I Redattore Sociale 27-28 maggio 1994

Redattore Sociale

Politiche sociali e Welfare State

Intervento di Ugo Ascoli

 

Ugo Ascoli*

Una scelta brutale

"Volevo cogliere l'occasione di questo convegno per fare una riflessione insieme a voi sulla questione più generale delle politiche sociali (...). Mi pare che voi finora abbiate toccato alcune cose cruciali. Per esempio il mio amico Augusto (Battaglia), alla fine del suo pirotecnico intervento, diceva: la spesa assistenziale bisogna riconvertirla in una spesa per l'inserimento e la reintegrazione nel lavoro, nella società. Diceva: passia­mo dal portatore di handicap come peso al portatore di handicap come risorsa. E' uno dei nodi su cui oggi si potrebbe riflettere.
Ma io vorrei prendere lo spunto da questo per ragionare insieme a voi sulle politiche sociali nel nostro Paese. Direi che il governo in carica - mentre col prossi­mo governo speriamo di avere qualche cambiamento, dicevo prima con una battuta - ha portato alle estreme conseguenze una tendenza che era già in atto in questo paese, e soprattutto ha reso molto più esplicito agli occhi di tutti, direi quasi in maniera brutale, quella che è la scelta che tutti gli stati sociali, o per dirla in inglese tutti i welfare state, oggi hanno di fronte. L'idea è quella di come reagire alla crisi di una costruzione come quella del welfare state, nato negli anni '50, che ormai non regge da nessuna parte, le cui crepe ormai sono vistosissime in tutte le società, dall'Inghilterra fino agli Stati Uniti. E quindi in tutti i paesi industrialmente avanzati si sta ragionando e si sta decidendo su quale strada immettersi. Tutto sommato, i programmi elettorali di Forza Italia o della Lega o di AN, o le prime dichiarazioni improvvide - o provvide a seconda dei punti di vista - dei ministri Pagliarini, Gnutti e compagnia non fanno altro che rendere brutale l'alternativa.

Come un fiume carsico

Un'alternativa che invece stava già viaggiando - sia pure come una specie di fiume carsico che ogni tanto si immerge e non si vede, ma le cui correnti stanno camminando - da alcuni anni. Quindi oggi non vale la pena di parlare di chi non c'è. Dovremmo parlare del ministro Goria, che non c'è più... quindi non ne parliamo.
Ma da quegli anni, cioè dalla seconda metà degli anni '80, di fatto sta andando avanti una tendenza che spinge verso la cosiddetta privatizzazione: verso, cioè, uno spostamento di attenzione e di enfasi dai soggetti pubblici ai soggetti privati nel campo delle politiche sociali. Ora questa tendenza è arrivata ormai ad un punto di svolta. Il fiume non è più carsico, è riemerso in superficie, la corrente spinge fortemente in una direzio­ne, sono in molti a remare in preda ai favori della corrente, sono in pochi a cercare di remare controcorren­te. Soprattutto visto che quelli che cercano di remare controcorrente non sanno proprio, esattamente, cosa fare e quindi rischiano di essere travolti. Per cui l'immagine del futuro potrebbe essere quella di tante barche che vanno controcorrente e di tante barche, opposte, che sono rovesciate e che comunque seguono la corrente.

Un sistema pieno di crepe e di acciacchi

Cosa voglio dire, fuor di metafora? Voglio dire che oggi, sostanzialmente, il welfare state, così come lo abbiamo conosciuto negli anni '50, è pieno di crepe. Ha un mucchio di anni, un mucchio di acciacchi, li dimostra tutti. E non è più pensabile che si possa andare avanti negli anni, nel prossimo decennio, per non parlare del prossimo millennio, con una politica pensionistica così come l'abbiamo conosciuta in tutti i paesi europei (bada­te bene, non è solo un problema italiano) o con un sistema sanitario come l'abbiamo conosciuto, e così via.
Prima domanda: per quale motivo c'è una crisi generale di politica pubblica, così come la indicano gli studiosi? Cioè c'è una crisi generale di un modello che ha retto per 40-50 anni, che ha consentito in molti paesi europei, con diverse modalità, un binomio di sviluppo economico e crescita di sensibilità, crescita sociale, ecc. Le cose che diceva Augusto (Battaglia), o altre cose che ho sentito, dimostravano che cosa è cambiato: che un bimbo handi­cappato non si aspetta solamente di crescere in casa, ma ha legittime aspettative che si possa integrare in una scuola, che poi si possa fare un discorso di formazione professionale, che poi si possa anche arrivare ad una situazione lavorativa. Questo che cos'è? E' il risultato di 30-40 anni di politiche pubbliche, di politiche sociali che, con luci ed ombre, comunque hanno fatto avanzare un binomio di sviluppo economico e di crescita di cittadinanza o, se volete, di benessere sociale; con tutte le zone oscure e i problemi che ci sono, ma in linea di massima questo è accaduto un po' in tutti i Paesi europei.

I pilastri crollati. Primo: la piena occupazione...

Ma quali erano i pilastri su cui si basava questa costruzione? Si basava su quattro-cinque pilastri che stanno crollando. E' come se in questo edificio dove siamo ora, noi vedessimo quelle colonne che si stanno sbriciolando: sarebbe quindi sciocco non uscire subito e cercare di rimettere in piedi un edificio che sia stabile. Innanzitutto, il welfare state così come è stato costruito alla fine degli anni '50 era basato sulla piena occupazione. La piena occupazione dei maschi abili. Se andiamo a leggere John Maynard Keynes, negli anni '30, se andiamo a leggere Lord Beveridge, in Inghilterra che teorizzava il welfare state nel '42-'43, se andiamo a leggere anche gli stessi atti della nostra Costituzione, o altre cose, c 'era questo punto fermo: la piena occupazio­ne. Cioè l'idea che il modello dello sviluppo economico, capitalistico, industriale, avrebbe potuto portare alla piena occupazione. Dei maschi. E questo avrebbe con­sentito di poter basare il sistema dei servizi e delle prestazioni sul filtro del mercato del lavoro. L'idea era: se io partecipo al mercato del lavoro, ho un'occupazione stabile, e in quanto lavoratore pago i miei contributi sociali, mi assicuro, aderisco ad una assicurazione socia­le obbligatoria - sulla sanità, sulla pensione, e così via - questo mi garantisce il futuro e con me garantisce il futuro ai cosiddetti "familiari dipendenti" cioè la mo­glie, che si suppone non debba lavorare (...), i figli, gli anziani, ecc.

La piena occupazione, oggi, è come sappiamo una chimera. E solamente chi crede ai miracoli può pensare che in Italia nell'arco di due, quattro, cinque anni, in Francia, in Germania o negli Stati Uniti si possa tornare alla piena occupazione. Che peraltro non c'è mai stata. Ho qui vicino a me Goffredo (Fofi), che ho ritrovato dopo tanti anni...Beh, la piena occupazione di cui si parlava nel '62 era la piena occupazione con tanti emigrati. E quando lui scriveva quel bellissimo libro sull'immigrazione meridionale a Torino - che forse è la cosa più bella uscita sui movimenti migratori in Italia in quegli anni - la piena occupazione di cui parlavano gli economisti per dire del miracolo economico italiano era una piena occupazione con milioni di italiani che erano andati a lavorar fuori. Tanti meridionali che lavoravano in condizioni bestiali, come oggi marocchini e tunisini, né più e né meno, a Milano e a Torino... Quello era il miracolo economico della piena occupazione. Quindi a ben vedere la piena occupazione in questo paese non c'è mai stata.
Adesso l'emigrazione dall'Italia in fuori non c'è più, anzi l'Italia è un paese di immigrazione e comunque abbiamo ormai un dato stabile di disoccupazione che è incomprimibile - checché se ne parli e se ne dica ("a prescindere", come direbbe Totò) - in tutti i paesi. Anzi, nei manuali di economia politica di quando, un po' di tempo fa, ero studente, si leggeva che il 3 % era il tasso di disoccupazione ottimale, "frizionale" dicevano i docenti di economia: cioè se c'è il 3% di disoccupazione è piena occupazione; oggi quegli stessi manuali vi direbbero che il 7% è un tasso di disoccupazione "frizionale". E proba­bilmente tra qualche anno troveremo il 10, il 12%. Cioè, l'idea qual è? In ogni sistema industriale e occiden­tale, ormai c'è una quota crescente di persone che non entrano, non hanno nessuna possibilità di entrare nel mercato del lavoro cosiddetto "regolare". Poi, certo, ci sono i lavoretti, c'è il lavoro nero, c'è anche la malavita che fa un'opera di reclutamento straordinaria, e non solo nel Mezzogiorno.

Ma questo è il primo pilastro che è crollato. Questa piena occupazione non c'è più, e vedete che anche in questi giorni ritornano fuori quelli che dicono (...) che bisogna ripensare a strumenti di mantenimento del red­dito che consentano una decorosa sopravvivenza anche a quanti non riescono a entrare nel mercato del lavoro. Invece il welfare era basato su quello. Era basato su coloro che lavorano, e quindi sono pensionati, e quindi sono assicurati, e quindi, e quindi, e quindi...

Secondo pilastro: l'industria

Secondo pilastro. Questa piena occupazione era tirata dall'industria. Quando negli anni '40 e '50 si parlava di welfare state - ne parlavano gli inglesi nel '42, ecco perché la parola è rimasta così - si pensava all'indu­stria, che era in quel momento la forza trainante e che aveva il compito di assorbire i milioni di persone che uscivano dall'agricoltura. Quindi dava luogo a milioni di posti di lavoro dipendente nell'industria; questo voleva dire grandi o medie fabbriche, luoghi precisi in cui le persone lavoravano, erano censibili, potevano assicurarsi, pagare i contributi, pagare il fisco e quindi sostenere tutto l'edificio.
Oggi, non solo la piena occupazione ce la dobbiamo dimenticare, ma c'è un'industria che perde colpi ed è destinata a ridurre notevolmente la sua portata occupa­zionale, checché se ne dica. Invece abbiamo un'occupa­zione che è cresciuta (anche se adesso si è arrestata) nel terziario. Il terziario che, come sappiamo bene, è un contenitore estremamente eterogeneo, che va dalla pubblica amministrazione al commercio, alle attività di servizio per le imprese e così via, in molte circostanze senza che dia luogo ad un rapporto di lavoro ben determi­nato, tant'è vero che oggi si sta discutendo su che cosa sono molti lavori che non sono né lavoro dipendente, né lavoro autonomo. C'è il dibattito sulle consulenze, si inventano nuovi codici, nuovi contributi... Vi assicuro che all'Inps, dove sono stato per quattro anni nel consiglio di amministrazione, non sanno più che pesci prendere. Perché il lavoro dipendente si contrae, i contributi sociali diminuiscono, le pensioni bisogna continuare a pagarle - da lì il deficit strutturale - però c'è una quota di lavoro che non si "pesca". Allora si inventano il 15%, il 27%, si danno i numeri al lotto... In realtà c'è tutta una serie di forme di lavoro nuovo che sono nate e che vanno tipologizzate. Il terziario non solo ha portato ad una differente coscienza sociale: non ci sono più le fabbriche, ci può essere il lavoro di quello che se ne sta a casa davanti al computer, l'homework come lo chiamano, e così via, con conseguenze sociali terrificanti. Ma c'è il problema che questo lavoro non può più essere la base per un sistema di assicurazioni sociali. E questo è il secondo pilastro che è caduto.

Terzo pilastro: la divisione sessista del lavoro…

Ma, ce n'è un terzo, fondamentale, che è la divisione sessista del lavoro. Se guardiamo al "tasso di attività femminile" - cioè alla quota di donne che sono occupate nel mercato del lavoro, o che sono alla ricerca attiva di un lavoro, rapportata alla popolazione femminile - non c'è confronto: anche in Italia, dopo altri paesi, si è arrivati ad un incremento notevolissimo di tasso di attività femmi­nile. Dal '77 all'87 tutti i nuovi posti di lavoro equival­gono all'incremento dell'occupazione femminile. E' quella che gli economisti (anche i non proprio femmini­sti) chiamano una "rivoluzione femminista". E' il grande avvenimento degli anni '80. Oggi si pubblicano libri... Hanno presentato al Salone del Libro di Torino, due giorni fa, un libro chiamato "Le donne nei lavori degli uomini". Ormai c'è un crescente protagonismo sociale delle donne che non risparmia più nessun lavoro. Gli unici ambienti in cui ancora le donne non si vedono o sono poche sono gli ambienti direttivi-manageriali: se guardate la Confindustria, sono prevalentemente maschi, i banchieri sono prevalentemente maschi, i professori universitari di prima fascia sono prevalentemente ma­schi... Cioè c'è ancora una serie di "isole" di potere che i maschi tengono con grande forza e cercano di difendere dall'assalto delle donne.
Ma ancora per poco: la magistratura ha già perduto, la medicina sta perdendo, tutta una serie di libere profes­sioni ormai, come era giusto e logico aspettarsi, hanno una ripartizione che non esclude più il cosiddetto sesso debole. Che debole non è, grazie a Dio, perché studia di più, ha tassi di istruzione più elevati, ha tassi di successo ai concorsi pubblici migliori, ha tassi di incremento dell'occupazione più elevati ed ha invaso ormai quasi tutte le professioni.
Non è mica cosa da poco. Questo fenomeno sta cambiando radicalmente tutto il quadro su cui si costru­ivano le politiche sociali; perché significa che la donna non è più quell' inesauribile serbatoio di solidarietà oc­culta e imposta che doveva reggere tutta la baracca dell'assistenza familiare. E quindi non si facevano i servizi in Italia, tanto c'era la famiglia, anzi c'era la moglie, la madre. Gli anziani? Tanto c'era la nuora, la figlia. Gli inabili? Tanto si tenevano in casa... I malati? Tanto qualcuno li va ad assistere: la madre, la moglie, la nuora o la sorella. Questa centralità della donna figlia-moglie-madre, che ha retto la gran parte dei servizi sociali in questo paese per 20 anni o più, sta venendo meno. Come sta venendo meno in molti altri paesi, prima che da noi. Non solo: le donne hanno capito che devono autoemanciparsi e allora non fanno i figli, per lavorare, per conciliarsi con il protagonismo nel mercato del lavoro. Inutile mettere i "target" di mercato: bisogna farne due! No, bisogna farne tre! Qua non se ne fanno...
E non è un caso che Bologna, la città d'Italia dove c'è una maggiore quota di servizi sociali, è quella nella quale il tasso di fecondità femminile è declinato con la maggiore rapidità.

La "famiglia magra-lunga"

Negli anni '50 "calavano" gli antropologi americani a studiare il Mezzogiorno. C'era un famoso signore - che era meglio che non fosse mai sceso - che si chiamava Penfield, che scrisse la storia del famoso "familismo amorale" nel Mezzogiorno, cioè a dire che i meridionali erano tutti quanti legati alla loro famiglia, vedevano solo il proprio "particolare" e quindi non erano interessati alla civiltà, alla società civile, al volontariato, ecc. Adesso gli americani calano in Italia non per studiare le comunità del Mezzogiorno; per studiare Bologna! Cioè per capire per quale motivo, In Italia, nel luogo più svedese dei servizi c'è una velocità straordinaria per cui le donne che vivono a Bologna (non dico le bolognesi) hanno deciso che figli non se ne fanno. E non li stanno facendo! Quindi sono comportamenti sociali che hanno una valenza straordina­ria per il welfare. Sta succedendo che noi avremo, anche in futuro, in conseguenza di questo fatto, e in conseguen­za dei processi di invecchiamento che stanno raggiun­gendo apici elevati non solo in Italia, avremo quella che uno storico inglese (che si chiama Laslett) ha chiamato una "famiglia magra-lunga". Nel senso che avremo delle famiglie in cui ci saranno anche due-tre generazioni che convivono, ma "uno-uno-uno", tutti in fila indiana. Con le donne di 50-55 anni che non solo sono state le mogli, le figlie e le madri, ma diventano di nuovo le figlie delle madri o le nuore delle suocere. Perché le persone anziane degli anni prossimi in Italia saranno le famiglie singole. Non il "single" romantico che sceglie la vita da solo, o il bohemienne o chi per lui. No, sono le vedove. Sono famiglie costituite da una sola persona, generalmente donne - perché come sappiamo l'aspettativa di vita media dei maschi è molto meno forte - che rimangono da sole e che quando arrivano a 70-72 anni o 75-76 (perché vivono oltre gli 80 anni di vita media) cominciano anche ad avere bisogno. E su chi possono far riferimento? Sulle R.S.A. di cui parlava Augusto? Ma per carità! Fanno riferimento sulla figlia, se c'è. Oppure sulla nuora. E ricomincia tutto un discorso di centralità della donna. Di presunta centralità della donna per il welfare: i figli non ci sono, ce n'è uno solo e quindi non può fare da cosiddetto "bastone per la vecchiaia" a quattro genitori... Quindi tutto il modello sociale è completamente sbido­nato.

Quarto pilastro: l'equilibrio demografico

Quindi tutto il modello precedente proprio non c'è più. Ma non si è sbriciolato solo qui. Si è già sbriciolato da tempo in altri paesi. In Ruanda sì sbriciolano altre cose. Ma in Inghilterra, in Svezia e negli Stati Uniti questa cosa è partita già da tempo.
Poi c'è il quarto pilastro che è crollato (l'ho già detto) e che è una demografia in equilibrio. Tutto il modello di welfare si basava su una demografia in equilibrio, cioè su un paese che aveva, grosso modo, nati e morti che si equivalevano, e che non aveva grandi flussi di immigrazione. Noi invece siamo un paese ad invec­chiamento progressivo, con una decontrazione della na­talità e un allungamento della vita media. E in più siamo un paese ormai con un processo immigratorio che non finirà; e che non è poi drammatico, perché il mio amico Rino Pugliese calcola in 850-900 mila gli immigrati extracomunitari oggi in Italia, fra clandestini e non. Non è molto per mandare in crisi un'organizzazione sociale, ma è già tanto per alimentare fenomeni di razzismo ordinario o straordinario. Comunque la demografia è saltata totalmente.
Ora, non sono d'accordo col mio amico Golini - che usa il termine "razza" che io non userei mai nella mia vita - quando dice la razza degli italiani sta per scomparire. Non facciamo questi allarmismi. Però, sicuramente c'è un problema dì equilibri demografici totalmente diversi.

Quinto pilastro: la cultura "morigerata"

L'altro grande pilastro che è crollato è quello, diciamo, culturale. La società che è uscita dagli anni '40 è la società che è uscita dalla guerra, dai fascismi e dai nazismi. Era una società che aveva delle aspettative "morigerate", cioè che aveva la necessità dì soddisfare i beni e i bisogni fondamentali: una casa, un lavoro, un vestirsi in modo decoroso. Ora invece (...) abbiamo una rivoluzione. Daniel Bell diceva: il capitalismo non crollerà per effetto delle contraddizioni economiche capitale-lavoro, ma crollerà, o semmai sarà in difficoltà, in base alle contraddizioni culturali. Cioè mette in moto ormai un discorso di aspettative crescenti che arrivano, sostan­zialmente, a mettere in crisi qualsiasi meccanismo di soddisfazione pubblica.
C'è un sovraccarico di esigenze; noi non ci accon­tentiamo più di vivere in un certo modo, vogliamo stare molto meglio, siamo molto più sofisticati e sensibili; tutti i soggetti vogliono entrare nella cittadinanza e nel welfa­re...C'è un sovraccarico, quindi. C'era un famoso artico­lo di Glaser che diceva: il welfare diventa vittima dei suoi successi. Cioè non c'è più un welfare state nazio­nale che riesca a pensare di poter soddisfare in qualche modo i bisogni che emergono dalla società, sia quelli di indigenza sia quelli del ceto medio e ceto medio altissi­mo. 

Sesto pilastro: lo Stato-Nazione

Infine, l'ultimo pilastro scomparso in modo dram­matico è lo Stato-Nazione. Il welfare state si basava sull'idea che ogni Stato fosse in grado, dentro casa sua, di regolarsi con politiche fiscali, politiche di spesa, di raggiungere un certo livello di equità, di redistribuzio­ne... Qui andiamo, checché ne dica Tremaglia o qualche altro amichetto suo, verso un discorso di Unione Euro­pea. Andiamo verso un discorso nel quale l'Italia non potrà fare le politiche fiscali che vuole, o mettere le aliquote dell"Iva che vuole. Dovrà tenere conto di un livello extra-nazionale dell'economia e della società, e dovrà tenere conto della globalizzazione dei rapporti economici internazionali. Quindi tutta quell'idea di wel­fare state, visto come costruzione nazionale in cui si fa un discorso di equità, di redistribuzione e di ammissione alla cittadinanza è completamente saltato.
Se questo è vero, e credo che siamo tutti d'accordo (ho solo sistemato in ordine cose che tutti voi avete già chiare in mente), è chiaro che siamo di fronte ad una scelta drammatica. E quando si fa questa scelta si ritorna a quelli che sono i modelli fondamentali con i quali si costruisce uno Stato sociale.

Welfare state in tre versioni

Lungi da me fare una lezione o indulgere in tasso­nomie e tipologie; però una cosa la possiamo dire: fonda­mentalmente, semplificando al massimo e senza citare nessuno, si può dire che, dagli anni '40 in avanti, cioè da quando parliamo di Stato sociale, ovvero di un modo sistematico da parte dello Stato di farsi carico dei bisogni sociali del cittadino - perché questo vuol dire Stato sociale: vuol dire che ogni Stato riconosce che è suo compito, suo dovere farsi carico della salute, della previdenza, dell'accesso al lavoro, delle politiche della casa, dell'istruzione (questo è il salto di qualità che c'è stato fra gli anni '30 e gli anni '50) - ebbene questo Stato sociale non si è realizzato in modo uguale in tutti i paesi. Si è realizzato almeno secondo tre modalità fondamentali.

Il modello a "visione residuale". Usa: carità garantita

La prima modalità è quella che viene chiamata una "visione residuale" dell'intervento sociale dello Stato; cioè una filosofia pubblica per cui lo Stato dice: io lascio che il mercato faccia la sua azione, lascio che l'individuo se la giochi con la famiglia, con la parentela, con la rete di vicinato, e solamente in un secondo momento, se proprio qualcuno sta affogando perché non riesce a stare a galla con i suoi mezzi e con quelli che riesce a guadagnare dal mercato, allora io, Stato, intervengo a garantire la salvezza, o comunque la sopravvivenza, a questa persona; dopo di che, appena l'ho salvato lo lascio di nuovo da solo, perché deve imparare che deve camminare autonomamente.
Questo è il discorso che sta dietro al modello all'americana, inteso come Stati Uniti d'America. Un modello nel quale lo stato federale prima di Clinton (poi vedremo con Clinton cosa succede) ritiene di non dover creare un servizio sanitario nazionale, un sistema pensio­nistico, una rete generale di cittadinanza, ma dice: voi cavatevela con i vostri mezzi, anzi sviluppiamo molto il volontariato - che lì è proprio un bastione fondamentale - e cavatevela col mercato: ci sono i "dirty jobs", ci sono i "part-time works"... Non importa, cavatevela in qualche modo; con la famiglia tirate avanti, fate tanto volontaria­to e poi... God save the Americans, che Dio vi salvi. Se poi non ce la fate, qualche sussidio per i poveri si rimedia sempre.
Questa è la filosofia che ha diretto fino adesso gli Stati Uniti d'America: il modello cosiddetto "residuale", in cui come capite non c'è un discorso di solidarietà generale, non c'è un patto di solidarietà che lega tutti i cittadini, i sani ai malati, i giovani agli anziani; perché se c'è un sistema di assicurazioni sanitarie in cui io mi faccio la mia polizza sanitaria e do qualche soldo allo Stato per coprire i bisogni sanitari dei poveri, in realtà è un modello di carità garantita. Cioè, non c'è una solida­rietà fra tutti i ceti. Bensì, io ceto medio me la cavo con i miei mezzi ed eventualmente faccio un po' di carità ai poveri, agli homeless, cioè i senza fissa dimora, a un po' di gente...se se la merita. Perché la polemica sui poveri che non se la meritano è un vecchio discorso delle leggi sulla povertà inglesi dell'800. C'è anche il povero che non se la merita: il falso invalido, il falso disoccupato, il falso drogato, ecc.

Il modello "corporativo-particolaristico". II nostro

Poi c'era un secondo modello di Stato sociale. Cioè, io Stato intervengo per tutti, non sto a vedere se tu stai affogando. Però io non sto a cambiare quello che il mercato fa. Il mercato, come sappiamo, è un elemento regolatore importante, ma è un elemento che crea e alimenta disuguaglianze. Allora, se il mercato crea lavori pagati poco o pagati meglio - chi fa l'operaio, chi fa il professore, e così via - io, Stato, intervengo, garantisco a tutti una protezione per la vecchiaia, per la salute. Però intervengo con un sistema che ricalca di fatto le gerarchie create dal mercato del lavoro. Per cui ora, come in Italia, faccio cinquanta programmi pensionistici, cinquantaquat­tro enti che gestiscono la previdenza, ciascuno con i suoi privilegi che poi dipendono dal gioco clientelare che si manifesta nel tessuto sociale e politico. Questo modello lo chiamiamo "corporativo". Un modello corporativo
particolaristico nel quale non c'è ancora il cittadino ma cominciano ad esserci le corporazioni, i gruppi sociali.
Là invece c'erano solamente i disgraziati, pardon, i poveri, gli infelici.
E' il modello che ha retto sostanzialmente i paesi del centro Europa. Ci troviamo la Germania, ci troviamo la Francia, ci troviamo anche l'Italia, con una piccola variante: in Italia questo particolarismo è stato soprattut­to sfruttato a fini di consenso politico.
Ormai siamo tutti d'accordo, dai politologi di de­stra o di sinistra (ormai è sempre più difficile distingue­re...): il fatto che in Italia per cinquant'anni non ci sia stato che un sistema politico che abbia retto tutte le politiche sociali, ha fatto sì che le prestazioni sociali, i trasferimenti di reddito siano stati usati, gestiti da un apparato politico-amministrativo che era fortemente per­vaso dal sistema partitocratico. Non sto dicendo nulla di nuovo, ma guardate che questo è un dato italiano nazio­nale: non troviamo un dato di pervasione clientelare così forte in altri paesi. Vi faccio subito un esempio: se noi guardiamo le unità sanitarie locali in Italia e le paragonia­mo con le Local Help Unities inglesi, non c'è paragone fra il funzionamento dei due sistemi. Le Local Help Unities inglesi hanno un apparato di "professional" e di manager, un apparato cioè di persone direttive che sono una vera e propria professione. Sono una burocrazia che è gelosa delle sue autonomie, che sa fare il suo mestiere. Confrontiamola con i coordinatori delle Usl da noi. Confrontiamola anche con i manager voluti da De Lorenzo e soci. Sono, queste persone, indipendenti dal sistema politico? Non do la risposta.

Il  modello "Istituzionale-redistributivo". Conta il cittadino

Terzo modello. E' quello cosiddetto "istituzionale redistributivo". E' il modello nel quale lo Stato dice: non solo io mi faccio carico di tutti, ma avendo come obiet­tivo una redistribuzione delle risorse l'idea di ridurre le disuguaglianze; e allora userò tutte le politiche sociali dalle pensioni, alla sanità, alla scuola per cercare di ridurre queste disuguaglianze. Come? Con un'offerta di servizi universalistici aperti a tutti, e magari con una robusta dose di politiche ad hoc che consentano a quelli che sono più indietro di accedere lo stesso ai servizi. Allora, tanto per seguire un filo che ci fa capire al volo, non c'è più la pensione per i poveri, non ci sono più i cinquanta programmi pensionistici, ma c'è un sistema pensionistico che è basato su una pensione di base uguale per tutti, cioè che lo Stato eroga a tutti indipendentemente da quello che hanno fatto nel. loro lavoro. Per cui, a Stoccolma, se uno andava in pensione qualche anno fa non importa che avesse quattro isole come Bergman o non avesse niente. Due cittadini svedesi che compivano i 60 anni, come tali, avevano diritto alla pensione di base. E in più, naturalmente, ognuno di questi due cittadini poteva aggiungere una pensione che si era guadagnata con la partecipazione al mercato del lavoro più ricco o meno ricco e magari con la famosa pensione integrativa privata se aveva addirittura altro denaro da poter mettere dentro il salvadanaio per la vecchiaia.
Siamo passati dai poveri, ai gruppi, ai cittadini.
Cioè siamo passati ad un sistema di welfare nel quale l'individuo vale in quanto cittadino, non in quanto lavo­ratore. Non importa più se ha fatto il professore univer­sitario, lo scrittore o il vagabondo. Se è cittadino svedese, a 65 anni ha diritto alla pensione. Punto e basta. E io, Stato, la garantisco uguale per tutti. Questo è il modello con cui si sono costruite le famose socialdemocrazie
scandinave. Parliamo della Danimarca, della Svezia, della Norvegia, e così via. Voi direte, ma sono piccoli paesi, sono fortunati, ci sono stati i Vichinghi e non ci sono stati i Romani, la Chiesa era lontana, la Chiesa era vicina...tutto quello che volete. Comunque è una tipolo­gia. Perché l'Olanda poi c'è andata vicino, il Belgio ci ha un po' provato, ecc. 

Ed oggi niente di nuovo; solo ideologia senza filtro

Ho fatto questo lungo excursus per dire che oggi siamo di fronte ad un'alternativa che non fa che ripropor­re questi modelli. Non c'è niente di nuovo sotto il sole. Perché chi sta pensando che ormai bisogna smantellare lo Stato sociale in Italia, sta proponendo una serie di ricette che sono esattamente la ricetta liberistica degli anni '50, che ha fallito clamorosamente proprio nei paesi nei quali è stata proposta. La cosa straordinaria di questo momento in Italia è che di fronte alla crisi del Welfare, da parte di chi sembra così deciso ad andare avanti, e che sta guidando questa canoa sul fiume con la corrente in suo favore, non c'è l'elaborazione di un modello nuovo. Cioè non tiene conto di quei pilastri che sono crollati. Tiene conto solamente di modelli ideologicamente as­sunti senza alcun filtro critico.
Andiamo a vedere ad esempio la sanità. Io mi sono letto i programmi di Forza Italia, della Lega, di Allean­za... Per la sanità, scritto, sottoscritto e timbrato (e non è un caso che il ministro della sanità è sempre un liberale, non è un caso che il ministro della pubblica istruzione è sempre un democristiano, anche se si chiama "compact disc", come dico io, ccd...), hanno detto: signori, basta con questo spreco, basta con questa sanità pubblica che spende un sacco di denaro, bisogna riformare il sistema sanitario. Come? E' facile. Noi stabiliamo che tutti coloro che sono sotto una certa soglia di reddito - i poveri hanno diritto ad un'assistenza pubblica, cioè lo Stato si fa carico delle loro necessità. E quindi siamo generosi e solidali. Tutto il resto - cioè i tre quarti degli italiani - si fanno carico da soli di coprirsi i problemi della salute. Come? Comprando pacchetti di assicurazione sanitaria. Io, Stato, che sono stato generoso, concedo a chi paga le assicurazioni di detrarre la spesa dalla dichiarazione del reddito. Sembrerebbe l'uovo di Colombo...Andiamo a vedere.

I programmi del governo. Sanità all'americana...

Gli Stati Uniti stanno sperimentando esattamente questo identico modello da cinquant'anni (...). Cosa ha prodotto questo modello? La spesa per la sanità più alta del mondo in rapporto al Pil; oggi in America si spende (per la sanità) il14% del Pil. Non c'è nessun altro paese europeo, o industrialmente avanzato, che spende tanto per la sanità. Si può dire: spendono tanto, ma stanno tanto bene. No! Ci sono 35 milioni di americani che sono privi di qualsiasi copertura sanitaria. Perché sono persone che non sono così povere per essere assistite, ma non sono nemmeno così "ricche" per potersi pagare la compagnia di assicurazione, che costa moltissimo. Quindi ho ottenu­to un bellissimo effetto con questo sistema: ho la spesa più alta e la "scopertura" più alta. Non esiste nessun altro paese europeo con una quota così elevata di cittadini senza alcuna tutela sanitaria. Non solo: questo sistema uccide la prevenzione, perché non c'è più un'autorità pubblica che fa prevenzione. In America - io ho visitato anche le regioni "spaventose", per esempio l'Alabama, il Mississippi, vi assicuro che si vive molto peggio che nel nostro Mezzogiorno - ci sono interi Stati nei quali non si fa nemmeno la vaccinazione ai bambini. E' saltato qualsiasi criterio regolativo sanitario perché la prevenzione non interessa a nessuno. I poveri si arrangino, qualche centesimo Io trovano. Gli altri hanno le loro polizze e la compagnia di assicurazione guadagna con la redistribu­zione probabilistica delle malattie, con gli ospedali, ecc. Dunque questo modello ha fatto fallimento da tutti i punti di vista, e guarda caso questo è il modello che sta scritto dentro il programma delle forze che ci governe­ranno. Direte: ma non lo realizzeranno. Bene, intanto guardiamo cosa scrivono. Scripta manent.
Le pensioni. Anche qui è assurdo. Un signore, che secondo me sarebbe da rinchiudere, a cui andrebbe fatto il TSO (Trattamento Sanita­rio Obbligatorio), che si chiama Pagliarini e che è ministro del Bilancio, è arrivato a proporre una reietta che nel mondo hanno proposto solamente in Cile. Dove c'era quella cara persona che si chiamava Pinochet. Cosa ha proposto (e la Lega l'ha scritto, e Forza Italia l'ha riscritto)? Lo Stato dà le pensioni di vecchiaia e di invalidità sola­mente ai poveri. Tutti gli altri fanno un bel versamento ad un fondo pensione; si fanno una Ugo Ascoli bella pensione col sistema a capitalizzazione; l'Inps - che è una macchina di burocrati che costano molto alla società - deve scomparire; rimarrà un Inps piccolo piccolo per pagare i sussidi ai poveri tratti dalla solidarie­tà generale.
Questa è un'operazione, al di là del fatto che ci piaccia o meno, tecnicamente irrealizzabile. Perché se io dico: quelli che sono assunti al lavoro quest'anno non paghino più i contributi alI'Inps ma si facciano un versamento ad un fondo pensioni, questo crea un buco nel bilancio dell'Inps. Ma il sistema sociale pensionistico italiano, che è un sistema solidale, è un sistema a ripar­tizione: con una mano prende i contributi, con l'altra paga le pensioni. Se io gli tolgo i contributi, come fa a pagare le pensioni? Quelli che sono in pensione mica li possia­mo ammazzare! Vivono molto, poi...

La Borsa di chi?

Hanno fatto i calcoli alcuni economisti, al Cer di Roma: si parla di un buco che si creerebbe entro pochi anni di 40mila miliardi nel bilancio dell'Inps. Come risaniamo il bilancio dello Stato creando un buco di 40mila miliardi quando i versamenti dei contribuenti vanno ai fondi pensione, cioè alle compagnie di assicurazione (cioè alla Borsa, cioè alla finanza, cioè al privato)? Si dice: ma questo porta benessere perché rilancia la Borsa. La borsa di chi? Di chi non lo dice nessuno...
Ed ecco il volontariato. Proprio ieri ho visto la mia amica fascista Maria Teresa Giglio, che ha presentato il programma per le elezioni alla Provincia e ha fatto un elogio del volontariato. Ma certo! Perché se io riduco le pensioni, se io riduco la sanità, se creo le disuguaglianza, e i miracoli sul lavoro non li farà nessuno (oppure li farà ma a lavori sottopa­gati terribili, tipo quelli che vogliono introdurre in Francia o i "dirty jobs"all'americana, che non tolgono nessuno dalla po­vertà; Pierre Camiti, che è il presidente della Com­missione delle Povertà, ha detto: non pensate che i poveri sono quelli che non lavorano. I poveri sono anche molti che lavorano,ma non ce la fanno. I famosi "workingpoor" americani. In America un americano su otto ogni giorno si fa un pasto in una mensa offerto da una associazione di benevolenza pubblica. E lavora...Ora, se i milioni di posti di lavoro sono i dirty jobs all'americana da 700-800 mila lire al mese, con sconto sui contributi e panettone a Natale, tanto il panettone lo fa sempre lui...); ebbene, se questo è il modello di società verso la quale i governan­ti ci stanno portando, è un modello di società che adotta modelli culturali che sono assolutamente obsoleti. Li adotta solamente per convinzione e adesione ideologica, senza alcuna consistenza e congruenza tecnica, come dicono gli economisti.

Che sia una lepre...?

Modigliani, il premio Nobel dell'economia, che è sicuramente un tipo vispo, ha detto: ma che volete fare voi in Italia con le pensioni? Solamente Pinochet ha tentato di portare tutto il sistema a capitalizzazione, con disastri spaventosi per l'economia cilena, dove poi il risparmio della spesa pubblica c'era anche perché dopo un po' molti sparivano e quindi non andavano in pensio­ne... quello è un sistema che può funzionare, ha una sua vigoria, una sua efficacia sociale. Ma se non riusciamo a farli sparire, come paghiamo le pensioni? Non esiste nessun paese al mondo che costruisce il suo sistema pensionistico solamente su un sistema a capitalizzazione. Chi lo dice è un demente. L'ho anche scritto a Pagliarini, sul giornale. E' un demente, oppure...oppure questa è una lepre su cui fa correre i cani, li distrae con questo discorso che non tiene da nessuna parte e sta preparando una stangata tremenda per il sistema pensionistico, in cui toglie le pensioni di anzianità, adegua il sistema pensionistico in sei mesi - altro che in 20 anni! - a quello che hanno già pensato Amato e Ciampi appesantisce ancora, il conto per i giovani, taglia in modo drastico le pensioni di invalidità, le pensioni di reversi­bilità, aumenta ancora i minimi contributivi e toglie dunque alle donne qualsiasi spazio di avere la pensione (perché sono le donne che avevano le pensioni minime...) e quindi sarà un discorso funzionale al far rientrare le donne in famiglia - e guarda caso, sempre la famosa AN, a Torino, propone il salario alle casalinghe. Voi capite che per un'operaia torinese che si fa un mazzo così per avere 1 milione e 200 mila a lavorare in fabbrica, con le fabbriche che chiudono, trovare uno che gli dice: tu stai a casa, poi ti do io un milione al mese (non ti dice per quanto tempo, te lo dà, a quali condizioni, cosa succede se ti dividi o divorzi, ecc.), ebbene l'operaia dice: il discorso è interessante...

Una società spezzata

Dunque siamo di fronte ad un modello di società spezzata. Siamo di fronte ad una tendenza culturale straordinaria che vuole spezzare questa società e vuole reinterpretare il concetto di solidarietà. Non più solida­rietà come patto solidale all'interno di una comunità, di una cittadinanza, fra generazioni, fra sani e malati, fra maschi e femmine, fra territori; ma una solidarietà vista come "benevolenza pubblica".
Voi mi direte: ma tu parli parli, ma quale soluzione ci proponi? Beh, un'altra volta se mi invitate...
Nel frattempo vi posso dire che ci sono le soluzioni, anche tecniche, per risanare il sistema pensionistico senza perdere la solidarietà, per riformare la sanità elimi­nando sprechi, corruzione, ecc., salvaguardando un uni­versalismo di base. Ci sono modelli che si stanno stu­diando per integrare il volontariato in un discorso di politiche sociali co-progettate, non per fargli fare l'assistenza dell'emarginazione. Ci sono, ma naturalmente appartengono a quegli altri che viaggiano su quelle famose canoe che cercano la loro stabilità.
Vi leggo un solo brano e chiudo. Provate a indovi­nare chi l'ha scritto: "Ai vecchi, ai minorati, agli inabili, a tutti coloro che sono sempre poveri e bisognosi di assistenza deve provvedere la beneficenza pubblica, che lo Stato ammette come iniziativa privata in funzione, però, ed a servizio delle alte finalità dello Stato".

Attenzione... (chiede al pubblico di indovinare) Berlusconi? Scognamiglio? Il Senato? Pagliarini? Mus­solini? Avete altri nomi da suggerire?
Questo brano l'ho tratto da una rivista che si chiama "L'assistenza fascista", del 1935. Grazie"


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.