II Redattore Sociale Trento 2 giugno 2000

Profeti di paura?

"Profeti di paura?" I giornalisti, la sicurezza, la "diversità". Alcune ipotesi sulla costruzione dell'allarme sociale attraverso i mezzi di informazione

Intervento di Giorgio Grossi

 

Giorgio Grossi, Università di Torino*

Questo titolo "Profeti di paura?" mi è stato un po' assegnato, non so se le cose che dirò daranno una risposta positiva a questo interrogativo, diciamo che la mia tendenza è quella di trovare un'altra definizione per descrivere il ruolo che i giornalisti oggi hanno anche nei confronti di tematiche così complesse come quelle dell'immigrazione, della società multietnica e più in generale della differenza nella rappresentazione sociale dei diversi.
Partirò da alcune considerazioni generali che mi sembrano necessarie per aprire un discorso che non sia ideologico e che sia invece il più possibile capace di interpretare e capire cosa sta succedendo, non solo nei giornali ma anche nella società. E' difficile studiare i giornali senza capire cosa succede nella società, è difficile interpretare l'ideologia giornalistica senza capire la cultura collettiva; le due cose, come sapete, si influenzano reciprocamente.

In primo luogo io sono convinto, anche se dico una cosa molto ovvia, che se il giornalismo in generale, quindi i mezzi d'informazione e la cultura professionale che sta dietro i professionisti della comunicazione, è in generale importante nella nostra vita collettiva, lo è soprattutto quando noi facciamo riferimento ad alcuni fenomeni molto rilevanti, come ad esempio quello dell'immigrazione. Cioè oggi non si può affrontare il tema dell'immigrazione e più in generale di una società che sta diventando sempre più multietnica, senza un contributo strategico dei professionisti della comunicazione. Naturalmente con questo non voglio dire che dobbiamo gettare la croce sui giornalisti, quasi che i destini della nostra convivenza civile dipendano solo da loro, ahimè, ci sono altri soggetti sociali che oggi non lavorano sempre a favore di questa comprensione, potremmo anche dire che lavorano contro per interessi politici ed ideologici che tutti noi conosciamo. Oggi uno dei problemi della società multietnica e della rappresentazione della diversità nel nostro paese e nella nostra società è che, diversamente da dieci anni fa, quando il fenomeno esplose con i primi processi migratori, oggi si è caricato di valenze politico ideologiche; oggi dell'immigrazione alcune forze politiche, a torto o a ragione, secondo me a torto, ne fanno un motivo di battaglia politica. E' quindi evidente che, quando si utilizzano processi sociali per catturare il consenso, è difficile che questo faciliti sia la comprensione dei processi sociali stessi sia la possibilità di intervenire positivamente.

Vorrei dire subito una seconda cosa, anche se esporrò alcune critiche che mi sembrano presenti oggi soprattutto in alcuni settori del giornalismo quotidiano, nel modo di rappresentare la società multietnica; dobbiamo però uscire dall'idea che ci sia un unico giornalismo, un unico modo di fare informazione e che questa informazione sostanzialmente sia quella dei telegiornali e dei quotidiani. Tutti noi sappiamo che certamente questa è l'informazione più visibile sulla scena pubblica, ma non è l'unica. Io sto finendo, in questi giorni, una ricerca sul palinsesto sociale della RAI, cioè sulla programmazione televisiva, radiofonica e di televideo, del servizio pubblico; una iniziativa che ho iniziato un anno fa e che fa parte di un discorso molto generale di rilancio del ruolo del servizio pubblico, e devo dire che sono rimasto assolutamente colpito, come utente, del fatto che - certo, alle otto di mattina e a mezzanotte, alle due di notte - ci sia una programmazione, ai margini dei picchi d'ascolto, che invece è molto capace di raccontare la società, il sociale, sia nelle sue dimensioni più problematiche (il disagio, l'emarginazione), sia per quello che ci riguarda in questo contesto, nell'affermarsi di una società multietnica. Dobbiamo quindi guardarci dalle generalizzazioni, non tutto il modo di fare informazione è riconducibile a quella parte che in genere viene messa più in evidenza, più criticata, come il servizio del telegiornale alle otto di sera che, dovendo raccontare la storia di un neonato abbandonato lungo la strada, l'unica cosa che sa dire è che la strada è frequentata da prostitute nigeriane, salvo poi scoprire, due giorni dopo, che il bambino è stato abbandonato da una ragazza madre italianissima che non voleva tenerlo.
Non dobbiamo fermarci su questi episodi, pure interessanti, perché dobbiamo cogliere la complessità dell'offerta informativa, anche se naturalmente rimane il problema, e lo sottolineerò, del fatto che molto spesso gli impegni di approfondimento fatti dai media vengono collocati in fasce orarie, in rubriche di nicchia, destinate ad un pubblico d'élite, di addetti ai lavori e non riescono ad arrivare al grande pubblico.

Una terza questione preliminare è che il tema della paura, il tema del disagio nei confronti sia della presenza di persone che vengono da culture diverse, sia dal dilagare della criminalità, non lo esorcizziamo con i buoni sentimenti; come vi farò vedere da qualche dato, c'è una paura diffusa nel corpo sociale. Il problema è capire come questa paura può essere ridotta, può essere spiegata; quello che non dobbiamo assolutamente fare è esorcizzarla o criminalizzarla. Questo perché, per me che sono uno studioso della società, è normale: prima viene il riconoscimento dei problemi, poi si cercano le soluzioni, ma quelle che si risolvono a priori dietro ideologie buoniste - siamo tutti amici, tutti fratelli - non portano molto lontano; anzi, come cercherò di spiegare, proprio una certa crisi del giornalismo di questi ultimi dieci anni è originata proprio da questo vizio, un eccesso di atteggiamento ideologico all'inizio, mirante a dire quello che io ed alcuni colleghi abbiamo chiamato, nelle prime ricerche fatte dieci anni fa, l'antirazzismo facile, una sorta di demonizzazione di tutti gli episodi di intolleranza, dietro un'ideologia tipicamente da Bel Paese, da "Italiani brava gente". Gli Italiani sono per natura, per definizione, antirazzisti, sono tolleranti, aperti a tutti, e quindi chi manifesta un comportamento di questo genere viene subito etichettato come razzista, senza cercare di capire quali possono essere (oggi dopo dieci anni lo vediamo molto bene) le conseguenze di un processo migratorio che in larga misura è incontrollato, che è arrivato molto tardi in Italia, dove oggi se ne sentono le conseguenze; ma non possiamo pensare che sia pura invenzione di alcuni parlare di allarme sociale ed anche di paura, anche se poi bisogna cercare di capire di quale paura si tratta, di chi sono le responsabilità e che tipo di allarme sociale ci troviamo di  fronte; in questo senso è evidente che il giornalismo in generale deve fare dei passi in avanti, nel senso che oggi non basta più descrivere, raccontare, certo è importante farlo, ma se non si cerca di capire e se non si cerca di interpretare, poi i rischi sono non tanto essere "profeti di paura", che mi sembra eccessivo, ma sicuramente di essere troppo arrendevoli, troppo ossequienti nei confronti non solo di una sorta di populismo che si sta un po' diffondendo nei confronti degli stranieri, e più in generale dei diversi, ma soprattutto nel farsi cassa di risonanza di strategie politiche, poiché questo, come vedremo, è un altro aspetto curioso del sistema italiano; negli anni Settanta - Ottanta si parlava, vi ricordate, della lottizzazione della RAI, nel senso che i partiti si erano un po' suddivisi le reti e le testate; oggi noi abbiamo un problema più grave, abbiamo un'ideologizzazione del sistema informativo, nel senso che il sistema televisivo è diviso in due grandi oligopoli che corrispondono a due schieramenti politici; e i cittadini, come ormai dimostrano molti dati, si espongono alla televisione non per informarsi ma per prender parte, per riconoscersi. Farò vedere dei dati di come l'allarme sociale cambia molto, nei confronti dell'immigrazione, a seconda che gli intervistati dichiarino di vedere i telegiornali RAI o quelli Mediaset. Questo è un ulteriore problema che complica la situazione e rende più difficile il ruolo dei giornalisti.
Queste osservazioni sono di carattere generale ma ci servono a capire come il problema che abbiamo di fronte sia molto complicato e ormai, a dieci anni dai flussi migratori in Italia, non può essere risolto con delle scorciatoie moralistiche o ideologiche, ma vada invece affrontato per quello che è, sia sul versante del lavoro e dell'informazione, cioè di coloro che ci devono informare su queste cose, sia dal punto di vista della cultura collettiva; perché non dobbiamo dimenticare che i giornalisti esprimono o manifestano, indirettamente o meno, anche una certa cultura collettiva; come si dice, ogni paese ha il governo che si merita, ma potremmo anche dire che ha anche i giornali e le televisioni che si merita, questo per non dare colpe in anticipo, rispetto a quanto possa avvenire.
Io volevo farvi vedere molto semplicemente alcuni dati, sono della fine del '99 e quindi non sono molto aggiornati, ma in questo momento non è importante stabilire che la percezione del rischio immigrazione riguarda il 32 o il 28 per cento degli Italiani, bensì mi interessa farvi toccare con mano alcune problematiche e soprattutto vedere che rapporto esiste tra questo tipo di problematica ed il discorso dell'informazione.
Sapete che di sondaggi d'opinione, d'indagine ce ne sono a tonnellate, sui giornali ne compaiono, anche le cifre variano molto; dico subito che dipende molto da come si fa la domanda, dipende molto dalla correttezza dell'Istituto, quindi non mi soffermerei adesso tanto sul dato: so che ci sono dei sondaggi che parlano di un allarme immigrazione che non riguarda il 21,7 per cento degli Italiani ma molto di più. Questa però è una domanda ben fatta perché tara la percezione collettiva del problema dell'immigrazione non astraendolo dal contesto ma mettendolo insieme agli altri problemi. Vedete che gli Italiani sono preoccupati dalla disoccupazione, quella è la cosa fondamentale, sono preoccupati certo anche dalla grande criminalità, ma sono preoccupati dalla droga e solo il 22 per cento dichiara di esser preoccupato dall'immigrazione straniera. Quindi si tratta praticamente di un quinto degli Italiani, che tra tutti i grandi problemi segnala come rilevante quello dell'immigrazione straniera. Questo è un sondaggio che è stato fatto attraverso delle tecniche particolari, non a ridosso di eventi traumatici; è ovvio che se in seguito all'episodio "strappalacrime" del povero Marocchino che ruba la borsetta all'anziana pensionata, su cui il telegiornale fa un servizio di tre minuti, fate il sondaggio, il giorno dopo, avrete un balzo, perché in Italia le mamme e le vecchiette non si devono toccare in nessun modo, per nessun motivo. Questo invece è un sondaggio che è fuori dalla contingenza, che ci restituisce effettivamente una certa percezione. Vorrei farvi notare una cosa, che questi dati sono incrociati con la lettura dei quotidiani, cioè agli intervistati è stato chiesto anche con quale frequenza leggono i quotidiani. Allora vi farei osservare che il consumo elevato di lettura dei quotidiani è correlato negativamente all'allarme sociale. Cioè, chi legge i quotidiani tutti i giorni, segnala il problema dell'immigrazione come un problema grave in modo minore di quanto non lo faccia chi non legge quasi mai i giornali. Certo noi sappiamo che la lettura dei giornali è correlata al livello di istruzione, al titolo di studio e quindi le persone più colte e più istruite probabilmente, ma non ci metterei la mano sul fuoco, sono più aperte e quindi sono più capaci di capire i veri problemi. L'altra interpretazione è che invece un'esposizione ai media non è necessariamente sinonimo di allarme sociale, cioè chi non è esposto ai media ha una percezione maggiore di questo fenomeno; questo lo vediamo molto bene nella carta stampata, ma sia pure con percentuali un po' meno significative lo vediamo anche nella televisione: chi vede i telegiornali tutti i giorni, o quasi, ha una percentuale lievemente diversa, ma certo inferiore a chi non li vede quasi mai o li vede solo una volta alla settimana. Questo per dire che non è così automatico pensare che essere molto esposti ai mezzi d'informazione, se questi non ci danno una rappresentazione del tutto soddisfacente, generi necessariamente un allarme sociale; è più preoccupante quest'altro aspetto e cioè l'incrocio di questa percezione non con una domanda generica "quante volte io guardo i telegiornali?", ma con la domanda "quali telegiornali guardo?". Allora vedete che qui sono aggregati i TG RAI e quelli Mediaset. Vedete la cosa impressionante: il tema dell'immigrazione straniera appare rilevante solo per il 15 per cento di chi guarda i telegiornali RAI, mentre diventa il 30, il doppio, tra chi segue i TG Mediaset.
Questo dato non va interpretato semplicisticamente sulla base del fatto che alcuni TG Mediaset, non tutti, trattano questi temi, soprattutto i temi della criminalità, della cronaca nera, con certi toni particolarmente caricati, però ci sono anche dei servizi sulle reti Mediaset, sui telegiornali Mediaset che non sono troppo diversi da quelli RAI. Questo dato è più significativo per un altro motivo: cioè coloro che guardano i telegiornali Mediaset sono persone che hanno già interiorizzato un credo politico ideologico nei confronti dell'immigrazione, questo fenomeno si chiama in termini tecnici "esposizione selettiva"; noi tendiamo a scegliere quei mezzi d'informazione (questo è stato già scoperto negli anni Quaranta in America) che sono portatori di valori e di sistemi cognitivi che coincidono con le nostre aspettative, con i nostri interessi; ognuno in genere va a comprarsi il giornale che è più vicino alle proprie idee, non va a comprare il giornale contrario.
Quindi questo dato indica come i media possano avere anche una funzione di freno e non necessariamente di alimentazione rispetto a questi problemi, per lo meno il sistema televisivo (ma sapete che è questo sistema che raggiunge la totalità dei cittadini, più che la carta stampata che ha una diffusione storicamente e cronicamente limitata). Rispetto ai temi dell'immigrazione gli Italiani si dividono preventivamente su basi politico- ideologiche. Questo secondo me è un fatto preoccupante anche perché, come vedremo dopo, è tipicamente ambiguo, perché c'è una sorta di dichiarazione pubblica di xenofobia che poi non corrisponde alla pratica quotidiana, per non dire poi che in regioni vicine a questa il miracolo economico, come sapete, si sta costruendo attraverso lo sfruttamento degli immigrati; quindi è inutile che ci vengano a dire tutte le sere "mandiamoli via, mandiamoli a casa". In realtà se lavorano e lavorano in nero e ci fanno guadagnare, ci vanno benissimo.
Però questo aspetto ambivalente tra realtà quotidiana ed ideologia è un tratto caratteristico della società italiana che purtroppo dieci anni fa non esisteva e che oggi esiste, perché esiste questa spaccatura nel paese, una spaccatura politico - ideologica che ha fatto del tema dell'immigrazione una delle bandiere. Poi non fa niente se nella realtà quotidiana la dinamica è molto diversa: di fatto c'è questo elemento ideologico.

L'ultima cosa che vorrei farvi vedere è una seconda domanda che riguarda il rapporto tra immigrazione e criminalità. Guardiamo la tabella, in essa ho riassunto le varie dimensione di "molto", "abbastanza", "poco d'accordo", "per nulla": l'Italia è sostanzialmente spaccata in due. Un po' più del 50 per cento ritiene che gli immigrati facciano aumentare la delinquenza e la criminalità, un po' meno del 50 per cento dei rispondenti non è d'accordo con questa osservazione.
Potremmo dire con una battuta che, se noi trasformassimo quei dati in dati elettorali rispetto al voto tra i poli, troveremmo che coincidono. Stamattina sui giornali è stato fatto circolare un sondaggio, sappiamo che questi sondaggi sono spesso interessati, quindi avranno regalato qualche punto al Polo: si parlava del Polo al 57 per cento. Penso che non siamo molto lontani, naturalmente adesso con il Polo si considera anche la Lega.
Questa spaccatura, quest'idea che non solo l'immigrazione sia un problema, ma che ci sia una correlazione tra immigrazione e criminalità, come vedete gli Italiani la identificano. Vi faccio solo osservare come, qui viene disaggregato per telegiornali, cambia completamente l'accordo e il disaccordo a seconda se si passa per esempio dal TG2 e dal TG3, dove abbiamo il disaccordo più alto tra i telegiornali RAI, invece alle testate Mediaset dove trionfa Emilio Fede con il 77 per cento di accordo che immigrazione voglia dire criminalità.
Quindi questo è interessante ma dobbiamo ragionare su questo fatto: siccome il paese è spaccato in due e siccome dal punto di vista dell'orientamento d'opinione il tema dell'immigrazione è uno dei temi qualificanti, questo dato deve far riflettere perché non è un invenzione: rispetto a questo tema si è cristallizzata una dicotomia, una divaricazione del paese nel modo di guardare, anche se poi, come cercherò di dire, in larga misura si tratta di una dicotomia più ideologica che pratica.
A questo punto, sulla base di alcune premesse, di alcuni dati che dobbiamo tenere in considerazione (quindi c'è un problema di allarme sociale, più o meno diffuso a seconda se lo si considera in astratto o in rapporto alla criminalità), si tratta di capire come i mezzi di informazione possano inserirsi in questo problema senza cavalcarlo ma svolgendo il ruolo che dovrebbero svolgere, che per lo meno è quello di chiarire quali siano i veri problemi che stanno dietro a questo processo, un processo complesso anche dal punto di vista culturale.
Lo dirò dopo, ma adesso lo anticipo: voi sapete che ormai in tutte le civiltà occidentali, al vecchio modello americano di una società dell'integrazione, il cosiddetto modello del melting pot che è stato alla base dello sviluppo degli Stati Uniti, per cui gente di etnie diverse abbandonava l'Europa, l'Asia, il Giappone o anche la Cina andando negli Stati Uniti, dove si rimescolavano alla luce di un nuovo sistema di valori che alla fine li integrava. Voi sapete che ormai l'integrazione è fallita anche negli Stati Uniti, dove pullulano le comunità etniche, da quelle messicane a quelle ispano americane, a quelle portoricane: tutta la vicenda del bambino cubano, l'avete seguita, è una cosa che era impensabile anche durante la guerra fredda, perché oggi non ha solo una valenza politica ma anche etnico culturale. Oggi noi non siamo più in una società in cui l'obiettivo è integrare tutti, al contrario siamo in una società il cui problema è come far coesistere le differenze. Naturalmente far coesistere le differenze comporta dei problemi, di tipo culturale e di tipo religioso, di cui il principale è, lo dico perché personalmente sono fautore di questa problematica, questo: riconoscere le differenze e le identità certamente è importante perché esprime una cultura della tolleranza ma non dobbiamo poi anche dimenticare che identità e culture sono un prodotto storico. Cosa voglio dire? Voglio dire che nell'Islam piuttosto che nei paesi del Maghreb, piuttosto che nel Messico, un certo tipo di cultura ed identità è il prodotto storico di processi sociali. E' evidente che noi ci troviamo e ci troveremo di fronte a questa contraddizione: da una parte siamo costretti a riconoscere la differenza un po' anche per senso di colpa, perché abbiamo abbandonato i modelli della modernità progressiva, del fatto che l'Occidente è il meglio e che gli altri devono integrarsi. Ma nello stesso tempo però la cultura occidentale ha fatto oggettivamente dei passi avanti: cito solo un caso evidente, quello della condizione della donna. La domanda è: noi riconosciamo certamente le differenze, dobbiamo dare la cittadinanza a queste differenze, tuttavia non dobbiamo nasconderci di fronte al fatto che alcune di queste diversità sono portatrici di valori che per noi appaiono superati, negativi. In Europa ci sono stati 30 anni di lotta per affermare le pari opportunità ed ancora, come sapete, non sono concluse. Bene, è difficile accettare e riconoscere a cuor leggero che chiunque possa venire qui e, nascondendosi dietro una presunta identità non negoziabile, possa permettersi di assegnare alla donna ed ai figli un ruolo che qui ormai non sostiene più nessuno, neppure il padrone delle ferriere di 95 anni; non osa più neanche dirlo in pubblico!
C'è quindi un problema nella misura in cui la società multietnica è avanzata e nella misura in cui noi andiamo verso un modello differenzialista, che accetta, giustifica ed anzi considera le differenze come una ricchezza; non dobbiamo però nasconderci che, nel momento in cui abbiamo imboccato la strada, prima o poi ci troviamo a fare i conti con alcuni problemini, che non sono tanto di tipo religioso, quanto proprio di tipo culturale. Riguardano, per esempio, il modo di educare i figli, riguardano la presenza o meno della religione nella scuola, intesa come scuola laica. Insomma tutta una serie di problemi che come sapete sono oggi sul tappeto.
Allora per quello che riguarda i media vorrei semplicemente accennare a tre questioni:
Una prima questione è che in questi dieci anni i mezzi d'informazione, in particolare quelli giornalistici legati all"attualità ed alla cronaca quotidiana, stampa e televisione, sono passati da quello che noi abbiamo chiamato l'antirazzismo facile, cioè una sorta di autodifesa generalizzata nei confronti di ogni episodio di razzismo, quasi a rivendicare un patrimonio culturale del nostro paese tipicamente tollerante, verso una direzione da cui sembra emergere un allarmismo razziale, volto alla ricerca di un capro espiatorio. Molti fatti sociali, soprattutto connessi alla cronaca nera, alla criminalità, al disagio, tendono facilmente a cercare un capro espiatorio, soprattutto in presenza di situazioni complesse, e questo capro espiatorio è etichettato in termini razzisti.
Recentemente anche il presidente della Camera, Violante, ha ricordato l'episodio di quel bambino che era stato oggetto di pedofilia: se il bambino invece di essere stato un albanese fosse stato un italiano, sarebbe stato facile trovare titoli come "Pedofilo albanese minaccia un bambino italiano"; non si è invece scritto "Pedofilo italiano aggredisce bambino albanese"!
Quest'allarme sociale, che in qualche caso sembra venire dalla cronaca e tuttavia va visto soltanto come un aspetto del giornalismo attuale, certo un aspetto negativo, deteriore, come poi cercherò di dire, ma che non può essere inteso come esplicativo di tutte le modalità con cui si tratta questo problema.

La televisione: tre modi di parlare di immigrazione

Nell'89, quando noi abbiamo studiato l'offerta televisiva in Italia, nei confronti del tema immigrazione avevamo alla fine coniato il modello delle tre televisioni. Avevamo trovato che in televisione ci sono tre tipi di modi di parlare del razzismo.
Una è quella che avevamo definito "televisione delle emergenze", cioè legata agli episodi quotidiani, che è poi la televisione della cronaca; allora l'avevamo etichettata come televisione dell'antirazzismo facile, nel senso che tendeva ad assumere posizioni antirazziste, ma lo faceva sulla base di un intreccio tra sensazionalismo, emotività, incapacità di interpretare i fenomeni sociali e concessione anche ad un certo gusto, che è lo stesso gusto per cui alcuni fatti di cronaca, soprattutto di cronaca nera, sono sempre descritti con alcuni ingredienti che solleticano le parti meno positive dell'animo umano.
C'era anche un secondo tipo di televisione, che allora avevamo chiamato "dell'integrazione" e che era presente in tutti quei programmi, per lo più telefilm di origine americana, che ci mostravano invece spesso anche dietro un'immagine allegra e molto divertente, l'avvenuta integrazione (qualcuno si ricorderà di quel famoso telefilm "I Robinson", in cui veniva mostrata questa realtà pienamente integrata).
Infine c'era un terzo tipo di televisione, che avevamo chiamato addirittura post razzista, che era la televisione che ci mostrava, in alcuni settori della vita collettiva, per lo più collegati al mondo dello spettacolo, dello sport, della musica, della moda, dei personaggi che non solo erano post razzisti, ma addirittura erano dei modelli di riferimento. Il  grande cantante rap è visto come un personaggio di successo, che manda in delirio, che sia nero ed abbia le treccine non solo è irrilevante, anzi è un punto di forza, che la bellissima donna che fa la top model, passeggi sulle passerelle di Parigi e di New York, viene presentata come un modello di bellezza, come un punto di riferimento; che Ben Johnson vincesse, prima che fosse dopato, i cento metri a quella grandissima velocità, che le maratone siano vinte tutte dai corridori degli altipiani… sono personaggi che vengono proposti come dei modelli di riferimento.

Naturalmente questa televisione postrazzista è una televisione "interessata", perché si occupa solo di quelli che hanno avuto successo, si occupa solo del vincente, si occupa di chi riesce a sfondare, di chi diventa, anche dal punto di vista economico, un testimonial del successo. Tuttavia non è irrilevante notare che, almeno su questi settori marginali, alcune delle prevenzioni nei confronti delle differenze razziali sono state superate.

Nella televisione di oggi che cosa abbiamo?

Diciamo che è cresciuto un quarto tipo di televisione, che possiamo chiamare "la televisione di sevizio". E' una televisione ancora minoritaria. Mi hanno raccontato che a Prato c'è una televisione locale con giornalisti cinesi che parlano in cinese ai cinesi che lavorano lì, nel settore tessile: è un piccolo esperimento. Un paio di anni fa ci fu quella trasmissione su RAI 2, poi chiusa, "Non solo nero". Oggi non c'è più ma ci sono molte altre trasmissioni simili: "Un mondo a Colori", " Shukran", e altre che trattano questi temi, e lo fanno non dal nostro punto di vista, nel confronto degli immigrati, ma da quello degli immigrati stessi, con una strategia legata molto alle "istruzioni per l'uso": cosa fare, dove rivolgersi, ecc.
E' una televisione minoritaria, probabilmente; c'è anche una stampa legata all'associazionismo, al volontariato che esiste, che fa questo tipo di informazione e di servizio, che però è ancora minoritaria rispetto ai grandi giornali, ai grandi quotidiani; e tuttavia non dobbiamo non rilevare che questo fenomeno esiste.

Rapporto tra cultura collettiva e società multietnica

In Italia che cosa non funziona in definitiva nel rapporto tra giornalismo e società multietnica? O più in generale tra cultura collettiva e società multietnica?
Ci sono alcune cose che cercherò di elencare rapidamente, scusandomi per la brevità.
Sono sostanzialmente delle divaricazioni, delle contrapposizioni, che però oggi, badate bene, attraversano la nostra vita; pensiamo non solo agli immigrati, ma più in generale guardiamo i processi sociali, viviamo in una fase di grande trasformazione, lo sappiamo tutti, e tutte le fasi di grande trasformazione comportano degli arretramenti, delle contraddizioni; il problema è che noi non dobbiamo né demonizzare né minimizzare, ma capire.
La prima di queste contrapposizioni è quella che io chiamo "locale-globale".
La società multietnica è sempre positiva quando è presentata come globale. Ma quando parliamo di dimensione locale, allora lì c'è la xenofobia. Il caso di Heider è classico: a livello europeo tutti si indignano che in Austria abbiano eletto un partito e un leader che è apertamente xenofobo. Perché? Perché nessuno a livello globale può negare il dover essere; livello globale è ormai il dover essere, ciò che vorremmo. Peccato che però il "locale" si sviluppi proprio come reazione al globale, come autodifesa, e non è un caso che in questi 10 anni, dalla caduta del muro di Berlino in poi, la globalizzazione dei processi sociali abbia comportato una rinascita dei localismi, ma in senso deteriore, non piccolo e bello, come si diceva una volta. Come si può dire ancora, localismo come rinascita delle etnie, delle differenze religiose, dei conflitti culturali e quindi rifiuto del diverso. E' dunque presente questo strano fenomeno per cui quando si parla di globalizzazione, di new-economy, tutti si sbracciano per dire che è un mondo meraviglioso in cui uno, in qualunque momento, anzi adesso, può comprare cliccando qualche azione via Internet o con il telefonino; questo mondo accessibile a tutti però poi a livello di vita quotidiana, nei quartieri, nelle zone, quando gli zingari vengono a piantare la roulotte davanti a casa, lì dopo scoppiano i conflitti. Allora lì la società multietnica si dimentica e si guarda solo al proprio interesse personale. I giornalisti sono in grado di capire questa distinzione, sono in grado di far vedere come locale - globale sono due facce di uno stesso fenomeno.
Seconda contrapposizione: normale - sensazionale. Vedo che c'è Faustini, mi dirà che dico  sempre le stesse cose, questo è un classico sugli studi del giornalismo. Come sapete, da quando Umberto Eco disse che "il cane che morde l'uomo non fa notizia, ma fa notizia l'uomo che morde il cane" ci ha svelato una cosa che è molto ovvia che sta alle origini del giornalismo. I fatti normali e la quotidianità interessano poco, ci vuole l'evento sensazionale, la rottura della quotidianità. Quindi gli immigrati che lavorano, che mettono su famiglia, che fanno gli ingegneri, che fanno i designer non fanno notizia. Quando l'immigrato fa notizia? Fa notizia quando viene colto a rubare il pollo, piuttosto che a spacciare droga, piuttosto che a scippare la vecchietta. Allora questa contrapposizione tra normale - sensazionale, che è tipica del giornalismo occidentale, del nostro modello di giornalismo, è grave anche su altri settori.
Io ho provato ad analizzarlo in riferimento ad altre problematiche, prima o poi lo si ritrova. Ma certamente è particolarmente grave nel caso degli immigrati e dell'immigrazione, dove già per sua natura il rapporto tra diverso e criminalità è un dato sotto gli occhi di tutti.
Certo, non è possibile al telegiornale dare solo notizie positive, ma certamente alternare o trovare il modo per fare delle inchieste per mostrare che non tutti gli immigrati rubano, che non tutti violentano, ma che ci sono un sacco di immigrati che in realtà svolgono non solo un ruolo positivo, ma anche, come sapete, ci sollevano da una quantità di lavori che gli italiani non vogliono più fare e che sono necessari. E infine la terza dicotomia è quella a cui avevo accennato prima e che mi sembra la più grave se non viene messa in evidenza, è quella che io chiamo la dicotomia tra pragmatico e ideologico. Noi abbiamo una sorta di schizofrenia tra un discorso pubblico in genere egemonizzato dalle forze politiche che fa di questo tema, come dicono i politologi, un cleevage, cioè una spaccatura nella cultura politica; essere a favore dell'immigrazione vuol dire essere buonisti, permissivi, tolleranti, di sinistra. Anzi peggio ancora catto-comunisti, ammesso che ne esistano ancora. Vuol dire avere questa concezione fino al punto, come è stato sostenuto, che dietro questo buonismo non ci sarebbe altro che far votare gli immigrati in modo da prendere voti; l'idea è l'integrazione, funzionale al consenso elettorale. Dall'altra parte invece l'immigrazione viene usata in senso completamente diverso. Ma guardiamo qual'è la realtà del paese, cominciano a uscire gli articoli, anche nel nord est cominciano a uscire gli articoli. Certo c'è il sindaco di Treviso che, come sapete, sega le panchine per impedire che gli immigrati vadano sulle panchine a mangiare e a farsi il cous-cous, ma mentre il sindaco dice questo e si capisce perché lo dice, la cosa più incredibile è che ci siano persone che lo votano, perché non dimentichiamo che questi personaggi sono lì perché qualcuno li vota, quindi anche la retorica sul popolo che ha sempre ragione, il popolo qualche volta ha ragione, più spesso ha torto, questa è la mia opinione, perché essere "il popolo" non è una garanzia, se il popolo fa delle stupidaggini bisogna dire che fa delle stupidaggini. Però a fronte di questa sorta di teatrino dell'antirazzismo o della xenofobia, poi le pratiche quotidiane sono molto diverse: io leggevo un articolo sul nord est dove le banche ormai stanno aprendo tranquillamente fidi a immigrati che iniziano delle attività. Ci sono alcuni settori della piccola produzione familiare, soprattutto quello che riguarda alcune attività, io ho visto un servizio poco tempo fa durante la guerra in Kosovo su una televisione locale milanese, io sono di Milano, andò in onda un servizio proprio su queste piccole aziende del nord est che non solo hanno la piena occupazione, e molto spesso il 70-80% è fatto da immigrati, ma in quel caso lì addirittura erano slavi. Cioè noi stavamo facendo la guerra, c'era qualcuno che andava a Belgrado per dire che era amico del popolo serbo, e nel nord est gli slavi lavoravano tranquillamente. Naturalmente cosa facevano? Faranno quei lavori che sono più pesanti, più scomodi, spesso sono pagati in nero, certo c'è questo aspetto ambiguo, ma la realtà quotidiana, pragmatica, non è una realtà legata necessariamente allo scontro, tutt'altro, perché è una realtà legata molto all'interesse, come dicevano gli imperatori romani sulla tassa messa sulle latrine, non olet, cioè non puzza, anche se fatta sulle latrine. Potremmo dire la stessa cosa, che il lavoro degli immigrati non puzza perché porta profitti e tuttavia in questo paese si sta continuando questa divaricazione presentando come un conflitto culturale quello che in realtà è semplicemente un conflitto di interessi politici, spesse volte anche alle spalle degli stessi cittadini. Il che naturalmente non significa che non ci sia un problema di ordine pubblico, un problema di lotta alla criminalità, ma che questo problema non si risolve attraverso l'ideologia.

Conclusioni

Che cosa si può dire sul ruolo che i mezzi di informazione dovrebbero avere rispetto a questo problema, un problema che va al di là del tema dell'immigrazione e potrebbe essere esteso a tutti i problemi della nostra società, dal disagio sociale ai conflitti culturali di qualunque tipo, al rapporto tra giustizia e morale, insomma tutto quello che sta cambiando, pensate a tutto il settore delle bio-tecnologie, alla bioetica; ogni giorno ci troviamo di fronte a risolvere problemi che non avevamo previsto e quindi sono oggetto di confronto, di conflitto e discussione. Allora il primo problema mi sembra sia che il giornalismo oggi dovrebbe porsi il problema di tematizzare la differenza culturale:  bisogna guardare ai fatti sociali non solo in termini di mera cronaca di eventi sulla base di alcuni criteri di tipo legale/illegale, italiano/straniero, integrato/non integrato, bisogna affrontare il tema della differenza culturale, tema che, come ho detto, non possiamo nascondere proprio perché abbiamo fatto questa scelta di andare verso una società in cui non solo il diverso è accettato, non solo il diverso va riconosciuto come tale, ma in qualche caso il diverso è anche portatore di contenuti e valori che possono essere in conflitto con la nostra cultura. Quindi a maggior ragione noi dobbiamo porci questo problema, dobbiamo porci il problema di cosa facciamo a scuola quando si presentano bambini o bambine che vogliono portare il velo, quando ci troviamo di fronte dei bambini che in un certo giorno della settimana non vogliono mangiare un certo tipo di carne… dobbiamo porci questo problema, non possiamo esorcizzare restando ad un livello del giorno per giorno. Dobbiamo cominciare a dire: il nostro modo di guardare ai fatti sociali deve avere una sorta di pre-condizione, nelle dinamiche sociali la differenza non è l'eccezione, è la normalità e quindi dobbiamo fare i conti con questo discorso sulla differenza. La differenza vuol dire anche sforzo di conoscere la differenza, non basta dire: "Ti rispetto perché sei diverso", bisogna capire in che cosa consiste la diversità. E qui entra un secondo elemento, un vecchio cavallo di battaglia che però mi sembra utile riproporre. In Italia non c'è mai stato, e neanche negli altri paesi, quello che negli anni '40 negli Stati Uniti era stato lanciato come uno slogan dalle forze progressiste, il giornalismo di precisione. Che cos'è il giornalismo di precisione? E' un giornalismo che rifiuta di restituirci la realtà semplicemente raccontandoci come sono andati i fatti, ma vuole integrare questo racconto con l'analisi sociale. Io qui vorrei citare un esempio di cui tutti si ricordano, i famosi primi disgraziati 15 giorni del 1999 a Milano in cui per una casualità c'è stato un omicidio al giorno per 9 giorni. Voi sapete che in quell'occasione i media caricarono molto questa campagna, manifestazioni per le strade, non ne possiamo più, il sindaco Albertini, naturalmente come espressione di una certa forza politica, disse: "E' il momento che io faccia lo sceriffo" e tutte le cose che voi sapete. In realtà la cosa curiosa è che, nel momento in cui avvenivano questi episodi, sono stati diffusi da varie fonti tutta una serie di dati che dimostravano che in Italia nel 1998 la criminalità stava diminuendo, quindi quella che era stata una semplice congiuntura casuale che a volte può verificarsi, che piove per 5 giorni, lì purtroppo ci sono stati 9 omicidi in sequenza per 9 giorni. Che ci fosse stato un giornalista che avesse detto: "E' un fatto gravissimo, però cerchiamo di capire quello che è il fatto contingente da quella che è la tendenza". La tendenza è quella di una diminuzione della criminalità, certo aumenta la microcriminalità ecc. ma lì si parlava di omicidi, il gioielliere, il famoso pensionato che si pensò venisse ucciso dai viados, ecc. Tutto questo significa che quando io racconto un fatto, un evento, se lo contestualizzo ne do una prospettiva interpretativa diversa. Esattamente come un certo giornalismo militante in America era riuscito a dimostrare che quando tutti si scandalizzavano perché un gruppo di neri in qualche stato del sud aveva assaltato un negozio e quindi invocavano la pena di morte, ma poi c'era già, per cui è inutile invocarla, si dimostrava quanti erano gli episodi di criminalità compiuti dai bianchi, si faceva un raffronto e si dimostrava che tutto questo scandalo non c'era. Per fare questo bisogna dotarsi di archivi, di capacità analitica, bisogna andare oltre l'idea che il cronista sia solo uno che racconta, perché oggi nella nostra società così complicata, così articolata, raccontare può andar bene alla sera prima di dormire al proprio figlio, ma non serve a far crescere né la conoscenza collettiva né la cultura dei cittadini. Non basta raccontare, bisogna raccontare dopo aver analizzato, dopo aver raccolto i dati. Allora questo giornalismo di precisione oggi è sempre più necessario, ben vengano le scuole di giornalismo, ce ne sono ancora poche, ben vengano le facoltà universitarie, a condizione però che poi, fatte queste scuole, appena uno arriva a lavorare non dimentichi tutto quello che ha imparato perché poi le logiche sono diverse. Bisogna farsi carico anche di questo ruolo di analisti sociali, perché il giornalista oggi molto spesso è il punto di riferimento per la stragrande maggioranza delle persone. Per chi come noi, come, voi sono attenti, impegnati nel sociale, lavorano, quello che ci racconta il giornalista del TG1 ci interessa fino a un certo punto perché non abbiamo bisogno che ci spieghi come gira il mondo perché nei nostri contesti di vita lo abbiamo già imparato, ci siamo già fatti le idee, ma la stragrande maggioranza delle persone invece dipende da quello che gli viene raccontato. Io ricordo che durante gli anni '70 abitavo a Milano e avevo parenti a Bologna, questi mi telefonavano e mi dicevano: "Ma voi a Milano uscite di casa?" "Certo che usciamo di casa", "Ma come fate che vi sparano, vi gambizzano…" "Guardate che ogni tanto c'è quello impazzito delle Brigate Rosse che gambizza uno, però non è che ogni mattina usciamo di casa e ci arriva una raffica di mitra, cioè viviamo normalmente...". Certo uno che abitava a Bologna, non sto parlando di uno che stava a Canicattì o Forlimpopoli, uno che stava a Bologna quando si parlava di Milano? Si parlava di Milano raccontando gli attentati della Brigate Rosse, e quindi sembrava che Milano fosse una città in cui non era possibile uscire dopo le 7 di sera perché altrimenti si rischiava di essere gambizzati. Allora questo tipo di distorsione cognitiva oggi può avere una qualche ricaduta sulla stragrande maggioranza della popolazione, sulla popolazione meno esposta, meno acculturata, meno interessata, sulla popolazione che non vede Schucran, che non vede il mondo a colori, che non legge i bollettini delle associazioni, che si limita a dare una sfogliata rapida al giornale, se poi lo fa, e a guardarsi il telegiornale. Allora è necessario investire in termini di approfondimento culturale, quindi non basta far bene l'articolo, far bene il servizio, renderlo avvincente, ci sono dei servizi che sono veramente scandalosi, in cui si chiedono cose assolutamente ovvie, alla madre a cui hanno rapito il bambino le si chiede : "Signora mi dica come si sente in questo momento", ma io non so, se fossi un direttore direi: "domani stai in redazione e attacchi i francobolli"; non è possibile, un giornalista che si presta, anche in RAI, tanto per non fare nomi "i fatti nostri" e dintorni, in cui quotidianamente c'è questo uso, questo sfruttamento del privato a fini di ascolto. Allora bisogna investire in cultura e analisi culturale della società, ma anche in una ridefinizione del ruolo dei giornalisti, non solo i giornalisti minori che si impegnano a costruire le rubriche, a creare i contatti, a intervistare i soggetti sociali, non solo quelli che si muovono nelle nicchie, ma anche i grandi giornalisti che vanno in video, che vengono fotografati da Novella 2000 sulle spiagge della Sardegna, farebbero bene a impegnarsi un po' di più, altrimenti il rischio è che il giornalismo finisca per diventare una variabile dipendente di altri poteri che agiscono in questa nostra società, e verosimilmente nel caso italiano del potere politico per non parlare di quello economico. È necessario quindi che su questa questione, senza fare dei giornalisti, il capro espiatorio di un problema che è più generale, è necessario che ci sia da parte loro questo impegno ad andare al di là del semplice racconto dei fatti per cercare di dar conto di questo problema, che non è solo un problema di moralità e di buoni sentimenti; è un problema complicato che non si risolve con delle scorciatoie, ma che si risolve attraverso la conoscenza sistematica, l'interpretazione, la discussione e la critica. Se faremo così andremo verso una società multietnica che servirà a tutti, altrimenti come sempre andremo verso un modello di società in cui i più forti, i più ricchi, i più abbienti vinceranno e gli altri rimarranno al palo.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.