba preoccupare delle conseguenze di quello che fa, stante il fatto che sia libero e nelle condizioni di poter fare quella fotografia. Sempre nello stesso periodo Watson fu invitato a fotografare delle esecuzioni delle impiccagioni secondo le leggi della sciarìa, andò ad assistette a queste impiccagioni, ma non scattò fotografie, raccontò invece quello che aveva visto. Due giorni dopo gli arrivò una telefonata da Amnesty International che gli chiedeva di questo racconto, gli chiesero le documentazioni fotografiche e lui gli disse no, non ho fotografato perché ritenevo che quel mio ruolo fosse in qualche modo voluto per propagare questa notizia, che io fossi stato invitato lì, perché le mie fotografie potessero far vedere che la legge della sciarìa era in atto in quelle zone e quindi deliberatamente ho deciso di non essere veicolo di questa cosa. Per tutta risposta Amnesty International ha riattaccato il telefono ringraziando, non avevano documentazione fotografica, non avevano documentazione vera, fattuale, provante, di questo avvenimento e quindi furono costretti a lasciare così il caso in sospeso.

L'etica della fotografia: le fotografie possono racchiudere tantissime valenze insomma, però certe volte penso che devi  preoccuparti solo della verità, del racconto, delle condizioni in cui stai lavorando. Le valutazioni di quel tipo di azione non spettano a te, tu sei uno che cerca di raccontare quello che succede nel mondo, il resto poi è, diciamo così, ai posteri.

Denis Curti

Un altro esempio è la foto di Adams fatta in Vietnam: l'esecuzione da parte di generale, un graduato, che spara alla tempia di un civile perché accusato di essere una spia. Adams era un fotoreporter straordinario che è scomparso un paio di anni fa se non sbaglio e proprio prima di morire aveva lasciato questa dichiarazione che ci aveva molto colpito: ha detto di essersi portato dietro per tutta la vita il peso di quella foto perché si era convinto che quel gesto è stato scatenato dalla sua presenza e dalla presenza della macchina fotografica. Questa fotografia che è passata alla storia.

Le manipolazioni e i ritocchi: recentemente c'è stato l'esempio del fotografo che ha manipolato delle fotografie durante la guerra in Libano. Vi faccio vedere delle immagini alcune delle quali sono letteralmente delle ricostruzioni digitali, è veramente difficile riconoscere quali sono delle fotografie e quali sono invece delle immagini digitali…

Marco Vacca

A parte questo scivolone del Times, abbastanza clamoroso, generalmente l'attitudine del giornalismo anglosassone rispetto ai montaggi e ai sandwich, è estremamente chiaro. La stessa attitudine sulla stampa italiana non esiste, potrei mostrarvi delle copertine di Venerdì piuttosto che dell'Espresso. Io ritengo che i giornali siano un po' come una merce che va venduta e la copertina è una di queste, va abbellito, va esposto nelle edicole, quindi deve essere un po' più visibile degli altri. Si può fare tutto, l'importante è non prendere in giro, dirlo.

Denis Curti

La situazione in Italia è abbastanza paradossale; c'è l'esempio di Gianni Berengo Gardin, il noto fotografo italiano che pubblica delle immagini e nel timbro nel retro c'è scritto "vera fotografia". La manipolazione di per sé non è sempre negativa. E' chiarissimo che se vuole la fotografia è capace di mentire.

(VENGONO MOSTRATI ALCUNI ESEMPI) Queste sono immagini che ci servono proprio per riflettere sulla capacità di mentire della fotografia. Ecco volevo farvi vedere quest'esempio qua, una foto di Gianantonio Battistella, una fotografia normalissima del 1985 con un certo obiettivo e con una certa prospettiva, questo è sempre lo stesso fotografo ed è sempre la stessa chiesa ed è incredibile come davvero solo con la modificazione della prospettiva e del punto di vista cambia completamente il soggetto. allora qual è la verità? Qual è il punto di vista è sempre una forte discussione. Questo è un esempio diciamo recentissimo, dei funerali delle vittime di Nassiryia nel 2006: non voglio dare giudizi politici, non m'interessa, si vedono due noti personaggi politici che stanno sorridendo, questa immagine qua ha fatto il giro del mondo ed è un'immagine scattata in un trentesimo di secondo allora voglio dire è una frazione di secondo che ha immortalato, chissà se ridevano davvero, cosa poteva essere successo in quella frazione di secondo… però questa è l'immagine che ha fatto il giro del mondo.

Questa è l'altra famosa fotografia che ha incriminato Sircana sulle pagine di tutti i giornali, ma la foto così di per sé non significa assolutamente nulla è la didascalia che poi aggiunge, è il contesto all'interno del quale vive la nostra informazione che crea la differenza. Questa immagine di Kennedy così ci dà un'idea precisa, con un semplice taglio ce ne dà un'altra, se fatta dall'altra parte ce ne dà un'altra ancora. Quindi è sufficiente veramente spostare di pochissimo le nostre situazioni per cambiare la foto. Questa fotografia di per sé, lasciatemelo dire, non è un granché: c'è la nascita di un bambino di colore e questa era l'immagine vera, guardate adesso la fotografia che poi passa alla storia, praticamente il fotografo chiude la finestra alla mia sinistra che dava fastidio perché bruciava tutto e quella stessa luce la rimette sul bambino. È nato per dare importanza al parto e restituisce luce ai volti delle due levatrici che consentono al bambino di nascere. Questo è abbastanza curioso. Ecco questo è un altro esempio che io vi volevo far vedere a proposito del contesto, questa è un'immagine famosissima di Mario De Biasi, uno dei più grandi fotografi del '56 che dice: violando il diritto dei popoli all'autodecisione il governo sovietico ha inviato divisioni blindate a Budapest per reprimere l'insurrezione… Ci sono poi appunto delle immagini che hanno assunto un valore simbolico incredibile, come questa qua…  (CONTINUANO ESEMPI DI FOTO COMMENTATE)

Marco Vacca

Io sono stato parte in causa perché ho polemizzato in maniera molto pesante con il Manifesto sulla scelta di eliminare quel ragazzo palestinese con la fionda da una fotoperché è una scelta che vuole dimostrare che i palestinesi in questo caso sono solo le vittime. Questa è un'evidente immagine di uno che si sta arrendendo, che si sta difendendo, perché viene aggredito. L''immagine vera è quella che dimostra che c'è qualcuno che si sta difendendo e la distorsione della realtà va assolutamente sancita e condannata, tanto più se ci sono in ballo una serie di valori e di schieramenti. Il Manifesto su questa cosa qui ci è andato pesante e va assolutamente sanzionato. Io non credo che ci sia bisogno della prima pagina de Il Manifesto per raccontare quello che succede in Palestina, per rendere più vittime quelle che vittime già sono, è stata secondo me un'operazione assolutamente forzata.

E' vero che la fotografia parla da sola, però le didascalie, l'ora, il luogo, il che cosa sta succedendo ti dà la possibilità, ti dà modo d'inquadrare esattamente il fatto, ti arricchisce dell'informazione. E il giornalismo che cos'è? è qualcosa che deve arricchire la tua conoscenza, quindi più dati hai e meglio è. Il problema è che noi siamo abituati a vedere le fotografie come mera documentazione, come mera illustrazione e le didascalie non le vediamo quasi mai o sono frutto di letteratura. Adesso vi farò vedere un panorama di immagini prese dalle gallerie di Repubblica e vi farò vedere come appunto si palesa questa sottrazione di cultura e d'informazione. I fotografi più bravi nelle immagini di agenzia, scrivono addirittura nome e cognome della persona che c'è lì dentro. Allora è vero si che le immagini si devono sostenere da sole, però se hai un'informazione e una contestualizzazione della faccenda, noi siamo ancora più felici. I direttori dei giornali non danno importanza alla fotografia e questa io credo che sia una questione fondamentalmente culturale; Eugenio Scalfari, uno dei padri e dei maestri del giornalismo italiano, è passato alla storia tra di noi come colui che disse che la fotografia è esornativa, cioè come dire che c'è o non c'è, non è importante dal punto di vista dell'informazione giornalistica, deve abbellire il giornale, salvo il fatto che la moglie buonanima, aveva un'agenzia fotografica e la figlia faceva la fotografa, quindi se questo tipo di affermazioni vengono fatte dalle colonne portanti del giornalismo italiano, immaginatevi che cos'è cogliendo fior da fiore…

Quando si parla di fotogiornalismo la regola aurea è la verità e la verità ha a che fare molto con l'etica, quindi non c'è divisione di ruoli: il dovere del fotografo, il dovere del giornalista è quello di dire la verità punto. Forzare la situazione come nel caso della foto di Sircana è un altro paio di  maniche, non possiamo negare che quella cosa non sia successa, il problema è il valore che dai a quell'immagine. La costruzione e l'orchestrazione che tu dai come valore a quell'immagine, il caso politico che ne monti. L'immagine dice qualcosa che è sicuramente vera, ma quello è un settore della fotografia ad uso assolutamente scandalistico, di etico non c'è molto, quel fotografo lì non è andato a fotografare Sircana perché pensa di avere una missione etica, è semplicemente il contrario, lo ha fatto perché pensa che quella roba lì può essere un ottimo oggetto di ricatto. Non possiamo metter sulla stessa bilancia un fotografo che va in Africa a raccontare come si vive e il paparazzo che segue Sircana che apparentemente ha dei costumi sessuali sui quali, almeno per quel che mi riguarda, non ho niente da obiettare.

Denis Curti

Il problema è ancora una volta, come dicevo prima, quello di capire che vestito hai deciso di mettere quella mattina lì, allora se stai parlando d'informazione non è che tu devi dire: va be' ma lui ha manipolato così bene e in buona fede, che quella notizia lì diventa ancora più credibile, diventa ancora più forte e richiama ancora più attenzione. Quello è il risultato, è una strada di un obiettivo che vuoi raggiungere, non so se mi sono spiegato. Ma il tuo obiettivo in quel caso lì è quello di sensibilizzare le persone, ogni immagine contiene quello, ma anche il suo contrario. È così, ma non deve più essere così, per quello che io sono per mostrare anche le immagini più cruente, perché contengono una verità. Se queste immagini sono manipolate non sono più sicuro di sostenere questa mia posizione, non son più sicuro sulla necessità di mostrare sempre tutto, anche quando c'è una manipolazione, un'esagerazione, lo puoi fare per degli altri scopi che è quello di vendere di più, di pubblicizzare, ecc. Noi, diciamo, parliamo di etica delle immagini, forse non l'abbiamo specificato abbastanza, all'interno di un contesto dell'informazione, dove io da un giornalista mi aspetto che racconti la verità. Poi la racconta dal suo punto di vista per carità, di destra, di sinistra, di centro, sono sufficientemente informato e critico per poi contestualizzare il reportage che mi fa; allora con la fotografia mi aspetto esattamente la stessa cosa. In questa riflessione sull'etica delle immagini si sono dette tante cose, poi è chiaro che questo tema del vero e del falso, della manipolazione o della realtà, è complicato. Io sostengo che i bugiardi sanno fare le fotografie e quindi viene fuori questa logica qua. Ci sono stati degli esempi straordinari nella storia della fotografia, ve l'ho dimostrato, dove la fotografia ha contribuito a migliorare.

Marco Vacca

Spesso viene posta la questione della sovrapposizione di orrori, però è pure vero che sono più di 10 anni che siamo circondati da orrori. Oggi mi è arrivato il Times e ci sono 4 pagine che raccontano il Ruanda di questi giorni con il titolo "Semi di cambiamento": un articolo bello, positivo, che racconta la crescita del paese. I grandi investitori vanno in questo paese perché sanno che non c'è corruzione, c'è ordine, c'è pulizia, non è uno stato dittatoriale, be' questo è una speranza che a me piacerebbe raccontare. Io quando sono stato in Ruanda e non per i giornali, ma per Nigrizia nel 2004, ho raccontato quello che era rimasto, ho raccontato un paese in cammino. Ho la netta sensazione che neanche queste cose abbiano ospitalità sull'editoria italiana. E' forse più facile raccontare la speranza? No, è più facile raccontare l'orrore, ma come diceva Denis prima, non puoi esimerti dal raccontare l'orrore, perché in realtà sei lì, costretto ad esser lì ma non vorresti esserci, perché vorresti che certe cose non avvenissero, vorresti che il tuo ruolo fosse inutile al cospetto di un mondo in cui l'orrore non esiste, ma l'orrore va documentato e va raccontato. Il problema è che almeno da noi, c'è sempre meno spazio per l'orrore… L'altro giorno sono andato a vedere il documentario che ha girato George Clooney con il padre giornalista sul Darfur: con il fascino del testimonial e con la bravura del padre sono riusciti a fare un prodotto che in America ha sensibilizzato  molto, ha bucato molto le pagine dei giornali, dei telegiornali, dei talk show importanti e cose di questo tipo possono arrivare fino alle Nazioni Unite, fino in qualche modo a spostare il punto di vista sul problema del Darfur, perché il nodo era questo. Io non mi faccio scrupolo di utilizzare delle persone così forti dal punto di vista dell'immagine quando la causa è quella buona, quando si può far qualche cosa per migliorare le condizioni delle persone.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.