II Redattore Sociale Milano 5-6 ottobre 2007

Miglioratori del peggio

Cos'è e a cosa serve oggi la "filantropia meneghina”?

Tavola rotonda con Gian Paolo Barbetta, Giovanni Colombo, Miriam Giovanzana, Paolo Morerio. Conduce Franco Bomprezzi

Gian Paolo BARBETTA

Gian Paolo BARBETTA

Docente di Economia politica all’Università Cattolica di Milano. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Franco BOMPREZZI

Franco BOMPREZZI

Giornalista, collabora con Corriere.it e il settimanale Vita, portavoce della Ledha.

ultimo aggiornamento 28 aprile 2011

Miriam GIOVANZANA

Miriam GIOVANZANA

Giornalista professionista dal 1984, dopo aver frequentato l’Ifg di Milano. E' tra i fondatori del mensile Terre di Mezzo, che si occupa di povertà ed emarginazione sociale. Dal 1999 al 2007 ha diretto il mensile Altreconomia e attualmente si occupa della gestione e della direzione editoriale del gruppo Terre di Mezzo, comprendente anche Terre Edizioni. Fa parte del comitato scientifico di "Fa' la cosa giusta", fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, tema su cui ha scritto diversi libri.

ultimo aggiornamento 06 novembre 2016

Giovanni COLOMBO

Giovanni COLOMBO

Consigliere comunale a Milano.

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Paolo MORERIO

Imprenditore, presidente della Fondazione Peppino Vismara. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Franco Bomprezzi

Il tema sarà una sorta di tributo a Milano o meglio un ragionamento che parte da Milano. Un pensiero che ci riporti un po' indietro nel tempo, nella memoria, perché in effetti molto spesso l'informazione in generale e quella sociale in particolare, passa di redazione in redazione e poi subisce la perdita della memoria. La perdita della memoria è clamorosamente grave perché senza memoria è impossibile stabilire un confronto fra il passato e il presente, cioè vediamo dei fotogrammi ma non abbiamo capito com'era il film, non sappiamo quale era la trama, non sappiamo davvero dove stiamo andando rispetto a quello che era un passato. Chi arriva a Milano, come è capitato a me più di 10 anni fa scegliendo di venire in questa metropoli, fatica a capire dalle tracce urbane la storia della città, deve mettersi d"impegno, deve trovare qualcuno che spieghi, qualcuno che racconti che cos'era Milano, perché adesso è così, ma che cosa c'è stato in mezzo? E tra tutto ciò la cosa che mi colpiva erano alcuni palazzi, alcune case… Adesso vivo nel quartiere della Bicocca e ci sono ancora, per fortuna non le hanno buttate giù, ci sono delle case che erano quelle che aveva fatto la Pirelli, erano le case di chi ci lavorava. Proviamo a pensare solo a questo elemento: l'emergenza casa per gli immigrati che vengono a lavorare nel nostro paese, tenendo conto anche della migrazione interna, gli studenti che vengono a Milano in cerca di un posto dove poter stare taglieggiati da affitti assolutamente impossibili se non ci fossero le famiglie dietro e così via… Ecco c'era una società che nel momento in cui avviava attività economiche, proponeva attività economiche, che richiedevano manodopera, pensava anche che la prima cosa da dare era forse una casa, una scuola forse, quelle cose fondamentali, non che fosse tutto perfetto però c'era un modello. Era il cosiddetto filantropismo o filantropia meneghina che si sposava anche con una storia del movimento dei lavoratori, molto forte, il socialismo milanese, delle figure storiche che comunque hanno connotato il riformismo lombardo come una fucina molto forte di pensiero operoso in qualche maniera, in cui vi era la solidarietà tra socialismo, movimenti cattolici, basta pensare a don Gnocchi, tanto per parlare di altre figure che sembrano scontate. Chi era don Carlo Gnocchi e cosa ha fatto? Quali alleati ha trovato per strada? Chi gli ha dato i soldi per fare certe cose? E così via… Di questo stamattina parliamo, perché forse ci aiuta tutti un po' a ragionare e a pensare al passato, al presente e possibilmente a cercare dove si potrebbe andare, perché Milano comunque non è una città qualsiasi; Milano per l'Italia e forse per la nuova Europa potrebbe essere un luogo non perduto definitivamente. Credo che la cosa che più angoscia molti di noi è la sensazione di una città che ha smarrito un'anima, che fa veramente fatica a trovare quella speranza di cui parliamo e i segnali in questo senso sono molti. A Giampaolo Barbetta, notissimo docente di Economia Politica all'Università Cattolica di Milano, il compito di aprire questo confronto.

Giampaolo Barbetta

I temi che il nostro coordinatore ha sollevato in apertura sono molto ampi, ma io mi atterrei all'istruzione che don Gino ci ha dato in precedenza, cioè che per parlare bisogna avere qualcosa da dire e mi sembra di avere delle cose da dire solo su una parte molto limitata delle tematiche che Franco ha sollevato. Se capisco qualcosa di questo mondo della filantropia milanese, quel qualcosa ha a che vedere con un pezzo della filantropia che si chiama "fondazioni" e quindi io su questo vorrei concentrarmi. Io credo che la prima osservazione che vada fatta è che se prendiamo come termine di confronto un'epoca non particolarmente remota, anche solo una quindicina, una ventina di anni fa, ci accorgiamo che le fondazioni a Milano e nel paese in generale, sono diventate un po' di moda per taluni aspetti. Vent'anni fa erano pochissimi quelli che parlavano di fondazioni e l'idea stessa di fondazione dava il concetto, la sensazione della stanza polverosa, dei libri ammuffiti insomma… la fondazione era un luogo dove qualche topo di biblioteca si metteva a fare ricerche più o meno intelligenti. Non è più così palesemente: le fondazioni sono diventate uno strumento molto utilizzato e ne sono nate moltissime negli ultimi 15 anni, dopo un periodo in cui qualcuno diceva che le fondazioni stessero sostanzialmente sparendo, si stessero estinguendo, per ragioni molto diverse; credo che, oltre alla crescita e alla moda, vi sia un'evidente apertura, un evidente pluralismo nei modelli di fondazione che vengono proposti. Il nostro paese e la nostra città in particolare è stata tradizionalmente abituata a fondazioni dalla natura fortemente operativa; ancora Franco ci ricordava quella di don Gnocchi e c'è una tradizione di lunga durata, di fondazioni che svolgono attività direttamente operative, che fanno qualche cosa. Più recente invece è stata riscoperta l'idea della fondazione che non fa direttamente ma che gestisce risorse economiche e le eroga. Questa è una delle novità, non l'unica. L'altra su cui non mi concentro è di una forte tendenza ad utilizzare lo strumento della fondazione anche da parte di strutture pubbliche: la fondazione è diventata un po' l'asso piglia tutto, quando non si sa bene che cosa fare si fa una fondazione. Abbiamo in mente le notizie estive sulla fondazione welfare a Milano, ma abbiamo in mente anche che in molte circostanze le fondazioni sono state utilizzate per depubblicizzare come si diceva pubblicamente una volta, privatizzare come si direbbe, trasformare in una sorta di ibrido alcune entità pubbliche, pensate a quelle storiche, pensate alla Scala che è diventata grazie all'invenzione del sindaco di Roma, quando era ministro, una fondazione. Ma pensiamo ad altre istituzioni milanesi, le civiche scuole per esempio, tutte trasformate in fondazioni. Su questo non mi voglio concentrare, io ho un'attitudine molto critica su questa rinuncia dell'amministrazione pubblica a svolgere direttamente alcuni compiti trasferendoli all'esterno, credo che sia l'esito di una difficoltà a confrontarsi con le logiche di funzionamento della burocrazia. Credo che la cosa sensata sia cambiare le logiche e le regole, non aggirarle, sono anche convinto che sia spesso l'occasione per togliere responsabilità agli amministratori, mettendo in contenitori un po' più opachi e meno aperti, per esempio allo scrutinio degli amministratori pubblici, alcune attività su cui si agisce in maniera veloce.

Le fondazioni di erogazione: a fianco delle fondazioni operative, a fianco delle fondazioni usate dalle amministrazioni pubbliche per fare strani ibridi, c'è la riscoperta di questo strumento che quasi sembrava perso, che recupera una tradizione mecenatistica che è stata molto forte nel nostro paese qualche secolo fa. Ce ne sono di diverse origini: quelle che hanno una matrice familiare, sono patrimoni individuali che vengono messi a disposizione di una qualche causa collettiva, benefica, filantropica… Ci sono fondazioni d'impresa e Aida Linzalone ce ne ha raccontato un'esperienza credo tra le più significative in Italia. C'è l'esperienza in Italia della trasformazione delle Casse di Risparmio in fondazioni di origine bancaria e ancora degli attori particolarmente rilevanti dentro il contesto nazionale. Da questo punto di vista siamo abbastanza all'avanguardia, e infatti ci sono tutti quei modelli che vanno sotto il nome di venture filantropy, come si dice oggi, dei tentativi di ibridazione, di contaminazione tra attività filantropica che si traduce nell'erogazione di denaro. Mi sembra che dietro queste logiche qua ci siano alcuni fenomeni positivi da cogliere, soprattutto la riscoperta di un pluralismo negli approcci ai problemi sociali, che non avevamo 10 o 15 anni fa, credo che è un pezzo del valore estremamente positivo delle fondazioni e di soggetti che non solo operativamente, ma anche mettendo quattrini vanno ad operare in campo sociale. L'altro elemento positivo che leggo dietro questa cosa è il fatto che ci sia una contaminazione sempre più forte tra modelli del non profit e modelli di azione tipici della logica di impresa. Non tendo a dare connotati positivi all'uno o all'altro, ma diciamo che se una cosa è evidente nella logica d'impresa è la necessità di auto sostenersi e quindi credo che da questa contaminazione possano venire delle lezioni utili nella logica della non dipendenza dalle istituzioni sociali. Oltre alle luci ci sono sicuramente anche alcune ombre, soprattutto a Milano, perché il modello di fondazione, il modello che caratterizza un po' tutti i tipi di fondazione che vi ho elencato, familiare, d'impresa, di origine bancaria, i nuovi venture filanltropy, ecc., è un modello fondamentalmente orientato ad approcci di tipo paternalistico: io sono uno strenue difensore del comunismo aristocratico, come si diceva una volta, alcuni illuminati che governano per il benessere di tutti e quindi sono convinto che ci debba essere una miscela di approcci, che una società sana è quella che sa cogliere i diversi valori e siccome il mondo delle fondazioni internazionali ha prodotto non solo approcci di tipo paternalistico ma anche dal basso, potremmo dire che è abbastanza strano che Milano non ne sia capace. Vi faccio solo un esempio banale, quello della Fondazione Cariplo che ha promosso nel corso degli ultimi anni un progetto di diffusione nell'intera Lombardia e in parte del Piemonte, delle cosiddette fondazioni di comunità locale, istituzioni che con le fondazioni hanno in comune il fatto di erogare risorse, ma che si differenziano per il fatto di partire da una comunità ed un territorio e che quindi per fare questo compito devono radicare fortemente la propria attività dentro il tessuto sociale, economico, ecc., ecco è abbastanza strano vedere come questo modello abbia funzionato pressoché universalmente con degli alti e dei bassi nell'intero territorio lombardo ma non a Milano: Milano non ha una fondazione comunitaria, non ce l'ha perché la fondazione Cariplo ha deciso di non farla a Milano ma è anche vero che nemmeno i cittadini si sono interessati per mettersi insieme per questa iniziativa. Milano non ha prodotto questa capacità, produce un modello interessante di fondazione molto orientato in senso appunto più paternalistico, più dall'alto. L'altra cosa interessante secondo me da vedere è che molto spesso le fondazioni agiscono con una doppia logica, con un approccio subalterno alle amministrazioni pubbliche: tendono ad essere molto supine o subalterne all'amministrazione pubblica, si percepiscono come uno strumento complementare all'amministratore pubblico che ha tutto l'interesse a percepirle e a concepirle in quella dimensione lì, sono il luogo dove si va a chiedere un assegno quando si deve fare qualche cosa che diciamo non è così prettamente prioritario da poterlo portare in consiglio comunale. Io sono convinto che questo sia un errore gravissimo, cioè che la missione delle fondazioni non sia quella di migliorare il peggio, che il loro compito non sia quello di fare del bene. La domanda che spesso mi viene da fare agli amministratori delle fondazioni è: ma per capire se le fondazioni servono, se ha senso che esistano, la domanda che dovreste porvi è, ma che cosa accadrebbe se la fondazione non ci fosse? Badate bene, non se non ci fossero i quattrini della fondazione. Supponiamo che il patrimonio di fondazione Cariplo, della fondazione Vodafone, della fondazione Umanamente, della fondazione Vismara, ecc., ci fossero, fossero lì e fossero dati a qualcun altro per gestirli, che cosa accadrebbe? Spesso non è facile trovare una risposta, perché le fondazioni si giustificano semplicemente anche sul fatto di sedere su un patrimonio, quindi poter mettere quattrini sui problemi. 

Io credo che se le fondazioni non vogliono continuare ad adottare logiche subalterne, logiche risarcitorie, se non vogliono continuare a pensare di dover migliorare il peggio, cioè a fare del bene, debbono capire qual'è la loro missione. Io credo che la loro missione non sia quella di fare del bene appunto. Quello forse è un compito che spetta al resto della società civile e alle amministrazioni pubbliche, credo che le fondazioni siano invece in una posizione molto originale e molto peculiare in virtù di caratteristiche che solo loro hanno e che non ha nessun altro soggetto. Le caratteristiche sono molto semplici da individuare: sono soggetti riccamente dotati, hanno un patrimonio e quindi diversamente dalle imprese private o dalle amministrazioni pubbliche, non debbono andare a cercare quattrini, non debbono imporre tasse, non devono vendere prodotti a nessuno, sono nella condizione di poter fare delle cose indipendentemente dal fatto che qualcun altro le sostenga pagando tasse o acquistando beni. Sono soggetti intrinsecamente non democratici, cioè non devono rispondere alla logica elettorale, che caratterizza gli amministratori pubblici, che fanno delle cose solo se sperano che quella cosa lì li farà rieleggere alla puntata successiva e non devono rispondere al desiderio dell'azionista. Le fondazioni sono nella condizione veramente peculiare per prendere rischi, per fare attività rischiose, quelle attività che l'amministrazione pubblica e le imprese tendenzialmente non sono disponibili a fare. Io credo che questa sia la logica e il senso della presenza di fondazioni, che non vogliono essere subalterne, che d'altra parte vogliono collaborare, che esercitano responsabilità, dove responsabilità significa riconoscere autenticamente i propri carismi, le proprie specificità, la propria missione e non semplicemente adattarsi alle logiche correnti o a quello che altri ti chiedono di fare. Questo è un approccio molto pragmatico, lo adottano alcune fondazioni in giro per il mondo, l'idea è che si individuano problemi, che vengono affrontati male o che non vengono affrontati affatto, s'ipotizzano soluzioni a questi problemi e si sperimenta su scala ridotta, senza pensare di rispondere ai bisogni dell'intera popolazione. La battuta di Gino Rigoldi vale soprattutto per le fondazioni: Dio c'è ma non sei tu! Non è che risolvi tu tutti i problemi insomma, non è la fondazione che risolve tutti i problemi, si sperimentano soluzioni, le si verifica, cosa che in Italia generalmente nessuna amministrazione pubblica fa e se le soluzioni funzionano le si restituisce poi ai soggetti che hanno il compito di applicarle su scala estesa.

Franco Bomprezzi

Cerco di cogliere da questo intervento soprattutto la parte che ci riguarda come giornalisti. Il mondo delle fondazioni è un mondo ricco di notizie proprio per le cose che sono appena state dette, si mettono in gioco su progetti un po' rischiosi. Diciamo quindi che potenzialmente sono dei bacini di grande informazione, il giornalista normalmente ha un certo pregiudizio, perché vede l'interesse, l'utile, nel momento pubblicitario in cui si racconta della fondazione, perché in pratica è una pubblicità indiretta rispetto al marchio. È un nodo che noi dobbiamo un po' affrontare, perché questo stesso tipo di pregiudizio lo abbiamo meno per le grandi raccolte fondi, laddove entra in gioco un altro meccanismo, cioè lì ci sono dei cittadini che danno i soldi e chiedono conto di come vengono utilizzati. Lì il giornalista si sente più legittimato ad andare a chiedere conto a Telethon, piuttosto che ad Airc di come vengono spesi i soldi. Molto meno entra nel merito di quello che fa per esempio fondazione Cariplo o fondazione Vodafone, per citarne due che sono presenti. Il problema è che il mondo del non profit, il mondo delle associazioni che poi sono in qualche maniera destinatarie dei fondi, non è molto attrezzato a comunicare, si esaurisce nel fare e quindi fa più fatica ancora a raccontare. Passiamo la parola a Paolo Morerio che ci parla della fondazione Vismara, una delle realtà milanesi più originali.

Paolo Morerio 

"Cos'è e a cosa serve oggi la filantropia meneghina": secondo me c'è un po' di enfasi, oggi si tende a parlare molto di questo modello, si è teso a parlare di modello Milano, appunto la filantropia meneghina, la milanesità, ecc. In realtà, senza togliere niente alle tantissime realtà positive che a Milano ci sono, non siamo qui certo a demonizzare nessuno, ma diciamo che io questa specificità onestamente non la vedo. Credo che ci sia in tante altre parti d'Italia, soprattutto qui nel nord con certe somiglianze, forse al sud la realtà è un po' diversa. Quello che mi sembra mancare invece a Milano è un aspetto molto importante, che secondo me è andato scemando negli ultimi decenni come ha detto don Gino con la sua affermazione "da soli non si va da nessuna parte" e cioè oggi secondo me, quello che manca fortemente alla classe dirigente, alla borghesia milanese, se ancora esiste, è questa capacità di guardare insieme, di lavorare insieme, c'è la tendenza a lavorare ognuno per proprio conto, con una forte dose d'individualità e invece, non c'è bisogno che lo dica io, ma la complessità del mondo in cui siamo richiederebbe delle soluzioni il più possibile condivise. Questo secondo me è il tema più importante della crisi di Milano, che quindi è una crisi che non attraversa solo il campo del non profit, attraversa sicuramente anche il campo della politica. Secondo me a Milano ci sono tanti soldi, quindi anche nelle fondazioni ci sono tante risorse, però mi pare che la capacità di guardare in grande sia molto calata. Si faceva qualche esempio, ma io vorrei ripeterlo, sulle capacità che le grandi imprese del passato avevano, qui a Milano e in tutta la Lombardia, di creare strutture guardando appunto in grande: quante imprese facevano le case, i convitti, io ho visitato un'impresa nel bergamasco dove addirittura c'era, adesso ovviamente non più, il convitto per le ragazze che scendevano dalle valli, quindi c'era la scuola, la chiesa, le suore che si occupavano di queste ragazze che arrivavano senza nulla. Oggi la tematica dovrebbe essere diversa, perché i bisogni sono cambiati, però queste cose non si fanno, né quelle, né qualcosa di alternativo, è venuta a mancare questa capacità di guardare in grande ed anche questo senso di socialità. Secondo me questa individualità, anche degli interventi filantropici, nasce in buona parte da un senso di sfiducia nel vivere collettivo, nel prossimo, nelle istituzioni e quindi anche nella ragione del vivere insieme. Se posso usare una battuta: c'è molto capitale sociale, nel senso di capitale delle aziende, ma c'è poco capitale sociale in quella accezione oggi diffusa che sottintende quell'insieme di relazioni, di capacità di rapportarsi con gli altri, di creare comportamenti solidali, che creano appunto non un insieme d'individui bensì una comunità. Questo è quello che secondo me sta venendo molto a mancare qui a Milano e molto anche nel sistema. Ho conosciuto recentemente una persona cui era venuto in mente di fare una donazione alla scuola pubblica frequentata dai propri figli, perché piuttosto mal messa, poi ci ha riflettuto e ha deciso di non farlo perché vede che puntualmente ogni cosa viene poi rovinata, ad esempio con scritte ecc. Il rischio di fare qualcosa è che da un lato venga distrutto e dall'altro che queste risorse vengano poi sviate per altri scopi. Questo esempio lo paragono ad una storia che ho letto recentemente su Il Sole 24 Ore: un uomo di Chicago, dopo essersi abbondantemente arricchito con la sua attività, ha deciso di donare all'università di Chicago, dove lui aveva studiato, la modica somma di 400 milioni di dollari, per permettere di studiare alle persone meno abbienti e ha motivato il gesto dicendo "io sono uno che ha studiato in questa università con grandissima fatica, perché la mia famiglia non aveva i mezzi per farlo, ha dovuto fare debiti, io vorrei fare in modo che i non abbienti di oggi potessero invece avere questa possibilità, che per me è stata così difficile e che per molti altri della mia generazione non è addirittura stato possibile". Paragonando questi due esempi notavo con interesse che ci sono evidentemente da un lato la sfiducia e dall'altro la fiducia. Questo mi fa dire che una delle ragioni è l'incapacità nostra di guardarci come un insieme. Farei a questo punto una piccola chiosa riguardo quello che si è detto sul tema del giornalismo: io non avrei paura a chiedere che anche i giornalisti sappiano fare un po' di cultura e di educazione, non solo dare notizie; secondo me è un aspetto che nulla toglie alla professionalità e anche alla libertà di giudizio, di espressione, ma anzi sarebbe un contributo forte che il giornalismo potrebbe dare. Viceversa mi pare che oggi questo tema sia relegato molto in secondo piano, o a riviste e giornali che purtroppo per la loro circolazione raggiungono una quota di popolazione molto ridotta.

Poche parole brevissime sulla fondazione Vismara: una fondazione che nasce da un patrimonio privato di un imprenditore brianzolo che ha deciso di lasciare una fetta importante del suo patrimonio come appunto fondo per uno scopo, che è la prima definizione di fondazione. Questa fondazione è nata 25 anni fa con delle idee di beneficenza tradizionale, poi ci siamo concentrati sull'idea di evitare logiche assistenziali, logiche che perpetuino quindi una dipendenza tra l'ente donante e l'ente che invece riceve la loro donazione e quindi aiutare i nostri beneficiari a far si che anche sperimentando, come è stato detto prima, si creino delle condizioni per un'autonomia, per una capacità di sostenersi da soli, per promuovere la propria associazione. Questo è un po' il tema su cui ci stiamo impegnando in questo momento, certamente è un tema che cambia le facce delle fondazioni, perché non significa più avere soltanto chi guarda la gestione del patrimonio e chi decide come gestire, ma ci vogliono anche delle professionalità che sappiano affrontare i problemi, sappiano interloquire con le persone che lavorano nelle entità che ricevono i contenuti e quindi discutere anche con loro il cammino dei progetti che ci vengono presentati, quindi avere un po' la pretesa di mettere il naso, mettere il becco…, non tanto per dire vi insegniamo noi cosa dovete fare, ma vogliamo oltre che un contributo economico, darvi un contributo per imparare a camminare da soli, a non aver più bisogno di noi o di altre fondazioni. Questo credo sia un po' la chiave su cui stiamo cercando di lavorare ed è un po' la sfida per tutte le fondazioni.

Franco Bomprezzi

Paolo Morerio ci dice che è mancata la capacità di guardare in grande a questa città, non è vero che Milano è così filantropica, forse non lo è mai stata e adesso sicuramente non è così, eppure ci sono delle cose che si possono fare. Mi ricollego anche all'osservazione di Barbetta quando diceva che le fondazioni si rivolgono alle amministrazioni in qualche maniera senza metterle in discussione, le amministrazioni fanno conto sulle fondazioni perché così hanno qualcuno che realizza in maniera non pubblica quello che non si può fare facilmente attraverso la burocrazia. Chiedo a Giovanni Colombo, da consigliere comunale di dirci la sua opinione rispetto a questo tema.

Giovanni Colombo

Il mio intervento si articolerà così: il ricordo di un colloquio con il prof. Rumi, la città della Madunina, la società dello spettacolo, la fraternità senza terrore, poi finiamo con la maglietta, un'idea che mi è piaciuta molto...
Il ricordo di un colloquio con il prof. Rumi, grande conoscitore della città di Milano morto l'anno scorso nel mese di marzo. Nell'ultimo colloquio che io ho avuto con lui mi ha detto: "Giovanni il problema di Milano è uno solo. Nessuno dà più i soldi per l'ospedale e per la veneranda fabbrica del Duomo. Tutto il resto è tut'bal', bisogna riflettere su questo". Io credo che questo sia l'argomento di stamattina perché questa è una città che ha dato tanti soldi all'ospedale, al luogo della cura, della fragilità e alla cattedrale, al Duomo, laddove si respira l'immensità e la fragilità. La città non sta in piedi se non c'è questa cura della fragilità e questo culto dell'immensità… Noi non abbiamo avuto il Weber nostrano, il Weber italiano che ha fatto una riflessione puntuale sull'etica cattolica e lo spirito del capitalismo e io sento questa mancanza perché occorrerebbe capire cosa c'era nella testa degli imprenditori milanesi. Io credo che ci fosse direi questa quasi ossessiva preoccupazione per la beneficenza in forma paternalistica. Cosa vuol dire? Vuol dire che l'imprenditore si sentiva privilegiato, la ricchezza è un privilegio, quindi questa ricchezza doveva diventare strumento di riparazione sociale e una polizza assicurativa rispetto al paradiso… Lo studioso Guido Baglioni diceva questo in formula laica ossia che la borghesia industriale dell'Italia del nord nell'epoca liberale ha vissuto di spirito collaborativo, è vero che c'è il padrone e dall'altra parte l'operaio, però alla fine insieme collaborano agli interessi generali dell'azienda e così laddove c'è ricchezza arriva il borghese che si sente in dovere in qualche misura di preoccuparsi delle condizioni sociali, quindi le case e i convitti per gli operai… Riparazione sociale perché questo è caparra per il paradiso e nei momenti cruciali si tira fuori l'assegno anche con un po' di disincanto, non si sa mai cosa c'è di là, intanto emettiamo degli assegni. Venuto qua pensavo ad esempio che stiamo vicino all'ospedale di don Verzé e chi ha dato i terreni all'ospedale di don Verzé? La famiglia Bassetti, è stato lo zio Giannino Bassetti a staccare l'assegno a don Verzé; anche i gesuiti della Lombardia sono stati pesantemente aiutati dalla famiglia Bassetti, il loro centro di Gallarate, dove studiavano filosofia, è stato interamente pagato dalla famiglia Bassetti e noi veniamo da una tradizione di questo tipo. La città era la città della Madunina, Dio c'è, non so se è buono, certo che a un certo punto ci sarà il giudizio e così mi conviene staccare l'assegno…

Secondo passaggio: adesso non c'è più la Madunina, perché la secolarizzazione ha bruciato tutte le radici e tutti i valori, non c'è più neanche la città, perché bisognerebbe domandarsi cos'è oggi Milano. Io la vedo come il centro servizi per l'intera Lombardia, o per usare altre espressioni è un mondo nuovo, cioè è una realtà che non crea appartenenza, tu arrivi fai la tua cosa, fai il tuo convegno e scappi, non c'è nessun legame con questo territorio, con questa città. Visto che siamo in questa sede userei questa espressione: è l'epicentro della società dello spettacolo che è descritta benissimo nel testo di Guy Debord "La società dello spettacolo" del '67; Debord diceva che la società dello spettacolo è il capitale che si è fatto immagine, è la vita che si è fatta rappresentazione, è un mondo che si è fatto circo mediatico e nel circo mediatico c'è ancora la beneficenza, ma come gadget. Questa società dello spettacolo è la società entro cui noi viviamo. Nella società dello spettacolo c'è di tutto di più, ma non c'è più una città in cui ci si vuole bene.

E allora il terzo passaggio è: come pensare il futuro non in termini bui, ma in termini di speranza? Pensando che sia possibile mettere come pietra angolare la responsabilità? La responsabilità vista come dono, noi pensiamo che sia possibile un'altra prospettiva, riparte nel momento in cui tu ti senti in debito. Provate a dire a una persona: "tu sei in debito!"; sei strutturalmente in debito verso i tuoi genitori, verso i tuoi amici, verso le persone che non conosci che pure hanno contribuito alla tua identità, sei in debito rispetto a questo territorio, a questa storia e a questo luogo fisico, tu sei in debito rispetto alla Lombardia, tu devi rispetto a chi ha costruito il Duomo, rispetto a chi ha costruito queste strade, cioè son tutti discorsi che nessuno oggi fa, perché nessuno si sente in debito. Io credo che se non si parte da questo che tu sei soggetto che ha bisogno dell'altro per strutturarsi, diciamola meglio, hai bisogno dell'altro per costruire la tua identità e la tua modalità di stare al mondo, se tu non parti da questo continuerai ad avere persone che si pensano Dio, Narciso che va su, va su, pensandosi Dio. C'è tutta una postura da cambiare a partire da questa scoperta che tu sei in debito e che non è neanche così brutto essere in debito, la gratitudine è divina, oggi invece abbiamo una paura terribile a dire grazie e a sentirsi dipendenti da qualcuno. E poi riscoprire la potenza laico-politica dell'espressione del Vangelo "fatevi amici con ingiusta ricchezza": innanzi tutto bisogna dirselo che la ricchezza è ingiusta, per cui se andate da un ricco a dire che è ingiusto vi dice comunista, invidioso, ecc. La mia tesi è che siamo usciti dalla democrazia e siamo nell'era della Signoria che è un sistema politico istituzionale pesantemente condizionato dal soldo e che produce il circo mediatico, la società dello spettacolo, perché il capitale si è fatto immagine, e in questa signoria il riferimento ad una famiglia, alla famiglia Moratti: dopo i Gonzaga a Mantova, dopo i Visconti di Sforza a Milano, abbiamo i Moratti. Allora si può dire tutto, ma quando la Saras va in borsa ed i due fratelli guadagnano 600 milioni e questa operazione è oggi sotto i riflettori della magistratura, perché sono stati fottuti i piccoli azionisti, questi sono i termini tecnici, capite che c'è un bel dire dov'è ingiusta. Saras è ingiusta ricchezza e non lo dico con invidia, lo dico con molta serenità, è ingiusta. Dopo di che capite bene il senso del gesto di un marito che dà 6 milioni alla moglie per diventare sindaco di Milano, anche se poi ne ha denunciati solo 3 nella versione ufficiale… È ingiusta ricchezza e dopo di che usala, non è che stiamo qui più di tanto sul discutere sul chi sei, usala, ma per farti degli amici, perché se non vuoi stare dentro la società dello spettacolo, se vuoi andare verso la prospettiva migliore, forse vale la pena dirci che non c'è prospettiva migliore che stare insieme tra amici.

La fraternità senza il terrore: vi leggo una pagina di un libro scritto su Milano che a mio avviso indica bene questa prospettiva di una fraternità senza terrore, un delirio di uno che dice come vorrebbe la città del futuro. Il protagonista diventa casualmente sindaco a 80 anni e fa il discorso alla città e nel cuore di questo discorso dice: "Mi rivolgo a voi miei cari consiglieri, ci aspetta un grande lavoro per la rinascita spirituale, culturale, economica della città. In campagna elettorale alcuni di voi hanno descritto Milano in preda alla follia, innumerevoli varietà di malattie mentali, squilibrati che vagano per le strade, parlano da soli, un generale abuso di antidepressivi e di droghe. Non nego che la follia stia assumendo la caratteristica di un morbo di massa, come la peste lo fu in altra epoca, ma la soluzione non sta tra la divisione tra un centro blindato popolato dai presunti sani che avrebbero dalla loro ragione, moralità e ricchezza, e i tanti lazzaretti ricolmi di disperati. È una pia illusione quella di potersi salvare in pochi eletti, la follia si insinuerà anche nel posto più blindato. La sua avanzata si può contrastare solo con un nuovo modo di stare insieme tutti quanti insieme altrettanto folle, follia contro follia. Se sono diventato sindaco è per testimoniarvi l'unica follia gioiosa ed antidepressiva. La riassumo in una parola sola: amatevi! Non dico amatemi, ma amatevi, non parlo più per attirare su di me l'attenzione e il consenso, a 80 anni forse ce l'ho fatta a spezzare il legame maledetto tra parola e seduzione, tra amore e lamento. Il cammello sta passando nella cruna dell'ago, quindi sono finalmente in grado di dirvi: amatevi, non calpestatevi che non ne vale la pena, aiutatevi a sopportare le debolezze, costruite una fraternità senza terrore. Le iniziative della mia amministrazione, che tra poco verranno presentate da ciascun assessore, avranno un unico obiettivo, costruire una fraternità senza terrore, in cui tutti, mano nella mano, si danno da fare per alleggerire le fatiche terrene. Conosco a menadito obiezione, nella storia non è possibile nessuna fraternità e chi ha insistito in questo errore ha prodotto solo lager e dolore. La contrapposizione tra amico e nemico è conficcata nei geni dell'uomo. Qualcuno ha detto che tale contrapposizione è l'essenza stessa della politica. In questo nostro mondo in cui la natura lupesca dell'uomo sbrana quel che può, è già un grande risultato risparmiare un po' sul sangue, non si pretenda di più. La fraternità è un'utopia pericolosa, io invece insisto. Possiamo farcela. Possiamo farcela se continuiamo a credere nelle nostre potenzialità positive, creative, poetiche. Se l'uomo è il legno storto con cui non si può costruire nulla di perfettamente dritto, come sosteneva Kant in un suo aforisma, disse il legno non è secco, spesso dimentichiamo di guardare noi stessi con stima e affetto. Odiarsi è così facile, siamo alberi dal tronco nodoso e contorto, ma ancora carichi di linfa e possiamo crescere, fiorire, produrre frutti. Possiamo farcela se non continuiamo a fraintendere l'idea stessa di fraternità. Su questo punto siamo ancora fermi a Caino e Abele, la fraternità è vista come l'assassina della libertà, come la gabbia che fa soffocare gli uccelli. Se la fraternità fosse la cappa che toglie l'aria, sarei il primo a combatterla, ma se la fraternità fosse l'esatto contrario, cioè un grande aiuto contro la solitudine e una grande spinta affinché ciascuno di noi si realizzi in pienezza, chi sarebbe così stolto per rifiutarla? Abbiamo un infinito bisogno degli altri, l'arte è trovare l'equilibrio giusto. Non dobbiamo finire né asfissiati da estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo, né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può credere di essere il tutto. Solo la diversità e l'unità di tutti sono una totalità, questa è la mia fede e la mia speranza". E poi il discorso va avanti, baciamo Milano, amiamo Milano, sposiamo Milano… Fatevi amici con ingiusta ricchezza e utilizziamo le risorse per andare in questa logica di unità. E allora la maglietta di don Gino secondo me diventa pressappoco così: Dio c'è ed è buono perché la gran parte delle persone quando pensa a Dio, pensa a qualcuno che non è buono… ma io ci aggiungo questa sottolineatura: "Dio c'è ed è buono, tu non sei Dio, rilassati e diventa amico". Il giornalista non è soltanto miglioratore del peggio, ma è un collaboratore della nostra amicizia. Io credo che se mettiamo le cose in questi termini torniamo a respirare, torniamo a sperare e facciamo una grande opera per il futuro. Oggi abbiamo bisogno di questa botta di futuro e, per quello che possiamo, dobbiamo darci da fare.

Franco Bomprezzi

Nel giornalismo sociale ad esempio noi si saremo un po' "sfigati", con grande fatica proviamo a raccontare questa società, però ci troviamo volentieri tra di noi, ci sarà pure qualche motivo… forse le affinità, più o meno elettive, non che siamo tutti bravi e belli, ma sicuramente sappiamo di che cosa parliamo e delle battaglie che abbiamo fatto. Credo che questa sia una riflessione sulla quale forse, senza essere educatori, pedagogisti, ha ragione don Gino: attenzione al giornalista che crede di cambiare il mondo, però possiamo almeno testimoniare di noi stessi una certa umanità. Diffido a volte della mutazione genetica del giornalista, di quelli che adesso incontro nelle redazioni, che molto spesso arrivano direttamente dall'azienda e che ci dicono che bisogna essere i managers. Io mi ricordo quando sono arrivato la prima volta alla redazione di Terra di Mezzo c'erano Miriam Giovanzana e Carlo Giorgi, io vedevo un gruppo in cui era difficile capire chi era il direttore ed ho sentito una situazione di grande fraternità, di grande umanità, pur facendo un lavoro giornalistico anche d'inchiesta molto serio. Miriam per esempio è una persona che ha intercettato un'esigenza d'informazione diversa, vedi Altreconomia. Come vedi le cose che si sono dette questa mattina e qual'è il tuo punto d'osservazione.

Miriam Giovanzana

Se fossi davanti alla macchina da scrivere, non ci sono più, ma insomma l'immagine è rimasta quella, ci sarebbe il panico da pagina bianca. Da dove cominci? Perché alcune cose me le ero segnate, alcune me le sono appuntate mentre loro parlavano. Provo a mettermi dalla parte di chi fa informazione e quindi a fare alcune domande, perché al tavolo ci sono alcuni dei protagonisti della filantropia di questa città, però io credo che sia difficile raccontarla e conoscerla. La sfida per chi scrive e per chi racconta, se vuole in qualche maniera stare dentro a quel titolo e quel sottotitolo, è provare a raccontare fondazione Cariplo, non come luogo di potere, non come un luogo dove ci si spartisce tra gli amici degli amici, ma in cui si prova quella sperimentazione che diceva Barbetta prima, si prova a progettare un futuro, a stare sul versante del rischio. Io non credo che non ci siano anche altre logiche dentro questi luoghi, però è vero che esiste anche gente come quella che vedete a questo tavolo, c'è un filo rosso che unisce queste persone, c'è una passione, c'è qualche cosa che muove. Ecco io credo che la responsabilità di chi fa informazione sia raccontare anche questi aspetti, senza enfasi e senza menzogna. Ne abbiamo le scatole piene di facili elogi tra di noi, non è questo quello che cerchiamo, quello di cui abbiamo bisogno è riconnettere i fili tra causa ed effetto. In questo senso allora mi faccio un'altra domanda. Per le fondazioni di origine d'impresa, che hanno origine nelle imprese, è possibile un dialogo con l'impresa? Perché io non so se sono d'accordo con quello che diceva Giovanni Colombo, che tutta la ricchezza è ingiusta, dato che ce ne siamo occupati in questi anni ad Altreconomia, sò che gran parte della ricchezza accumulata, rapidamente negli ultimi anni è ingiusta, non lo dico io, lo dice appunto la magistratura, ecc., so che appunto anche da lì è nata una serie di beneficenze, ma non sempre è così. Allora mi chiedo: possono essere due mondi separati quello delle fondazioni e quello delle imprese? Non possono in qualche maniera anche dialogare tra di loro? Su questo versante mi piacerebbe che anche come non profit e anche come informazione si riuscisse a stare insieme, a dire una parola nuova, perché l'impressione che io ho è che quello che abbiamo noi è tanto ma non ci basta, abbiamo bisogno di idee, di progetti, di sperimentazione, abbiamo bisogno di sogni, di continuare a pensare in grande questo coraggio. Come dire, non spetta ai giornalisti però hanno il compito di raccontarlo, e lo diceva anche don Gino, si può, nel fare il nostro mestiere, sostenere la speranza, oppure si può, usando questa espressione, rovinare il pensiero. Sottolineo l'appello che mi ha colpito molto nel saluto iniziale del rappresentante del Cnca della Lombardia, di ritrovare il senso, ridirci il senso, il perché abbiamo scelto questo mestiere. Vale per i giornalisti, vale per chi fa impresa, mi piacerebbe sapere perchè chi è a questo tavolo fa le cose che sta facendo, perché non danno molti onori, io posso testimoniare appunto un filo rosso che lega queste persone. E poi un'altra cosa importante: per raccontare i fatti bisogna esserci, io l'ho imparato anche a Capodarco che è stata una straordinaria scuola da questo punto di vista. Non sono d'accordo con chi dice che tutte le colpe dell'informazione degradata che noi conosciamo in questi anni, appartengono all'imprenditoria ed appartengono agli editori che sono dentro a un sistema che ha messo al primo posto le vendite, non la creazione di socialità e di cultura, non l'appassionata ricerca di verità, credo invece che ci sia una grande responsabilità anche di noi come giornalisti e come singoli. Noi a Terre di Mezzo non paghiamo stipendi straordinari, anzi siamo ai minimi contrattuali e non sono sufficienti per vivere a Milano, perché chi inizia a fare il praticante giornalista guadagna 980 euro da listino e con questa cifra qua non è possibile far famiglia, accedere a un mutuo, non è possibile vivere a Milano… Allora sono ingiusti i contratti che pure non vengono rinnovati o è ingiusto anche un sistema immobiliare che magari ci fa interloquire con soggetti che poi fanno beneficenza, ma che hanno realizzato almeno una parte della loro ricchezza in maniera speculativa? Le due cose stanno insieme, bisogna come giornalisti imparare a riconnettere questi fili. 

Noi siamo una piccola realtà informativa, però abbiamo fatto nel corso degli anni credo 6-7 praticantati, tra Terre di Mezzo e Altreconomia e per chi fa informazione credo che siano numeri interessanti, quindi siamo una sorta di piccola scuola da questo punto di vista, con tanta fatica, con tante contraddizioni anche, però insomma abbiamo realizzato impresa, non abbiamo mai chiesto niente a nessuno fino a qualche anno fa, poi abbiamo inventato degli eventi su Milano e appunto a questo tavolo ci sono stati compagni di viaggio, uno di questi eventi è "Fa la cosa giusta", una fiera delle pratiche sostenibili, messa a disposizione di una città, di un territorio e quindi a bassa soglia d'ingresso, a basso reddito, per aiutare le realtà marginali, non ovviamente quelle che ce la fanno da sole ed allora abbiamo chiesto contributi alle fondazioni.

L'altra cosa che ci ha permesso di fare un salto di qualità, almeno nella vivibilità, viene dalla beneficenza che non abbiamo cercato bensì intercettato: oggi abbiamo una sede bellissima al centro di Milano, secondo piano, 500 mt quadrati, vista su Sant'Eustorgio, nel cuore della Milano antica, è un edificio che appartiene ad un soggetto che si chiama Istituto Beata Vergine Addolorata, 4 piani che erano vuoti, pochi conoscono su Milano questa realtà e nemmeno noi la conoscevamo, per capire chi erano ci abbiamo messo alcuni mesi, non la conoscevano in Curia… la faccio breve…fino a qualche anno fa, fino a 2-3 anni fa, quei 4 piani di edificio erano affittati all'Università Bocconi, oggi c'è Altreconomia. È un piccolo segno che ci piace sottolineare. Questo è stato possibile perché chi fa parte oggi del consiglio di amministrazione di questo istituto laico di ambito cattolico, un istituto nato da donne nell'800, ha provato a riprendere in mano i propri beni e a ridestinarli a finalità sociali, in particolare legati all'assistenza alle donne e ai bambini così come in origine. C'è tutto un patrimonio immobiliare che su Milano e sulla Lombardia sta passando di mano e questo patrimonio potrebbe essere preso, venduto, capitalizzato e poi farne beneficenza. Ma c'è anche un'altra strada che è quella di riconoscere che questi sono beni che in qualche maniera già appartengono alla comunità, alla società, perché sono stati frutto appunto di sacrifici di tanti, di progettualità di tanti, di speranze, di danaro e di intelligenza, però ci vuole il coraggio degli uomini, ci vuole il coraggio di un consiglio di amministrazione. Per noi ha significato avere a disposizione più superficie, lavorare meglio, lavorare in un luogo bello, perché la bellezza fa parte del vivere quotidiano e non possiamo vivere senza bellezza che Milano sta perdendo, sta rinunciando a questo aspetto. 

La domanda è: quanto conta nella vostra esperienza l'esserci? L'esserci con la vostra umanità, con la vostra responsabilità nelle scelte grandi, dal consiglio comunale, dal mondo della politica alle fondazioni, quanto conta il coraggio delle persone, il coraggio dei singoli, ma poi lo rifaccio anche a noi come giornalisti quanto conta, quanto ci ricordiamo che quello che scriviamo non è indifferente e può produrre la rovina del pensiero oppure appunto la speranza; poi per fortuna anche noi ci ricordiamo di non essere Dio né nell'uno né nell'altro senso e possiamo continuare a riprendere, a scrivere su un foglio bianco il giorno successivo.

Franco Bomprezzi

Questa storia che ci hai raccontato ci dimostra soprattutto quante cose non sappiamo neanche di questa realtà, di questa di città, vale per Milano come per tutto il resto del paese. Io rispondo per me che vivo in prima linea, penso alla mia vita di giornalista con disabilità, è ovvio che mi sento molto spesso come dott. Jakyl e Mr. Hide, cioè contemporaneamente persona che aveva dei bisogni e dei diritti e poi lo stesso che li raccontava o cercava di oggettivarli. Aver scelto di fare il giornalista, grazie anche ad una serie di fortune che mi hanno consentito di farlo, mi ha permesso di decodificare un linguaggio specialistico del mondo della disabilità e magari riuscire a portarlo a disposizione di tutti attraverso la normalità, cioè la cifra della dimensione normale di ognuno di noi. Credo che ognuno di noi dovrebbe fare come giornalista questo sforzo di decodificare linguaggi e situazioni, conoscerle e poi portarle a disposizione di tutti, metterle in comune, una comunità nuova come quella di don Gino. Io credo che noi abbiamo questo grande diritto di portarci dietro, nel fare giornalismo, la nostra pelle, le nostre idee, i nostri sentimenti per il cambiamento. Il giornalismo è nato come giornalismo liberale, laddove nasceva sulle affinità di idee, dove c'era un editore che raccoglieva persone che la pensavano più o meno nello stesso modo, era giornalismo di opinione, questo è stato all'inizio il giornalismo, poi è diventato giornalismo d'impresa che prescinde dall'opinione di chi ci lavora dentro, ma in realtà in questo salto si è creata la distanza, probabilmente l'impossibilità di coniugare il nostro mestiere con una dimensione etica di testimonianza e di impegno concreto.

Giampaolo Barbetta

Vorrei mettere insieme due domande che faceva Miriam; io devo dire che in questi ultimi anni ho avuto la fortuna di vivere in una condizione molto peculiare, cioè di avere la possibilità di fare da una parte lo studioso che si occupa di tematiche relative alla filantropia, al non profit, al sociale ecc., e dall'altra parte anche la possibilità, con la fondazione Cariplo per l'appunto, di sperimentare alcune di queste cose, cioè di provare a vedere se la lezione che arriva dall'approfondimento di fatti possa essere utile per segnare le strategie delle istituzioni, almeno in una qualche misura. Qui c'è un fatto molto peculiare sul rapporto di fondazioni di origine bancaria e sistema mediatico della stampa: l'attenzione è effettivamente tutta schierata alla parte patrimoniale, alla presenza delle fondazioni nei patti di sindacato di questo o di quest'altra banca, impresa, ecc., e alle figure di vertice, diciamo così. Io ho un po' la sensazione che il mondo dell'informazione si sia perso quello che dentro questi tipi di soggetti, con delle contraddizioni molto forti, in realtà sia. Ci sono dei fatti per taluni aspetti molto significativi, anche dal punto di vista della creazione economica. Faccio un esempio  molto banale, ma 10 o 15 anni fa non esisteva in Italia un pezzo di mercato di lavoro che adesso c'è, è una nicchiettina ma esiste, che riguarda quelli che si chiamano i program officer, cioè i soggetti che dentro le fondazioni filantropiche hanno la responsabilità di indirizzare le strategie di spesa, di erogazione, di individuare i problemi, di capire come le fondazioni possano contribuire ad affrontarli. Ecco il mondo delle fondazioni di origine bancaria è stato un pezzo rilevante di questa trasformazione, le fondazioni che erano 15 anni fà dei comitati di beneficenza o poco di più, sono delle strutture dal punto di vista organizzativo molto più complesse di quanto non fossero allora, dove si sono create professionalità, dove si sono in molte circostanze sviluppate idee. Io ho la sensazione che sia un po' più complicato fare approfondimento, per la voglia di capire le cose, di interrogarsi sulle cause e sulle conseguenze, dare delle letture un po' meno stereotipate dei soggetti, forse però alla fine questa è la lezione che si può trarre dal punto di vista di chi ha la responsabilità di generare informazione. Alla fine la questione è: non servono eroi, servono persone che con serietà, professionalità, responsabilità, voglia di interrogarsi sulle questioni siano in grado di andare in dettaglio in maniera pedante, pedissequa, sulle questioni, nella loro concretezza, sui problemi nel loro specifico, sulle istituzioni e sulle persone nei loro meccanismi di funzionamento e facciano di questo uno stile di azione, non appunto la testimonianza eroica. So che può sembrare un approccio un po' minimalista al problema, ma credo che questa sia per molti aspetti la responsabilità dell'educatore, non un approccio ideologico, ma un approccio pragmatico, legato alle questioni con una visione di fondo dietro e in una certa misura anche un approccio di chi fa informazione, non vetrine, non punti di vista ideologici, ma la capacità di relazionarsi ai fatti e di fornire categorie che aiutino ad interpretarle.

Franco Bomprezzi

Le fondazioni nuotano in un mare in cui l'informazione sui bisogni e sulle realtà delle quali si occupano è debole, un'informazione che non arriva mai a scuotere davvero i poteri forti; dovrebbe riuscire in qualche modo ad avere gli strumenti in mano per essere in qualche maniera di peso nel mondo dell'informazione. Questa potrebbe essere una sollecitazione che magari viene da un consigliere comunale un po' particolare come Colombo.

Giovanni Colombo

Io sono entrato nel consiglio comunale nel 1990 e il consigliere comunale era considerato più importante del giornalista, oggi è esattamente il contrario. Il consigliere comunale porta le notizie al giornalista che ha il potere infinito di farti esistere o no, perché se tu non vieni messo col tuo nome dentro il pastone del consiglio comunale di Milano non esisti ed io non esisto, ho deciso di non esistere. Il problema rimane però quello di non buttar via la vita e di essere fino in fondo te stesso. Io allora ho capito che questa società dello spettacolo viene superata, non dico neanche combattuta, viene superata nel momento in cui le persone, non le persone giuridiche, non le fondazioni, si mettono in discussione, si mettono nude esposte all'immensità ed io ho capito così, che io sono debito e devo quindi esprimere gratitudine. Io non esisterei se non ci fosse un legame fortissimo non soltanto con la mia famiglia, ma con la mia città o con la città che ho scelto che è questa Milano. Io sono Milano, detta così sembra una follia, non esistiamo senza questa realtà. Io sono Milano ed esprimo gratitudine verso questa città e quello che posso fare in termini creativi lo ridono a Milano. La comunità produce la persona e la persona produce comunità. Io a 46 anni dopo un po' di auto-analisi dico che alla fine questa immensità è un'immensità parlante buona e che la posizione della bontà non è minchiona bensì una posizione che fa stare bene. L'amicizia fa star bene tutti, perché la diversità è l'unità di tutti, che è la vera totalità, come dice quel delirante sindaco, che sarà sindaco nel 2041. A me sembra così semplice: mi hanno insegnato i classici che la semplicità è il sigillo del vero, forse questo discorso è fin troppo semplice, però forse è il solo a cui appenderci, a cui aggrapparci.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.