II Redattore Sociale Trento 2 giugno 2000

Profeti di paura?

"La sicurezza dei deboli"

Interventi di Don Mario Vatta, Gigi Coppello, Gianni Faustini, Pierpaolo Patrizi, Romano Turri, Mario Resta, Claude Rotelli, Don Dante Clauser

 

Don Mario Vatta, Cnca Trieste*

Appena ho letto il tema mi sono sentito svenire, poi mi sono ripreso in fretta e mi sono chiesto: bisognerà parlare di sicurezza, bisognerà parlare di deboli e quando si parla di deboli li si raffronta ai forti e quindi può essere che questa relazione risulti un grande guazzabuglio. Mi sono portato alcuni amici a questo incontro, anche se non sono qui presenti fisicamente, ho dei loro scritti, sono amici che provengono dal mondo del disagio, sono persone che esistono, che in qualche maniera sono venuti in contatto con la nostra comunità o che sono tuttora in comunità. Quindi mi perdonerete se, di tanto in tanto, io leggerò qualche riga che è stata prodotta da queste persone. Come avete capito anche dalla presentazione che è stata fatta da Dario, parlerò un po' dall'altra parte che è la parte che da 30 anni frequento quotidianamente. Intanto mi sono chiesto "quale sicurezza?" e mi sono chiesto ancora se ci può essere una sicurezza solo per alcuni, e mi sono risposto che può essere così, in effetti sono i forti che organizzano la sicurezza per tutelare se stessi dai deboli e a volte purtroppo anche contro i deboli. Abbiamo sentito riguardo a questo cosa ci ha detto il prof. Grossi con tanta puntualità. Si parlava di stranieri e di italiani noi stiamo mettendo su una casa per l'accoglienza di giovani psicotici e gli italiani hanno raccolto le firme contro, e il capo cantiere, con tutta la sua squadra, è serbo. Quindi viviamo queste contraddizioni in maniera molto concreta, molto quotidiana, molto sulla strada e allora tanti sono gli interrogativi che ci poniamo riguardo alla sicurezza: chi organizza? Perché c"è questa richiesta di sicurezza? Nel depliant che abbiamo trovato in cartella c'è una frase che ci invita forse a riflettere sul fatto ipotetico che probabilmente qualcuno sta organizzando la paura perché ci sia una forte richiesta di sicurezza e forse un mercato della sicurezza; è chiaro che i deboli vengono esclusi dal mercato; vedete, quando io dicevo che i forti alle volte organizzano la loro sicurezza contro i deboli intendevo anche riferirmi a questa esclusione dei deboli. Chi sono questi deboli? Ho tentato di metter giù un elenco dall'esperienza. Intanto secondo una visione che potremmo chiamare filosofica, ideologica, teologica, religiosa tutti siamo potenzialmente deboli, realmente però ed è un altro tipo di storia: molti lo sono e lo sono strutturalmente perché c'è tutta una storia della famiglia, del gruppo, del paese, dell'ambiente o lo possono essere occasionalmente e questo riguarda in particolare gli stranieri dei quali si è parlato molto e straordinariamente in questo nostro incontro, ma possono essere identificati coloro che sono realmente deboli i popoli della fame, gli ignoranti, gli analfabeti, le donne degli zingari, si parla sempre degli zingari, poco delle donne degli zingari, dove quasi il 100% è analfabeta. Allora i forti che organizzano la sicurezza perché non hanno organizzato questa sicurezza per dare degli strumenti a queste donne? Per fare delle scuole popolari, delle scuole nei campi? Questa è una domanda. Ci sono i poveri di soldi, gli indigenti, i bisognosi, i disagiati, abbiamo tutti questi termini, coloro che nascono poveri. I deboli possono essere gli immigrati, gli emigrati, i profughi, le vittime delle guerre, le vittime delle malattie, le vittime delle malattie sociali: alcol, tossicodipendenza, le vittime del lavoro, degli infortuni sul lavoro. Forse sarebbe bene, non sono ancora convinto, ma di tantissime cose non sono convinto e le altre le ho in mente in maniera confusa, qualche volta sarebbe bene parlare di tossicodipendenza anche in termini di malattia, di persone che andrebbero curate e non solamente contenute in vari modi con altre sostanze (non sto dando un giudizio sulle sostanze alternative) oppure con il carcere. I deboli sono i perseguitati, i detenuti, i bambini (qua dovremmo aprire tutta un'altra mattinata), le vittime della mafia. A questo punto apro e chiudo subito una parentesi chiedendo perché diciamo che le vittime di droga sono vittime dell'overdose, perché non diciamo finalmente e insegniamo ai nostri ragazzi delle parrocchie, delle scuole che quel ragazzo è morto perché vittima della mafia? E perché non diciamo ai ragazzi che quando acquistano dagli spacciatori spiccioli lo spinello o qualche cosa d'altro stanno entrando in un progetto mafioso in maniera attiva? Anche questa potrebbe essere educazione alla legalità. I deboli sono anche le persone sole; le persone che a 50-60 anni, uscite dai ritmi della produzione, si ritrovano a cercar se stessi e a perdere se stessi. Questo è un fenomeno che sta crescendo nel nostro paese. Spesso il debole viene letto come il povero che non ha, il malato che non è, il matto che non ragiona. Faccio la prima lettura: 

"il corpo è importante (una ragazza di 23 anni che scrive, psicotica) va curato. I mali da giovani si pagano da vecchi, l'anima mia sì, l'ho amata ma forse non volevo. Volevo platonicamente amarla, l'ho amata aristotelicamente, la mia anima l'ho anche cambiata. Il corpo è di un altro, sì ho avuto l'operazione e sono nel corpo di un altro, sì ho avuto un'operazione e sono nel corpo di un altro, mi ha donato il corpo la Monica, le ho voluto bene, sì lei è superiore, è riuscita ad andare avanti così, è stata brava. Il fisico come dice Luca Carboni deve essere speciale o bestiale, comunque è così. Bisogna sapersi accontentare. Il corpo ha il cervello, gli occhi il naso, la bocca, il cuore e sì. Le gambe, perché se no chi ti porta in giro? Poi le arterie, e se si trattano male non si può far altro, andare avanti soffrendo, certo un giorno qualcuno si ricorderà di noi, forse prima, forse dopo, ma il nostro corpo è importante. Certo c'è anche l'anima, bisogna pensare anche a quella, certo, bisogna usare ogni parte del corpo nei suoi più piccoli particolari. Siamo tutti bravi e buoni, ma come si fa, dico io? Io sto attenta al mio corpo, ma so cosa fare, mentre gli altri dicono che non è così che bisogna stare attenti agli altri, bisogna sempre stare attenti, anche al corpo degli altri, sì perché se no si è egoisti. L'altruismo corporale è l'erotismo certo, stare attenti sì, ma come? Abbiamo fatto tutti quello che potevamo noi, dicono gli altri, allora come fare? Siamo tutti ben messi, alziamoci un po', salutiamo l'anno nuovo con compiacenza, il 2000 ci darà nuove emozioni, ma un corpo nuovo, sinceramente ci credo, ma sarà difficile. Come fare a stare con tutti col proprio corpo? L'egoismo del proprio corpo va superato con l'altruismo; certo le facce della medaglia bisogna vederle, ma io auguro di tutto cuore che le due facce siano uguali e positive. Ciao Dani (saluta se stessa). Io ho creduto ai metafisici, ma prima a Dio, quando Dio è diventato una barzelletta non sapevo più a chi credere e io cosa sono? Credo di chiamarmi Daniela e anch'io forse avrò una fine, il corpo con l'esterno, ma l'esterno cos'è? Un uomo? Sì, un uomo con le palle. Allora si prende paura ma bisogna farsi forza, certo l'avevo capito, ma come? Bisogna cercare di dare il nostro meglio e dare il massimo di sé con gli alti e bassi, abbiamo cercato di dare tutto, proprio tutto, ma non mi è servito. Io gioco a pallacanestro e cerco di fermarmi, più miglioro e più mi sento felice. Certo bisogna fare così. Ma, è meglio dimenticare i sogni. Un occhio alla realtà bisogna sempre darlo. Allora io penso, io penso a come vedeva il proprio corpo Hitler, H. Priebke o Andrea Pironi; certo sono ancora graditi e ma io di più, cerco di dare il mio meglio in tutto e per tutto, ho cercato di aiutarvi, dirà, ma non avrò piedi né mani per farlo. Sì.

È un delirio, no? Ma ci sono tantissimi segnali della sofferenza di questa giovane ragazza. Questo lo dico anche perché molte volte si è giudicato, si è scritto dei matti come persone sconclusionate che andrebbero rinchiuse.  
Chi sono i deboli? Alle volte il debole viene letto come l'alcolista che è violento, lo straniero che invade, il detenuto che sta bene: ha la televisione a colori! Posso leggere ancora: 
"Il portone pesante si apre e viene effettuato il trasloco, dalla polizia si passa alle guardie carcerarie - è un racconto di alcuni anni fa - che firmano a ricevuta di avvenuta consegna. Quando le grosse porte si richiudono chi rimane all'interno, sia sorvegliato o sorvegliante, diventa proprietà della città dei cancelli. Entrando l'esordiente si accompagna sempre con la disperazione terrorizzata, quella che trasforma i muscoli in pietra e crea un incavo doloroso dentro lo stomaco, da quel momento qualsiasi rumore e incontro diventa un sobbalzo di spavento. Poi all'ufficio matricola diranno di consegnare tutto, lui farà come gli avranno ordinato e tremando reggerà i calzoni senza cintura, gli ordineranno di spogliarsi e lui non capirà, lo ripeteranno urlando e lui eseguirà. Quando sarà nudo gli intimeranno di piegarsi per l'ispezione corporale, allora piangerà, supplicherà, ma una manata violenta dietro la nuca gli spiegherà che lì dentro non esistono favori. Allora chinato chiuderà gli occhi e aspetterà che un dito rivestito di una copertura gommosa in nome di un regolamento gli entri nel culo. Quel dito gli sembrerà lungo, lungo come se gli arrivasse in gola, lo sentirà girare e ispezionare in cerca di chili di droga, mitragliatrici, bombe a mano, carri armati: uscirà solo quando si accorgerà che non c'è niente. E così un ordine soddisfatto per aver rispettato un intento umiliante gli darà il consenso di rivestirsi. Quando lo accompagneranno alle celle consumerà il tragitto a testa bassa fidandosi degli scarponi della guardia. Avrà il terrore di guardare, intralciare, disturbare qualcuno, qualcuno che come gli hanno raccontato parla con le mani e ti fa ragionare fracassandoti la testa. Il ripetente invece non si disturba, lui si affida a un'automatica rassegnazione: entra, si spoglia, si china, riceve e ringrazia; senza chiedere spiegazioni si sistema poi nelle posizioni giuste per farsi fotografare, va al bancone per lasciare le impronte, finita la schedatura anticipando la richiesta consegna soldi, documenti e cintura. Quindi senza bisogno di spiegazioni si incammina verso il magazzino dove gli destineranno materasso, lenzuola e gamelle e finalmente gli assegneranno l'alloggio." 

Il debole viene letto come il giovane che rompe, il vecchio che è fastidioso. Da che cosa si tutela il forte? Il forte è tale perché ha, e se ha è, se conta tra i forti e con i forti si coalizza contro la minaccia di chi non ha e vorrebbe avere per essere. E questa è una logica che viene trasmessa al mondo dei deboli perché anche nel mondo dei deboli ci sono coloro che sono meno deboli e sono più forti. Riescono a riprodurre le prepotenza dei forti in un mondo di deboli. Il debole è colui che non è o non deve essere in quanto non ha e quindi non può. Il debole non ha denaro, potere, voce, e quindi non ha di fatto diritti, diritto al sostentamento; riflettiamo su questo, perché nelle nostre città c'è gente che ha fame; non ha diritto alla casa, non ha diritto al benessere, alla salute, alla cultura intesa come istruzione, alla considerazione, alla giustizia, alla cittadinanza. In un convegno nazionale di redattore sociale dove avevo fatto un intervento su quella che era la nostra esperienza nel mondo della follia, alcuni giornalisti, tra le varie cose, mi hanno chiesto un suggerimento, un consiglio, uno slogan, qualcosa da portar via e mi venne proprio così spontaneo, immediato, anche ingenuo: "raccontate la verità", la verità dei fatti, la cronaca, ci può essere un po' di obiettività nella cronaca; raccontare la cronaca senza pensare subito che ci possa essere un dietro, una trama. Un ragazzo ospite della mia comunità, un uomo trentaseienne il 10 di agosto dell'altr'anno finisce di pagare il suo debito alla legge (io uso questo termine perché la giustizia è un'altra cosa e faremo un altro convegno) e monta in bicicletta, va a comunicare al commissariato di zona che ha finito, si sente dire che lo sapevano già, ritorna verso casa, a Trieste abbiamo un unico tram, il tram di Opicina, come attraversa i binari lui guarda se arriva il tram: di qua non arrivava, arrivava da quest'altra parte, lo tira sotto, ci sarà una dichiarazione di tetraplegia definitiva; poi, non sappiamo se per le aderenze che noi abbiamo all'ultimo piano per qualche motivo, adesso Raffaele sta camminando e vive con la sua famiglia. Il giornale locale dice, riferendo il fatto: ospite della comunità di don Mario, chissà perché? Sarà un sorvegliato? Sarà un collaboratore di giustizia? Mah!  

Il mestiere del giornalista e il rispetto della verità  

Raccontare la verità significa anche non trasformare in notizia certa quella del giorno precedente soltanto perché non è stata smentita, e su questa costruire la notizia del giorno dopo. Raccontare la verità significa mettere sempre al centro della notizia la persona non per ingenerare sospetti o per soddisfare la curiosità del lettore. Riferire la verità, la verità dei fatti con scrupolo, significa avvicinarsi anche alla verità delle intenzioni, e alla verità dei fatti. Significa portare il proprio contributo alla conoscenza della verità, all'educazione alla verità, che non è un compito che il mondo adulto ha come un compito da nulla; riferire la verità dei fatti significa non emettere giudizi o sentenze prima della giustizia, prima dei tribunali; significa anche avere il coraggio di smentire e di riconoscere il proprio errore. Io credo che tutti i giornalisti sappiano chi è Kapushinski, ed è un amico che io non conosco se non dai suoi libri che mi sono portato oggi. In un capitolo di un suo libro dove parla ai giornalisti dice così: 
"Nel nostro mestiere vi sono alcuni elementi specifici molto importanti, il primo elemento è una certa attitudine ad accettare di sacrificare qualcosa di noi. È una professione molto esigente: tutte lo sono, ma la nostra in modo particolare. Il motivo è che noi ci conviviamo 24 ore al giorno, non possiamo chiudere il nostro desk alle 4 del pomeriggio e passare a occupazioni diverse, questo è un mestiere che prende tutta la vita, non c'è altro modo per esercitarlo o almeno di farlo in modo perfetto. Va detto naturalmente che esso può essere svolto appieno a due livelli molto diversi: a livello artigianale, come avviene per il 90% dei giornalisti, non differisce in niente da un lavoro comune, come quello del calzolaio o del giardiniere; c'è poi un livello più alto che è quello creativo: è quello in cui nel lavoro mettiamo un po' della nostra individualità e delle nostre ambizioni. Il secondo elemento (il primo era una certa attitudine ad accettare di sacrificare qualcosa di noi) è il costante approfondimento delle nostre conoscenze. Il nostro lavoro consiste nell'indagare e nel descrivere il mondo contemporaneo che è in continuo, profondo, dinamico, rivoluzionario cambiamento. Da un giorno all'altro noi dobbiamo seguire tutto questo ed essere in grado di prevedere il futuro; perciò bisogna costantemente studiare e imparare.


In generale i giornalisti si dividono in due grandi categorie: la categoria dei servi della gleba e la categoria dei direttori. Questi ultimi sono i nostri padroni, coloro che dettano le regole, sono dei re, decidono. Io non sono mai stato direttore ma so che oggi non occorre essere un giornalista per essere a capo dei media, infatti la maggioranza dei direttori e dei presidenti delle grandi testate e dei grandi network non sono affatto giornalisti, sono grandi manager. La situazione ha cominciato a cambiare quando il mondo ha capito, non molto tempo fa, che l'informazione aveva due facce: poteva mirare alla ricerca della verità, all'individuazione di ciò che accade veramente o diventare strumento di lotta politica. I giornali, la radio, la televisione ai suoi esordi erano strumenti di diversi partiti e forze politiche in lotta per i propri interessi; nella seconda metà del secolo XX, specialmente negli ultimi anni dopo la fine della guerra fredda, con la rivoluzione dell'elettronica, della comunicazione, improvvisamente il grande mondo degli affari scopre che la verità non è importante e che nell'informazione ciò che conta è l'attrazione. […] Per noi giornalisti che lavoriamo con le persone, che cerchiamo di comprendere le loro storie, che dobbiamo esplorare e investigare l'esperienza personale è naturalmente fondamentale: non c'è giornalismo possibile fuori della relazione con gli altri esseri umani. Credo che per fare del giornalismo si debba essere innanzitutto dei buoni esseri umani, le persone cattive non possono essere dei bravi giornalisti. […] Senza queste qualità potrete essere dei buoni direttori, ma non dei buoni giornalisti. Essere buoni è sviluppare in noi stessi la categoria dell'empatia". Mi era piaciuta questa pagina. 
L'Italia è piena di povera gente ed è gente che non conta, in carcere ci vanno soprattutto i poveracci; avete sentito usare questo termine dal dott. Caselli, dove spesso finiscono coloro che prima che dai tribunali vengono giudicati dall'opinione pubblica, alle volte anche male informata. Stiamo parlando di sicurezza: chi tutela la povera gente? Chi educa la povera gente? Chi educa coloro che contano? Nella nostra esperienza i deboli sono gli psicotici, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i cacciati dal circuito della produzione, coloro che non possono entrare nel circuito della sicurezza, della competenza territoriale, della definizione tecnico-linguistica; si è trovato oggi un escamotage, quando non si vuole ricoverare uno in una struttura psichiatrica, da disturbato psichico diventa disturbato nella personalità, e si dice che questa definizione non è una definizione psichiatrica. E questo che prima era matto e il giorno dopo è un matto con un giorno in più si ritrova non più un disturbato psichico, e quindi non ha più il diritto.  
E ci chiediamo anche: sicurezza da chi? E voglio lasciarvi con questo interrogativo, sottolineando la solitudine delle persone. Oggi quella della solitudine, e non solo la solitudine degli anziani, è una fascia che si sta dilatando sempre di più. Nel concludere questo mio intervento non voglio affaticarvi, appesantirvi di quelle che sono le disgrazie del mondo. C'è anche tutta la fascia di gente che lotta, la gente positiva, la gente che propone, la gente che anche sta bene ma diventa anche una proposta, nello star bene, anche per gli altri, però vorrei attirare anche l'attenzione dei giornalisti sulle persone, su quella che è la storia che sta loro dietro, su quella che è la fatica che molte persone (non sono poche nella nostra società) per vari motivi, per varie storie devono affrontare giorno dopo giorno senza vedere che ci sia poi la fine di questa fatica, di questa sofferenza. 

Vi lascio leggendo, è cosa scritta da gente che io conosco, con la quale vivo, e lo faccio anche con un grande affetto verso di voi che siete presenti e avete avuto la pazienza di ascoltarmi: 
"Dolce tesoro mio, come stai? Anche oggi ti ho cercata al telefono e tu non c'eri, ma lì, nella tua lontananza, ti trattano bene? Se solo ti sfiorano un capello tu mandami a dire che con la rabbia in corpo mi mangio le strade e ti raggiungo e dopo voglio proprio vedere. La mia parte egoista vorrebbe anche sapere se sei infelice come me, perché vedessi come sono stanco di camminare da solo dentro la tristezza. A volte capita che piango senza sentirmi il singhiozzo. Vorrei anche sapere se quando è l'ora che il tramonto si siede sopra il sole spingendolo giù, giù fin sotto il mare, sei sempre là, davanti alla finestra ad osservare quel trapasso e a pensarmi. Una volta lo facevi, e oggi? Ti scongiuro tanto, mandami a dire. E di quell'altro episodio, quello che ti riguarda da vicino, lo rammenti ancora? Era il più freddo dicembre che avessimo mai vissuto, tanto che ci costrinsero nelle camere perché il cortile era così bianco e liscio che sembrava una pista da pattinaggio. Solo al centro, dove doveva esserci l'aiuola, resisteva ancora in piedi un piccolo fiore bianco. Io e te ci guardavamo dalle finestre, quando tu con gesti strani cercasti di farmi capire qualcosa. Impiegai non so quanto tempo prima di afferrare il tuo desiderio: volevi a tutti i costi quel fiore coraggioso. Vestito com'ero del solo pigiama e sfidando la sorveglianza infermiera mi precipitai giù dalle scale e attraversando portone su portone arrivai in giardino dove mi esibii in una danza memorabile. Facevo un passo, una giravolta e giù per terra! Passo, giravolta e terra. E così avanti fino a cadere 50 volte prima di arrivare al tuo desiderio. Quando lo raccolsi lo innalzai al cielo, come il trofeo della vittoria. Poi seguii il ritorno con la cautela di non rovinare il fiore: mi misi a pancia in giù e avanzai come fanno i soldati quando attraversano le trincee. Arrivato passai il fiore bianco a un inserviente che ebbe la premura di portartelo. Io riuscii a raggiungere la mia finestra giusto in tempo per vederti dolce, mentre stringevi il mio omaggio delicato sul cuore. Fu un momento da incorniciare e da mettere da parte perché subito dopo l'incantesimo si ruppe e il ghiaccio bianco si sciolse, lasciando il fiore al suo colore secco. Quella fu l'ultima immagine dell'episodio. Subito dopo fui colpito dai pugni potenti dei controllori, offesidall'affronto della mia disobbedienza. Quindi fui ricoverato in infermeria non tanto per le contusioni subite, quanto per una broncopolmonite e una febbre a 40 e passa che mi regalò quel dicembre incredibilmente freddo. Cara ti ricordi ancora di quel ghiaccio? E il fiore secco lo conservi ancora? Io dico di sì, anzi scommetto che lo hai anche colorato, magari con un rosso vivo e con il bianco dell'origine. Se sì, ti prego tanto, mandami a dire. La mia solitudine ha bisogno di sapere.

Dario Fortin *

Con Mario Vatta tutto è più semplice, non perché ci ha detto della cose scontate ma perché credo che molti di noi si ritrovino direttamente, soprattutto con quelli che sono gli aspetti emotivi, di cuore, che ci accompagnano nella nostra quotidianità. Allora con questo mi sembra che possiamo cominciare il dibattito, dando la precedenza volutamente a chi viene a nome di testate o di associazioni e che possono, per un massimo di 5 minuti a testa, formulare ulteriori domande ai nostri relatori, o esprimere considerazioni sulla base delle cose che sono emerse, ma anche su altri aspetti, o comunque contribuire successivamente e liberamente al dibattito. Inviterei Gigi Zoppello che viene a nome del giornale L'Adige, quotidiano di Trento. 

Gigi Coppello, quotidiano L'Adige*

È difficile intervenire dopo questa parentesi di poesia che ci ha portato don Vatta, è veramente difficile dire delle altre parole perché il tono non potrà mai essere questo. Io sono contento che anche in un momento come questo ci sia stata una finestra di sentimento vero. Pensavo di venire oggi a chiudere la mattinata con una tavola rotonda, almeno così si pensava tra operatori dell'informazione trentini e rappresentanti delle associazioni o comunque di chi si occupa di disagio, perché in tutte le edizioni di redattore sociale è stato così; io sono uno di quelli che ha la famosa tessera N.I.P. (non important person) e ho partecipato, quando ho potuto, con molto interesse a questi momenti. Purtroppo vedo che in sala i miei colleghi giornalisti sono latitanti o quasi, ce ne sono pochissimi, ed è un altro mea culpa che recitiamo come giornalisti, giornalisti che hanno sempre vissuto un rapporto molto cattivo con chi si occupa di disagio e con le persone deboli. Rapporto cattivo a doppio senso: gli operatori che sono a contatto con il disagio hanno sempre visto il giornalista come un pericolo perché non si occupa quasi mai di disagio e quando lo fa è impreparato ed entra come un carro armato in un prato, di solito in seguito a notizie di cronaca nera e di solito fa più danni della stessa persona che magari ha compiuto un delitto.

Questo perché, i giornalisti italiani in particolare, sono storicamente una categoria di superficiali impreparati e spesse volte arroganti. Lo dico con molta serenità perché gli effetti di questa storia del modo di fare giornalismo in Italia sono sotto gli occhi di tutti. Per fortuna ci sono alcuni segnali importanti di cambiamento: il primo è stato, negli ultimi 8-10 anni, l'emergere di una consapevolezza nella categoria che le regole deontologiche di rispetto delle persone andavano rafforzate; soprattutto noi giornalisti italiani ci siamo resi conto che solo noi come categoria, al nostro interno, potevamo trovare i modi di essere responsabili di noi stessi. E questo è stato fatto con alcuni codici di comportamento come la carta di Treviso che dovrebbe regolare, diciamo così, il trattamento di notizie che riguardano i minorenni. Ma ce ne sono state anche altre, l'ultima quella di S. Michele all'Adige in rapporto al mondo della medicina, relativa cioè a come i giornalisti seguono le notizie relative alla salute dei cittadini. E poi dove non è arrivata la categoria, che ci ha messo molto a darsi qualche regoletta, è arrivata la legge - la legge sulla privacy in particolare - con l'istituzione del garante della privacy. Ma comunque questo quadro di maggior attenzione ai danni che il giornalismo può fare è stato costruito, e secondo me incomincia anche a funzionare. Comincia a funzionare con alcune sanzioni: qualche giornalista, pochi in realtà, sono stati radiati dall'ordine; uno di questi è Alberto Castagna. Vado molto veloce. Vorrei spendere due parole per dire che in Trentino per fortuna certi eccessi non sono mai stati raggiunti, questo perché i media trentini, i giornali e le televisioni hanno una storia migliore di quelli nazionali e io credo anche che in Trentino ci sia un tipo di lettore che è più esigente del lettore medio italiano, i trentini leggono di più in rapporto alla media nazionale e leggono secondo me con molta più attenzione e sono anche meno disposti a perdonare gli errori - chiamiamoli così - dei giornalisti in questo settore. Questo non per chiamarmi fuori dalle colpe, ma per dire che secondo me la sensibilità dei giornalisti trentini è pari alla sensibilità di una società come quella trentina che sui temi del disagio, dell'accoglienza, della solidarietà ha degli strumenti ampiamente diffusi in quasi tutti i ceti e in quasi tutte le realtà. Si è parlato di giornalismo di precisione, il prof. Grossi è arrivato al dunque della cosa. È vero, da anni tutti noi giornalisti, al termine di Redattore Sociale, ce ne andiamo dicendoci: sì bisogna essere più precisi, più informati, bisogna raccogliere, bisogna elaborare, bisogna capire prima di raccontare. Ma ci sono alcuni problemi molto semplici che sono legati anzitutto a come si lavora nei giornali oggi, l'introduzione delle nuove tecnologie, dei computer, ha portato nelle redazioni una accelerazione frenetica del lavoro, nel senso che materialmente non c'è il tempo di elaborare non solo le inchieste, ma nemmeno il trattamento delle notizie quotidiane di cronaca. Gli editori hanno tagliato all'osso l'organico in tutte le realtà e questo fa sì che ogni giornalista abbia un carico di lavoro che non gli concede molto tempo all'approfondimento. C'è poi un altro problema: da dove vengono i giornalisti, che formazione hanno? E anche questo è un tasto dolente, in Italia non esiste un organismo che rilasci la patente di giornalista se non l'esame di stato che si fa per diventare professionisti, ci sono delle scuole di giornalismo ma non è detto che uno che esce da una scuola di giornalismo trovi lavoro, e non è detto che la scuola di giornalismo prepari un giornalista già alla professione. È vero, come diceva don Vatta leggendo Kapushinski, che la formazione del giornalista è fatta soprattutto dall'esperienza personale, ma io direi di più, è fatta dai valori personali perché soltanto l'impegno congiunto di esperienza, formazione personale e valori personali porta a fare un buon giornalista. E poi mi chiedo: il giornalismo di precisione negli Stati Uniti che fine ha fatto? Andiamo a vedere oggi e come è stato trattato il caso del piccolo Elian, in fondo ci fa capire che il giornalismo oggi è uguale in tutto il mondo. Il caso Elian non è molto diverso dal caso delle gemelline siamesi del prof. Marcelletti, per come è stato trattato là e per come è stato trattato qua. E quindi io ho qualche dubbio su questi modelli anglosassoni trasportati da noi perché anche quei modelli stanno tornando indietro in qualche modo.

 

Allora chiudo dicendo qual'è il futuro. Il futuro è ancora più a rischio; in Italia in questi mesi i giornalisti stanno scioperando per un contratto di lavoro che è scaduto e che si deve rinnovare. Attenzione: per la prima volta i giornalisti italiani non sono andati al tavolo delle trattative a dire: vogliamo più soldi o meno ore o altri strumenti. Sono andati a dire: vogliamo che sia chiarito una volta per tutte che cosa vuol dire essere giornalista e chi lo può fare, cioè chi può lavorare all'informazione. La risposta degli editori è stata molto semplice, sono venuti al tavolo del contratto la prima volta e hanno detto: per noi la proposta di contratto è che non ci deve essere un contratto; per noi i giornalisti devono essere persone scelte dagli editori, non è detto che devono essere iscritte all'ordine dei giornalisti, anzi, vogliamo assumere quelli che vogliamo, vogliamo licenziarli quando vogliamo, vogliamo poterli assumere per periodi limitati e poi mandarli a casa e vogliamo poter avere ampia libertà di attingere l'informazione laddove ci fa comodo. Voi capite che in presenza di questa posizione degli editori italiani che va avanti da mesi, che non si è mossa di un millimetro, il futuro è quello di una informazione in mano ai manager dei grandi gruppi dei giornali nella quale il giornalista non conta più nulla perché tanto è rimpiazzabile, nella quale qualunque tipo di informazione può essere fatta da chiunque e che quindi dà ai padroni dei giornali e delle televisioni il potere di rimuovere in qualunque momento un giornalista che sia scomodo o che faccia un lavoro, magari controcorrente, di approfondimento o di analisi. In sostanza il modello internet sta arrivando anche nei giornali e nelle televisioni dove l'informazione viene pescata dove c'è, in condizioni di non garanzia, e viene elaborata liberamente all'interno delle redazioni. Per farvi capire la gravità di questa cosa chiudo con una frase; è di Cesare Romiti, presidente della Rizzoli-Corriere della sera, il più importante gruppo editoriale italiano che, a proposito dei suoi dipendenti giornalisti, ha detto ieri: "se in una azienda si compra una macchina sbagliata la si può cambiare, rivendere o anche rottamare, ma i lavoratori e i giornalisti purtroppo non li possiamo toccare". Questo rappresenta lo stato dell'arte dei rapporti tra proprietà e giornalisti oggi e secondo me è il più grave e inaudito attacco alla democrazia e ai diritti di informazione nel dopoguerra in Italia. Questo è lo sfondo su cui siamo chiamati a riflettere di rapporto fra media e deboli.  

Dario Fortin*   

Grazie Zoppello. Questo commento ufficiale del quotidiano L'Adige mi sembra molto stimolante. Volevo capire se in sala c'era un rappresentante del quotidiano Alto Adigeper intervenire. A quanto pare non c'è; inviterei a questo punto Gianni Faustini per tentare di dare continuità alla questione posta da Zoppello sul futuro del giornalismo; Gianni Faustini, oltre ad essere conosciuto sia a livello provinciale che nazionale come uno dei padri del giornalismo in Italia, è in questo momento presidente commissario dell'ordine dei giornalisti che, come sapete, è stato commissariato per le dimissioni di Tony Cembran, dovute e motivi di ordine deontologico. Ci sembrava opportuno spendere una parola anche su questa questione; per quanto riguarda invece l'altra questione, si tratta di vedere se è  possibile, magari in futuro, immaginare qualche iniziativa, a livello locale, di sostegno rispetto alla questione del contratto.  

Gianni Faustini, presidente Commissario dell'Ordine Regionale dei Giornalisti*

Io devo parlare anche nel pomeriggio, non vorrei tediarvi molto, due soli pensieri. Il primo è un pensiero minimalista: non vorrei che si chieda troppo agli organi di informazione, io sono anche lusingato, essendo un anziano giornalista, di questa richiesta, ma non vorrei che si chieda troppo perché è vero che ci vuole più attenzione e più esattezza, ma non bisogna caricare gli organi di informazione di compiti che non hanno e, grazie a Dio, non devono avere. Ci sono nella società altri attori sociali che hanno compiti di educare, ma ai giornali non spetta educare, questo avviene solo nelle dittature; ai giornali spetta solo di dare delle news che sono novità. E poi dare delle novità: in tutto il mondo si risponde a delle regole che possono piacere o non piacere, come i capelli miei sono diventati bianchi, confesserò che queste regole mi piacciono sempre meno, però in tutto il  mondo le regole sono queste, che prevale il sensazionale sul normale. Quando è stato fatto un tentativo di correggere questa regola, cito un esempio: è stato fondato L'indipendente diretto da Levi, forse qualche colpa ce l'aveva anche Levi nel fallimento del giornale, tant'è vero che adesso Romano Prodi se l'era portato alla Commissione Europea come addetto stampa e, caso inaudito, dopo sei mesi è stato costretto a cambiarlo. Al di là forse di certa supponenza di chi faceva quel giornale, L'indipendente era in Italia un esempio di giornalismo anglosassone: dare le notizie separate dal commento, dare le notizie dentro il contesto, dare le notizie ragionate. E' stato un fallimento assoluto tant'è vero che hanno dovuto chiamare Feltri per risollevarne le sorti, proprio Feltri che è l'opposto del giornalismo di precisione e del giornalismo anglosassone; lui è uno che usa non il microscopio dell'organo di precisione ma che usa il randello, usa la clava. Questo per dire che non bisogna chiedere ai giornalisti più di quel che magari non riescono a dare. Altro discorso è quello che è stato sollevato giustamente dal prof. Grossi della necessità di capire e di interpretare. Purtroppo vediamo spesso i giornali che, o per la fretta, come diceva Zoppello, o per il sistema nel quale lavorano, non riescono a contestualizzare le singole notizie. Anche qui i motivi sono complicati: io mi limito a citarne quattro tra i tanti possibili. Il primo è il più semplice: spesso non ci sono le fonti, cioè io cerco di essere preciso ma non trovo le fonti. Il prof. Grossi ha citato l'esempio dello scorso anno a Milano dove si sono verificati nove omicidi in serie, ma la fonte è venuta fuori mesi dopo a dire che era stata una coincidenza, che la criminalità stava diminuendo, l'opposto di quel che sembrava. In questi casi anche il giornalista attento e sensibile, che cerca di inquadrare, di contestualizzare, non ci riesce perché in Italia le fonti, quando va bene, arrivano tardi; è facile con il senno di poi! Quando il tempo stringe e non si trovano riferimenti è molto difficile, tant'è vero che viene citato sempre come esempio molto bello il vostro della comunità che è l'unica che dà un manuale al quale ricorrere, dei numeri di telefono ai quali chiedere: ma perché, cos'è successo, come? 

Un altro motivo della difficoltà di avere un giornalismo approfondito riguarda, come diceva Zoppello, quello della formazione. 
In Italia ci sono poche scuole di giornalismo, le quali formano solo 6-7% dei giornalisti italiani. A Trento, per esempio, dove l'autonomia poteva dar sostegno a certe iniziative formative, c'è stato il caso Indaco, Istituto Nazionale di formazione del giornalismo, che è stato chiuso. C'è stato anche il grave fatto che è scomparso l'animatore, il prof. R. Porro, però sicuramente da parte dell'ente locale non c'è stato alcun sostegno a questa iniziativa che cercava, con tutti i limiti immaginabili e possibili, di innalzare il tono, la capacità del giornalismo locale. Non a caso io ho conosciuto il prof. Grossi nell'ambito di Indaco, questo per dire che si cercava di coinvolgere anche personalità di livello nazionale. 
Un altro motivo è che adesso si sta avviando la facoltà di scienze delle comunicazioni ad indirizzo giornalistico, però per quello che emerge dall'esterno, quello della formazione del giornalismo è l'ultimo pensiero, pensano a scienze religiose, pensano alla teologia, ma forse sarebbe piuttosto necessario sapere come funziona il sistema dell'informazione nel Trentino Alto Adige dove peraltro funziona abbastanza bene rispetto ad altre realtà. 
Un altro motivo è che sta cambiando la struttura della professione. Oggi la tendenza degli editori è quella di avere sempre meno dipendenti fissi e di ricorrere il più possibile a collaboratori esterni, i cosiddetti free-lands. Ma se è già difficile convincere il giornalista tradizionale che bisogna andare a scuola, con questi collaboratori diventa praticamente impossibile.   
Si complicherà ulteriormente in futuro il discorso della formazione perchè il free-lands è un giovane che si dà da fare, che corre, che cerca le notizie, che si afferma. Però insegnare a queste persone che ci sono delle regole, che bisogna studiare come in tutte le professioni, diventerà praticamente impossibile. L'altro elemento è la tendenza degli editori. Gli editori, lungi dall'incoraggiare, anche nel loro interesse, il reclutamento di persone preparate, ricorrono sempre più agli esterni. Tant'è vero che dicono "niente contratti liberi". Questo fa venir meno gli spazi di libertà, perché sono sempre più soggetti alla volontà dell'editore. Il dipendente può scioperare, il free-land se sciopera perde le lire sulle quali vive, lui è costretto a dire "sì grazie" , "vuoi questo? Sì certo, te lo faccio". Il dipendente all'interno può discutere, ragionare, al limite può scioperare. Il collaboratore se sciopera fa la fame, ma a parte questo discorso di libertà, quello che interessa è che verrà sempre meno il discorso della formazione, ci saranno sempre più giovani pieni di iniziative, magari bravi in un settore singolo, specializzato, come avviene adesso. Perché se noi già osserviamo anche nella piccola realtà di Trento, nel mondo cattolico, Anna Clais è seguita da una bravissima collaboratrice esterna che però può interpretare la realtà seguendo solo una parte, facendo venir meno il discorso del contesto, parlo della chiesa perché sono specializzato lì. Io cito adesso la chiesa, ma potrei citare il volontariato o l'immigrazione, ma ne parlo sempre meno in termini critici, cioè non sono più capace di capire e di interpretare. Non a caso la formazione è necessaria, e dentro la formazione ci starebbe anche il discorso della deontologia. Adesso, in tutto il mondo si è convinti che accanto alla legge, che prevede reati, serva un'autoregolamentazione dall'interno. In tutto il mondo si è convinti di questo, perché si sa, la legge ragiona in termini generali, per esempio la legge mi dice che è vietato confondere pubblicità informazione. 

Però poi può capitare di dire a me che mi vesto in maniera giovanilistica, perché porto le scarpe della marca tal dei tali, lo cito perché con una parola, con un tocco di colore ho reso l'immagine. Non è che ho fatto pubblicità, certo se cito venti volte la stessa frase ho fatto pubblicità.  
La legge non arriva mai a prevedere i singoli casi, nella redazione si sa benissimo se uno lo fa per dare un tocco di colore o se è pagato dal rivenditore di quel prodotto. Ecco la necessità dell'autoregolamentazione negli atti. Lo scorso anno Vittorio Cristelli ha parlato di quello che c'è in Italia; le regole sembrano abbastanza buone, le regole sulla privacy, le regole sulla carta dei doveri, ma anche in questo caso il disciplinamento funziona se il corpo sociale interessato accetta di essere disciplinato. Questo corpo volatile che è irraggiungibile sarà sempre meno interessato, meno coinvolgibile in un discorso deontologico, un discorso di serietà. Tra l'altro nella nostra professione la deontologia corrisponde con le regole della buona professione, perché se io in tutta onestà e realtà cerco di avvicinarmi il più possibile alla verità, facendo il mio mestiere, automaticamente ho onorato anche tutte le regole deontologiche, non c'è una divaricazione fra la professionalità e la regola deontologica. Però vista la tendenza del sistema, anche in questo caso sarà sempre più difficile parlare di deontologia, oltretutto il giornalismo italiano è sempre stato politicizzato, non è mica una novità. Nella piccola Trento agli inizi dell''800 c'erano quattro giornali, di cui uno diretto da Cesare Battisti, uno da De Gasperi, il terzo era un giornale liberale, il quarto filo-governativo, pagato dal governo austriaco. Si vuol dire che la politica la si faceva attraverso il giornalismo, non è che sotto questo aspetto la politica sia cambiata molto, o forse è peggiorata, forse perché adesso, accanto a questi sentimenti di appartenenza in parte anche legittimi, ci sono sentimenti di appartenenza aziendale che sono peggiori. Perché nelle aziende prevale la politica e il sentimento aziendale è il peggiore che ci possa essere in tutto il mondo. In ogni caso a questo corpo giornalistico diventa sempre più difficile fare dei discorsi di deontologia. Anche a Trento sotto sotto c'erano problemi di appartenenza di testate; direi che il caso di Trento è abbastanza significativo perché la stessa cosa che è successa a Trento potrebbe tra non molto succedere anche a Venezia. Voglio dire che gli ordini sono vittime di questa mutazione che c'è nel corpo professionale, ed essendone vittime riescono sempre meno a fare il loro mestiere.  
A parte poi che anche voi dell'Ordine dei giornalisti siete nella crisi generale.  

Dario Fortin* 

Forse non tutti sanno come sono andati i fatti. Sarebbe necessario spendere due parole.    

Gianni Faustini*  

Si trattava di discutere da parte del Consiglio regionale dell'Ordine del Trentino Alto Adige di una possibile sanzione deontologica, nel caso specifico si trattava di un articolo che violava la legge sulla privacy. Su questo fatto c'è stata una spaccatura del Consiglio che ha portato prima le dimissioni per protesta del Presidente, poi del Segretario, giù giù a cascata si sono dimessi tutti, ecco perché io sono commissario, peraltro fino a domenica. Perché domenica c'è l'ultimo turno elettorale, quindi verrà eletto un nuovo Consiglio. Ma al di là del fatto specifico, secondo me è significativo che un ordine regionale, seppure tra i più grandi come quello del Trentino Alto Adige, stia entrando in crisi sul tema deontologico, perché è sempre più difficile, voglio dire che sembrava di essere dei profeti che parlavano nel deserto, parlare di deontologia, ben lo sa 10 anni (???), adesso che si sa bisogna parlare di questo, il tema non consente di venirne fuori. 
Chiedo scusa se ho fatto queste scusatio non petite ma mi sembrava giusto per non aver troppo entusiasmo. Io sono lusingato che si chieda molto al giornalismo ma ho paura che viceversa noi riusciamo a dare sempre meno. Grazie.    

Dario Fortin*  

Credo che qui ci accomuni tutti quanti una sfortuna che ci chiediamo un po' tutti a noi stessi, insomma, siamo qui anche per questo e il problema sono quelli che non partecipano, che non hanno sensibilità, che non si creano tanti patemi d'animo. Mentre noi abbiamo un po' questo, ci aggraviamo ulteriormente di altre cose.    
Bene, non so se ci sono altri interventi. Vedevo Pier Paolo Patrizi qui davanti che anche l'altra volta aveva fatto un breve intervento. Non so se ci sono altre prenotazioni, poi se altri intendono dire qualcosa o fare altre domande o chiedere qualcosa che non si era capito delle relazioni, questo è il momento, prego. 

Pier Paolo Patrizi, IRIS Caritas Bolzano - LED Trento*

Salve, non è una cosa preparata, volevo dire qualcosa, portare un'impressione, condividerla con voi. La sensazione che ho anche rispetto allo scorso anno, quando ci siamo visti, è che si sia sempre lì. Mi veniva da riprendere da questi interventi, che mi hanno toccato il cuore e l'intelligenza, una cosa: mi sembra che forse il rapporto tra noi che lavoriamo nel sociale, in questa doppia vita di Bolzano e Trento, col mondo dell'informazione sia una specie di coesistenza di differenza. E' come se fossero delle musiche, delle sinfonie piuttosto diverse che hanno anche delle finalità di ascolto differenti. Questo non vuol dire che non si possa confrontarsi, però bisogna tenerne conto perché altrimenti si rischia di trovare delle concordanze che poi non trovano uno sbocco pratico. Credo che la sfida sia anche questa. Non mi dilungherò oltre per non ripetere cose che avevo detto l'anno scorso. In conclusione mi vengono in mente due richiami che ho sentito abbastanza forti: quello che all'interno della nostra professione e del servizio occorre che percorriamo sentieri che hanno un cuore; questo lo diceva Castaneda ma possiamo dirlo anche noi, sia che siamo giornalisti od operatori sociali, appassioniamoci e guardiamo negli occhi le persone. Non in modo retorico, proprio per davvero. Se io faccio un articolo mi piace parlare di te agli altri guardando te. Questo possiamo farlo; certo è una bella sfida. L'altro richiamo, che forse è collegato, è quello dell'empatia, non solo perché come direttore del LED mi piace che queste cose escano dagli studi e dagli specialisti, ma proprio perché credo che l'empatia può essere una chiave trasversale di rilettura in senso più progressivo e più positivo delle relazioni sociali. Allora forse anche all'interno del nostro posto di lavoro, all'interno di quella che è poi la nostra funzione sociale, recuperare questa opportunità di poter leggere il mondo anche con gli occhi dell'altro, e quindi di poterlo poi rimandare non come noi o il capitale (se si può usare questo vecchio termine) vorrebbe, ma così come noi lo percepiamo attraverso l'esperienza dell'altra persona. Non credo di avere detto niente di nuovo e di particolare, rispondevo a questo invito con la speranza che si trovi il modo in cui non solo chi è d'accordo a parlare parli, questa è un'altra contraddizione del moderno, ma che si confronti anche chi la voglia di confrontarsi non ce l'ha. Questo è un invito che passo a Dario, così forse può uscire, negli elementi di differenza, qualche spunto nuovo. Credo ci sia bisogno di trovare orizzonti nuovi per cui il sociale non sia ripiegato su se stesso ma diventi proposta, un modo proprio nuovo di intendere le relazioni. Questa è la sfida che sento e che ho voglia di condividere con chi sente il mio medesimo bisogno. 

Dario Fortin  

Grazie a Pier Paolo Patrizi, psicologo nonché responsabile di associazioni come il LED a Trento e l'Iris Caritas a Bolzano. Sul discorso del confronto noi non potevamo far altro che invitare le persone a partecipare, non potevamo ovviamente costringere qualcuno a venire a confrontarsi. Abbiamo peraltro aperto l'invito a tantissime persone. Ci aspettiamo però che anche qui al nostro interno possano venire alla luce posizioni, idee o motivi di critica, critica che poi renderemo costruttiva. Il dibattito è ovviamente aperto a tutti. 

Romano Turri, volontario del Centro di Salute Mentale - Trento*

Buongiorno, io mi chiamo Romano Turri e sono un volontario attivo nel settore del disagio mentale. Svolgo il mio operato presso il centro diurno di salute mentale, dove sto facendo un piccolo giornale dal titolo "liberalamente" completamente scritto dagli utenti del centro. Inoltre faccio parte della Consulta per la salute mentale e in questo ambito si sta portando avanti un progetto di sensibilizzazione di quartiere: facciamo degli incontri a vario titolo con operatori, associazioni ecc. E' chiaro che operando in questo senso mi occupo del disagio sociale quando è scritto sui giornali. Per questo motivo vorrei riallacciarmi a quanto diceva il dottor Resta riguardo all'obbiettività e la suggestione. Vorrei portare due esempi apparsi recentemente sui giornali che mi hanno colpito. Il primo riguarda un medico che è stato processato e quindi assolto dall'accusa di abusare di alcune pazienti durante le visite. Su uno dei due principali giornali locali apparve il titolo "medico a luci rosse". E' chiaro che se si parlasse di disagio mentale pochi leggerebbero l'articolo. Ciò che fa notizia ha a che fare con sangue, soldi e sesso, ed ecco che il giornalista ha posto l'accento sul sesso cercando di fare colpo sull'attenzione dei lettori. Nel testo è stata riportata anche la diagnosi e questo non credo sia giusto perché è un aspetto privato che riguarda la parte deontologica di un giornalista. L'altro giornale locale ha invece riportato un piccolo trafiletto dove ha però inserito nome e cognome del protagonista. Così molte persone, leggendo entrambi gli articoli, hanno potuto farsi un ritratto spaventoso di questa persona. Ma un malato mentale, è bene ricordarlo, non è un oggetto ma una persona e come tale va rispettata. Dopo aver letto gli articoli ricordo che incontrai questo medico, tra l'altro mio amico già precedentemente, e si mise a piangere dicendomi che avrebbe preferito essere condannato che finire sui giornali in questo modo. L'altro fatto di cui volevo parlare in questa sede, apparso mercoledì scorso sui giornali, è il processo in corso al dottor Bertucci del reparto di psichiatria dell'ospedale Santa Chiara. L'anno scorso egli era stato tenuto a effettuare una perizia psichiatrica su un paziente optando per il non ricovero. Uscito dall'ospedale il paziente si suicidò ed ora vi è questa causa in corso. Tra le righe di un articolo di questi giorni si legge che il medico prescrisse al paziente prima di dimetterlo un calmante e, tra virgolette, un placebo. Ma cos'era? Un calmante vero e proprio o uno zuccherino? Ora io dico questo: se il giornalista fosse a conoscenza del calmante somministrato l'avrebbe riferito esplicitamente. Secondo me il giornalista usa la parola placebo per cercare di dire che il medico ha trascurato il paziente. Ecco queste sono cose assolutamente da cercare di evitare. 

Mario Resta, presidente del Tribunale di sorveglianza di Trento*  

Trenta secondi per una precisazione: non so se sono stato molto chiaro su alcuni concetti. Non vorrei che domani uscisse sul giornale che il presidente del tribunale di sorveglianza dice no all'amnistia. Questo comporterebbe uno sciopero della fame dei detenuti, un'interrogazione parlamentare sull'ingerenza della magistratura sull'attività di carattere politico. Non è questo il mio pensiero. Lo ribadisco brevemente: sono contrario all'amnistia laddove viene paragonata alle misure alternative, nel senso che se non ci fossero le misure alternative noi continueremmo ad avere un'amnistia ogni due, tre anni, come è successo, e questo comporterebbe l'immissione in libertà di persone senza controllo alcuno. Con le misure alternative invece c'è pur sempre controllo, anche se attenuato. C'è la possibilità di reinserimento, c'è la possibilità di rieducazione. Questa è la finalità delle misure alternative mentre con l'amnistia non c'è alcuna finalità. Questo era il mio pensiero. 

Dario Fortin*   

Quindi il titolo potrebbe essere: "il dottor Resta è contrario all'amnistia forzata". 
Ora passo la parola a Claude Rotelli, responsabile dell'associazione Volontarius di Bolzano del Cnca. 

Claude Rotelli, associazione Volontarius - Bolzano*

Dico due cose brevemente. Da questo incontro ho percepito due momenti che mi limitano la speranza di un cambiamento del futuro, di un miglioramento. Vorrei lanciare una provocazione, perché noi dobbiamo sempre continuare nella ricerca di una speranza di miglioramento. Vorrei che quando parliamo di integrazione l'obiettivo sia l'integrazione, e il far coesistere le differenze sia solo una tappa per arrivare all'integrazione.  
Il secondo messaggio che ho percepito e che i giornalisti rischiano di diventare procacciatori di informazione. In tutto questo contesto molto difficile noi attori del sociale abbiamo una grandissima responsabilità. Non è vero che la colpa dell'informazione che esce sul giornale sia solo del giornalista. Noi del sociale come ci collochiamo tra le povertà e l'informazione? Siamo sicuri di essere stati giusto veicolo per portare al mondo della comunicazione le informazioni nel modo giusto? Vedo il futuro come un grande lavoro di cooperazione dove ogni attore è responsabile di come esce l'informazione. 

Dario Fortin  

Grazie molte. Questo intervento ci aiuta a introdurre i lavori del pomeriggio. La novità di quest'anno è che cercheremo di lavorare sulla collaborazione tra associazionismo e gli organi informazione per favorire una certa fluidità e la possibilità di collaborare nella costruzione delle notizie e nella ricerca della verità. L'altro aspetto è la scuola di giornalismo per operatori che si stanno improvvisando redattori sociali, quindi Faustini e Stefano Trasatti ci aiuteranno a capire come funzionano le redazioni sociali, come funzionano i giornali, a capire perché una notizia abbia più possibilità di passare. Capire questo mondo che ha delle regole, ma ci chiede a volte di entrare in una deregulation, per capirla e collaborare. Quindi il pomeriggio si lavora dall'altro punto di vista: con i giornalisti che fanno i docenti e gli operatori sociali che imparano.  
Grazie ai relatori, grazie a voi. 
Nel pomeriggio diamo la parola a Don Dante Clauser. Abbiamo saputo dalla stampa che anche lui da oggi, come tutti i preti trentini, può sposarsi. Lo abbiamo saputo dalla stampa quindi sarà una fonte sicuramente certa!  

Don Dante Clauser, cooperativa Sociale Punto D'Incontro - Trento*  

Voglio dire una parola ai giornalisti, breve e anche strana come sempre. Fratelli giornalisti vi prego di ascoltare per un minuto la voce di questo vecchio prete che cominciò a collaborare con la carta stampata quando aveva 17 anni, il che significa 60 anni fa. Nel compiere la vostra missione di informare e formare l'opinione pubblica ricordatevi che la vostra penna può diventare un fucile pericoloso, la vostra macchina da scrivere può diventare una mitragliatrice, il vostro computer può diventare un carro armato. Perché questo non succeda dobbiamo essere convinti che non esistono persone rispettabili e persone disprezzabili. Esistono soltanto persone e ogni persona è cittadino a pieno titolo, ogni persona è figlia di Dio. Non esistono persone irrecuperabili: nel cuore di ogni canaglia c'è il seme di un galantuomo, di un santo. Fratelli giornalisti, nel raccontare il male e nel combattere l'ingiustizia non manchi mai una luce di speranza. Anche nel buio più fitto una piccolissima luce può segnare un cammino. Tutto qui. 

Dario Fortin    

Grazie Dante. Partiamo ora con Gianni Faustini.  
Questa mattina il tema era "Profeti di paura, operatori ed emergenze sociali" con vari interventi e dibattiti dove gli esperti ci hanno fatto riflettere sul tema relativo all'insicurezza, alle paure del cittadino più o meno alimentate dal potere e dalla forza dei media. C'è stata una riflessione anche dalla parte dei deboli. Il pomeriggio è pensato più a livello familiare. Ci saranno due interventi e poi è previsto un lavoro di scambio per entrare nel merito dei nostri bisogni come associazioni e operatori sociali che trattano o vorrebbero imparare a trattare notizie, dare notizie o rispondere a chi ci chiede conto di quello che facciamo, mettendoci in relazione con i media. Per questo quindi siamo qui, ci mettiamo a scuola per imparare. Dall'altra parte siamo anche piccoli redattori sociali, improvvisati, quando dobbiamo scrivere qualcosa sui bollettini, dobbiamo comunicare all'interno delle nostre realtà delle notizie. L'idea di oggi era di vedere se riusciamo a lavorare meglio in termini di comunicazioni, in particolare verso l'esterno, in quanto crediamo di aver qualcosa da dire, crediamo che le esperienze che facciamo abbiano un significato. Sono cose che sono poco raccontate, fatte nel silenzio, a cui noi però crediamo tanto, ci mettiamo il cuore, dedichiamo tutta la vita, non è solo lavoro. Per questo crediamo che le cose che viviamo debbano arrivare ai cittadini, però non sappiamo come. Così abbiamo invitato Gianni Faustini e Stefano Trasatti. A Gianni Faustini abbiamo chiesto come funzionano i media a livello locale. 


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.