II Redattore Sociale Milano 5-6 ottobre 2007

Miglioratori del peggio

Il nuovo giornalismo di testimonianza nell'era delle inchieste sparite. Spunti dai workshop e dibattito con i relatori

Conduce Stefano Trasatti

Stefano TRASATTI

Stefano TRASATTI

Responsabile comunicazione di CSVnet, ha fondato e diretto Redattore sociale da febbraio 2001 a marzo 2016 ed ha organizzato dal 1994 al 2016 gli omonimi seminari di formazione per i giornalisti. Ha coordinato i progetti “Parlare civile” (2013) e “Questione d’immagine” (2015), rispettivamente sul linguaggio e le immagini utilizzate dal giornalismo nel racconto dei temi sociali più a rischio di discriminazione.

 

Stefano Trasatti

Le inchieste sono sparite? Secondo me quasi. C'è stata recentemente una novità dell'Espresso che ha ricominciato come linea editoriale a fare inchieste molto approfondite, a far spendere tempo ai loro giornalisti, lasciarli calmi e tranquilli ad approfondire, però mi sembra che ancora sia molto sporadica questa scelta da parte dei media, speriamo che l'Espresso abbia aperto un filone nuovo. Per i temi del sociale il fatto che le inchieste siano sparite o quasi è dannosissimo, è deleterio, perché questi sono temi a mio parere che hanno bisogno delle inchieste, si, hanno anche bisogno della cronaca, ma sono spesso troppo complessi per essere spiegati con il pezzo veloce o con il parere dell'esperto; insomma senza inchieste non riusciamo a capirli. Nel frattempo si è diffuso, prima con le Iene, in uno stile tipo Striscia la notizia, ecc., quello che appunto abbiamo chiamato giornalismo di testimonianza, con queste splendide inchieste di Gatti, che però non sono nuove: la prima in cui è entrato nei Cpt e poi quella dei raccoglitori di metanolo in Puglia, poi quella del policlinico, ecc., inchieste, si è visto, preparate e scritte con molta cura, con molto tempo, con molta attenzione; come succede spesso in Italia ci sono stati numerosi imitatori… Gatti e Gattini, ecco spiegato l'arcano, che hanno dato vita un po' al giornalismo di testimonianza pret à porter, cioè uno si sveglia la mattina, decide di far finta di essere tizio o caio. Mi chiedo se in questa epoca delle inchieste sparite c'è un modo per far riemergere l'attenzione, un approfondimento su certi fenomeni sociali, che sono appunto più difficili da raccontare. Per non mettere sotto accusa questa tendenza, vorrei provare anche a riflettere su che contributo può dare il giornalismo di testimonianza per favorire la comprensione di questi fenomeni: se doveste suggerire un travestimento, quale suggerireste?

Antonio Tosi

Quello che posso fare è comunicare le difficoltà che trovo quando sulla stampa e in qualche trasmissione si affrontano i problemi di cui mi occupo come ricercatore e ancora di più quando la stampa riporta delle informazioni che io ho fornito al giornalista, naturalmente non vi voglio insegnare a fare il vostro mestiere, ma penso ci siano dietro dei problemi che coinvolgono quasi allo stesso modo nel processo di comunicazione, i ricercatori e coloro che fanno comunicazione. Questo un po' veniva fuori nel workshop sui problemi abitativi, il fatto che la povertà intesa in senso molto ampio, in particolare quando è legata al problema abitativo, non ha, non fornisce particolari. La costruzione di questa finanziaria in questi giorni è un po' l'esempio nel campo abitativo, che un governo di centrosinistra per un anno ha fatto credere che il problema dell'Ici sia un problema importante nell'affrontare la questione della casa in Italia mentre è un problema di politica fiscale che può avere anche grande interesse, grande importanza, ma certamente non è la cosa che può dare il segno di un intervento innovativo in questo campo. Quindi in mancanza di attori in grado di spingere e per un altro verso tipo di categorie culturali, di schemi culturali, condivisibili, rendono oggettivamente difficile comunicare in modo efficace, comprensibile anche su questi temi. Vi racconto un episodio come esempio: ho partecipato a una ricerca fatta sugli zingari in Lombardia per l'Osservatorio Regionale sull'Immigrazione e la Multietnicità, una ricerca fatta in alcune situazioni insediative a Milano e Lombardia, un volume di 200 e passa pagine se non ricordo male, con dentro anche un capitoletto con una specie di censimento, stima sul numero di zingari nei campi o negli insediamenti regolari o abusivi; come potete immaginare la presentazione pubblica dei risultati di questa ricerca in un convegno era molto articolata. Io avevo scritto un grosso capitolo che ho cercato di spiegare sul fatto che in realtà è possibile parlare d'integrazione nel caso degli zingari, che tutto sommato è un problema che non è così grosso in termini quantitativi. Un importante giornale, anzi il più importante se vogliamo da questo punto di vista, nella cronaca milanese, oltretutto in un articolo corretto nei contenuti, titola però "integrazione impossibile", che è decisamente il contrario di quello che noi abbiamo cercato, non solo di dire nella ricerca, ma di dire anche nella tavola rotonda della presentazione. Ovviamente nascono dei problemi sull'utilità del lavoro che noi facciamo come ricercatori, perché se uno vuol fare ricerche e il risultato è che comunque questi non rimangano neppure sulla stampa, qualche problema c'è, in realtà noi abbiamo le nostre responsabilità, perché se è vero che c'è questa relazione tra il contesto in cui la comunicazione avviene, la comunicazione che facciamo, be' noi ricercatori certe volte, o quasi sempre, forniamo informazioni poco interattive, ma questo avviene anche con i politici ai quali diamo dei quadri informativi conoscitivi, magari corretti da molti punti di vista, precisi, però di cui giustamente il politico dice: "non so che cosa farmene". Allora qui c'è un aspetto che vorrei sottolineare molto brevemente, che è una specie di superstizione, largamente condivisa dai ricercatori, dai giornalisti, dai politici, che è quello dei numeri, la stima, quanti, la quantità, anzi la domanda tipica è quanti sono… Spesso dei numeri si fa un uso comunicativo e non politico, e anche se i numeri sono utili, nella comunicazione i numeri in questo modo, a parte le incertezze, snatura spesso la qualità dell'informazione che viene data. Le politiche variano perché i diversi percorsi dentro e fuori della povertà vogliono dire diverse politiche, ma anche la comprensione di qual è la natura del fenomeno varia, tra l'altro quando si comunica in questo modo si taglia fuori di solito un dato che tutti coloro che soffrono di povertà conoscono benissimo: la maggior parte delle situazioni di povertà sono temporanee, la povertà stabile è un'eccezione e comunque è una minoranza. La difficoltà sta comunque nel comunicare bene i concetti che non sempre trovano spiegazione con numeri e stime.

Daniele Cologna

Io ho la sensazione che sia anche opportuno rendere giustizia al fatto che il giornalista fa il giornalista e il ricercatore fa il ricercatore. Ci sono dei livelli di contatto tra questi due mondi, è giusto che ci siano, meglio che ci siano nel modo migliore possibile, però teniamo conto che esistono sfere di azione che sono diverse, un po' perché è diverso il campo in cui si opera; il campo giornalistico ha strutture anche decisionali, spazi e margini di libertà per la propria iniziativa personale che sono condizionati spesso non dalla capacità o meno di mettersi in gioco, è si responsabilità del singolo però all'interno di un mondo che è fatto in una certa maniera che tra l'altro non è sempre la stessa nei diversi mondi di cui si compone il giornalismo in Italia e anche a livello internazionale; anche chi fa ricerca è costretto dal campo in cui opera. Mi ha toccato molto questa menzione di stima per chi si prende il tempo per fare bene il lavoro, devo dire però che delle volte questa possibilità è qualcosa che ci si conquista stringendo i denti e spesso tirando la cinghia ed in realtà non sempre si riesce ad operare in contesti che effettivamente valorizzano il lavoro fatto. Una delle vicissitudini del ricercatore e non credo solo in Italia, penso che faccia anche qui parte un po' del sistema è che molto spesso molta della sua vita, del suo tempo libero, delle sue esperienze che non sono riconducibili al lavoro, vengono un po' divorate dal proprio lavoro. In più c'è una sofferenza che credo che sia propria del ricercatore, come diceva prima Tosi che non sempre alla fine, dopo tutta questa fatica che hai fatto, il tuo lavoro riesce a passare ad essere bene letto ed interpretato, quindi alla fine una delle cose più disperanti che alla fine ritrovo nella mia esperienza di ricercatore è vedere come si debba sempre tornare sugli stessi argomenti e che chili e chili di pagine di conoscenza prodotta finiscono per prendere polvere in qualche cassetto, su qualche scaffale… è difficile che queste cose poi diventino parte del discorso pubblico. La speranza è che si migliori il legame comunicazione e ricerca.

Per venire al tema, se il giornalismo di testimonianza può fare un po' da anello di congiunzione tra questi due mondi: su questo onestamente non ho un'idea precisa, sono un po' perplesso e anche talvolta inquietato, mi sembra un modo di fare giornalismo che si può prestare veramente tanto a facili sensazionalismi, strumentalizzazioni e ad una nuova superficialità alla fine; forse dico questo perché vengo dall'esperienza professionale della ricerca che quando tocca determinati ambiti come quelli del lavoro su soggetti e attori sociali che sono esposti a forti forme di marginalità, investe di grande responsabilità chi ci mette mano e questa responsabilità ho sempre cercato di declinarla in uno sforzo di comprensione il più minuzioso possibile, in un tentativo anche di rendere trasparente il mio lavoro con queste persone. Mi ricordo che un paio di anni fa una giornalista de Il Sole 24 ore mi ha chiesto, mi aveva proposto di fare insieme un lavoro sui lavoratori cinesi che lavoravano in condizioni di forte sfruttamento nei laboratori di lavorazione di capi di abbigliamento in Toscana, in Campania e mi diceva: "dovremo fare un lavoro sotto copertura". Io non l'ho guardata perché ero al telefono, ma cioè son rimasto veramente perplesso… "in che senso? Io non posso lavorare sotto copertura…", a parte che ho un codice deontologico che me lo impedisce, ma esiste la legge sulla privacy, io quando faccio un'intervista a qualcuno la prima cosa che faccio è spiegargli cosa sto facendo, la informo sul progetto, le faccio firmare una liberatoria in cui le do tutte le rassicurazioni del caso, il testo dell'intervista trascritto le viene presentato prima di essere utilizzato, viene archiviato in un luogo che è a sua conoscenza, cioè sono costretto a fare tutta una serie di cose che credo sia anche giusto, nel senso che penso che sia uno degli elementi di fatica del mio lavoro, ma di fatica necessaria, perché in fin dei conti non potrei fare il mio lavoro senza queste persone e se con queste persone non ho un dialogo franco, chiaro e cristallino, le cose sono più complicate. Naturalmente questo è un ragionamento che può valere in certi ambiti, un po' meno in altri, la ricerca forse obbediscono per alcuni aspetti ad orizzonti anche di urgenze un po' differenti. Per cui se devo rispondere un po' alla provocazione di prima sul tipo di testimonianza mi piacerebbe, devo dire che questo giornalismo un po' mimetico a me personalmente non piace quando interviene su soggetti o persone che sono in condizioni di grave difficoltà, nel tentativo di dargli voce, perché secondo me in quel modo non gli dai voce, dai voce a te stesso, cioè celebri in qualche modo la tua capacità di fare giornalismo come dire, d'avanguardia. Mi piacerebbe vedere questo tipo di giornalismo in altri ambiti, per esempio delle inchieste sulla struttura del potere in Italia, qualcosa che vada a indagare, ad esempio, chi governa veramente Milano? In che modo funziona questa società metropolitana così classista, segmentata, piena di strani intrallazzi che si colgono quando si toccano certi mondi, che si annusano, ma nessuno riesce mai a descriverli in dettaglio, io non l'ho ancora letto un libro che mi racconti in termini giornalistici, in termini di ricerca…. Questo mi piacerebbe, se qualche persona volesse cimentarsi in una cosa del genere, naturalmente,  probabilmente poi bisogna dargli la scorta, però in questo vedo il ruolo sociale forte, ne vedo l'utilità. Credo che da questo punto di vista bisogna sempre porsi delle domande molto forti, perché quando comunque si cerca di comprendere un fenomeno sociale nuovo, lo sforzo che spesso si è chiamati a fare non è soltanto e semplicemente teorico rispetto alla letteratura di riferimento, allo smontare in qualche modo il giocattolo, bisogna acquisire un lessico, bisogna cercare di calarsi nel modo in cui la controparte interpreta i fenomeni; questo è vero quando si lavora nel campo a cui mi sono dedicato maggiormente, per cui lavorando con l'immigrazione hai tanto per esempio il problema della lingua, del riuscire a interagire con le persone, però io non mi sono mai sognato di travestirmi da cinese per lavorare coi cinesi. Mi sembra una cosa un po' ridicola.

Stefano Trasatti

Denis Curti e Marco Vacca hanno condotto un workshop molto specialistico sulla responsabilità, l'etica e l'uso dell'immagine; chi ha partecipato ne è uscito entusiasta e ne siamo contenti perché rappresenta un po' un esperimento.

Marco Vacca

La fotografia è stata inventata nel 1839, ma la partenza spiazza, non voglio fare una lezione di storia. C'erano delle guerre e la fotografia è stata scomunicata dalla Chiesa, perché non venisse utilizzata nelle guerre. C'è voluto un intervento forte per allontanare la fotografia da certe situazioni che andavano documentate, che andavano raccontate. Dico questo e dico anche che per arrivare subito ai giorni nostri, nel mondo della fotografia si fa una differenza che è abbastanza sostanziale e immediata. I fotografi che si nascondono sono i paparazzi, i fotografi testimoni sono quelli che non si nascondono, sono quelli che partono dalla tradizione, che recuperano l'esperienza, che non si travestono, perché i fotografi non si possono travestire, perché i fotografi devono tirare fuori la macchina fotografica, perché quando Romano Cagnoni, il primo ad entrare in Biafra, lo fa, si nasconde, si traveste e poi tira fuori la macchina fotografica per forza… Robert Kappa era un mascalzone, un bugiardo tremendo, ha raccontato e corrotto una quantità impressionante di persone per riuscire a fare le fotografie ad esempio ha detto di essersi lanciato con il paracadute diverse volte mentre era la prima volta che saliva su un aereo forse… però poi la macchina doveva tirarla fuori diventando spesso anche un bersaglio.

La fotografia è stata considerata secondo me anche un po' fuori luogo, quasi sempre, come il terzo occhio, come l'occhio testimone, attribuendogli questo valore di prova di documento, d'ineluttabilità e invece bisognerebbe discutere di questo perché le fotografie si fanno a seconda di chi sei, che cosa decidi di mettere nell'inquadratura o che cosa decidi di tenere fuori.

Detto questo in termini generali, in Italia sicuramente c'è una situazione di crisi, perché parlare di fotografia d'inchiesta, di giornalismo d'inchiesta è sempre abbastanza difficile, almeno se si pensa al principale referente che è appunto quello dell'editoria. La battaglia quotidiana che noi appunto dobbiamo combattere è quella di chiedere la firma del giornalista, è quella di chiedere il rispetto dei crediti, basta che voi guardiate i giornali, spesso questo non accade, non viene neanche riconosciuto il lavoro del fotografo. Ho fatto un'indagine recente e ho scoperto che fino agli anni '70 le fotografie in bianco e nero, non si capisce perché, non venivano nemmeno restituite dai giornali ai fotografi, venivano trattenute nei centri documentazione dei giornali. Oggi la maggior parte delle case editrici hanno questi centri documentazione, questi archivi pieni di fotografie che non gli appartengono e che dietro hanno un timbro che ti fa risalire al fotografo; io ho fatto delle visite negli archivi, ho scoperto delle foto che oggi sul mercato del collezionismo, per altro, avrebbero un valore veramente straordinario. Le foto inoltre vengono tagliate, veramente una cultura abbastanza arretrata, c'è molto da lavorare, la figura del photo editor nei giornali è ancora una figura come dire, un po' sconosciuta, addirittura è nata un'associazione in Italia che si chiama "Green" e che cerca di difendere e di tutelare questa figura professionale, che ha a che fare con un problema culturale generale di questo paese che non riesce a riconoscere la fotografia. Per noi fotografi i referenti principali sono cambiati, non è più soltanto l'editoria, sono diventati in qualche modo le organizzazioni non profit, le organizzazioni che lavorano nel mondo della solidarietà, le onlus, le ong e la maggior parte delle produzioni vengono fatte in un'agenzia come "Contrasto", grazie al supporto di queste realtà. Dall'altra parte c'è la necessità di continuare a fare delle produzioni indipendenti e le possiamo fare soltanto noi, cioè le può fare una struttura appunto organizzata, che decide d'investire del denaro e che può permettersi di vendere poi queste storie in un periodo lungo. Noi ne abbiamo fatte tante. Come diceva Denis, noi non ci possiamo mascherare, però ho notato una cosa nel mio girare per il mondo, che la discrezione dal punto di vista fotografico paga; io ad esempio quando vado con le mie due macchine fotografiche molto piccole, le mie fedeli Compax, passo un po' come turista e il mondo attorno a me cambia molto di meno di quando invece sto in giro con dei tromboni assolutamente vistosi, visibili. Sono riuscito a fotografare Giovanni Paolo II in San Pietro passando come turista, quantunque fossi un fotografo accreditato dalla sala stampa del Vaticano, facendo delle foto che immagino più belle di quelle che avrei fatto con il ruolo ufficiale. Questa è una cosa che in generale comunico quando mi capita di fare workshop: siate discreti, siate sorridenti, mischiatevi tra la folla, le cose si muoveranno molto di meno, riuscirete ad avvicinarvi di più al reale, perché non c'è niente da fare, quando arriva il fotografo le cose cambiano. Per avvicinarti alla realtà, a quello che tu immagini di rappresentare c'è bisogno di discrezione, c'è bisogno di essere un po' come un gatto insomma. E poi il tempo: è vero, per fare dei lavori fatti bene c'è bisogno di tempo, c'è bisogno di tanta conoscenza, di tanta informazione. Quando arrivi in un paese devi sapere vita, morte e miracoli, dai prodotti del sottosuolo, alle abitudini delle famiglie, alla cultura, alla religione… Quello che io in qualche modo spero, mi accontenterebbe visto lo stato di salute dell'editoria italiana che fa del gossip in qualche modo la sua bandiera, è che coloro che sono rimasti, che hanno assistito al nostro workshop, tornino a casa e comincino a guardare i giornali con un occhio diverso, guardare le fotografie con un occhio diverso, chiedersi perché per esempio, come diceva Denis, chi sono i fotografi. Inoltre le fotografie spesso o non hanno didascalie, che invece sono importanti, perché aggiungono informazione, aggiungono conoscenza, ti permettono  di contestualizzare ancora di più quello che stai vedendo; spesso sono romanzate o addirittura non ci sono.

Stefano Trasatti

Come vedete si accumulano i temi, da quello dei numeri che diceva Tosi a questo della discrezione che ha introdotto Vacca, che dimostra come il confine, proprio per limitarci al tema che stiamo trattando, sia estremamente difficile da determinare, quando farlo, quando non farlo, parlo del giornalismo di testimonianza che nel mondo anglosassone viene riconosciuto. Quindi loro hanno stabilito una specie di limite di criterio per il non abuso. Ora a Iacona il compito di dire la sua.

Riccardo Iacona

Prima che Fabrizio Gatti andasse nel foggiano non si sapeva quella storia lì, poi c'è andato Fabrizio Gatti ed abbiamo scoperto le condizioni di schiavitù nella raccolta del pomodoro. Poi ci sono varie forme e misure di questo giornalismo di testimonianza, declinate diversamente in maniera più cialtronesca, magari approfittandosi del più debole, però è più facile fare il gradasso col più debole, è più facile tirare fuori la situazione che ha a che fare con delle persone che stanno nell'emarginazione, che non si rendono conto che hanno la telecamera addosso. Insomma i gravi, fino ad arrivare a quelli più meschini, che hanno poco spessore giornalistico oltre che etico. Rimane il fatto che quella storia lì non c'era, la cosa grave è che non c'era, il fatto grave è che Fabrizio Gatti tira fuori la storia, la realtà, dopo di che nessuno ci va! Adesso è notizia, la notizia dura una settimana, dopo di che non ci va più nessuno. Io sono andato a vedere un anno dopo che è successo, tant'è vero che lo spazio editoriale è talmente ampio che Fabrizio Gatti ci può ritornare e rifare un'altra volta lo stesso lavoro. E andando avanti così io e Fabrizio avremo lavoro fino alla pensione, a me va pure bene ma non va bene al paese. Cercavo di spiegare prima nel workshop che uno degli elementi più significativi è la scarsa partecipazione democratica, una caratteristica che ha a che fare col nostro modo di essere italiani. La stessa cosa succede quando i mondi non s'incontrano, c'è un lavoro di ricerca, i sociologi vanno avanti sulle questioni, perché glielo chiedono, magari glielo commissionano pure con i soldi pubblici con i quali si fanno i lavori di ricerca che durano anni. Il punto è che sta roba non va in circolo, allora ecco, uno se la può prendere anche con la comunicazione ma il fatto che i ricercatori non entrino in circolo vuol dire che non vengono ascoltati da chi poi le cose le deve decidere; non ci sono i canali attraverso i quali, una volta fatta la commessa pubblica, prima di prendere una decisione sui temi dell'ambiente, dell'acqua, dell'energia… La politica serve a prefigurare quello che succederà e più o meno a indirizzare i processi economici e sociali in una direzione piuttosto che in un'altra e tendenzialmente queste decisioni vengono prese in posti dove la responsabilità politica poi può essere praticata, cioè che siano posti trasparenti dove ci siano delle persone che hanno deciso… Veltroni a Roma ha deciso così, punto, dopo di che a quel punto paga lo scotto di eventuali cose che non funzionano e comunque la responsabilità è riconoscibile.

Per un telegiornale, faccio la cronaca, la so fare bene e finisce lì, ogni giorno ho una notizia da raccontare, ma se fai l'approfondimento giornalistico ti devi porre il problema. Io penso che siamo arrivati a un punto di avvitamento tra politica e informazione, precisamente tra quell'informazione che è vissuta di politica, cioè che ha deciso che il codice d'interpretazione, che il linguaggio fondamentale attraverso il quale interpretare il mondo è quello della politica, per cui quello che è importante è mettere in scena il politico che dice Tav si e il politico che dice Tav no, come se gli italiani non avessero la capacità di decidere autonomamente se la Tav è giusta oppure no, mettendo in secondo piano il racconto a che serve la Tav e quali sono le conseguenze. Ora questo sistema sta scoppiando, perché questo paese sta andando in crisi nel rapporto tra eletti ed elettori, la gente disprezza la politica, mi spaventa molto questo fatto, non lo sto dicendo con allegria, anzi, penso che sia un elemento di regressione da un certo punto di vista, perché la disprezza tutta. E così disprezzandola tutta crea le condizioni per cui le decisioni vengano prese senza responsabilità politica, poi saranno dolori, perché le decisioni si prendono lo stesso. A decidere come deve crescere una città come Milano o come Roma lo faranno lo stesso, lo faranno fuori. Come diceva stamattina una ragazza lo fanno i poteri forti, i famosi nomi e cognomi, vanno dal sindaco, si mettono d'accordo, questo in cambio di questo, dopo di che noi non sapremo niente, ci vorrà un Fabrizio Gatti che andrà a vedere come mai… Poi alla fine ci coinvolgerà tutti, anche a noi che non facciamo di mestiere gli immobiliaristi, ma abbiamo un figlio e a un certo punto lo vogliamo mandare all'università a Milano e sono dolori, perché non sappiamo dove mandarlo a vivere, perché nel frattempo la città ci è cambiata, la città è cresciuta attorno a degli interessi che non sono politicamente condivisi, sui quali non è possibile esercitare alcuna responsabilità politica e che per questo non hanno alcun spessore etico. Ecco io sto lavorando su questo, quando faccio una trasmissione e decido ad esempio di andare in onda da Locri, penso a come tenere assieme sentimenti, storie, emozioni, vita delle persone nella loro complessità per quello che sono, con tutti i tempi lunghi, con tutte le fatiche anche della comunicazione e nello stesso tempo dare un taglio di approfondimento, che comunque ti dica qualche cosa di più su quello che sta succedendo, sia tenendo conto il prima, il durante e soprattutto il dopo. La gente continua ad andare a votare, l'80% andrà a votare, ma vanno a votare chi stringendosi il naso, chi pensando io voto quello perché quello mi garantisce la mia serenità se sto già lavorando, perché chissà magari a qualcosa mi servirà potergli dire che l'ho votato… Il giornalismo viene caricato di una responsabilità enorme, perché deve saper comunicare bene quello che gli dicono i ricercatori, deve supplire al fatto che non c'è il dibattito nelle sedi giuste, deve supplire alle mancanze di controlli nelle sedi giuste. A fermare la schiavitù a Foggia, prima che ci andasse Fabrizio Gatti, siccome sono anni che funziona così, sarebbe dovuta andare la Asl, i carabinieri, poliziotti, l'ispettorato del lavoro e via scendendo fino agli organi regionali. C'è voluto Fabrizio Gatti che ha rischiato la vita per tirarla fuori. Quindi tutte queste cose qui, che danno il segno di un paese appunto dove si fa fatica a trovare riferimenti, dove le cose non funzionano laddove dovrebbero funzionare, poi ricascano con fatica sull'informazione. Io sento l'esigenza quindi che l'informazione faccia propria questa funzione, ma non in senso pedagogico, perché serve a poco, oltretutto non fa parte del nostro mestiere: come faccio io a dire qual è la strategia giusta per risolvere il problema dell'esigenza abitativa in Italia, sarebbe una cosa assolutamente ridicola. Mi rendo conto che il giornalismo militante entra in corto circuito con la politica alla quale poi alla fine chiede sempre conto, o perché l'utilizza come nemico principale, o perché da quella vuole avere delle risposte e dall'altra parte ci sta il giornalismo pedagogico che non serve a nessuno, che è l'altra faccia poco utile, può essere utile come comunicazione di servizio all'interno di sottogruppi che lavorano tutti sulla stessa cosa, come auto-motivazione per crescere: tra l'uno e l'altro secondo me una strada utile si può trovare e il servizio pubblico dovrebbe farlo certamente.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.