II Redattore Sociale Milano 5-6 ottobre 2007

Miglioratori del peggio

Persone non gradite: zingari, cinesi e altre "minoranze” in una città che non li vuole

Relazioni di Daniele Cologna e Gad Lerner. Intervengono Lin Jian Yi e Maurizio Pagani

Gad LERNER

Gad LERNER

Giornalista, conduttore della trasmissione “L’infedele” su La7, editorialista de La Repubblica. Il suo ultimo libro è “Scintille” (Feltrinelli, 2009). Il suo blog è www.gadlerner.it.

ultimo aggiornamento 14 aprile 2010

Daniele COLOGNA

Daniele COLOGNA

Ricercatore dell'agenzia Codici. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Lin Jian YI

Lin Jian YI

Coordinatore per il Nord Italia di Associna. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Maurizio PAGANI

Maurizio PAGANI

Presidente Opera Nomadi Milano. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Gad Lerner

"Persone non gradite": mette insieme realtà molto diverse, perché gli esempi sui quali ci soffermeremo io e Daniele Cologna, cioè zingari e cinesi, al quale genericamente si aggiungono altre minoranze, in una città che non li vuole, allude a comunità, esperienze di vita, culture profondamente diverse tra di loro e anche a minoranze che convivono insieme a noi nella metropoli, che hanno peso, forza contrattuale molto diversa.

Abbiamo tutti memoria del fatto che quando ci fu conflitto nella zona di via Paolo Sarti a Milano e andò sulla prima pagina dei giornali, con grande stupore ci siamo accorti che esiste la Repubblica Popolare Cinese nel suo insieme che ha manifestato interesse per quello che capitava ai suoi a Milano e quindi quando un ambasciatore di una delle nazioni più potenti del mondo prende posizione con un monito nei confronti delle autorità milanesi e italiane, quando la stampa cinese dà rilievo ad un episodio per loro così minuscolo e così lontano, vuol dire che quella comunità sgradita in una città che non li vuole comunque qualche forza alle spalle ce l'ha, per sé stessa, per la sua compattezza, per la sua natura. Il caso degli zingari è esattamente l'opposto: sono persone che ricevono dal paese d'origine, nel caso prevalente sulle cronache di oggi, la Romania, il benservito e messaggi continui di ostilità, quindi sono reietti in patria e giungono a noi esuli, senza una possibile, immaginabile, protezione di alcun tipo alle spalle. E questo spiega anche il perché c'è molta meno compattezza comunitaria al loro interno. Ricordo che quando feci una trasmissione dopo la vicenda della spedizione punitiva di Opera, la vittoria di quel comitato di lotta contro l'insediamento di una piccola comunità rom su un campo attrezzato nell'interland milanese, io ricevetti una lettera di protesta del consolato romeno di Milano, perché avevamo messo in cattiva luce la Romania facendo vedere i rom e non precisando abbastanza che i rom non sono i romeni; insomma si capiva che la tendenza era quella di scaricarli, non certo difenderli, l'esatto opposto di quello che ha fatto il consolato e l'ambasciata cinese sulla vicenda di via Paolo Sarpi.

Vi parlerò di zingari, accettando questo termine perché penso che sia giusto capirsi con un linguaggio politico corretto, che porta a enumerare le diverse comunità singolarmente intese, e che non risponda alle paure, alle suggestioni, alla percezione che di costoro hanno i cittadini italiani. Del resto dopo di noi parlerà anche il presidente dell'Opera Nomadi di Milano, Maurizio Pagani e potremo perfino, se ci mettiamo a perdere del tempo sulle terminologie, dissertare su quel termine Opera Nomadi: ma siamo sicuri che sia giusto definirli nomadi? O già attribuiamo loro uno stereotipo di diversità irriducibile definitiva nei nostri confronti, perché noi amiamo le nostre case, loro invece no, amerebbero il vagabondaggio, come ha scritto pochi giorni fa su Il Corriere della Sera Roberto Ronchei che nell'editoriale di apertura afferma, citando anche un Indro Montanelli  annata '39, epoca in cui scriveva cose analoghe contro gli ebrei, che per loro stessa natura gli zingari non conoscerebbero il senso della proprietà e quindi di conseguenza si appropriano sempre per loro stessa natura, delle cose degli altri, insomma sono ladri. Io vi parlo con grande allarme e anche con molta amarezza personale, vivo con angoscia il precipitare della situazione intorno ai campi abusivi, intorno agli insediamenti che per altro non sono come ben sapete, solo di rom, o solo di zingari, o solo di sinti, sono luoghi delle nostre città nei quali convergono disperati e senza tetto di varia natura, sfrattati, clandestini che però hanno un lavoro, gente che invece ha il permesso di soggiorno, ma che non ha la casa e non può permettersela, mariti separati che non possono permettersi un altro luogo abitativo dopo che si è rotta la loro famiglia, sono molto coacervi, molto disomogenei, unificati semplicemente dal fatto di essere appunto baraccopoli, bidovilles, favelas, accampamenti sotto i ponti e i cavalcavia, molto precari, abusivi che ci piacerebbe rimuovere, che qualsiasi politico che voglia avere del consenso deve dichiarare da sgombrarsi; mentre è molto meno redditizio domandarsi, dal punto di vista dell'amministratore locale dove spostarli e non semplicemente sgombrarli.

Io parto da un dato di grande amarezza personale anche per aver incontrato una disinvoltura nel cambiare opinione sui temi della solidarietà e dell'accoglienza, quando si ha a che fare con le situazioni più sgradite appunto, delle città che non vogliono questo tipo d'immigrazione: ho incontrato una licenza di linguaggio, il fatto che qui si fa l'eccezione, mentre ci si proibisce, sempre più spesso e per fortuna, di adoperare un linguaggio ostile sui mass media, nei confronti degli ebrei, piuttosto che dei neri ed anche dei musulmani, questa è l'eccezione, la deroga culturale contro gli zingari sui quali si può dire quello che non si può dire sugli altri. E quando tu lo fai notare in buona fede, ormai una gran parte dei cittadini che guardano le mie trasmissioni, piuttosto che leggono i giornali, di fronte a una protesta contro questa deroga, questa licenza per me oscena di linguaggio, rispondono in perfetta buona fede: ma come fai a non renderti conto che il caso degli zingari è diverso da quelli di tutte le altre minoranze, perché gli zingari per loro natura sono portati al furto, per loro natura sono portati allo sfruttamento dei bambini costretti a mendicare, per loro natura hanno un atteggiamento violento nei confronti delle donne… Ora questo dato culturale naturalmente convive con la verifica pragmatica, i dati del Ministero dell'Interno più volte citati, conferma una propensione a delinquere effettivamente molto elevata in questi ambienti, ma io mi rifiuto, in questo sono un pessimo giornalista, mi rifiuto di partire da questo dato come il principale. Io non nego la realtà, io non faccio il buonista, non voglio dire che zingaro è bello, solo perché in realtà nei nostri consumi culturali è sempre più frequente che rappresentiamo la poesia gitana, quanti film, quanti romanzi, quanti anche esperienze musicali etniche, vediamo diffondersi intorno la figura affascinante e romantica dello zingaro, ma questo convive perfettamente invece con una percezione diffusa nei cittadini che quello lì di sua natura è a noi non soltanto estraneo, ma pericoloso. Tutte le volte che ho avuto a che fare con le domande del Cnca, i convegni di Capodarco, le riunioni del Redattore Sociale a cui ho partecipato, la prima cosa che mi veniva spontanea di dire ai giornalisti o aspiranti tali presenti, è che non è vero che bisogna sempre scrivere: molte volte, su molte attività del volontariato sociale che sono difficili, volendole affrontare con la ricerca del meno peggio, del migliorare le situazioni lentamente, sapendo che si andrà incontro a delle sconfitte, a delle smentite, molto, molto, molto spesso, il giornalista non può rappresentare un alleato e non può esserlo. Mi è capitato ancora di recente di essere consultato da Giuliano Amato, il Ministro degli Interni, per realizzare un convegno nazionale sul problema dei rom o degli zingari, che dir si voglia. Sono andato al Viminale per la prima volta in vita mia a questa riunione e ho detto ad Amato che secondo me, facendo un convegno nazionale pubblico, qualcosa che dà grande rilievo pubblico a questo problema, le avrebbe buscate… La cosa più probabile è che le si poteva ritorcere contro perché non appena si discute in televisione o sul giornale del problema degli zingari, vincono automaticamente quelli che urlano la loro invettiva, perché hanno argomenti suggestivi quasi insormontabili. Quando il Corriere della Sera pubblica sulla sua prima pagina e poi in un'intera pagina fortissima della sua cronaca, la sequenza fotografica dei bambini borseggiatori alla stazione centrale di Milano che derubano i passanti uno dopo l'altro e che naturalmente non possono essere schiaffati in gattabuia e chiusi lì dentro, come la gente troppo spesso desidererebbe, di fronte a quella sequenza fotografica lì vi potete immaginare i miei discorsetti, gli appelli di Moni Ovadia, gli editoriali politically correct vanno a farsi benedire: quelle foto hanno una potenza dirompente che sovrasta qualunque discorso di mediazione sociale, di riduzione del danno, di lavoro che richiede anni per mandare i bambini rom a scuola, per creare cooperative che tolgano dal lavoro sommerso coloro i quali sono disponibili in questi accampamenti a organizzarsi appunto per lavorare, ecc. Il lavoro paziente e minuto, quasi sempre ha bisogno più di silenzio e non di essere amplificato sui mass media, che immediatamente lo distorcerebbero e l'uscita anche di un articolo ottimo sull'integrazione dei rom nel campo di S. Dionigi, per dire l'ultimo che è stato sgombrato qui a Milano a Chiaravalle, verrebbe incenerito dalla successiva pubblicazione dell'articolo sui rom borseggiatori o violentatori o che hanno fatto la rissa tra loro in cui è bruciato un accampamento… Questa è la dura realtà con la quale noi dobbiamo confrontarci e allora io sento come necessario, per avere un codice di orientamento in una materia così spinosa, cominciare da quelle considerazioni generali che più mi spaventano, cioè riconoscere che oggi di nuovo in Italia e non solo, ma qui in maniera più virulenta che altrove, anche per il fatto che abbiamo l'abitudine di considerarci brava gente, dato che le leggi razziali qui furono applicate perché i tedeschi ce lo imposero e poi invece gli ebrei li proteggevamo, ecc., siccome c'è questa idea che dell'italiano non puoi dire che è razzista, alla parola razza si è sostituita la politicamente corretta "etnia": la si adopera con totale disinvoltura. Io credo che dovremmo partire dal fatto che ormai in Italia per quanto riguarda gli zingari, si considera che sono un corpo estraneo, che sono un popolo di troppo, che la loro presenza è non integrabile in alcun modo, in quanto si tratta di un popolo che nel suo insieme, per sua natura ha quelle caratteristiche che ce lo rende refrattario. Abbiamo di nuovo, lo dico con amarezza, il popolo colpevole nel suo insieme, come è già stato nel corso dei secoli trascorsi e non è bastato che tra i deportati e gli sterminati nei lager ci fossero anche gli zingari, perché nei confronti di questo popolo si erigesse quel tabù culturale, quel divieto ad esprimere pregiudizi e ostilità che per fortuna si è innalzato in Europa nei confronti degli ebrei. Guai a chi dicesse in pubblico gli ebrei sono nel loro insieme avidi di denaro, gli ebrei sono infidi perché hanno lealtà più nei confronti dei loro confratelli stranieri che nei confronti del nostro stato, gli ebrei manovrano i mass media e le banche internazionali, quindi sono una potenza che ci sfrutta… Se uno queste cose va a dirle in pubblico viene additato e viene sanzionato, anche se naturalmente questo pensiero non è scomparso, ma è un pensiero proibito, da dire sottovoce; invece nei confronti dei rom lo puoi dire, perché quel popolo è colpevole nel suo insieme. Ci saranno sì alcune eccezioni, ci sarà qualche zingaro per bene, ma è un'eccezione e quindi che tipo di pietà, che tipo di solidarietà possono ricevere. L'unica espressione di solidarietà che si può esprimere è quella di proporre il ritiro della patria potestà a quei genitori che mandano i bambini a chiedere l'elemosina… Io credo che è su questi sconvolgenti ritorni allo stereotipo e al pregiudizio che noi dobbiamo attrezzarci innanzi tutto. Lo verifichiamo anche nei momenti della tragedia, come dopo il rogo di 4 bambini sul cavalcavia alla periferia di Livorno, la cosa ha fatto notizia per qualche giorno sulle prime pagine dei giornali ma voi sapete benissimo che bambini che muoiono in questo modo nei campi rom purtroppo ce ne sono molti ogni anno. Il bisogno istintivo di una città solidale, di una città che si vuole considerare generosa, è quella di dire: ma è chiaro che qui c'è un colpevole che noi dobbiamo denunciare e quel colpevole sono i genitori di questi bambini che sono scappati, che li hanno mollati lì, perché? E qui sta il punto decisivo: mi sono sentito dire da persone di sinistra molto solidali, molto aperte "ma guarda secondo me loro hanno una sensibilità diversa dalla nostra, loro chissà se soffrono come noi per la morte di questi bambini o se hanno un rapporto con la vita e con la morte che in realtà è diverso dal nostro, più antico, legato al loro retaggio culturale…". Arriviamo a dirci questo per definire la diversità.

Il problema culturale è straordinariamente complicato. Io sono spaventato del fatto che molti amministratori locali non si rendano conto che tra i loro compiti, tra le loro responsabilità ci sia anche misurare la temperatura dei valori della civiltà presente nella cittadinanza, perché altrimenti se ci si limita a dire che dovere di un amministratore locale è quello di sintonizzarsi sulle paure comprensibili, sull'allarme sicurezza, diffuso tra i cittadini, in particolare i più deboli, gli abitanti delle periferie, le donne anziane, se ci si limita a questo, non ci rendiamo conto di che cosa monta, di che cosa sta salendo alle labbra, di che cosa affiora nella lotta contro gli insediamenti rom, che ormai ha dato vita a numerosi comitati, che hanno compattato paesi interi, hanno ricreato comunità disgregate. Noi assistiamo a questo singolare caso del formarsi di una solidarietà collettiva, di un forte senso di comunità, ma per escludere altri, la comunità si forma contro, con il cemento della maggioranza che si sente in buona fede, vittima e perseguitata da una minoranza e che accusa gli enti locali e i sacerdoti e i volontari della solidarietà di preferire, di dare privilegi a una minoranza; quindi questi zingari vengono in perfetta buona fede definiti dei privilegiati, tant'è che serpeggiano leggende metropolitane secondo cui il comune o la provincia gli passerebbero ogni giorno 17 euro, piuttosto che ci sarebbero speciali trattamenti di favore da parte della polizia nei confronti dei nomadi, la stessa polizia che invece nei confronti dei cittadini residenti è molto più severa…

Questo capovolgimento clamoroso dei dati di fatto nasce appunto in questa logica inquietante per cui di nuovo stiamo vivendo i molti contro i pochi, una maggioranza scatenata contro una minoranza e allora quando questo codice culturale ritorna, come è ritornato tra di noi, bisogna prenderlo molto sul serio e il motivo per cui il caso degli zingari è oggi contemporaneamente il più ingestibile sul piano politico, il più difficile da trattare sul piano mediatico, è perché riguarda poche decine di migliaia di persone in un paese di 57 milioni di abitanti, però dal mio punto di vista è qualche cosa che bisogna prendersi assolutamente a cuore, perché ha un formidabile effetto culturale. In molti dicono di cacciarli ma non si può per legge, perché metà degli zingari ha la cittadinanza italiana e l'altra metà ha comunque una cittadinanza comunitaria che li rende non estradabili. In questi giorni circola anche la fesseria secondo cui si potrebbe adoperare un comma, per altro molto ambiguo, di una direttiva comunitaria per cui passati i primi tre mesi, se a una verifica un cittadino straniero comunitario non dimostra di avere una certa quota di reddito, potrebbe essere estradato. Chi agita questa possibilità di diritto d'ingresso in un paese per censo, esclusivamente per censo, dimentica la prima parte della direttiva che chiarisce bene che qualunque cittadino comunitario, per i primi 3 mesi può venire in Italia, poi dopo dovrebbe essere regolarizzato, mentre la nostra stessa organizzazione assurda dell'anagrafe e del ministero degli interni sul tema delle regolarizzazioni delle cittadinanze, delle verifiche dei permessi di soggiorno, ha fatto si che una gran parte degli zingari o rom che dir si voglia, provenienti dai paesi dell'ex Jugoslavia, siano condannati ad un'eterna clandestinità, perché sono fuggiti con documenti di paesi che oggi non esistono più e non gli abbiamo dato il diritto di sostituire quei documenti; molti sono giovani nati in Italia, figli di persone con il passaporto della Jugoslavia, sono clandestini per l'eternità, perché lo stato italiano non prevede che possano essere regolarizzati essendo nati qui, ma figli di passaporto jugoslavo e non croato, serbo, bosniaco, macedone… Vedete come condanniamo noi stessi una nuova generazione, un'intera generazione nata in Italia a pensare tutta la loro vita come provvisoria, tutta la loro vita come sul margine dell'illegalità; che gli ziangari non sono estradabili in alcun modo la polizia lo sa benissimo e infatti gli sgomberi li fa molto malvolentieri, quando proprio l'assessore, il sindaco, ce li spinge a farli. La tendenza maggioritaria è quella di chi grida "basta campi abusivi è uno schifo, a Milano ci sono 20 campi abusivi, in giro per l'Italia bisogna eliminare tutti i campi abusivi, lasciare solo quelli regolari" e chi in astratto non sarebbe d'accordo con questo proposito che certamente riscuote applausi? Ma poi incominci a porre insistentemente la domanda: allora dove li mandiamo? Io temo il giorno in cui l'eliminazione fisica tornerà all'ordine del giorno. Vi sembrerà un discorso esagerato, ma io so che bisogna pensarci per tempo, so che sembrava assolutamente esagerato quando si scatenavano i primi Pogrom nel 1881 in Russia che la gente perseguitata cominciasse ad avvertire il pericolo… Io credo che dobbiamo esserne consapevoli, questa è una possibilità concreta nei prossimi 10-15-20 anni, non so quanti.

Binomio politica di sicurezza e politica di accoglienza integrazione: come portarle avanti insieme, come sgomberare un luogo ingestibile, convogliando le persone che ci vivono in un'altra area, tollerare un campo abusivo, nel quale però si è già organizzato il lavoro dei bambini che vanno a scuola e dei genitori che emergono dal lavoro nero con una cooperativa, insomma tutto questo sui giornali è un dosaggio difficilissimo. Penso che questo dosaggio lo faremo con maggiore coscienza se saremo anche capaci di portare in primo piano, di assegnare come merita il primo posto a quella denuncia dei pericoli di crollo dei nostri parametri di civiltà ai quali stiamo assistendo. Di fronte a tutto questo io penso ai miei figli, al nostro lavoro e che se non grideremo, se non denunceremo quello che sta capitando, fra qualche anno ne proveremo vergogna.

Daniele Cologna

La mia è una lettura un po' diversa da quella che è stata proposta da Lerner, con la quale mi trovo molto in sintonia nei principi se vogliamo, però mi verrebbe quasi di azzardare una previsione un po' diversa e di fare anche una serie di distinguo. La previsione è che della questione dei rom nella società italiana tra un anno non se ne parlerà più, perchè penso che in realtà questa non sia una buona notizia, credo che succederà quello che più o meno è sempre successo, almeno in Italia con gruppi di persone esposti a forte marginalità sociale: un scivolare in esistenze interstiziali tollerate finché non vengono spostate da un posto all'altro, ma che all'interno di questi interstizi trovano, creano e riproducono degli equilibri precari che non sono poi così precari come si potrebbe immaginare.

Io sono molto refrattario alle reificazioni del fenomeno rom, quindi al fenomeno rom in termini culturali, etnici: ciò che in un certo senso compatta i rom nell'immaginario è solo lo stigma. Non c'è nulla di questa compattezza come dato reale del loro inserimento nelle diverse società con cui entrano in dinamica relazione, nel senso che non tutte le società europee per esempio sono egualmente chiuse dal punto di vista del mercato del lavoro, rispetto all'integrazione dei rom, non tutti i sistemi scolastici hanno le stesse difficoltà ad inserirli, non è che dappertutto le cose funzionano allo stesso modo ed anche in Italia l'esperienza dei rom è un patchwork di esperienze diverse che dipendono molto dal contesto d'insediamento. Io credo che in realtà nella vicenda mediatica dei rom ci siano una serie di fattori che appartengono al campo giornalistico e mass mediatico più che a quello della realtà sociale. Detto questo io sono orripilato da alcune cose che si sono viste negli ultimi mesi. Opera, ma anche Pavia, per restare nella cronaca più recente. Concordo con un'analisi che vede inevitabili questi fenomeni, ma ci aggiungo una postilla a mio avviso assolutamente indispensabile: è inevitabile che accadano cose del genere in un contesto in cui il discorso pubblico, la riproduzione culturale della società italiana tollera una rappresentazione delle minoranze secondo linee che sono quelle che sono state descritte fin qui. È questo il dato fondamentale e su questo temo di avere una lunga storia da dover raccontare, avrei il tempo per parlarne per ore. Chi fa un lavoro come il mio viene spesso interpellato da giornalisti e mass media in generale della carta stampata e altro a livello nazionale ed internazionale, chiaramente con i debiti distinguo, però succede spesso una cosa che io chiamo la tirannia della chiave di lettura giornalistica: il giornalista ti identifica come una persona che è update, aggiornato, in qualche modo dentro le vicende di cui si interessa, perché sa che ci hai lavorato, ma parte con una chiave di lettura in testa che a volte è personale, ma che nella stragrande maggioranza dei casi non è personale affatto. E' successo a me, ma anche ai miei colleghi, di dedicare anche ore alla spiegazione di un fenomeno ad una persona attiva nel mondo della comunicazione, per poi vedere nel prodotto finale una narrazione che di tutto il discorso fatto dell'analisi nel tentativo di rendere giustizia alla complessità dei fenomeni sociali, rimane solo quello che il cronista in questione aveva in mente fin dal principio. Devo dire che ci sono comunicatori e attori del mondo della comunicazione che da questo punto di vista sono più sensibili di altri certamente, non tutte le testate si comportano nello stesso modo nei confronti dei problemi di questo tipo, però il problema a mio avviso, e qui non sono io a dirlo, l'hanno detto in tanti, non è legato tanto alla cattiva o buona coscienza del giornalista, è legata alle dinamiche interne del campo giornalistico, è un dato di fatto che però ha anche la sua rilevanza a mio avviso di natura politica. Il distinguo fondamentale è quando la comunicazione ha per oggetto minoranze svantaggiate, marginalizzate, persone che non hanno accesso in egual misura rispetto al cittadino italiano medio. La comunicazione, il mondo della riproduzione culturale deve porsi dei problemi, deve farsi in un certo senso carico di responsabilità che non sono esattamente le stesse. A livello europeo su questo c'è stata un'ampia discussione fin dai primi anni '90; diverse realtà europee, tra l'altro anche il parlamento europeo, hanno stilato codici deontologici per la rappresentazione delle minoranze. Sapete che in paesi come la Gran Bretagna, ma anche come la Germania, esiste una distinzione tra stampa seria e stampa scandalistica, tabloid, stampa di pancia e stampa di testa. Il sistema giornalistico italiano non si distingue per la totale commistione di pancia e testa, non c'è una gran capacità di scindere le due cose. E va bene, questo può anche essere il portato di ciò che siamo, quindi a ciascuno il media che si merita. Quando cominciamo ad avere una società italiana che non è più fatta soltanto di italiani medi facilmente identificabili e riconoscibili, quando gli stereotipi della casalinga di Voghera cominciano ad essere deboli, perché la casalinga di Voghera non esiste più in quei termini lì da un sacco di tempo, quando si comincia a capire che la società italiana è davvero multietnica, multiculturale, in cui il presente è già così e il futuro prossimo non potrà che essere ancora più così, un bambino italiano su 10 è di origine straniera, dovremmo davvero cominciare a porci il problema e a rifletterci. Nel palinsesto massmediatico non si trova mai spazio, riguardo alle minoranze come i rom e i cinesi, se non per dire sempre le stesse cose, per qualcosa che non sia la descrizione dei furti in metropolitana, della drammatica minaccia della potenza economica cinese, della schiavizzazione degli operai cinesi nei laboratori e via dicendo.

Questa è informazione selettiva, solo un bambino può pensare che un fenomeno come quelli che vi ho citato possono essere ridotti a questi eventi per fare notizia, lì di notizie ce ne sono molte di più, posto che uno abbia voglia di raccontarle. Bisognerebbe poi evitare un giornalismo che sia emotional, ovvero emotivo, ma non si riesce ad evitare nessuna delle trappole che ho citato, e così inevitabilmente il giornalismo che ne emerge, con venatura diversa a seconda chiaramente del caso, tenderà a virare verso forme più o meno eclatanti di sensazionalismo, di pornografia della marginalità, per cui ti faccio vedere il problema e te lo sbatto in faccia, pensate a programmi come Lucignolo, pensate a situazioni in cui in realtà non interessa analizzare il problema, interessa solo scioccarti con immagini forti.

L'autopsia del nulla: quei dibattiti televisivi in cui delle persone hanno delle immagini assolutamente preconcette di un fenomeno, ne discutono, quando in realtà non stanno minimamente toccando il fenomeno bensì solo dicendo quello che la società pensa. Per carità di per sè è un argomento interessante, legittimo, se lo si presentasse come tale ma nel momento in cui lo si presenta come un dibattito sul fenomeno, la cosa crea problemi. Ci riempiamo troppo la bocca di parole che chiudono i fenomeni all'interno di parentesi molto strette, per cui parlare dell'esperienza di emigranti, per restare nel campo che mi è più familiare, come un'esperienza fatta di comunità è come se immediatamente chiudesse delle parentesi, ah, sono delle comunità quindi non una società con la sua stratificazione sociale, con tutte quelle dinamiche di conflitto che ci possono essere, loro hanno dinamiche di solidarietà occulta o visibile che noi non abbiamo, loro sono in qualche modo più tipici di noi… Io ho avuto la fortuna di occuparmi a Milano sostanzialmente di tutti i flussi migratori che hanno impattato sulla città, nel corso di questi 15 anni credo di aver fatto ricerca sul campo praticamente su ogni singola popolazione almeno tra le prime. Gli unici esempi che potessero essere empiricamente sorretti dall'evidenza della ricerca sul campo di dinamiche di solidarietà comunitaria, l'ho trovata soltanto in una specifica migrazione e solo in un certo periodo storico, ossia la migrazione eritrea ed etiope negli anni '70 e '80: tutto il resto possiamo discuterlo in mille maniere ma non in termini di comunità. Potrei fare lo stesso ragionamento su categorie forti come etnia, potrei fare lo stesso su parole assolutamente stigmatizzanti come il termine "propensione a delinquere" che è stato anche nobilitato da alcuni sociologi a mio avviso caduti letteralmente in basso, perché esiste un'ampia letteratura quanto meno in sociologia che invece questo tipo di definizioni le smonta veramente come un giochino di lego, con grande facilità e lo si fa da un sacco di tempo. Questo lo sa l'addetto ai lavori mentre chi sta al canale ricevente delle nostre trasmissioni televisive, dei nostri blog, dei nostri giornali, non sempre ha gli strumenti per decodificare quello che gli viene rappresentato e questo a mio avviso se può non essere un problema per il giornalista che fa il suo onesto lavoro, come spesso mi viene risposto, deve essere però un problema per la società, almeno a livello di politica e dell'informazione, deve essere assunto come un problema, perché se questi atteggiamenti colpiscono il cittadino italiano, esistono delle forme di autodifesa che possono prendere varie forme. Se colpiscono minoranze, come nel caso dei cinesi, che non hanno nemmeno la capacità di utilizzare la lingua italiana e tra l'altro in alcuni casi questa incapacità, questo handicap è destinato a perdurare tutta la vita, allora è abbastanza utopistico pensare che sia la minoranza in sè a riuscire ad esprimere forme di autodifesa; in realtà grazie a Dio, alcune minoranze riescono a svilupparle, nel tempo però, quando i danni son stati fatti, mentre dovrebbe essere la società italiana a farlo. Andiamo a vedere il caso di Sarpi, un caso assolutamente da manuale: il quartiere Sarpi, lo dico per tutti quelli che non l'hanno già recepito dopo mesi e mesi di comunicazioni sull'argomento, non è affatto un quartiere ghetto, non c'è nessun ghetto nel quartiere Sarpi, è un quartiere in cui oltre il 90% della popolazione residente è italiana, in cui esiste una concentrazione funzionale di esercizi commerciali, che obbedisce alle stesse regole di natura prettamente economica e di mercato che governano la concentrazione funzionale di locali notturni sui navigli di negozi come le boutiques di alta moda in Montenapoleone. La questione Sarpi non è la questione di cinesi verso gli italiani, sono stati i media a rappresentarla in questi termini. La questione è di governo della città, delle gestione dello spazio cittadino, di gestione e regolazione delle attività commerciali. E' sfuggita di mano la cosa, è stato un contrasto tra residenti e commercianti e a Milano ce ne sono molti, sono irrisolti e vanno avanti da anni. Sono esempi che non hanno nulla di particolarmente milanese, fanno parte delle dinamiche tipiche di tutte le metropoli del pianeta e questo perché viviamo in un mondo governato da un libero mercato. Il libero mercato produce effetti secondari di questo tipo e qui c'è come dire, una piccola aggiunta in più, questa connotazione di carattere etnico. Il fatto che a gestire le attività commerciali fossero persone cinesi, forse è anche il caso di ribadirlo bene, ha fatto la differenza. La stragrande maggioranza di questi commercianti cinesi poi non abita a Sarpi bensì in altri quartieri vive dove non c'è alcun conflitto con gli  italiani, in zone che non assurgono quasi mai agli onori della cronaca, se non per questioni legate a incidenti di motocicletta o di automobilismo, o risse tra sud americani, ma di cinesi lì non si parla mai, eppure stanno lì… Dove lavorano i cinesi di Milano? Ormai lavorano in tutta la città, perché la vera notizia, quella che paradossalmente nei media italiani non si riesce a far passare, non è quello che succede in Sarpi bensì è che l'imprenditoria cinese ha cambiato pelle in questi ultimi anni. Dopo essere stata un'imprenditoria essenzialmente manifatturiera, concentrata nella grande maggioranza dei casi in attività di manifattura, di pelletteria o di articoli di abbigliamento, o anche di altre lavorazioni, per conto terzi quasi sempre italiani, ora invece comincia ad avere il suo baricentro nelle attività di servizio e queste attività di servizio non sono neppure all'ingrosso. La notizia vera è che edicola dopo edicola a Milano, comincia ad essere gestita da cinesi, bar dopo bar di Milano viene gestito da cinesi, di fatto frequentati perlopiù da italiani a cui non interessa affatto se è servito da un cinese. Ci sono posti come la ferramenta all'angolo tra piazza Macciachini e via Farini completamente milanese con l'insegna nera, i caratteri dorati con scritto Ferramenta Yin Gin, però i caratteri sono quelli tipici della Milano degli anni '60 e il signore che ci sta dentro ti vende la lavatrice parlando in italiano e non è che ci sia differenza tra il servizio che dà lui e quello che dava il proprietario precedente. Queste cose sarebbero note di colore se fossero episodi sporadici, ma non lo sono. Anche i dati nazionali della Camera di Commercio ci dicono che l'aumento dell'imprenditoria cinese nei servizi è costante, è pervasivo e da questa notizia discendono altre sottonotizie altrettanto interessanti per un commentatore, come dire, avvertito. L'immigrazione cinese in Italia oggi cresce per le nascite di bambini cinesi in Italia e per i ricongiungimenti con membri della famiglia rimasti in Cina, ma sono sempre meno i neo migranti di zone storiche dell'immigrazione. Ebbene, di tutto questo avete trovato notizie nei giornali, nei mass media, nei dibattiti sul ghetto, sulla comunità chiusa? Sull'incapacità di comunicare devo dare un po' una frecciatina anche a un giornalista che stimo tanto come Gad Lerner.

Un' altra grande notizia di questi anni è che c'è una seconda generazione di ragazzi cinesi in Italia con meno di 18 anni che rappresentano addirittura il 30% dei residenti cinesi, il 30%, sono una realtà importante. Molti di questi anche se non tutti, hanno avuto una scolarizzazione se non completa sufficiente, parziale ma sufficiente ad ottenere un livello di competenza nella lingua italiana che gli permette un'interazione fitta col mondo e la società italiana in rapida crescita. Certo partono da uno svantaggio iniziale molto forte, sul quale se siete interessati potrei dire molte cose e che è una delle radici sullo stereotipo sulla chiusura: ci sono delle ragioni concrete perché si è creata questa immagine sociale permeata dall'idea dell'autoreferenzialità però un conto l'immagine sociale, un altro è la sostanza del fenomeno. Ripeto questo perché dietro allo stereotipo della chiusura c'è una sorta di sottotesto che è: questi vogliono stare solo tra di loro, non vogliono contatti con non cinesi. Ebbene l'esperienza di chi il cinese l'ha imparato, la Cina l'ha vissuta e ha cercato di entrare in contatto con questo mondo è totalmente opposto, cioè parlate con chiunque abbia vissuto in Cina parlando il cinese, quindi abbassando la barriera linguistica, ci dipingerà i cinesi come dei gran caciaroni, come gente assolutamente sguaiata per certi aspetti, innamorata del gossip, grandi spettegolatori… Io ho sempre potuto fare ricerca facilmente con i cinesi. Vi dirò di più, ho fatto molta meno fatica a fare ricerca sul campo con i cinesi che ad esempio con gli etiopi che sono tanti simpatici alla sinistra impegnata e militante. Io ho avuto molta più difficoltà con gruppi molto strutturati, quelli si, in un'ottica di compattezza, solidarietà spesso in quei casi ideologicamente, politicamente orientata in modo molto netto, ma non con i cinesi. Ho avuto molta più difficoltà con i filippini, che sono fortemente autoreferenziali per ragioni che andrebbero anche lì spiegate non in generale, non perché sono filippini, bensì per il tipo di immigrazione filippina che abbiamo in Italia, per il modo in cui questa migrazione si è costruita. Lascio volentieri la parola a Lin Jian Yi.

Lin Jian Yi

Faccio parte di Associna, un'associazione nata informalmente da un paio di anni, espressione della realtà delle seconde generazioni cinesi in Italia, praticamente un gruppo di ragazzi cresciuti o nati in Italia, che comunque hanno trovato la necessità di esprimere le loro idee e anche da un certo punto di vista i disagi. Associna ha fatto varie attività culturali anche contrariamente a quello che si dice nei mass media, per esempio attività sociali in cui si può far incontrare sia la popolazione cinese che quella italiana, mentre i mass media naturalmente dicevano che siamo assolutamente chiusi… Cercherò di fare un intervento su quello che non è stato detto nei giornali, perché sono state riportate tante notizie nate soprattutto da stereotipi sulla comunità cinese. Pensiamo prima di tutto, seguendo il prof. Cologna, che la parola comunità in effetti è sbagliata, perché la popolazione cinese in Italia non è compatta come si potrebbe pensare, è completamente disaggregata, non c'è una fortissima coesione, tant'è che si dovrebbe appunto parlare di società cinese in Italia. Si pensa che l'immigrazione cinese sia abbastanza recente rispetto anche agli altri flussi mentre i cinesi in Italia sono qua da quasi un secolo, a partire dagli anni '20 in cui i primi immigrati cinesi venivano dalla Francia. Ricorderete magari i venditori di cravatte in giro per Milano e da lì hanno iniziato ad insediarsi; si trattava di persone che erano emigrate in Francia per motivi di guerra e venivano soprattutto perché cercavano lavoro, successivamente poi con l'ascesa di Mao c'è stata una chiusura dell'emigrazione cinese verso l'estero e piano piano, con Deng si è tornati nuovamente ad un'apertura. C'è stata in particolare l'emigrazione cinese di massa verso metà degli anni '80 con le sanatorie del governo italiano. Generalmente si pensa all'immigrazione cinese, come se fosse tutt'uno, invece non è vero: ad esempio in Italia l'80% dei cinesi proviene da una regione della Cina che grosso modo, territorialmente, è un decimo di tutta la Cina, quindi è una regione globalmente minuscola e che comprende 3 distretti; un'altra buona parte viene da due distretti limitrofi ma addirittura già parlano una lingua diversa e spesso incomprensibile, questo per evidenziare quanto in realtà l'immigrazione cinese è molto diversificata. Il cinese in casa inizia a parlare il dialetto e la lingua ufficiale, cioè il mandarino, si inizia a parlare a scuola, così che i cinesi arrivati qua in Italia in età pre-scolare, fanno più fatica a parlare la lingua ufficiale, anzi quelli nati in Italia, addirittura spesso non la parlano. Bisogna quindi fare soprattutto una distinzione tra i cinesi di prima generazione e quelli di seconda. I cinesi di prima generazione in particolare hanno barriere linguistiche fortissime e mancano in Italia anche interventi per cercare di risolvere questo problema; io ho degli zii in Germania che una volta arrivati hanno potuto frequentare dei corsi di lingua tedesca in una scuola gestita da un ente statale. La mia famiglia è arrivata qua nel 1984 e i miei genitori hanno dovuto comprare mattoni di libri, tra l'altro in italiano, a quei tempi non c'erano ancora i libri di italiano per cinesi, in cui ravanavano qua e là, ma facevano veramente fatica, naturalmente senza il sostegno di un insegnante che ha il metodo giusto per insegnare la lingua italiana, che poi devo dire, grammaticalmente anche rispetto al cinese è molto complessa, almeno ad un primo impatto; si sono ritrovati a studiare l'italiano senza nessun supporto. Se si vuole cercare di rendere l'integrazione più semplice, bisogna anche avere non dico delle strategie, ma almeno delle piccole tattiche per riuscire a risolvere magari i punti specifici, in questo caso la lingua. 

Il boom dei cinesi in Italia e a Milano c'è stato a metà degli anni '80 e si è assistito ad una forte crescita delle prime attività commerciali di tipo etnico, di ristorazione, di laboratori, confezioni di abbigliamento, commercio al dettaglio e all'ingrosso; verso metà degli anni '90 c'è stata una crisi del settore ristorazione ampliatasi a partire dal 2000 con la questione della Sars che ha spaventato la popolazione. Questo ha avuto una conseguenza notevole, direi tragica nel settore della ristorazione cinese, molti hanno abbandonato naturalmente, cioè la stragrande maggioranza si sono dedicati ad altre attività, come appunto abbiamo detto, commercio all'ingrosso, al dettaglio…

La questione di via Sarpi: in questa via c'è stata una concentrazione d'ingrossi che non è compatibile con la struttura dell'area, non si può passare con i carrelli, non si può parcheggiare perché lì passano i tram, le macchine, le strade sono molto strette e non è stato un problema di multa, di non aderenza alle regole che poi hanno portato anche a dire "tolleranza zero", bensì un problema di spazio carico-scarico. Diciamo le cose come stanno, si tratta di un problema commerciale logistico che andava risolto con certi tipi di strumenti che l'amministrazione comunale non ha assunto e ha lasciato andare le cose per troppo tempo. Quello che si è raccontato nei giornali, addirittura della mafia cinese è una pura idiozia. I cinesi fanno fatica ad essere coesi tra di loro quando non si tratta di legami parentali, quando non si tratta di legami tra compaesani, cioè in realtà la popolazione cinese in Italia è fondata soprattutto sul nucleo della famiglia, ma non dalla famiglia intesa come concetto italiano bensì in senso allargato. Va combattuto lo stereotipo di cinesi compatti, organizzati, siamo ben lontani dalla realtà, agli antipodi veramente. Leggendo le notizie sui giornali invece mi rendo conto che chi scrive non conosce la situazione, e quindi scrive a partire da pregiudizi e preconcetti, questo è il nocciolo, il problema fondamentale.

Gad Lerner

Confermo la tesi per cui dei cinesi in Italia si parla troppo per stereotipi: si scrive senza conoscere e addirittura a volte non si crede a quello che i protagonisti stessi dichiarano; ho sentito di un giornalista di una testata a livello nazionale, che aveva intervistato i cinesi riguardo lo stereotipo che non muoiono mai, e alla riposta degli intervistati che dicevano che nella maggior parte dei casi ritornano in Cina a morire, addirittura la giornalista non voleva sentire, sostenendo addirittura che stavano inventando. Lo stereotipo della mafia cinese: è vero, c'è illegalità nel senso amministrativo di attività commerciali, ma addirittura parlare di mafia, siamo veramente lontani un miglio, non c'entra veramente niente. Quindi per scrivere della comunità cinese bisogna prima conoscerla.

Maurizio Pagani

Gli aspetti per così dire culturali e folkloristici che riguardano il mondo degli zingari sono molteplici: una volta erano per lo più sconosciuti ai molti, oggi in verità se ne conosce parecchio e alcune cose non sono più vere, altre si sono riattualizzate. Ormai i giornalisti sono diventati molto bravi nel descriverli, nel toglierci per così dire il mestiere, non c'è neanche più bisogno che gli spieghiamo come siano fatti, tant'è che per esempio, ma questo è un mio atteggiamento personale, quando veniamo contattati dalla stampa, dai giornalisti, dalle tv perlopiù ci chiedono qual è il loro punto di vista. Il problema è per l'appunto, anche al di là della categoria professionale, come poi uno si mette in relazione, cerca di decodificare, di leggere la realtà che sta attorno a sé e qui sicuramente entrano in gioco molti problemi. Io credo però che nei temi contemporanei, che tra l'altro sono stati ripresi con sfumature e con sensibilità diverse, il problema non è quello di una società composta da tante comunità, bensì degli strumenti fortemente inadatti per noi a capire quanto siano buoni o quanto siano cattivi, quanti buoni ci siano tra di loro, quanti pochi o tanti cattivi cittadini abbiano anch'essi tra le loro file. Il problema è che questo tipo di realtà interroga noi tutti come componente maggioritaria di questa società perché ci dà un indirizzo, uno specchio di quella che è la nostra convivenza sociale più ampia, come noi intendiamo misurarci con le problematiche, con le persone che abbiamo attorno, quale valore vogliamo attribuirgli e che cosa ne facciamo per noi stessi. Sicuramente da questo punto di vista i motivi di preoccupazione più generale come è sempre stato anche storicamente, che oggi indica la relazione grandemente conflittuale che contrappone noi tutti agli zingari, rom, nomadi o sinti che siano, dà molto da pensare, non tanto solo per la fine che faranno da qua ai prossimi anni, ma per il destino che riguarderà in fondo noi tutti.

L'altra preoccupazione che ho è come leggiamo noi questa realtà, noi che stiamo dalla parte dei più sensibili, di quelli che guardano con grande preoccupazione, dove stiamo andando a finire, quale la realtà che ci hanno costruito il mondo mediatico, politico, elettorale, economico anche agitando questo spettro vero o presunto della presenza minacciosa. Come la decodifichiamo? Che significato gli diamo? Noi continuiamo a riprodurre e qui sicuramente ci sono molte analogie con i casi che sono stati detti prima, ma in verità riguarda moltissimi altri, una realtà che non solo è ovviamente parziale, perché nessuno di noi può avere la pretesa di spiegare tutto a tutti, ma c'è anche una responsabilità precisa, è volutamente discriminatoria nei confronti di quel pezzo di società e nei confronti di un altro pezzo di società che ci riguarda più da vicino, che è completamente esclusa, rimossa, cancellata, nella comunicazione pubblica, nella possibilità di esprimere un'idea che sia un pochettina diversa da quella del linguaggio comune; insomma ci viene tolta la possibilità di essere un po' infedeli al linguaggio comune, al pensiero comune. È questo il dramma terribile che viviamo e che ha prodotto un corto circuito politico che è anche frutto di una stagione politica in cui la confusione delle parti, delle idee, dei poteri è ormai raccapricciante e che ha un'unica spiegazione, il consociativismo, lo stare insieme, distribuirsi le leve del potere insieme senza più indicare chiaramente che possono esserci e confrontarsi modelli e sistemi di vita e di società, non dico agli opposti, ma un  pochettino diversi si. Si è prodotto anche quel sistema di sottrarre sistematicamente la possibilità di insinuare un qualche dubbio nella società civile, che quello che si sta facendo è comunque il frutto di una visione molto autoreferenziale o molto legata al potere temporaneo di chi amministra, di chi sta vicino a questi amministratori. Ad esempio noi ormai lo sappiamo bene che queste comunità rom non sono poi tanto cresciute nel tempo, perché insomma l'Italia nel suo complesso presenta una popolazione complessiva tra le più basse d'Europa; quando parliamo di 160mila persone, parliamo evidentemente di numeri che sarebbero facilmente gestibili anche nella politica di tutti i giorni. Spesso il problema di dove li mettiamo non esiste perché vivono da decenni negli appartamenti, nelle case accanto alle nostre. Il problema riguarda gli altri a cui è stata sottratta questa possibilità, oppure per quelli arrivati negli anni più recenti, che proprio non ce l'hanno avuta questa possibilità di avere semplicemente il diritto a una casa, a un posto dove stare in una molteplicità di forme, che è sicuramente tipica di una società molto differenziata al proprio interno; però noi di fronte a questo abbiamo solo la possibilità di avere una lettura molto antiquata di questa realtà che ci dice che gli zingari sono da un lato pericolosi e questo giustifica poi l'adozione di tutta una serie di provvedimenti anche di carattere più generale, ma soprattutto una comunità di persone incapaci che avrebbero bisogno di un nostro sistematico accompagnamento per diventare dei cittadini non dico come noi, ma insomma, un po' più trattabili, un po' più civili, un po' più capaci di usare le buone maniere della convivenza civile. Questo non è vero, questo è palesemente una menzogna. Non solo, ma tutto quello che viene costruito con una complicità intellettuale quanto meno di chi in qualche modo anche professionalmente evidentemente deve sopravvivere, in qualche modo filtra la comunicazione, purtroppo produce e ha prodotto dei danni terribili. Io continuo davvero a non capacitarmi di come ad esempio si sia potuto assistere alla vicenda di Opera, continuando a vedere solamente in quel piccolo ipotetico, perché poteva diventarlo, pogrom nazionale, come dire, il momento di un corto circuito delle coscienze di un piccolo comune che improvvisamente si risveglia perché non sa dove passare il sabato sera, finalmente ha l'occasione di passarlo di fronte al campo nomadi tanto inviso e dà la caccia ai rom.

Giustamente è stato riportato che vi sono nella nostra società comunità o minoranze che hanno patito delle sofferenze e che spesso le patiscono ancora, delle sofferenze inaudite sia nel corso della storia contemporanea, sia diciamo nei rapporti sociali più diretti, ma ai più è sfuggito che per la prima volta in questa città, con la complicità di molti, una piccola comunità, quella appunto dei rom, è stata isolata e trattata in modo differente dal resto della comunità umana. Non si tratta di parlare della realizzazione di ghetti, di campi nomadi, di villaggi della solidarietà che sono altri campi nomadi, piuttosto di politiche che dicono incoscientemente chiudiamo i campi nomadi perché i rom devono andare nelle case, tanto sappiamo che le case non ci sono, quindi una volta via dai campi nomadi dobbiamo solamente mandarli via. No, si è detto, si è fotografato, si è stigmatizzata una comunità umana che in quanto asociale, in quanto incapace di corrispondere ai dettami comuni della convivenza, avrebbe dovuto sottoscrivere un patto di legalità e socialità per avere quei diritti che ogni mattina io, voi, i vostri figli più o meno genericamente, a meno che non siamo totalmente poverissimi, godiamo in quanto cittadini; per avere diritto a stare in un posto, avere una casa, o mandare i propri figli a scuola o non andare a delinquere, noi tutti dobbiamo osservare delle leggi su cui si fonda la coesione sociale, su cui noi e voi ci dobbiamo attenere ad un comportamento che non è straordinario, che segna una differenza tra me e lei, ma è un comportamento comune di buon senso. Attorno a questo si è lentamente costruito un trattamento che non ha presentato nulla di diverso dalle politiche degli ultimi 50 anni riguardo la sorte degli zingari, per lo meno in Italia, ma che oggi oltretutto presenta i conti di una politica fallimentare da parte di quelli cattivi e da parte di quelli buoni che si sono prestati ad accompagnare i cattivi, perché la condizione dei rom non è cambiata, i problemi non li abbiamo risolti; per contro abbiamo ottenuto che oggi questa è una partita persa, oggi non è più possibile fare nulla, oggi è solo possibile cercare, in realtà temo con poco successo, di salvare quelle poche esperienze salvabili che ci sono. Qui il problema non è quello di chiedere agli zingari che cosa hanno fatto per guadagnarsi, conquistarsi benevolenza, perché guardate gli zingari, uso volutamente questo tema, questa parola, perché li potremmo chiamare nomadi, li potremmo chiamare rom, sinti, non cambia assolutamente niente. Questo loro essere concittadini lo hanno sempre fatto, dimostrato in modo edificante o poco edificante, ma lo hanno sempre fatto a partire da almeno gli anni '60 in avanti per quanto riguarda l'Italia. Ma noi puntualmente tutto ciò lo ignoriamo e ripartiamo da zero. E oggi stiamo ricostruendo, ridicendo, cercando di convincere i più, quelli che leggono i giornali o guardano la televisione, che insomma quello che è stato fatto finora, cioè quello che sono loro, un fallimento. Il rapporto nostro con loro è normalmente un rapporto di carattere funzionale, ma noi vogliamo sempre ostinatamente che sia invece un rapporto di educazione sociale. Quello che ci sarebbe oggi di così positivo e valido non interessa nessuno, perché non è funzionale a una comunicazione più generale che serve ad altro, gli zingari servono ad altro, il problema non sono gli zingari perché se davvero minacciassero la nostra sicurezza, o fossero i soli, o principali responsabili di quello che accade nelle nostre case, cioè c'impoverissero attraverso i loro furti, evidentemente basterebbe molto poco per risolvere questo problema; gli zingari hanno un'altra funzione, non sono gli unici nella storia ad avercela avuta, ma in questo momento assolvono molto bene, non per loro scelta, ma perchè qualcun altro insomma li vuole utilizzare. Per quanto mi riguarda il problema non è più quello su cui ci siamo consumati per anni per cercare di illustrare e categorizzare le differenze che passa tra rom di diverse etnie, se ancora esiste, ma quanto quello di capire noi che ne facciamo di questa relazione che consente o toglie loro la possibilità di essere dei nostri concittadini, ma consente o toglie anche a noi la possibilità di essere dei buoni o dei cattivi concittadini.

Gad Lerner

Nessuna delle preoccupazioni su cui sono intervenuto ampiamente prima come quelle di chi si impegna in questo ambito, mi potrebbe mai portare a sostenere che il problema non sono gli zingari bensì noi: questo non è il modo efficace di guardare nella realtà. Il problema è che sono anche gli zingari ad alimentare questo problema di devianza, eccome se c'è questo problema di ritardo nell'integrazione scolastica dei figli, eccome se c'è un grosso problema di maltrattamento delle donne. Non è negando l'esistenza di questi problemi e affermando idealisticamente che l'invenzione dello zingaro come nemico è solo esclusivamente un bisogno di capro espiatorio degli altri che noi possiamo agire in maniera efficace; così facendo semplicemente ci poniamo in una posizione speculare ultra minoritaria. Nessuno ha proposto di generalizzare una schedatura e di costringere appunto alla sottoscrizione del patto di socialità e legalità per chi svolge le sue attività da tempo a Milano, il problema è l'accesso ad alcuni servizi e ad alcuni luoghi transitori di residenza provvisoria. Io credo che qui si tratti di lavorare alla riduzione del danno e a migliorare il peggio e non di esaltare un irriducibile suggestiva differenza, perché così aiutiamo soltanto gli altri, gli imprenditori politici della paura e del razzismo. A questo proposito, non vedrei male che fosse posto con forza nel proseguo dei vostri lavori,  questa licenza che i mass media italiani ormai si sono presi, ogni giorno di più e in maniera più brutale ed esplicita di adoperare le origini etniche nei titoli e nella cronaca nera quotidiana come elemento distintivo e forte, per cui non soltanto si fanno i titoloni a tutta pagina "spazziamo via i campi rom", ma non c'è notizia che riguardi una persona immigrata che non veda la sua nazionalità messa nel titolo. Ora questo è vietato da quasi tutti i codici interni che si danno i grandi quotidiani anglosassoni, senza bisogno di leggi. Oggi questo in Italia sembra qualche cosa di impensabile non soltanto nella stampa di destra, ma anche nella stampa cosiddetta progressista, siamo indietro di chilometri. E allora possiamo chiedere a chi ha responsabilità in questo campo, se sarebbe d'accordo a fare un passo in avanti… I titoloni sull'appartenenza etnica stanno aumentando invece che diminuire in questo paese, perché c'è una concorrenza che è inaccettabile sul piano morale e professionale che ti trascina nell'inciviltà: e allora devo essere un po' incivile anch'io? Chi farà la prima mossa verso l'evoluzione di un'informazione matura per una società multiculturale?

Franco Bomprezzi

Che cosa pensano, come si sta modificando, adeguando, rispetto a quando si arriva dalla Cina, l'idea dell'Italia e degli italiani, cioè che idea si fanno le persone che vivono in Italia degli italiani, del nostro modo di vivere, della nostra democrazia, delle nostre leggi? Io credo questo sia un elemento anche di cronaca e di racconto interessante per noi giornalisti, noi non proviamo mai a metterci dall'altra parte, pensiamo sempre di dover raccontare una realtà. Lo dico perché per l'informazione sulla disabilità, il problema non sono mai le persone disabili, ma gli altri che non sanno come rapportarsi a una persona disabile, son sempre a disagio, ecco questo disagio come lo vivete? E che idea circola dell'Italia, degli italiani, magari rispetto alla la Francia, la Spagna, la Germania…

Lin Jian Yi

Cerco di rispondere inquadrando un po' la situazione differenziandola su due tipi di persone, quelle di prima e di seconda generazione. Bisogna partire dal presupposto che quelle di prima generazione hanno difficoltà di comunicabilità con gli italiani, quindi trovano durante la relazione con la società italiana, delle difficoltà di tipo comunicativo. In quel senso lì allora il cinese immigrato, in particolare adulto, tende a non avere rapporti, comunicazione con l'italiano, ma per difficoltà della lingua. Quando questa viene completamente demolita come barriera nel caso delle seconde generazioni, quelle cresciute qui, vediamo che i rapporti sono normalissimi anzi c'è proprio voglia di confrontarsi col giovane italiano rispetto alle esperienze di vita in Italia. Diciamo che quelle delle prime generazioni trovandosi di fronte a queste difficoltà hanno anche un certo tipo di timore, nel senso che noi abbiamo in mente comunque come la comunità cinese viene descritta in un certo modo dalla società italiana, in particolare dai mass media. Allora proprio per questo i cinesi iniziano a pensare che la società italiana sia un po' vessatoria nei confronti dei cinesi, in particolare cerca di penalizzarli. Questa è l'idea che si fa un po' la comunità cinese, il timore che le istituzioni italiane abbiano nei confronti dei cinesi un comportamento penalizzante. Quello che temono i cinesi è che lo stato italiano ce l'abbia un po' con la popolazione cinese, perché possiamo dire che rispetto alle altre etnie, guardando i dati statistici, c'è un maggiore successo nel campo imprenditoriale autonomo e quindi i cinesi quando vedono per esempio i controlli serrati, quando di fatto sentono sempre uno stato poliziesco che li controlla, per quel motivo lì iniziano ad avere timore dell'italiano. Tutto ciò rappresenta anche un altro fattore di chiusura della comunità cinese stessa, cioè avere paura che i rapporti con gli italiani facciano entrare nella società cinese delle persone che vogliono comunque descrivere male la popolazione cinese, questo sostanzialmente, per le prime generazioni. Per le seconde generazioni la visione è completamente diversa: io parlo normalmente con i miei amici cinesi, naturalmente anche con gli italiani ed è una comunicazione completa. Quindi nelle seconde generazioni non c'è assolutamente un timore, una paura dello stato italiano. Questo è un problema in realtà anche generale di tutta l'immigrazione in Italia, cioè non è specifico della comunità cinese, è il timore di essere rifiutati dalla società italiana e in questo senso qua bisognerebbe rendersi conto che le seconde generazioni sono ben diverse e che sono italiani a tutti gli effetti.

Maurizio Pagani

Devo specificare che non sono d'accordo su alcune informazioni date da Gad Lerner: al di là delle opinioni, che possono ovviamente essere diverse, affermare che quello strumento, perché tale doveva essere, il patto di socialità e legalità, sia ristretto oggi ai rom rumeni, che come abbiamo ormai appreso da tutti sono un pericolo sociale, che non agli altri, non è più vero. Oggi, e lo abbiamo letto anche dalle pagine dei giornali in merito alla visita ai campi nomadi, che poi in realtà sono normali operazioni di censimento già note, perché è un compito istituzionale che fa la polizia locale da sempre insieme ai servizi sociali, dicevo questa visita ai cosiddetti campi nomadi comunali, è il preludio ad una sorta d'imposizione di firma di questo patto che se fosse una sorta di contratto non scandalizzerebbe nessuno. Essere sottoposti a un regolamento, per quanto restrittivo o più ampio che sia, si può discutere ma ha un valore che simbolicamente, idealmente non sconvolge nessuno. Qui si è andati decisamente oltre, vorrei far notare che la nostra A) non è un'opposizione ideologica B) non è un pezzettino di società politica radicale, estrema che dice no a questa roba qua. È semplicemente un pensiero che tra l'altro trova molta adesione in intellettuali e in pezzi del volontariato cattolico molto importante, ecc., semplicemente per le considerazioni che facevamo prima. In passato il patto, che non era chiamato patto sociale, era tra l'amministrazione che di volta in volta governava la città e quelle comunità che in cambio, diciamo in un rapporto di scambio, avevano il diritto di restare nel campo nomadi con l'impegno, come tutti gli altri cittadini, ad esempio di mandare i figli a scuola… Non c'è neanche bisogno di scrivere che non si può andare a rubare, ma perché se noi scrivessimo un patto di legalità potremo scrivere forse che è consentito andarci? Quello che continua a differenziarci in realtà è soprattutto il luogo di vita che spesso non è scelto, cioè i campi nomadi, lo sappiamo tutti quanti, è l'unica opportunità che è stata rivolta dalle politiche pubbliche, da 20 anni a questa parte sostanzialmente, a questo pezzo di società. Negli anni '80 a Milano c'erano fior fiori di amministratori pubblici per cui non era uno scandalo parlare di campi nomadi, anzi era una prima esperienza che avanzava, ci si impegnava a portare avanti anche questo tipo di esperienza che hanno dato degli esiti anche positivi. Il problema è che poi nel corso del tempo e delle politiche, a seconda delle convenienze o dei momenti o delle suscettibilità personali, queste politiche sono state abbandonate. Siamo in una situazione di sostanziale abbandono, per cui quello che ci dovrebbe preoccupare in realtà, non è il pugno di ferro col quale vengono considerati gli ultimi neo immigrati con tutte le loro problematiche, che ci possano indignare, che ci indignano, almeno a noi fortemente, ma è lo stato di progressivo abbandono in cui sono stati lasciati tutti gli altri, anche perché se non esiste una politica convincente che è un modello di speranza d'inserimento per questa gente e di possibile visione di una convivenza produttiva pacifica per il resto dei cittadini, è evidente che tutto il resto poi non funziona più. Le politiche sociali che non tengono sono quelle che sono state fatte negli ultimi anni e anche nell'ultimo anno, perché hanno volutamente ignorato quello che insieme alle comunità zingare di positivo è stato fatto.

Intervento

Anche io non concordo con Gad Lerner: non riesco assolutamente ad essere dell'idea che il patto di legalità così come viene rimbalzato nei media sia quella cosa che ha descritto lui. Io non l'ho capito nei termini di un regolamento di condominio e sfido voi a dirmi se è questo quello che avete capito… Quando è cominciato a diventare un cavallo di battaglia dell'amministrazione comunale di Milano, è venuto fuori qualcosa del tutto diverso, tanto è vero che è diventata un'etichetta che si utilizza ogni qualvolta che si cerca d'intavolare dei processi che prendono delle schegge estreme di marginalità sociale e tentano in qualche modo di lavorarci assieme per trovare dei percorsi che spezzino i vincoli della marginalità. 

 
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.