II Redattore Sociale 10-12 novembre 1995

Redattore Sociale

I Dati

Intervento di Vinicio Albanesi

 

Vinicio Albanesi - presidente del C.N.C.A. e della Comunità di Capodarco*

L'associazionismo

Da alcuni anni sta montando in Italia l'entusiasmo per il volontariato. Fu l'on. Goria, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, a pubblicizzare il fenomeno dei volontari d'Italia, accertati in 4/5 milioni: eravamo nell'estate del 1987. Un trend che non tende a scendere: anzi, man mano che la crisi del welfare state si accentua, proporzionalmente si esalta la funzione dei volontariati.

Per districarsi nelle definizioni e nelle accezioni generiche e ambigue occorre distinguere almeno tre livelli di definizione: quello dell'associazionismo, quello del volontariato, quello del volontariato sociale. Recenti ricerche dicono che gli italiani e le italiane che, in età tra i 18-74 anni, partecipano, in qualche modo, a qualche forma di associazionismo, chiamata area pro-sociale (Iref, 4° rapporto sull'associazionismo sociale, 1993, Cens, Cernusco sul Naviglio, marzo 1993) rappresentano il 35,7% della popolazione italiana, pari a 14 milioni 387mila persone, senza contare le doppie appartenenze.
In questo "tipo" di associazionismo sono comprese tutte le forme possibili che, per facilità di catalogazione, è stato differenziato in associazioni professionali, partitiche, sindacali, sociali, cooperative.
Secondo queste stime dal 1989 ai 1991 c'è stata una crescita di aderenti del + 7,8%, equivalente a 3.272.000 soggetti.

Tra le varie aree di volontariato, quella a più alto tasso di attrazione è quella cosiddetta del sociale. All'associazionismo sociale infatti apparterrebbe il 21% degli italiani (pari a 8 milioni 463 mila persone tra i 18 e i 74 anni).

Approfondendo le "caratteristiche" dell'associazionismo sociale si evidenzia il volto dell'appartenente tipo.
Abita soprattutto al nord del paese, in centri dì media grandezza, spesso maschio, in età compresa tra i 25 e i 45 anni, con titolo di studio medio o medio/superiore, con reddito medio-alto, con forti appartenenze ideologiche, sia religiose che non.
Analizzando ancora gli ambiti dell'impegno sociale, con esclusione dei partiti, della cooperazione e delle associazioni di categoria, prevedendo più appartenenze, si avrebbe la seguente tabella:

 sportiva 30,6
 culturale  18,4
 ricreativa e del tempo libero 16,0
 religiosa 16,0
 socio-sanitaria  15,0
 ecologista  10,2
 socio-assistenziale  6,3
 patriottico-combattistica 5,8
 educativa  1,5
 orientamento e formazione lavoro 1,5
 pacifista      1,0
 coop. terzo mondo     1,0
 per la difesa dei diritti  1,0
 per la difesa dei consumatori  1,0
 altro  7,8

Il volontariato

Se l'associazionismo è così diffuso non necessariamente tutti gli associati partecipano volontaristicamente ad attività associative o extra-associative.
Il concetto di volontario si differenzia quindi da quello dell'associato. Da una relativa recente indagine (1991) i "volontari" italiani sarebbero 5.481.000, con un andamento, negli ultimi anni, così composto: 

 anno    incidenza %   differenze  numero volontari 
 1983  10,7  -  3.260.000
 1985  11,7  + 1,0  4.547.000
 1989  15,4  + 3,7  6.135.000
 1991  13,6  -1,8  5.481.000
Il tempo dedicato settimanalmente ad attività di volontariato è in media di 6 ore alla settimana, che rapportato al numero dei volontari, equivale a 32.886.000 ore lavorate settimanalmente, corrispondenti nell'anno a 1.710.072.000 ore; occorrerebbero 843.000 lavoratori dipendenti per sostituire le ore del volontariato.

All'interno della definizione generica di volontariato è stata fatta una seconda distinzione, tra volontariato civico e volontariato socio-assistenziale. Al primo tipo apparterrebbero le pratiche riguardanti l'educativo religioso, lo sportivo, l'educativo sociale, il politico, il ricreativo, la protezione civile, sindacale, culturale, ecologico, pacifista, di categorie di persone, Terzo mondo, consumatori utenti, orientamento al lavoro.
Al socio-assistenziale le attività riguardanti gli anziani, handicappati, donatori di sangue, ammalati, pronto soccorso, tossicodipendenti, malati mentali, emarginati, immigrati, infanzia.

Gli addetti al volontariato socio-assistenziale sarebbero 2.418.000 persone; di questi 1.400.000 circa dichiara di dedicarsi esclusivamente ad attività socio-assistenziali. Tra questi molti si dedicano ad attività di volontariato individualmente, fuori dagli schemi organizzativi di apposite associazioni.

Il tipo del volontario socio-assistenziale agisce molto da solo (30%), è maggiormente presente nelle aree del centro e del sud; le donne rappresentano la metà dei volontari, sono molto presenti i giovani e gli anziani, meno le classi tra i 35 e i 44 anni; la loro scolarità è elevata (medio-alta e universitaria), gli occupati rappresentano il 65% (con ragguardevole presenza di colletti bianchi); meno presenti le categorie dei lavoratori autonomi liberi professionisti e imprenditori; sono molto religiosi abitanti nei centri di medie proporzioni.

Da altra fonte e con altri metodi di  indagine (Fivol, // volontariato sociale italiano.Giugno 1995) i risultati sul volontariato sociale porta se non a identici risultati a dati molti vicini.
Sono state censite 8893 organizzazioni di volontariato sociale, pari all'85% dell'universo stimabile.
I volontari, secondo questa stima, sarebbero 600-700.000; opererebbero in 36 prestazioni.
La maggior attenzione è data all'animazione socio-culturale (2.493 organismi); all'intrattenimento delle persone in difficoltà (2.243); all'educazione e all'istruzione (2.235); all'assistenza morale e religiosa (2.097); all'accompagnamento (1.948); all'assistenza domiciliare (1.753); all'intervento preventivo (1.725); all'assistenza sociale (1.527).

Una terza indagine, condotta sulle strutture socio-assistenziali con "ispirazione cattolica" (Caritas italiana, Seconda indagine nazionale sui servizi socio-assistenziali collegati con la Chiesa, L.D.C.,' 1992) indicano i volontari impegnati dal 57% dei 4.099 servizi, con 48.801 addetti, per 481.000 persone assistite con 11.073 nuclei. I servizi prevalenti sono per gli anziani, i minori, gli handicappati. In questi servizi la presenza dei volontari sarebbe consistente, anche se non plebiscitaria, poco professionalizzata, utilizzata quasi esclusivamente ai servizi alla persone: presenza prevalentemente individuale.

Il - I SERVIZI

Il quadro politico generale

Negli ultimi quattro anni abbiamo assistito al mutamento radicale del quadro politico in Italia: dagli epigoni della cosiddetta prima Repubblica alla nascita presunta della seconda.
Pur nel cambiamento di Parlamento e di governi (sono stati cinque i Ministri avvicendatisi al Ministero degli Affari sociali), le politiche sociali sono rimaste marginali rispetto ad obiettivi e progetti della politica generale.
E' stata vissuta questa marginalità ("abbandono" è stato chiamato)  sia nei momenti prosperi che nei momenti di crisi economica del paese. La fine degli anni '80 e gli inizi degli anni '90 vanno ricordati per un clima di "smantellamento" non solo di risorse e di servizi ma, cosa più grave, di
qualsiasi "progetto di risposta" nei confronti del disagio.
E' sembrato che in alcuni momenti riprendesse il clima di solidarietà e di "interesse" per la popolazione debole, ma si è trattato di falsi segnali: ci riferiamo alle leggi in materia di tossicodipendenza (L.162/90), alle legge sull'immigrazione (L.39/1990), alla legge quadro sul volontariato (L.266/91), a quella sui primi interventi a favore dei minori a rischio (L.216/91), alla legge sulle disciplina delle cooperative sociali (L.381/91) ed alla legge quadro sull'handicap (L.104/92), in realtà non è difficile rendersi conto di trovarsi di fronte a quello che il Censis ha chiamato "riformismo mancato".
Soltanto oggi possono essere letti quegli "episodi" nella loro reale portata: servivano, di fatto, alla privatizzazione dei servizi.

Le politiche della privatizzazione sono sempre più favorite, vuoi per efficienza, vuoi per risparmio, contribuendo allo smantellamento della rete pubblica dei servizi, là dove esiste. Il ritorno del pietismo, quale risposta ai disagi, gli occhi di tutti, con le varianti degli sponsors e delle campagne di sensibilizzazione televisiva, quasi che i "poveri" non abbiano diritti e siano invece solo possibili destinatari di pietà. I processi di innovazione dei servizi - se non addirittura la loro nascita - sono affidati alle buone volontà di tecnici o di qualche "buon amministratore".
La separatezza tra il sociale (poco o nulla tutelato) e il sanitario gioca sull'incertezza degli interventi, soprattutto in questi settori dove la separatezza è gravemente limitante di interventi risolutori (handicap, salute mentale, tossicodipendenze).
L'incertezza delle professioni non crea riferimenti sicuri per l'approntamento di servizi efficaci ed efficienti.
II Sud, sempre più solo e abbandonato, con la conseguente ristrettezza di risorse e di speranze, si allontana da ogni standard nazionale.

Un dato certo: il rapporto sulle politiche sociali elaborato dal Labos, su iniziativa del Cnel, ha appurato che negli ultimi anni la spesa sociale nel suo complesso è diminuita, passando da 1.569 miliardi nel 1988 a 1.436 miliardi nel 1989. Le Regioni impegnano l'l% dell'intero bilancio regionale per il settore socio-assistenziale. In compenso sono state formulate dalle Regioni dal 1979 ad oggi in questo campo ben 1.164 leggi, di cui 744 al Nord e Centro del paese e 420 nel Sud.

Lo Stato non ha affrontato o lo ha fatto solo formalmente - le vecchie e nuove marginalità che stavano nascendo e crescendo. Ha agito sempre per "urgenze", salvo poi "benedire" il popolo dei volontari, pronti a tamponare falle sempre più vistose.
In questa luce vanno lette le cosiddette leggi sociali come "scatole vuote" (vedi la legge sull'handicap), cosa più grave, come vere e proprie "trappole" burocratiche (ad es. la legislazione sulle cooperative sociali) che invece di allargare e promuovere settori marginali di persone, sono diventate griglie entro le quali è sempre più difficile muoversi, senza i vantaggi dell'efficacia. Recentemente questo quadro si è aggravato: non sono in cantiere nemmeno le leggi-manifesto, leggi che esprimono solo principi. Sta prevalendo uno schema di "appello generico" alla solidarietà che ha la chiara dimensione dell'elemosina e del "buon cuore". L'impronta prevalente è ritornata chiarissima: lasciate che le persone normali lavorino e facciano ripartire l'economia, senza disturbi. Non saranno fatte mancare generosità e attenzione ai più poveri. Un'attenzione e una generosità di vecchio stampo meneghino, con l'offerta di oblazioni, lasciate al buon cuore dei ricchi.
Questo disegno crudele e perverso, in quanto oleato da presunto buon senso e moderazione, riporta indietro di molto tempo l'approccio ai problemi sociali: la dimostrazione lampante è la vicenda delle pensioni e della finanziaria in genere. Per il contenimento del debito pubblico si diventa "efficienti" con chi non ha difese, perché persone "sotto controllo" e "senza potere".
Se volessimo riassumere quasi con uno slogan le forme prevalenti di risposta al disagio, potremmo definire il momento attuale come quello dell'abbandono. In questo scorcio dei primi anni '90, rallentato lo sviluppo economico fino alla recessione, sconfitta la tensione solidale, consolidato lo stile dell'autotutela in termini di lobbies, la tutela dello svantaggiato e sofferente è sempre più spesso trascurata.
La logica della società opulenta (o che almeno vuole rimanere tale) si è fatta terribile: ognuno corre verso la propria sicurezza che ritiene sempre e comunque giusta, essendo materialmente e qualitativamente infinita, calpe­stando, ignorando, correndo, non preoccupandosi di ciò che avviene per chi si ferma, per chi sta male, per chi non tiene il passo: ricorrendo ad un'immagine biblica, l'orfano, la vedova, lo straniero non sono più accolti. Il tutto scandito e ossessivamente spacciato per parità formale: tutti i cittadini hanno uguali diritti. E' prevalente la giustizia commutativa: la difesa di ciò che è proprio. Nessuno si chiede se ciò che ha è troppo, se è giusto, se trascura qualcuno: ieri si chiamava la giustizia del vincitore, oggi può dirsi giustizia dei "diritti acquisiti".
Il nodo centrale che impedisce una forte politica sociale non sono come a volte si dice l'inefficacia delle leggi, l'incapacità della burocrazia o la mancanza delle risorse: il moloc è la richiesta infinita di tutela per i tutelati.

Una delle risposte più adoperate per far fronte al disagio è quella dei contenitori sociali.
Per mezzo del controllo spesso punitivo si fa fronte al disagio stesso. La storia dell'emarginazione, urtroppo, cammina parallela a quella della criminalità, vera o presunta, ieri e anche oggi. E' la risposta dei normali alla devianza.
La distinzione, sottile ma devastante, tra tossicodipendenza e reati connessi ad essa, è esempio recente di come prevalga lo strumento repressivo rispetto a quello riabilitativo: la cosa più grave è la concezione teorica di questa distinzione. Lo stesso soggetto viene contemporaneamente riabilitato e represso.
Altra risposta repressiva, anche se meno appariscente, è il rinascere silenzioso e progressivo delle istituzionalizzazioni totali.
I dati di ricerca recenti dimostrano che, pur in presenza di minor investimento di risorse nel sociale, negli ultimi anni è aumentata la spesa per le istituzionalizzazioni.
La prevenzione diventa una specie di miraggio: più se ne parla, meno viene applicata.
Le risorse, scarse e mal distribuite, non permettono "l'innovazione" della risposta sociale; la prevenzione diventa solo "teoria".

Stiamo avvertendo un secondo pericolo insinuante: il ritorno imperante al pietismo, ripristinato in forme moderne.
La raccolta delle oblazioni è diventato strumento di risposta al bisogno, non soltanto per l'eccezionalità degli eventi, ma addirittura per la ricerca scientifica. Agenzie efficienti, conoscitrici di mass media, organizzano campagne di raccolta fondi per nome e per conto di associazioni che vogliono risolvere "casi pietosi".
La pericolosità di tale forma di risposta non sta nell'appello alla solidarietà, ma nel confermare che esistono due categorie di cittadini: i sani, i forti i potenti che hanno diritti da far rispettare e i deboli, i poveri, i bisognosi che possono "essere soccorsi".

Volendo sintetizzare il percorso di questi anni:

- Una prima fase è contraddistinta dal restringimento di risorse destinate al sociale. n restringimento motivato, nelle leggi finanziarie, da motivi economici: lo Stato non può permettersi economicamente uno stato sociale, in quanto il sociale è praticamente illimitato e quindi insostenibile. Il debito pubblico sta crescendo; esso va ridotto o comunque non ampliato.
- Una seconda fase ha introdotto il concetto molto pericoloso dell'inutilità della pesantezza dell'intervento sociale. Con linguaggi appena mascherati è stata avallata l'ipotesi che incrementare lo stato sociale significava premiare fannulloni e imbroglioni. Non potevano essere penalizzate le persone laboriose e risparmiatrici a vantaggio di chi non ha iniziative,di chi vive sulle spalle degli altri,di chi non ha voglia di lavorare (popolazione del sud, emarginati, falsi invalidi, immigrati, zingari etc.).
La cronaca sta dimostrando che a imbrogliare erano persone "molto normali" (si pensi allo scandalo dei falsi invalidi o alle tangenti nell'esercito).
- Una terza fase ha mostrato il vero volto della manovra non solo economica, ma politica: privilegiare i ricchi a svantaggio dei poveri. Il costo del risanamento del debito pubblico non è proporzionato alle effettive ricchezze, ma va a spremere i più deboli in quanto appunto individualizzabili e ricattabili. La protesta per la mancata approvazione di maggiori sgravi fiscali nella manovra finanziaria da parte delle categorie professionali, di industriali e di artigiani la dice lunga sulle "filosofia" delle leggi economiche. In fondo lo slogan "nessuna nuova tassa" è rivolto a chi nuove tasse dovrebbe pagare.

Crisi profonda

Ma la crisi dello stato sociale ha radici profonde. E' una crisi di democrazia, di relazioni sociali, di concezione della vita collettiva.
Una crisi che si interseca a più livelli.

a) Le istituzioni
E' nota la situazione delle istituzioni; volendo riassumere il quadro istituzionale, visto dal versante dei bisogni, si possono fare queste considerazioni.

- Le istituzioni non solo non rappresentano gli interessi di tutti, ma latitano in senso profondo;
- sono attente solo ed esclusivamente alle emergenze economiche più gravi;
- sono molto concentrate su se stesse con la conseguenza dell'abbandono della "politica" e quindi delle linee programmatiche;
- il quadro politico è logorato fino ad un vero e proprio disfacimento;
- la fase costituente (seconda repubblica) è gravemente compromessa dai problemi che gravano sul presente;
- nessun progetto (sociale) è all'orizzonte, con l'aggravante della mancanza di prospettive;
- il nuovo non emerge o comunque non è ancora definito.
Il male peggiore è che questo logoramento (in alcuni casi un vero e proprio smarrimento: si pensi ai malaffari della sanità) ha bloccato anche la riflessione sulla politica possibile.
A proposito di servizi sociali, non solo si registra un lento deterioramento, ma addirittura nessuno sa oggi indicare quale via di rinnovamento, nemmeno teoricamente.

b) L'amministrazione
Gli apparati amministrativi hanno risentito enormemente del quadro istituzionale negativo o latitante, con due tendenze: il blocco delle responsabilità, l'irrigidimento della burocrazia.
Si accentuano le cosiddette "garanzie" burocratiche, tutte spostate sulla sicurezza dei burocrati, assolutamente sordi alle esigenze dei cittadini e delle loro organizzazioni. Per timore di commettere errori non compiono il loro dovere con la speranza che il non fare li preservi da errore. Contro questo ostracismo è difficile combattere, in quanto è frutto di inefficacia strisciante, sorda, inafferrabile.
L'altra tendenza negativa è il voler definire sempre più rigidamente regole, comportamenti, veri e propri sbarramenti, quasi che la certezza formale delle regole sia sufficiente al buon funzionamento dei servizi.
Il risultato finale è il formarsi di un apparato burocratico che rimane vecchio nell'impostazione e ancora più rigido e formale.

c) Il livello sociale
Senza voler entrare nel dettaglio dell'analisi sociale, il futuro ci riserva grandi scenari, nei quali la problematicità della situazione non riguarda più categorie di persone, ma l'intera fascia di popolazione non abbiente. Nessuna differenza infatti percorrerà le condizioni del disoccupato, dell'anziano o del giovane problematico, accomunati nell'essere soggetti deboli e comunque non tutelati.
Gli scenari sono facilmente prevedibili, anche perché i sintomi della tendenza sono sotto gli occhi di tutti. Ne indichiamo tre significativi:
- l'emergenza anziani;
- l'emergenza immigrati;
- l'emergenza della violenza.

- Gli anziani
Gli anziani nella CEE erano nel 1991 più di sessantotto milioni, pari al 19,1% della popolazione: di questi quasi dodici milioni erano ultraottantenni. L'Italia ha una delle percentuali più alte di popolazione anziana, subito dopo il Belgio e la Gran Bretagna, con una percentuale del 20,6%.
Relazionando i dati della natalità e della mortalità tra 20 anni, nel territorio della CEE si prevede un aumento della popolazione anziana del 30-45%,passando dagli attuali 68 milioni ai 100 milioni, di cui gli ultraottantenni diventerebbero 17-22 milioni.

Già da oggi (vedi l'ultima inchiesta sulla povertà in Italia) si sta evidenziando che tra le categorie più povere una è formata da anziani soli, senza parlare della problematicità (non solo culturale, ma anche economica e politica) degli schieramenti giovani-anziani, forti-deboli, potenti-emarginati, sani-malati etc.

- Gli immigrati
I dati del Ministero dell'Interno davano presenti in Italia al 31.12.1992 778.452 "extracomunitari" con regolare permesso di soggiorno, di cui occupati appena 250.000.
Se si aggiungono i clandestini e le popolazioni migranti dell'est, la popolazione di immigrati è quasi certamente il doppio.
Nel difficile problema delle migrazioni non sono da sottovalutare le prospettive di crescita della popolazione. Le previsioni per i prossimi anni (Fondo Nazioni Unite per la popolazione) parlano di un incremento della popolazione dei dodici paesi della comunità europea di 2 milioni di persone, mentre le popolazioni che si affacciano nel sud del Mediterraneo dovrebbero avere un incremento di 140 milioni di persone.
Più in generale, mentre la popolazione dei paesi sviluppati nel 1950 rappresentava il 32% dell'intera popolazione mondiale, nel 2025 rappresenterà poco più di un 15% della popolazione.
Si comprende bene, almeno nelle linee di tendenza, la portata economica e sociale di questi fenomeni così macroscopici, con la ricaduta sul versante della vivibilità all'interno delle città e dell'Italia in genere.

La violenza
Non minore problematicità suscita il fenomeno della violenza, intesa nelle sue forme truculente e raffinate. Ne sono coinvolti i singoli e le famiglie, gli adulti e i minori, persone marginali e persone potenti, in un crescendo che sembra non risparmiare né gli ambiti della vita sociale, né i territori.
Tra i dati allarmanti, quelli riferentesi alla criminalità minorile e quella della cosiddetta "criminalità organizzata" (crime company). Il trend di crescita delle denuncie dei minori in Italia è allarmante: 24.523 nel 1988, 29.114 nel 1989; 39.714 nel 1990. Né basta a giustificare questa crescita la presenza di minori extracomunitari, soprattutto di origine slava.

Da studi recenti si evince che la criminalità organizzata, negli ultimi anni, ha aggredito illecitamente beni a contenuto lecito, se la prostituzione, il gioco clandestino e il contrabbando hanno rappresento appena il 16% del fatturato: il fatturato complessivo della crime company è stato stimato nel 1990 per l'Italia in più di 15.000 miliardi. Se si aggiungono le ipotesi di intercettazione della criminalità sugli appalti pubblici, insieme a quello del traffico degli stupefacenti e ai reati finanziari, il clima di violenza diventa veramente preoccupante.

L'analisi dei dati aggregati dimostra che dal 1975 al 1985 le attività criminose sono aumentate, in Italia, in percentuale allarmante, con accelerazione del 23% ne! periodo 1980-1985 rispetto ai cinque anni precedenti.

Tra i reati in crescita nel periodo 1980-85: commercio di droga (+ 75%); rapimenti (+ 75%); rapine (+40%); truffe (quasi + 40%); in crescita ugualmente le violenze sessuali (+ 30%), le aggressioni in genere (+ 20%), i furti (+ 20%).

Nel periodo1985-1990 sono cresciuti gli omicidi (un tasso di crescita del 25% annuo), i furti, i furti d"auto (+ 20%) e le aggressioni.
Avendo individuato, da parte degli esperti, un "tasso di criminalità" nel 1975 (1.800 atti illegali ogni 100.000 persone), questo stesso cresceva nel 1980 a quota 3.000, nel 1985 a quota 4.000.
Le stime parlano di un tasso di criminalità nel 2.000 quadruplicato rispetto al 1975.

Nel quadro della violenza non sono da dimenticare prevaricazioni, abbandoni, violenze, omissioni, autolesionismi (le tendenze al suicidio - circa 4.000 casi all'anno in Italia - indicano che l'età a rischio si è attestata intorno alle classi che vanno dai 24 ai 35 anni).

Questi scenari hanno in comune la crescita della solitudine, della sofferenza e dell'abbandono.
Non si tratta più dì categorie di persone, ma di fasce ampie della popolazione coinvolta nella spirale sofferenza/violenza/sofferenza.

Gli stessi rapporti interpersonali stentano a rimanere equilibrati nell'ambito della famiglia, della scuola, del territorio.
L'affanno nel ripristinare equilibri interpersonali è già evidentissimo: se la violenza supera troppo alti livelli, la risposta diventa comunque inadeguata.

d) II livello politico
Un'ultima variabile con la quale il sociale deve fare i conti è la politica, intesa non soltanto nei suoi risultati di espressioni di consenso (i cosiddetti uomini politici), ma come condizione strutturale del consenso stesso. I deboli nella società occidentale italiana sono oramai in minoranza. La maggioranza è benestante, regolare, attenta alla tutela dei propri interessi. La questione centrale del mondo politico è: chi tutela l'interesse dei deboli. La risposta infantile è il desiderio di riuscire rappresentanti attenti agli interessi dei deboli. Infantile perché si ipotizza una maggioranza talmente sciocca o distratta da eleggere persone che non tuteleranno gli interessi degli elettori.

A complicare ulteriormente e drammaticamente la situazione sono lo sfascio, le ruberie, il disprezzo per gli interessi comuni che molte delle forze politiche tradizionali hanno perpetrato contro i cittadini in genere e contro quelli più deboli, incapaci, per definizione, a tutelarsi per mancanza di potere.

Funzioni del volontariato

Le funzioni del volontariato sono sostanzialmente tre:
1) essere sensibile: è l'antenna del territorio. Il volontariato, a differenza delle strutture sia pubbliche che private, ha questa capacità di "sentire l'odore", sente che aria tira. Le storie sono infinite: si pensi a quando Don Luigi Ciotti del gruppo Abele nel '75 fece lo sciopero della fame perché in Italia esisteva una legge sulle tossicodipendenze del 1952, per cui un ragazzino che veniva beccato con un po' di hascish rischiava 24 anni. La sensibilità sta nel dire: sta nascendo un problema. Chi può fare questo? Chi sta sulla strada, chi viaggia a contatto diretto con i problemi. Chi sta nell'ufficio, anche se ha titoli, telefoni, segretaria, probabilmente capisce il problema tardi, quando il fenomeno è già scoppiato.
La domanda del volontariato organizzato, è allora quello di chiedersi: sempre se riesce a capire cosa sta avvenendo sul territorio. Perché se non ti accorgi di quello che sta avvenendo, se dalla frontiera sei passato nelle retrovie, tradisci la prima tua funzione.
Gli esempi sono molti. C'è un disagio psichiatrico di giovani che sta scoppiando: ragazzi e ragazze che a 15 o 16 anni vanno fuori di testa, coinvolgono le famiglie; non esiste nulla sul territorio, per loro inizia disperatamente il lungo iter dei disadattati fino a che !a storia si radica a tal punto da diventare irrisolvibile. La prostituzione di ragazze dell'est è un fenomeno sotto gli occhi di tutti; c'è qualcuno che dice chi sono? Che differenza c'è tra le russe o le ragazzine albanesi? Tra le cecoslovacche o le nigeriane? Chi sono i viados è perché lo fanno? Questo non è comprensibile per chi non va sulla strada di notte. La funzione del volontariato è quella di capire, di comprendere.

La supplenza, fino a che punto?

2) La seconda funzione è quella della supplenza. Per affrontare il problema delle ragazzine albanesi rapite, violentate e costrette alla prostituzione, bisogna prenderle dalla strada, sottrarle alla tratta dei connazionali albanesi. In quel momento è possibile iniziare un percorso che nessuno sa dove finirà.
Cito sempre la mia esperienza di tanti anni fa, quando volendo affrontare il mondo della tossicodipendenza ho passato due anni, tutte le notti, nella piazza di Fermo. Due anni difficili per avere il "passaporto" della notte. La supplenza, dopo l'iniziazione, porta alla strutturazione di un gruppo (...). In qualche modo ti devi organizzare. E qui inizia quella tenaglia che noi conosciamo bene, una tenaglia a ganascia. Occorre l'iscrizione all'albo, documenti, protocollo terapeutico, il prezzo della prestazione, l'elenco del personale, ecc.
Qual è il limite tra la capacità di leggere la realtà e supplire alle funzioni dello Stato? E' una scala infinita. In Italia le comunità per tossicodipendenti sono gestite per il 97-98% da strutture private. I servizi alle persone in genere sono gestiti per il 90% tra mondo cattolico e non cattolico (...). Dunque il volontariato passa lentamente da struttura di volontariato a ente gestore. La domanda rimane: chi rimarrà sulla strada a leggere la realtà, ad "annusare l'aria"?

Creare cittadinanza, creare coscienza

3) La terza funzione è quella della cittadinanza. Il volontariato deve attivare la capacità di creare coscienza. E' l'anello indispensabile per far comunicare il mondo di chi sta bene con il mondo del disagio. E' la sfida più feroce.
Se il volontariato non crea coscienza, se non crea aggregazione, se non crea risposte, non serve a nulla: si appiattisce pericolosamente sulla gestione (...). Se il volontariato perde questa coscienza, è come se non fosse più se stesso.
Le strade per creare cittadinanza sono infinite; dal punta di vista religioso attraverso la dimensione della fratellanza cristiana; dal versante laico: uguali diritti e doveri degli uomini; da quello marxista attraverso la rivoluzione dei proletari. Il principio base è l'uguaglianza e la felicità, da non negare a nessuno, perché se si smantellano le dimensioni della felicità e della parità si avalla il diritto del lupo, del forte contro il debole.
(...) Creare coscienza significa in qualche modo avere la capacità da fare da cerniera tra la dimensione del benessere, a cui noi apparteniamo, e quella del disagio, dove alcuni sono nati o possono cadere.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.