I Redattore Sociale 27-28 maggio 1994

Redattore Sociale

Tossicodipendenze, informazione, nuovi scenari

Intervento di Leopoldo Grosso

 

Leopoldo Grosso*

"Un argomento semplice e disadorno"

"Inizierei con un'unica citazione, di cui tra l'altro non ricordo la fonte. Si tratta di Manzoni ma non ricordo più se è la Storia della Colonna Infame o altro, scusatemi, che dice: "Non c'è niente di più facile che un argomento semplice e disadorno per confondere gli ignoranti".
Ecco secondo me ben individuato il contrario di quello che è una logica della complessità. Per chi non vuole fare la fatica di capire e per chi fruisce, utilizziamo un termine a cui ormai siamo abituati, dei vantaggi secondari - di una interpretazione semplificata. Questo per dire che le interpretazioni troppo semplici, quelle riassumibili semplicemente in etichetta, non aiutano. E non aiutano non solo le persone coinvolte, ma non aiutano purtroppo nemmeno la comprensione dei fenomeni. Noi sappiamo che c'è un'interazione stretta tra il fenomeno e l'interpretazione del fenomeno. L'interpretazione del fenomeno condiziona il fenomeno stesso, ci interagisce e in qualche modo lo determina.
E quindi prendiamo la tossicodipendenza perché forse è il terreno più fertile di questi luoghi comuni, di falsificazioni scientifiche. Ed è forse facile anche capire perché.
La proposta che vi faccio segue abbastanza fedel­mente la pista scritta (sulla Guida '94), cioè di riuscire a leggere la tossicodipendenza attraverso la falsità di alcu­ni stereotipi che passano per scientifici. Cerchiamo di guardare un po' oltre lo stereotipo e vediamo quanto in realtà la parte non stia assolutamente per il tutto.

Gli stereotipi pseudo-scientifici: II "drogato"

Comincerei subito dal primo, che è lo stereotipo del drogato. Nelle grandi città ogni tanto incontro una figura, prima che il treno parta, che sale sul vagone dei treni, che mi chiede i soldi per un biglietto che in realtà non comprerà mai. E' la stessa figura che dorme nei dormitori pubblici della città, è la stessa figura che magari fa concorrenza ad un lavavetri marocchino, il quale vi lava i vetri mentre invece i vetri lui magari non ve li lava. Questo è oggi lo stereotipo del tossicodipendente emar­ginato. Però quanto lo stereotipo del tossicodipendente emarginato coincide con la realtà?
Noi possiamo sostenere che c'è una sovrapposizio­ne che non supera certamente il 5-7%. La tossicodipendenza - così come in genere viene raffigurata, con elementi pesanti di emarginazione - non rappresenta certamente più la tossicodipendenza stessa. Voi sapete che i tossico­dipendenti censiti sono circa 100.000 in Italia, tra quelli che sono conosciuti direttamente dai servizi pubblici, e i 16.000 stimati dalle comunità. Su quanti presunti? E' molto difficile fare una stima della tossicodipendenza sommersa. Noi qualche indicatore lo abbiamo. Non ci fidiamo più delle vecchie formule che dicevano: "moltiplichiamo gli ufficiali per tre e abbiamo il presunto". In realtà sono emersi purtroppo altri indicatori. Indicatori che ci giungono dalla città di Torino e dalla città di Roma, in cui una analoga rilevazione dà analoghi risultati. Il 48% degli episodi di "overdose fausta", cioè quelli che vengono poi salvati in ospedale dal "Narcan", appartiene a ragazzi che non sono conosciuti dai servizi. Questo ci dà un'idea di quanto alto possa essere il sommerso sulla tossicodipendenza. Un sommerso che non si "iscrive" - per usare le loro parole - ai servizi, che non accetta una logica di recupero, perché non accetta una identità di deviante, non accetta una identità di malato. Grosso modo comunque, da più parti, si ritiene che la tossicodi­pendenza presunta sia intorno alle 300.000-350.000 uni­tà. Chi più chi meno - non producendo un confine netto nella distinzione classica che si fa in letteratura tra tossicomani e "tossicofili" - intendendo per questi ultimi coloro che non sono ancora infognati e vivono una situazione di parziale controllo rispetto all'uso della sostanza.

Il tossico "compatibile"

Se questa non è la verità della tossicodipendenza, se il tossicodipendente a grado spinto di emarginazione è rappresentativo sicuramente di meno del 10% della tos­sicodipendenza, di molto meno, la realtà della tossicodi­pendenza da che cosa è rappresentata? Molti ormai convergono nel sottolineare che la realtà più tipica della tossicodipendenza è data da situazioni di assoluta compatibilità. Cosa vuoi dire compatibilità? Vuoi dire compatibilità con lo stare a casa, con la famiglia di origine, ma anche con la famiglia acquisita; compatibili­tà con un lavoro e quindi neanche tanto un lavoro precario ma molto spesso un lavoro retribuito; compatibilità a volte anche con il mantenimento delle "buone compa­gnie". E la tossicodipendenza è giocata tutta in termini clandestini.
Alcuni di questi ragazzi vanno a comprare la roba per procura, cioè ci mandano gli altri che in piazza sono più scoperti, in cambio della cessione di parte della dose. Quindi la difficoltà sta in un continuo lavoro di spola tra una identità ufficiale da "bravo ragazzo" e una identità clandestina di tossicodipendente. Sono ragazzi che arri­vano al servizio non dico con la valigetta da executive ma che fanno lavori assolutamente normali: impiegati di banca, agenti di cambio, e così via. Assolutamente insospettabili, assolutamente irriconoscibili, come tossi­codipendenti, lungo le strade.
Certo, la compatibilità non si mantiene per lunghissimi periodi, anche se ormai è provato che sono compatibilità che durano una serie di anni. Non sono casi limite, ma famiglie che non si accorgono che il proprio figlio è tossicodipendente rie­scono a non vedere il problema anche per 5-6-7 anni. Sono elementi di negazione, "fa male", per cui si fermano magari alle prime mezze scuse che i ragazzi inventano. Un classico è quando la madre infila, per riassettare, la mano nella tasca del giubbotto e ci trova la siringa o la polvere. La risposta sarà: "Sì, sai mi facevo, però adesso ho smesso. E' la siringa di un mio amico...". E' evidente che sono bugie ma la mamma che non vuol vedere ci crede.
Anche sul lavoro, per esempio, tra qualche ritardo, qualche assenza in più, qualche pausa durata un po' più a lungo in cui si esce magari per procurarsi la dose, questo lavoro viene comunque mantenuto perché la produzione c'è ed e rispettata e anzi molto spesso chi assume delle sostanze è funzionale al mantenimento della produzione.

Tossicodipendenze "dell'età di mezzo"

Però stiamo andando anche un po' più in là della stessa compatibilità. Nuovi quadri di tossicodipendente si affacciano all'orizzonte e credo che forse il più signi­ficativo in questa direzione sono le cosiddette tossicodipendenze dell'"età di mezzo", chiamiamole, così. Guar­date, non sono i ragazzi che nei servizi si chiamano "storici" (quelli che gli vogliono bene, gli operatori che gli vogliono un po' meno bene li chiamano "cronici") che ormai hanno 40-45 anni (io ne ho uno nel mio servizio di 51 anni che non ha grandi problemi, non si è preso l'Aids, ha un'epatite che per fortuna non è cronica, ha 51 anni ed è esattamente un adolescente protratto, che vive a casa con sua mamma di 82 anni, non ha mai lavorato, è passato in qualche comunità, passa da periodi di dimissioni a periodi in cui si rinfogna, la sua preoccupazione princi­pale è non farsi ritirare la patente dalla Prefettura. Infatti quando era terrorizzato perché dicevano che in Prefettura, facevano l'esame del capello, me lo son visto arrivare in accoglienza completamente rasato, non pensando che in realtà potevano essere altre le possibilità di recuperare quello che si doveva misurare...). Questo per dirvi che la compatibilità è veramente estesa, e tra i tossicodipenden­ti "tardivi" noi non andiamo a vedere chi ha cominciato a 20 anni e adesso ne ha 40. Andiamo a vedere chi ha cominciato a 35-38, chi ha cominciato dopo i 30.
Capita sempre più spesso, non solo nel privato-sociale ma anche nei servizi, che viene in maniera classica la coppia madre e figlia. Lo stupore sta nel vedere che là tossicodipendente non è la figlia ma è la madre, ed è la figlia che fa da madre a sua madre. Classicamente chiede la comunità per la mamma. E' ovvio che poi si pongono dei problemi di tipo riabilitativo: che scelte fare ecc. Sempre in questa direzione, la tossicodipendenza molto spesso va a coprire tutta una serie di disagi diffusi e anche impensabili, di difficoltà, di sofferenze. Ultima­mente noi abbiamo avuto un sordo-muto, un cieco e un disabile che si fa. Non so fino a che punto questa è una tendenza, però sicuramente esprime che la tossicodipen­denza sta diventando un imbuto di tutta una serie di disagi che trova nel farsi una sorta di illusoria autoterapia.

Secondo stereotipo: tossicodipendente = delinquente

Un secondo stereotipo da buttare è quello del tossicodipendente uguale a delinquente. Come se tutti i tossicodipendenti fossero obbligati a una carriera comu­ne. E' vero, sicuramente c'è una fase della tossicodipen­denza in cui l'uno diventa in qualche modo la fotocopia degli altri: tutti imparano a mentire, tutti imparano ad essere dei bravi manipolatori, tutti imparano una serie di adattamenti che la situazione di tossicodipendenza ri­chiede. Però non bisogna fare l'errore di pensare che la carriera del tossicomane sia uguale per tutti, anzi sono molto diversificate.
Infatti i dati, anche alti, della carcerazione di tossi­codipendenti nelle prigioni italiane ci dicono che comun­que non siamo, per fortuna, neanche ad un terzo dei tossicodipendenti censiti. Quindi vuoi dire che i due terzi della tossicodipendenza non incappano in gravi problemi giudiziari che portano in prigione. Questo non solo ci rinforza in una analisi e un fare i conti con la tossicodi­pendenza che ha a che fare con il problema della com­patibilità, ma ci dice anche che i problemi riabilitativi oggi si pongono molto spesso ad altri livelli che non siano le ultime soglie dell'emarginazione. Sul lato della domanda i comportamenti non sono infatti per nulla omologati.

"Ora questa la distribuisco io"

Abbiamo tutti presente la grande mutazione sul lato dell'offerta che si è avuta a metà circa degli anni '70 (...). Sicuramente la prima generazione di tossicodipendenti erano quelli che in qualche modo se la procuravano da soli, si facevano anche dei lunghi viaggi, magari in Estremo Oriente, se la portavano a casa, la dividevano con gli amici, e durava per un po' finché un altro partiva. Sapete che tutto questo è finito nella metà degli anni '70 quando qualcuno all'aereoporto gli ha detto: "questa la distribuisco io", cioè le grandi organizzazioni criminali si sono impadronite del mercato. Da allora abbiamo avuto una massificazione del prodotto. L'eroina è diven­tata un prodotto di massa. Eroina pura, in ciascuna confezione, ce n'è molto poca: i tossicologi ci dicono che siamo intorno al 4-5%; quando gira una partita buona e quindi a rischio di overdose per alcuni ragazzi siamo già intorno all''8-10%. Tutto il resto è taglio: quando va bene mannite, borotalco; quando va male è qualche cosa grattata dai muri che sembra farina bianca e che da anche un po' l'idea di quelli che sono i rischi di infezione da sostanze da taglio che intercorrono.
La mutazione che si è avuta sul piano dell'offerta ha portato una mutazione sul piano della domanda, nel senso che se il prodotto si è impoverito ed è diventato di massa, il prezzo si è anche abbassato, gli acquirenti son stati tanti e le storie si sono per forza diversificate. In breve, sostan­zialmente non bisogna pensare che tutti i ragazzi rubano: tra ,chi ruba bisogna distinguere chi ruba in casa e non si sognerebbe mai di andare fuori perché questi rischi non se li prende, e chi invece ruba fuori ma non lo fa in casa perché rimangono dei codici di lealtà nei confronti della famiglia. E così chi spaccia: c'è chi spaccia e chi non spaccia. C"è chi spaccia eroina e chi invece spaccia fumo. Sono questi indizi estremamente importanti da un punto di vista riabi­litativo perché consentono poi di capire dove stanno le risorse e dove invece le risorse non stanno. Non so. sensorio stato chiaro su questo secondo aspetto: tossicodipendenza non necessariamente uguale a delinquenza, non necessariamente uguale a carriera deviante.

Terzo stereotipo: "droga leggera: ergo, droga pesante"

Terzo stereotipo da demolire, forse quello su cui e 'è meno da lavorare in questa sede, e che però è persistente nella testa di molte famiglie. Molte mamme che vengono all'assemblea della scuola ti dicono: "La droga leggera è l'anticamera della droga pesante".
Noi sappiamo che non c'è assolutamente un rappor­to causa-effetto. Noi sappiamo che in realtà tutti coloro che hanno fatto uso di droga pesante, quasi tutti, al 99%, hanno fatto anche uso di droghe leggere; però sappiamo benissimo che non vale il rapporto inverso; cioè quelli che fanno uso di droghe leggere non fanno poi uso di droghe pesanti.
E' molto difficile stimare, da un punto di vista epidemiologico, il numero degli spinellatori in Italia. Qualcuno si avventura, ma qui il numero è davvero da prendere con le pinze. Qualcuno dice circa 3 milioni. Sappiamo che il maggior uso che ne viene fatto è un uso ricreativo, di tipo gruppale, quindi da tempo libero, soprattutto il sabato e la domenica. Sappiamo che una piccolissima parte, in proporzione, sviluppa dipendenza psicologica da fumo e quindi ha atteggiamenti estraneati ed ha bisogno non solo della canna con gli amici ogni tanto ma di 4-5-6-8 canne al giorno. Sicuramente è tra costoro che ci sono le candidature per il passaggio nei confronti della droga pesante.
E quindi il rapporto non è un rapporto causa-effetto ma un rapporto probabilistico, dove dentro, come fattori indicatori di rischi ci stanno l'avvicinamento culturale all'uso delle sostanze, la contiguità dei mercati clandesti­ni, lo sballo al di fuori di logiche di tipo gruppale e ricreativo, il bisogno di allontanarsi.dai problemi perso­nali e relazionali non risolti, la mancanza di interessi e di impegni antagonisti, uno stile di vita progressivamente più marginale e quindi in qualche modo più simile allo stile di vita dell'eroinomane pur non facendo uso di droghe pesanti.    

L'eroina nei lecca-lecca e nelle figurine

Come si diventa tossicodipendenti?
Anche qui è necessaria tutta una serie di chiarezze sugli abbagli e anche sulle illusioni dei genitori. Un'altra .credenza dei genitori che affollano le assemblee della scuola, è che pensano che ci possa essere lo spacciatore davanti alle scuole che in qualche modo ti vende l'eroina, magari camuffata non proprio nel lecca-lecca ma nelle figurine dei calciatori così che quando incolli la figurina di Baggio rimani allucinato perché in realtà era nascosta l'eroina dietro. Le mamme portano purtroppo questi argomenti e bisogna un po' farci i conti.
Se fosse così sarebbe tutto molto più semplice, perché veramente basterebbero due cani poliziotto ben addestrati. Purtroppo non è così: non si è circuiti nel diventare tossicodipendenti ma si diventa tossici per via amicale. Sono gli amici che ti propongono le sostanze e-sicuramente dei tre elementi su cui converge la tossicodipendenza in genere si dice: una persona con la sua storia, una sostanza con i suoi effetti, una situazione che colleghi questa persona con questa storia con quella sostanza ed i suoi effetti. Quindi un certo giro in un quartiere per una sostanza, sarà una discoteca per un ' altra sostanza. Dunque, è una situazione con un momento aggregativo, quindi connotato da alcune caratteristiche culturali molto precise, che fa da ponte tra la persona e la sostanza stessa.

Non è un estraneo. E' un volto...

Si diventa tossicodipendenti per via amicale e la marcia di avvicinamento alla tossicodipendenza, il pro­cesso di acculturazione, di accostamento richiede anche anni. Ci sono alcune resistenze banali, tipo ficcarsi un ago in vena che non fa piacere a nessuno, alcune idee tipo "di tossicodipendenza si muore", oppure "chi sono questi strani personaggi?"...
In realtà, se è vero ciò che ci-dicono gli epidemiologi oggi - cioè che vedendo il rapporto tossicodipendenza-popolazione in un grande condominio in cui ci sono 60-70 appartamenti, in un grande quartiere, sì considera che lì un tossicodipendente circola -allora la persona che si fa non è più l'estraneo, ma è il compagno di scuola, è quello che conoscevi nelle elementari, nelle medie e che poi si è perso nel corso dell'iter scolastico... Però non è un estraneo, è un volto; e tu lo conosci per la persona che è e non in quanto tossicodipendente. Poi magari non lo vedi sempre abbioccato con la testa china come se fosse sempre fatto, e tra l'altro la tua esperienza ti dice che per fortuna non si muore così spesso di overdose come dicono i giornali. Sapete che gli ultimi dati per le morti di overdose dicono che siamo sotto i mille all'anno e purtroppo il 1992 è stato l'anno di un tristissimo sorpas­so, nel senso che in quell'anno lì sono morti di più i tossicodipendenti per Aids che non per overdose. Poi è vero, bisogna considerare anche le morti correlate, -le morti per incidenti che non compaiono nelle statistiche però per fortuna, dal punto di vista epidemiologico, la tossicodipendenza è sì causa mortale ma non così, alta come per altri fenomeni, tra cui ad esempio l'alcolismo. E' vero che si muore a vent'anni, magari in un sottopassaggio alla stazione, in un bagno pubblico e quindi è una morte che impressiona.

Quel doppio 70 per cento...

Quindi si diventa tossicodipendenti per via amica­le. C'è un bellissimo saggio di Beker (che fino a poco tempo fa faceva il sociologo e adesso abbiamo scoperto, quando abbiamo tentato di invitarlo in Italia, che fa il critico d'arte e non si interessa più di questi problemi…): lui aveva scritto un saggio dal titolo "Come si diventa, fumatori di marjuana", in cui diceva semplicemente che anche per diventare fumatori di marijuana il processo richiede perlomeno tre passaggi, e un gruppo in cui c'è un attore e dei co-protagonisti. Lui dice: banalmente, biso­gna imparare una tecnica, bisogna imparare a percepire gli effetti, e bisogna - terzo passaggio - definire quegli effetti percepiti come effetti godibili che si vogliono ottenere. Per fare tutto questo ci vuole qualcuno che ti sostenga in questo processo, che ti accompagni, ed è una persona che ti sei scelto tu e quindi una persona dal volto amico con cui hai deciso comunque di passare quantomeno quella sera.
Se questa è la situazione, dietro ci stanno anche dei vuoti di tipo strutturale. Io resto sempre molto colpito dalla coincidenza statistica di un doppio 70%, che è il 70% di quello che potremmo definire (anche qui usiamo un gergo tanto per essere chiari) lo "zoccolo duro" della tossicodipendenza. Il primo è il 70% dei ragazzi che popolano i carceri minorili che non ha un diploma di scuola media inferiore. O per processi accorciati, nel senso che ha evaso l'obbligo in prima media e poi, diventato un po' più grande, c'è stata una separazione oserei dire consensuale tra lui e la scuola; oppure per processi di allungamento del percorso: bocciato una volta in primo, un'altra volta in seconda, è arrivato fuori dall'obbligo scolastico e non ha preso il diploma di scuola media.
Questi sono una minoranza, sono quelli candidati in qualche modo a rientrare di più nella piccola percen­tuale che è rappresentata dallo stereotipo. La maggioran­za oggi è l'altro 70%: di nuovo qui l'indicatore è un indicatore di insuccesso scolastico, che ci dice che il 70% dei ragazzi che vanno ai Sert o in comunità non ha diploma di scuola media superiore, che c'è stato un fallimento soprattutto nel biennio della scuola superiore, con tentativi poi di recupero, con iscrizione in un'altra classe, cambiando ordine di scuola.

Si sta sempre più fuori

E' difficile non tanto mollare la scuola, ma le aspettative che i tuoi genitori hanno sulla scuola: la vera contrattazione dura è rispetto alla famiglia, per uscire dalla scuola. Bè, alla fine del secondo anno hai deciso di abbandonare. Se noi andiamo a vedere i grafici dell'ab­bandono scolastico, è tipico vedere che le due punte massime sono una dopo le vacanze di Natale, in cui i ragazzi si accorgono quanto si sta bene a casa e non vogliono tornare a scuola e la seconda è a marzo quando ti puoi ritirare senza apparire per la seconda, terza volta "respinto", scritto grosso sul tabellone. Sappiamo che non vale più quello che si diceva una volta: se non vai a scuola, vai a lavorare, ammesso che sia ancora valido come paradigma di per sé. Non stiamo a fare l'analisi su quello che manca, sull'offerta di lavoro dignitoso per i ragazzi che hanno tra i 14 e i 18 anni. Però andiamo a definire i ragazzi tra l'età del diploma di scuola media e l'età del servizio militare per i maschi: invece di essere gli anni della formazione, quelli tra i 14 e i 18 diventano invece gli anni dell'inconcludenza più totale. In quegli anni non si porta a casa proprio nulla: non si porta a casa un diploma, non si porta a casa una formazione reale, non si porta a casa una busta che magari dica"io non studio più, però con questi soldi ci studia mio fratello" quindi con l'evidente scontato riflesso di identità, come proces­so di interazione sociale che questo potrebbe offrire. Quindi l'alternativa qual è? Che essendo tra l'altro il più grandicello e dovendo chiedere anche tu le trenta mila lire per uscire il sabato e la domenica e fare quello che fanno i tuoi amici, richiederle diventa un po' meno sostenibile perché la risposta è: "ma in cambio che cosa porti?".
Allora l'alternativa è: si sta sempre più fuori. Nel­l'età in cui la verità su te stesso la cerchi nel rapporto con i compagni, certamente non più in famiglia, fuori chi trovi? Trovi solo la tua fotocopia, chi ha fatto il tuo identico percorso di espulsione scolastica. Mancano que­sti benedetti contenitori; parola orrenda, che però da chiara l'idea di quello che è l'esercizio per voler raggiun­gere l'obiettivo datosi, per quanto fittizio, però social­mente condiviso: la scuola e il lavoro. L'alternativa diventano i bar, le solite video-giochi, i giardini quando il tempo fa bello. E quindi, capite, si tratta di come ammazzare il tempo: la dimensione principale diventa la noia. E allora tutti i meccanismi di situazione sono quelli che poi si innestano tra una persona con le sue difficoltà e una sostanza con i suoi effetti.
Ecco, non so se è un quadro che riesco a dipingere, anche se a brevi linee, però forse vi risulta significativo.
Si diventa tossicodipendenti così, non per fenomeni diversi da queste storie di ordinaria normalità.

Lo stereotipo "disintossicazione"

Ecco qui bisogna farla finita con la supposta centra­lità della disassuefazione come momento di uscita dalla tossicodipendenza. La definizione di tossicodipendenza dell'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, è molto chiara su questo: al di là del fatto che definisca la tossicodipendenza una malattia - e si può anche non essere d'accordo (noi preferiamo dire: uno stile di vita che può comportare alcune malattie correlate all'uso delle sostanze) - il punto principale è nel definire la caratteristica principale della tossicodipendenza.
Loro, dicono: è una malattia che ha come caratteri­stica principale la recidiva, la cui caratteristica principale è la ricaduta. Il vero problema non è disintossicarsi. Il vero problema è: una volta disintossicati, non ricaderci. Dei ragazzi che hanno fatto 50-100-150 disintossicazioni durante il periodo di recupero formale, informale, io me ne ricordo, uno che era obbligato a disintossicarsi tutte le estati perché i genitori venivano per l'appunto da queste parti, facevano i classici due mesi di vacanza, prendeva­no la roulotte e se lo portavano via. E lui dice: e io cosa facevo? Mi piazzavo quattro giorni sulla sdraio, non mi muovevo di lì, sudavo come un turco, dicevo che ero al sole, e quei quattro giorni mi bastavano per uscire da sintomi più grossi. Poi è vero che ci sono alcuni sintomi che sono più fastidiosi, che durano nel tempo tipo l'in­sonnia che ti sconvolge i ritmi del dormire, per cui la giornata è sempre più difficile, il nervosismo sale e così via. Però il problema non è la disintossicazione.

Peli dritti, io non ne ho mai visti

Io lavoro ormai da 12-13 anni in questo campo, e posso dire che quello che è scritto in letteratura - che  quando sei disintossicato ti vengono i peli dritti - io francamente non li ho mai visti. Questo è anche dovuto alle mutazioni sul mercato. Sicuramente la percentuale povera di eroina pura, da questo punto di vista, non intossica molto i ragazzi e i rischi sono altri. Ma era per dirvi che il reale problema è non ricaderci.
E quindi la ripetitività di questa esperienza, la cronicizzazione di queste situazioni. Dove gli aspetti distruttivi sono sì legati all'uso della sostanza (a volta basta guardagli i denti in bocca), ma anche alle pratiche correlate all'uso della sostanza e agli stili di vita correlati alle pratiche d'uso della sostanza. Molti danni derivano anche da lì. Quindi il tossicodipendente né come vittima sacrificale, né come prototipo del carnefice di questa società, né come grande manipolatore, ma semplicemen­te come risultato di un processo interattivo tra;
- difficoltà, neanche a volte tanto più pesanti di altri;
- opportunità mancate o bruciate;
- riferimenti affettivi (ci possiamo mettere gli ag­gettivi che più riteniamo opportuni) deboli, rigidi, pro­blematici; offerta ed esposizione alla sostanza.
Questi sono gli elementi sufficienti per fare un cocktail che se lo bevi fa male.
Sempre tenendo presente che, al di là di ogni posizione giustificazionista o colpevolizzante, noi dicia­mo che la tossicodipendenza è sempre una scelta. Non so se sono viziato nel dirvi questo dalla mia posizione di operatore, per cui sono costretto a valorizzare al massimo la soggettività; però nel momento in cui dico ai ragazzi: guarda, tu come hai scelto di farti - e quindi in qualche modo gli restituisco una dignità, una responsabilità - tu puoi scegliere di smettere. E quindi riportando il discorso su una soggettività e sulla possibilità di scelta.

La comunità: la "soluzione"

Altro stereotipo molto di moda in questo periodo, anzi forse in questo periodo leggermente meno, è: la comunità come la soluzione.
Bisogna andare ih comunità perché solo la comuni­tà ti guarisce. E' evidente che nessuna comunità può rilasciare un certificato di garanzia, a 5 a 7 a 10 anni dalla cura. Il rischio di questa idea sicuramente è dovuto al fatto che la comunità è uno strumento molto importante, ci si investe un sacco per un anno, 18 mesi e a volte anche due anni, 24 ore su 24, uno staff di operatori che lavora con te. E' uno strumento forte, come si usa dire.
Le comunità sicuramente hanno riaperto le porte alla speranza, hanno dimostrato forse per prime all'inizio, nell'assenza anche degli interventi pubblici, prima ancora della L.165, il carcere, l'ospedale psichiatrico, che dalla tossicodipendenza si può uscire. Con una scommessa educativa, principalmente, e quindi con un ruolo pionieristico. Di qui si è fatto un salto. Negli anni ' 80 le comunità hanno subito un effetto di enfatizzazione, hanno recepito forse con un po' di presunzione la delega sociale, la comunità è stata vista come luogo di riparazio­ne, quasi fosse una officina meccanica dove ripari il pezzo e lo restituisci al mittente. Le comunità si sono così ampliate a dismisura in due direzioni, e non solo in numero.

In aumento del 135 % in 4 anni

C'è un dato impressionante: pare che dal 1990 al 1994 le comunità siano aumentate del 135%, rispetto ad un aumento dei servizi pubblici che solo nell'ultimo periodo, andando a regime, sono diventati a pieno orga­nico. Ma l'altro dato è l'aumento in numero di ospitalità che ogni singola comunità fa. Allora lasciamo perdere l'eccezione, San Patrignano con le sue 2.000 persone, che rimane un caso atipico nel contesto nazionale ed europeo. Quello che impressiona è che ci siano oggi comunità con 50, 70, 100, 150 persone dove la difficoltà è l'individuazione del trattamento. Come dire: la cura è la comunità, tu devi entrare in questa cura. E il contrario di ogni personalizzazione e di ogni individualizzazione dell'intervento. E' come se io dovessi comprarmi una giacca, vado al supermercato e vendono solo le taglie 50, quindi se voglio quella giacca devo prendere 50, e se mi sta bene un 48, un 52, ecc... mi devo adattare. E' quello che le comunità oggi stanno facendo, ma devono fare un processo inverso!
Quindi in qualche modo anche il decreto, qui in parte criticato per alcune rigidità anche eccessive, in realtà quello che tenta di fare è di dividere le grosse comunità per moduli di 20 - 25 persone, per ristabilire delle unità educative in modo che ci si possa riappropriare di un discorso di individualizzazione.

Chi valuta?

E infine la cultura della valutazione. (...) Molto spesso si è andati ai congressi internazionali, dove gli stranieri, che magari facevano esperienze piccole di tipo ambulatoriale, dicevano: ci siamo dati questo obiettivo limitato, dopo un anno è successo questo, dopo due anni quest'altro... Dall'Italia si arrivava a questi tavoli dicen­do: io ne ho salvati 1.500, io ne ho salvati 2.000. Dove però dietro il termine "salvati" non si capiva effettiva­mente che cosa c'era, se non la presenza, nel periodo, in comunità.
Oggi cominciamo ad avere dei dati. Si sta aprendo una cultura della valutazione e quello che è significativo è che rispetto ai risultati ci si deve in qualche modo misurare. Quello che sta emergendo è che c'è un 50% di drop-out che avviene prima del sesto mese di comunità. Sicuramente il 50% degli utenti di una comunità non arriva a trascorrere un anno in comunità. Anche qui poi bisogna distinguere perché è diverso tra chi va via dopo un giorno, due giorni, tre mesi e chi se ne va via intorno al settimo, ottavo, decimo mese. Infatti in letteratura si distingue. E infatti li chiamano "self-terminators".

Il termine ci suona un po' strano ma vuoi dire coloro che decidono anche qui una separazione consensuale dalla comunità. Se ne vanno via dalla comunità, non terminano il programma, però quello che è significativo è che gli studi sulla ricaduta tra questi gruppi e quelli che termina­no la comunità prima. ma non troppo prima (cioè che dicono: io la comunità ho fatta, mi è servita, ritengo che per me sia sufficiente), e tra/quelli che vengono poi -sempre per restare nel gergó Ceis - "graduate", vengono diplomati dalla comunità; sembra che il rischio di ricadu­ta sia identico. Mentre ovviamente è molto più alto per il drop-out. Quindi una. cultura della valutazione si sta facendo strada ed è importante.

Servizio pubblico contro privato-sociale?

Altro pregiudizio: la cultura, di cui a volte anche gli organi di informazione, sono portatori, che contrappone il servizio pubblico a quello del privato-sociale. Si contrap­pongono gli insuccessi del pubblico rispetto a ipotetici successi del privato-sociale. Qui è bene ricordare che le due linee di partenza da cui partono appunto i diversi interventi sono due linee diverse, cioè non si è sulla stessa linea di partenza. Il ragazzo che sceglie di venire in comunità, sceglie di cambiare, non fa una semplice richiesta di aiuto. Il ragazzo che arriva in un Sert dice: sto male, non ce la faccio più, datemi una mano; però non ha presente nessuna intenzione di andare in comunità.
C'è una serie di studi: che dicono che tra l'approdo al primo buco e la richiesta di aiuto ci sia una latenza di tre anni o quattro, variabile naturalmente, valido come dato indicativo. Il secondo dato è che tra la richiesta di aiuto e la richiesta di una comunità comunemente passi­no due anni, due anni e mezzo. Quindi son dei percorsi su cui ci sono gli operatori che costruiscono. In questo senso le linee di partenza non ;sono le stesse. L'"utenza" che arriva in comunità non è la stessa che in qualche modo arriva al Sert. Altri sono/anche i percorsi terapeutici, non ultimo anche quello della:tutela della salute.
A che serve la contrapposizione? A chi giova? Sicuramente ci sono.degli effetti di ricaduta di questa contrapposizione tra pubblico e privato. Noi diciamo invece che c'è una necessità di integrazione non solo consecutiva (prima l'approccio, l'accostamento, l'ag­gancio da parte del servizio pubblico, la maturazione di una domanda più consapevole, la decisione dell'ingresso in una comunità), ma l'integrazione deve essere parallela nel senso che il servizio pubblico e il privato-sociale dovrebbero tutti insieme giocarsi a tutto campo per produrre insieme una offerta di situazioni terapeutiche che copra il vuoto che c'è tra l'ambulatorio, molto spesso il Sert, da una parte, e la comunità dall'altra. Tra l'uno e l'altro c'è un terreno scoperto che invece necessita di tutta una serie di integrazioni.

Il "trattamento" dell'AIDS nell'informazione

C'è un particolare trattamento dell'Aids che pos­siamo definire come il trattamento dell'informazione.
L'informazione sull'Aids è molto più delicata che l'informazione sulla tossicodipendenza, nel senso che l'innesto della sieropositività sulle situazioni di tossicodipendenza ha completamente cambiato le situazioni di tossicodipendenza stesse. Se un ragazzo che si fa da tre o quattro anni non riesce a smettere, in qualche angolo della sua testa c'è sempre l'idea .di dire "ma sì, tanto prima o poi, un giorno passo in quella cruna d'ago della comunità, mi faccio due anni lì dentro e poi tomo a fare il normale". Infatti il grande desiderio dei ragazzi che vengono in comunità è una vita assolutamente normale. A volte ci siamo stupiti di quanto normale la desiderano: un lavoro comune, una casa, stare tranquilli, una famiglia e così via.
Per un ragazzo che diventa sieropositivo, questa idea che un giorno tornerà a fare il normale e smetterà di fare il tossico, non è più così vera. Si sente questa dimensione del tempo che si accorcia. Il tempo diventa soggettivo, non è più il tempo degli altri, sicuramente, tra l'altro, non è più il tempo della burocrazia (abbiamo visto che per certi sussidi, perle pensioni di invalidità, arrivano addirittura post-mortem). C ' è una fretta per cui due anni di comunità sembrano infiniti.
E poi il grande cambiamento per cosa? Che cosa mi succede dopo? Ecco, queste domande che si fanno com­portano problemi di scelta di tipo riabilitativo che sono molto diversi. Aggiungiamo la razionalizzazione e quin­di l'uso dell'alibi che molto spesso i ragazzi tossicodi­pendenti fanno della sieropositività. Dicono: va bene, sono anche sieropositivo, quindi a questo punto continuo a farmi, anzi mi faccio anche di più. Come se la sieropositività fosse una giustificazione che chiude il cerchio.

La diagnosi al medico, la prognosi al giornalista

Allora l'informazione sull'Aids ha una responsabi­lità enorme. Noi usiamo sempre questo slogan) quando andiamo in giro per cercare di far capire il problema: guardate, sull'Aids la diagnosi la fa il medico, ma la prognosi la fanno i mass-media. Nel senso che una volta che tu ricevi la diagnosi di Aids stacchi, rispetto a tutto quello che ti racconta il medico, perché la tua mente comincia a macinare tutto quello che ha letto, sentito dagli amici o in famiglia, sull'Aids. Allora veramente l'Aids diventa una sofferenza aggiuntiva, perché si tradu­ce poi anche in rifiuto. Inutile stare a raccontare i casi dei dentisti: in comunità ultimamente abbiamo mandato alla nostra Usl la pratica per una ragazza, che doveva andare a rifarsi la bocca da uno specialista. Le abbiam detto: di che sei sieropositiva, è corretto dirlo, il dentista lo deve sapere. Lei, istruita bene, molto corretta, glielo ha detto e il risultato è stato: bè, guarda, io forse non ho tutti gli strumenti adatti, vai all'ospedale. Questa è la prassi. (...)
Il rifiuto, l'emarginazione, l'introiezione del senso di colpa, la paura di contagiare (entrano) quindi tra malattia reale e peso aggiuntivo dell'immaginario del­l'Aids che scatena i rapporti sociali. Se io dico che sono sieropositivo e tossicodipendente, V'io sono" sparisce rispetto agli altri due predicati che sono la "sieropositivi­tà" e la "tossicodipendenza". Tu non sei percepito più con il tuo nome e il tuo cognome, tu sei percepito o come un malato o come un tossico e la tua identità rimane come stritolata, come fosse una noce, in queste due ganasce dello schiaccianoci. E allora qui l'informazione diventa fondamentale.
Guardate, è banalissimo trattare ad esempio l'Aids conclamato come se fosse già terminale. Si pensi fino a poco tempo fa la confusione che c'era tra sieropositività e Aids. Oggi a fatica si è riusciti a far chiarezza nella distinzione tra un periodo in cui non sei sintomatico e un periodo in cui sei sintomatico. Oggi questa confusione c'è ad esempio tra conclamazione e terminalità per cui quando si dice "sei conclamato" suona come se fossi terminale. Perché c'è anche confusione in chi fa informa­zione su questo. Noi sappiamo che le aspettative di vita, oggi, di chi entra in Aids conclamato mediamente è di 36 mesi. Quindi tre anni che sono abbondanti per un proget­to di futuro che si può ancora realizzare. Anche se il senso del tempo viene meno.
Allora questo è estremamente importante, nel sen­so che la voglia di futuro, la qualità della vita del tempo che resta, diventano più difficili e inquinate se non vengono sostenute da una informazione sulla realtà scien­tifica e contro i pregiudizi sociali sull'Aids. Oggi è più difficile aprire uria comunità di persone malate di Aids, che non una comunità per tossicodipendenti. Abbiamo fatto un esperimento a Torino: ne abbiamo aperte due. Una, la nostra, senza dire niente, sull'esperienza delle comunità invisibili. Abbiamo detto: prima apriamo poi la gente sentirà, si accorgerà, capisce che non succede niente e accetta. E così è avvenuto. 

La seconda la Caritas cercava un po' più di solidarietà: il prete ha fatto l'errore di dirlo durante la messa. Quella comunità per aprirla ci son voluti altri due anni, prima di riuscire a rimontare una situazione di difficoltà.
L'informazione è estremamente importante, sapen­do che per ogni ragazzo la cronaca sull'Aids diventa la cronaca di una morte annunciata. E quindi bisogna tenere presente che l'informazione sull'Aids ha due effetti di ricaduta molto diversi, cioè i pesi di gravità della stessa informazione sono molto diversi. Un conto è l'infor­mazione che viene recepita da una persona che sieropo­sitiva non è e un conto è invece la stessa informazione che viene recepita da una persona che è sieropositiva. Questo bisogna tenerlo presente in termini di speranze.

La riduzione del danno

Penultima questione: la riduzione del danno.
Il rischio è che ci siano dei fraintendimenti su questo aspetto ed il rischio è che un nuovo nemico si affacci all'orizzonte, quello della riduzione del danno. Come se la cultura della riduzione del danno fosse da contrapporre alla cultura di liberazione dalla tossicodipendenza. Non sono culture antagoniste, ma strettamente integrate. Nel senso che sappiamo benissimo che i ragaz­zi che ce la fanno sono una minoranza, e sappiamo benissimo che i ragazzi che tentano di uscirne, che tentano e non ci riescono, che non trovano gli strumenti o che in una fase particolare non vogliono trovare gli strumenti, sono una maggioranza. Allora bisogna prima tenerli in vita, tutelare la loro salute, fare in modo che non si ammalino in questo periodo: forse così ti danno anche più chances di rapporto riabilitativo dopo.
E quindi non c'è contrapposizione tra queste due culture; questo bisogna farlo capire. E' un problema importante perché se passa invece la contrapposizione tra queste due culture siamo perdenti tutti, in realtà. Perché non è vera la storia, e questo ormai è sperimentato, che ci sia un 'unica terapeutica e questa terapeutica è la comunità. E che l'altra terapeutica sia ridotta a una pre-terapeu-tica per convincere i ragazzi ad andare in comunità.

I dati

Ci sono quelli di una famosissima ricerca fatta sulla costa del Pacifico in America. Dicono che presi 100 tossicodipendenti (ricerca catalmestica, quindi che esa­mina non solo quello che è successo prima, ma anche quello che è successo dopo il trattamento) a distanza di 15 anni sono andati a vedere che cosa è successo. Si tratta di una situazione in America, quindi in un posto lontano da noi, e di una ricerca fatta anni fa, quindi significativa fino a un certo punto, ma i dati dicono che il 30% non ce l'ha fatta, cioè non c'è più, un 30% ce l'ha fatta e un altro 30% è ancora lì, a distanza di 15-20 anni, tra periodi di dimissione e periodi di ricaduta. Questi sono i dati reali. Quindi non ci si deve demoralizzare, non bisogna far venir meno la speranza: un 30% sui numeri che ho detto prima significa su 300.000-350.000 persone, il che non è una bazzeccola. Come quando diciamo: l'8% dei malati di Aids senza fissa dimora; sembra una barzelletta però l'8% di 23.000 malati di Aids ufficiali, conclamati dall'82 ad oggi, di cui meno del 50% ancora vivente oggi, vuoi dire che nelle aree metropolitane i malati di Aids senza fissa dimora che fanno concorrenza agli extracomunitari per cercare un riparo alla sera, sono quasi la maggioranza. Non dico la maggioranza dei dormitori pubblici ma sicuramente una buona fetta.

Le madri-coraggio

Ultima questione, molto spesso rimbalzata anche con enfasi dalla stampa e dalla televisione, è la questione delle madri coraggio.
Partiamo dalle madri coraggio per arrivare al pro­blema della famiglia. Nel senso che le mamme coraggio, dico questo per esperienza personale, non sono le mam­me più forti. Le mamme coraggio sono le mamme più fragili e più deboli, sono quelle che si sono sbattute in casa nel tentare di contenere la tossicodipendenza del figlio, hanno a volte involontariamente colluso con la stessa tossicodipendenza per tanto tempo; non ce l'han fatta più e quindi passano da un estremo di protezione a un estremo di dire: basta, non ce la faccio più, delego qualcun'altro.
E qui c'è quello che in psicologia si chiama "acting" - (fare un atto che in qualche modo chieda la sostizione). Non sto dando giudizi di valore, nessuno si permettereb­be in queste situazioni di dare giudizi di valore, però quello che dobbiamo sottolineare è la fatica lunghissima che molto spesso fanno le famiglie per trasformarsi da parziale con-causa del problema, ammesso che lo siano, in risorse. Questo richiede un lunghissimo percorso, in cui devono essere capaci di mettersi in discussione altrettanto quanto si mettono in discussione i figli, il che è un percorso molto impegnativo.

I genitori che si mettono in gioco

Fra i genitori che comunque si sono messi in gioco, noi abbiamo degli splendidi esempi di solidarietà. Alcuni che dicono: "Mah, io non so se sono cambiato tanto, forse è cambiato più mio figlio di quanto siam cambiati noi". Sono arrivati addirittura, al momento del rientro dalle comunità (io ho fatto questa esperienza terapeutica), a dire di non essere cambiati a sufficienza e proporre di fare lo scambio dei figli: forse è meglio che mio figlio vada nella tua famiglia e l'altro venga nella mia. Per persone che magari hanno investito unicamente sui figli, in cui il rapporto tra genitori invece non contava più, arrivare a, soluzioni di questo tipo... sono soluzioni molto alte, no?
Noi abbiamo i gruppi di auto-aiuto che facciamo alla sera a Torino, dove arrivano da Vercelli, da Asti, da Cuneo, si fanno i chilometri, tornano a casa tardi la sera, si mettono in gioco. Qui il tentativo è: perché non cerchiamo di fare magari una piccola percentuale di questo lavoro in termini invece educativi e preventivi?
Perché non utilizziamo le scuole per riflettere da parte dei genitori sulle loro difficoltà educative? Perché non si riappropriano delle scuole, luogo educativo per eccellen­za, dove si possono incontrare per cominciare a sviluppa­re, non dico una volta alla settimana, magari una volta al mese, incontri in cui si mettono in discussione.

Il metodo indiziario

Potrei raccontare tanti begli episodi che ci danno delle indicazioni in questo senso, di difficoltà di comunicazione tra genitori e figli. Vi racconto solo questa poi chiudo. Di una ragazza, in un istituto superiore a cui si diceva: quali sono le cose che ti danno più fastidio dei tuoi genitori? E lei diceva: quando mia mamma torna a casa dal lavoro, lei rientra alle 17, la cosa che mi da più fastidio è che apre la porta mi saluta, e poi la prima cosa che fa, va a mettere la mano sul televisore per vedere se è caldo, per vedere se io prima ho guardato la televisione o ho fatto i compiti. E poi mi chiede: hai fatto i compiti oggi?
A noi sembra una banalità, però se vogliamo utiliz­zare il metodo indiziario, che poi purtroppo è simile a quello dei giudici, l'unico che molto spesso ci rimane tra le mani, ci da l'idea di quelli che sono i piccoli episodi educativi cui bisogna riparare in qualche maniera per ristabilire dei circuiti di comunicazione. Perché oggi non siamo più al tempo di Freud, che si parla di trauma come di quell'evento che ti sconvolge la vita, oggi quello che dobbiamo cercare di fare è far fronte ai micro-traumi cumulativi quotidiani, che sono atteggiamenti sbagliati  nei confronti dei figli, che sono svalorizzazioni, che sono atteggiamenti inconsapevolmente punitivi e sono quelli che però giorno dopo giorno continuano a battere sullo stesso punto. E questi forse con un pò  di consapevolezza e anche con un po' di confronto e di aiuto tra i genitori si possono superare."


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.