III Seminario Redattore Sociale 8-10 Novembre 1996

Periferie umane

Dibattito

INTERVENTI

Tre domande telegrafiche: la prima è per Bettin che ha parlato di questa interessante esperienza a Venezia di presenza dei giornalisti in talune ricerche di settore. Anche in Emilia Romagna stiamo cercando di fare questo, quindi chiedo se Bettin ritenga che, al di là delle presenze di singoli giornalisti, possa essere utile anche la presenza degli organismi di categoria, specialmente a livello locale. In Emilia nel momento in cui vengono promosse dalle istituzioni, ma anche dagli altri organismi della società, alcune ricerche, noi come organismi di categoria cerchiamo di essere presenti, non soltanto nel momento conclusivo della ricerca, ma nel momento in cui parte in modo da partecipare direttamente, da essere coinvolti.

Seconda domanda per Koch, sulla fotografia e i reporter. Certamente c'è stata questa trasformazione: i fotografi sono scomparsi dall'interno dei giornali. Quando ho cominciato c'erano i fotografi dipendenti, poi sono scomparsi, credo per una ragione economica, anche dalle grandi agenzie. C'è però un altro fenomeno: specialmente a livello televisivo, locale, ma non solo, si afferma la presenza della figura del reporter; cioè mentre scompare il fotografo, oppure il fotografo rimane soltanto a livello di paparazzo o nel campo dello sport, la figura del reporter sempre più assiduamente fa le immagini e anche i testi. Quindi è una figura nuova; alcuni sono stati inquadrati come giornalisti professionisti. L'ultima domanda per Brancoli, che mi pare abbia una visione, nonostante questa situazione di disagio, non estremamente pessimista, ma che insiste sulla opportunità di regole. Sulle regole sappiamo che nella nostra categoria ci sono opinioni molto diverse: ci sono illustri personaggi che non vogliono assolutamente parlare di regole e dicono che loro di regole non hanno bisogno; forse loro non ne avranno bisogno, però credo che la nostra categoria e specialmente quelli meno forti, meno resistenti, abbia bisogno in qualche modo di regole. Ma, chiedo a Brancoli, chi deve fare queste regole?

Nanni Vella - ANSA*

Volevo fare una domanda al collega Brancoli, se permette lo chiamo ancora direttore. Se ci potesse aiutare a descrivere e a capire - a noi che siamo un po' fuori, rispetto alla media dei colleghi, dalle grandi dinamiche dell'informazione, che siamo in accesso, ancora prima che in stazionamento nella nostra professione - come cresce, come nasce e come accade l'enfatizzazione eccessiva, a volte stupida, che nasconde il 99% delle volte la notizia che non c'è e la offre come tale. E' quel germe dell'informazione nazionale che ha fatto perdere credibilità alla categoria e al mondo della carta stampata. Due esempi semplicemente. Uno è quello di una mamma, presidente di un'associazione per l'assistenza psichiatrica, che parla con una collega del Tg5 e LE dice: "Ma insomma, se lo Stato non riesce a curare questi malati, ma allora li ammazzassero" e si sfoga. Dallo sfogo di una mamma disperata, nasce il dibattito dell'eutanasia per i malati di mente. Io lavoro all'Ansa, che è un'agenzia che fa notizie, cioè che dovrebbe, dalla realtà, portare notizie e lanciarle nel mondo dell'informazione. Ci hanno chiesto di darla come notizia. Una volta che la dai come notizia a quel punto diventa realtà, nonostante l'abbiamo presa da una televisione, non dal dato reale, perché non abbiamo visto negli occhi la mamma e non abbiamo capito se era o no uno sfogo, l'abbiamo presa come tale, è diventata realtà, ma è una cosa stupida.

Come è possibile che però i direttori dei giornali mettano in pagina? Secondo esempio: c'è una conferenza stampa della Commissione povertà e viene fornita una serie di dati sulla povertà in Italia: alcuni nuovi, alcuni vecchi. Fra i tanti che ci sono, uno è l'aumento dello 0,5% dei laureati capifamiglia poveri, o sulla soglia della povertà. Un dato fra i tanti espressi, ma un collega di un'agenzia, mio diretto concorrente, scrive che il dato più forte, più grave che è emerso è questo boom dei laureati poveri. Cinque esperti su quel tavolo non hanno dato questa enfasi, ma il giorno dopo esce sui giornali: "il boom dei laureati poveri". E' il meccanismo dell'enfasi che ci fa perdere credibilità, perché il boom non c'è, non esiste, quelli non erano laureati poveri, erano capi di famiglia, che è una cosa diversa. Questo comportamento non è penalizzabile, a meno che non crei qualche grave problema, non è normativizzabile, però vorremmo capire come nasce, e se ci sia la possibilità di fermare questo meccanismo, e se Brancoli l'ha individuata.

Intervento

Faccio il telecineoperatore: come il fotografo, che prima lavorava e poi è sparito, anche alla Rai si rischia di fare la stessa fine, cioè di andare fuori a lavorare per le agenzie. Nelle Tv private sta succedendo che il reporter ha un contratto diverso da quello giornalistico, un contratto che si chiama FRI e la Rai sta facendo sempre di più appalti ricorrendo a non professionisti. Questo significa che nel mondo delle immagini chi fa le immagini è ancora il paria della situazione, quindi andare sul territorio, rendere un pubblico servizio, si continua a farlo in modo disimpegnato, per cui il giornalista sarà sempre di più vicino al desk e avrà delle immagini generiche fatte come capiterà. Nessuna scuoia di giornalismo attualmente prevede un percorso che sviluppi una professionalità che abbia a che fare con le immagini, con la costruzione e il linguaggio delle immagini.

Alfonso Di Leva - ANSA di Potenza*

Volevo parlarvi del disagio di un giornalista di una piccola città di provincia. Il disagio nasce dall'essere schiacciati da due fattori: la scarsità - l'ha detto molto bene Brancoli - di opportunità di rapporti corretti, reali, trasparenti con le fonti da un lato. La difficoltà, dall'altro lato, di rapporti con il lettore. Se mi consentite un'immagine: nel mio lavoro quotidiano mi sento come un cartografo che deve descrivere una costa, disegnare una mappa e deve in ogni momento togliere delle cose, eliminare dei particolari della costa, perché altrimenti non dà al proprio lettore uno strumento utile per navigare. E in questo mi sento povero di strumenti per analizzare la costa.

Quegli strumenti a cui prima faceva riferimento Bettin, quel rapporto con le fonti che ti consente di non sbagliare nell'eliminare particolari importanti della costa. Dall'altra parte, però, il disagio nasce dalla difficoltà di dire al lettore, cioè al destinatario di questa mappa per la navigazione, che in questa mappa non c'è tutto, e quindi che deve stare attento, che deve usarla tenendo conto che se vuole navigare sotto costa è inadeguata.

Il giornale non può orientarti su tutte le cose della vita: è una prima informazione, è una cosa immediata, hai poi bisogno di una mappa più precisa, più dettagliata che ti possa guidare in fasi successive. Allora il senso di questi tre giorni da una parte è cominciare ad avere strumenti culturali un po' più raffinati e un sistema di valori e di regole, come diceva Brancoli. Un sistema di valori che non sia omologato - Bettin ha ragione - e che non veda nella parola solidarietà una sorta di marmellata che comprende tutto, ma che abbia una serie di grigi, diversi l'uno dall'altro. E questo dà forza a chi torna nelle redazioni, di approcciarsi, di avere rapporti con fonti nuove. Sono rimasto un po' sconcertato da alcune cose che sono state dette in questa sala: faccio 20-25 notizie al giorno, che significa almeno 2 o 3 telefonate per ogni notizia, più le telefonate del giro di cronaca, cioè 100 telefonate. E poi devo andare al palazzo di giustizia, dove ho bisogno in tre minuti di capire che cosa è successo in un processo, magari in Corte d'assise, che è cominciato alle 9 di mattina e alle 6 del pomeriggio ancora è lì. Ci chiedono di lavorare sempre di più in tempi stretti e di produrre sempre di più. Questo sul versante delle fonti, dove non ho strumenti per intervenire. Dall'altra parte il rapporto con i lettori: in questo Paese finora tutti o molti si sono preoccupati della formazione dei giornalisti, e, se mi consentite, si sono occupati male della formazione dei giornalisti. Ma nessuno o pochissimi e con scarsissimi risultati si è occupato della formazione dei lettori. Nessuno si è preoccupato di dire a chi compra il giornale la mattina: "Guarda che probabilmente questo strumento è una prima infarinatura", è non so che cosa, aiutatemi voi a trovar le parole giuste...

Roberto Brancoli*

E' la prima bozza della storia, secondo la definizione di un giornalista americano. 

Giornalista ANSA*

Comunque nessuno si è preoccupato di dire ai lettori: guardate, non orientate la vostra vita sulla base di questo. L'informazione serve a farci fare delle scelte, ma chi è così folle da fare delle scelte in borsa leggendo solo il listino de "Il Sole 24 ore"? Però tutti pensiamo di orientare la nostra vita con i titoli dei giornali e c'è bisogno di qualcuno che formi i lettori. Allora, proprio perché sento molto il problema dell'onestà intellettuale, vengo alle regole: noi stiamo cercando, come Ordine dei giornalisti della Basilicata, nato da pochissimi mesi, di tentare un percorso di questo tipo. Le regole: la strada di tentare di formare i lettori non è sbagliata. Si deve arrivare ad un patto di lealtà del giornalista che dice al suo lettore di non essere depositario della verità, mentre il lettore dice al giornalista di non considerarlo tale. La seconda cosa importante è il cammino sulla strada dei valori. Ne avete dati una quantità enorme, farò fatica a digerirli tutti, però questi valori devono essere a fondamento di quelle regole, che non devono essere né astratte, né leggi, né norme. Il ruolo dell'Ordine dei giornalisti deve essere di tradurre questi valori in regole concrete della professione.

Daniela Ducoli - Radio Montecarlo*

In questi giorni si è parlato pochissimo di radio, c'è molta disattenzione sull'informazione alla radio, che non sia in Rai, e giustamente perché sono i nostri stessi editori che danno pochissimo spazio all'informazione. Abbiamo sempre a disposizione non più di due minuti e mezzo o tre per i notiziari e lo stesso per le interviste di approfondimento, quattro o cinque al giorno - mi è capitato l'altro giorno
di intervistare Emma Bonino che gentilmente si è prestata per almeno venti minuti al telefono da Bruxelles sull'emergenza Zaire, ma il direttore mi ha chiesto di tagliarla in due minuti - anche perché poi noi ogni ora rilanciamo le notizie delle agenzie, cosa che neppure la televisione può fare. La domanda è: in questi giorni si è parlato di dare o non dare le notizie ad esempio sui suicidi dei ragazzini, dare o non dare, per il problema dell'emulazione, le notizie dei sassi al cavalcavia. In tre minuti è giusto darla o non darla questa notizia? Visto che in tre minuti diamo dieci notizie, trenta secondi a notizia, non diventa uno spot anche la notizia? Ora è poco etico far passare come spot l'approvazione di una legge, ad esempio il famoso patto di Berlusconi.
Sicuramente è difficile dare in dieci secondi il suicidio di un bambino, piuttosto che di un ragazzo, piuttosto che di un adulto. Allora le dobbiamo dare queste notizie in questo modo così veloce o è meglio bucarle se non c'è il tempo di approfondirle?
Tenendo presente che il pubblico, non parlo di Radio Montecarlo che ha un pubblico un po' più adulto, in genere è molto, molto giovane.

Claudia Origlia - Giornale Radio Rai*

Vorrei manifestare un ulteriore disagio che viviamo all'interno delle redazioni. Verso la fine degli anni '80 c'è stato, parlo della mia esperienza modestissima di precaria in Rai, un fiorire lodevole, interessante, di rubriche specializzate. Queste hanno avuto un ruolo in alcuni casi addirittura cardine, in altri casi forse sono state meno importanti, però ricordo a tutti per esempio il fenomeno "Diogene". Alla fine però succedeva che quelli che stavano nelle rubriche, che erano "gli specialisti", non avevano nessun tipo di comunicazione con il giornale con la "G" maiuscola, e queste redazioni di rubriche diventavano dei piccoli ghetti nei quali si faceva probabilmente un lavoro interessante, approfondito, onesto, che però non aveva possibilità di osmosi con la confezione del giornale. Mi occupavo di temi di immigrazione, e notavo che quando era il momento di occuparsi di questi temi nelle varie edizioni del giornale, nessuno chiedeva a qualcuno di noi: "Che cosa ne pensate, come possiamo fare questa notizia, come la diamo?" Non c'era nessuna possibilità di comunicare, di intervenire in maniera concreta sulla confezione del giornale. Mi chiedo se effettivamente non succeda che questi spazi, seppur lodevoli, non diventino una specie di scarico di coscienza per la testata, mentre non entrano nei linguaggi dell'informazione generale, dove non c'è nessun cambiamento. Le marmellate terminologiche, gli scivoloni a volte veramente drammatici per non dire comici, continuano ad essere gli stessi. Anche se adesso le rubriche sono abbastanza in calo, almeno in Rai, a mio avviso questo è uno spreco enorme di energie, è un buttare via delle risorse che in definitiva appartengono a tutto il giornale.

Cornelia Dell'Eva, di Bolzano*

Non sono una giornalista, ma sono qui per curiosità; penso che lo spazio dell'informazione non sia solo quello dei giornali radio, dei telegiornali, ma che si estenda anche oltre questi limiti. Volevo chiedere, da esterna - probabilmente è una domanda ingenua - se c'è spazio per le interviste nell'informazione. Cioè qual è lo spazio che viene dato e come ritenete che debbano essere condotte. Alexander Langer ha detto in un suo intervento che i Grandi della Terra, quelli che appunto hanno spazio nei mass media, dovrebbero qualche volta abbassare i loro altoparlanti e lasciare spazio anche a chi voce non ne ha. E' una prospettiva che viene presa in considerazione all'interno dei grandi mass media o no?

Gianfranco Bettin*

Partirei dalla domanda specifica, per riprendere il tema dell'informazione, sul lavoro che con gli operatori della comunicazione cerchiamo di fare a Venezia. Intanto non è un rapporto che si esplica soltanto su ricerche, ma anche su interventi sociali. Questo cambia un po' la prospettiva perché - mentre impostare un lavoro comune tra operatori sociali e dell'informazione nell'ambito di una ricerca significa creare uno spazio protetto - agire dentro interventi, significa agire con tutti gli inconvenienti di tempo e di spazio che ricordava prima Rodolfo Brancoli, e quindi mettere in rapporto diretto, mentre le cose accadono, questi diversi operatori, e avere così un test più credibile, più attendibile della capacità dell'informazione stessa, a contatto con fonti meno effimere, superficiali e improvvisate, di dare meglio la notizia, di far sì che corrisponda di più al fenomeno, alla cosa che accade. Il rapporto quindi non è solo con i singoli operatori dell'informazione, i singoli giornalisti su progetti un po' prefigurati come sono appunto le ricerche, ma è anche con l'insieme delle redazioni.

Brancoli prima alludeva alla Carta di Treviso: l'anno scorso abbiamo fatto - con le redazioni dei due quotidiani locali e anche di un settimanale locale e con operatori delle radio e delle televisioni locali - un seminario sull'applicazione della Carta di Treviso a partire da episodi concreti, cioè da un'analisi concreta di come sono stati affrontati i temi relativi ai minori in una serie di casi, discutendone con i capi delle redazioni e con poi gli autori diretti degli articoli. Questo ha dato dei buoni risultati almeno in questo campo, aiutati anche da un codice che la categoria si è data e che a proposito dei minori è applicato più spesso che su altre questioni. Quindi c'è stata una felice combinazione di autoregolamentazione della categoria nel suo insieme, a cui ovviamente l'Ordine ha partecipato, e di rapporto diretto con gli operatori per esempio dell'infanzia, della minore età, dell'età evolutiva.

Questo ha dato, ripeto, dei frutti abbastanza buoni, ma anche in altri aspetti. Prima ne ricordavo alcuni particolarmente delicati, i temi tipici sui quali si esercitano appunto le pulsioni peggiori dell'opinione pubblica e il compiacimento verso queste pulsioni da parte del sistema dell'informazione: anche lì i risultati si sono visti, anche se poi molte cose scappano. Il meccanismo è tale per cui spesso, anche se c'è un buon lavoro preparatorio, anche se la fonte d'informazione è la migliore, la più attendibile possibile, la macchina macina: tante volte l'articolo è molto corretto, il titolo è ben che vada idiota, in certi casi è ferocemente teso a mostrare proprio il lato pulp, splatter, il lato che colpisce l'opinione pubblica. Molte volte l'articolo non viene nemmeno letto o viene letto attraverso la lente del titolo e questo è devastante, rispetto quanto meno a interventi sociali di un certo tipo. Ma credo che insistendo e incontrandosi con iniziative da dentro la categoria può dare dei buoni risultati. Prima alludevo alla necessità di non omologarsi: forse è qualcosa di più, è anche la riscoperta del gusto e dell'orgoglio della professione, del gusto di saperne di più, di scavare, di scoprire, di non arrendersi all'evidenza dei dato, alla sua superficie, di essere diversi non in quanto si è privilegiati, posto che lo si possa essere. Gusto di saperne di più, di scavare non significa tanto diventare esperti in dietrologia, ma essere capaci di avvicinarsi alla radice delle cose, mentre magari si coltiva l'altra parte. Occorre recuperare quello sguardo tipico del cronista, che prima ti racconta la superficie della notizia e poi con la faccia ti fa capire che in realtà le cose stanno diversamente, alludendo non tanto alla radice e alla verità della questione di cui si tratta, ma ad un retroscena particolare, magari ad un pettegolezzo. Credo che da un confronto ravvicinato fra quanti lavorano sui fatti, sulla realtà o sulla documentazione della realtà, possa emergere qualcosa di buono, su scala molto grande e drammaticamente più grande.

E' qualcosa di simile a quanto è accaduto in moltissimi casi ai reporter in Bosnia, in cui il rapporto ravvicinato, la lunga permanenza sul campo, non solo con le popolazioni coinvolte, ma con altri soggetti come i volontari, spesso ha prodotto un'intensità nella comunicazione; una ricerca positiva del retroscena, cioè di quello che spiegava le cose: tutta la documentazione, per esempio, sui campi della morte, sulle fosse comuni e prima ancora sulla realtà dei lager che nemmeno si sospettava esistessero, poi su certe pratiche come quelle dello stupro etnico, di cui agli inizi si parlava con diffidenza. Mi ricordo perfettamente, all'inizio della guerra, trovandomi varie volte lì per ragioni diverse, nell'estate del '92, quando venivano fuori le prime notizie su questi orrori specifici o aggiunti a quelli ordinari della guerra, si diffidava e molti reporter, moltissimi fotografi, moltissimi operatori scavarono con volontari, con pacifisti, con le persone del posto, che raccontavano episodi di terza mano che provenivano da oltre le linee dell'occupazione.

Questo corto circuito felice, questo circuito virtuoso, tra chi viveva sul campo, tra chi era protagonista o vittima della notizia e chi la doveva raccontare ha prodotto dei risultati straordinari, e il coraggio di chi a volte è anche morto, come raccontava prima Brancoli a proposito del suo amico fotografo, ha tenuto vivo l'interesse, nell'indifferenza o nel consumo un po' morboso di immagini a distanza, nella commozione telecomandata che dominava. Nell'esperienza corrente delle nostre città, questo accade spesso: credo molto in questa comunicazione, in queste reti, in questo rapporto interdisciplinare che può nascere se c'è l'intenzione, la volontà di comunicare anche su un piano degli addetti ai lavori, che da differenti angolature hanno un comune interesse e forse una comune passione del capire e del raccontare. Questo credo che rappresenti - nel quadro strutturale delle difficoltà che abbiamo visto, ma anche nel quadro delle derive culturali, a volte psicopatologiche, della nostra società - una carta di resistenza, quanto meno possa tenere aperte delle piste, riaprirne delle altre e faccia appello non solo a delle regole, non solo ad un'etica, ma anche a dun gusto, ad un interesse, ad un divertimento del fare bene il proprio lavoro, che poi deve essere sotteso a tutto, altrimenti si rischia di farlo in modo grigio.

Vorrei finire su un aspetto che avevo trascurato nell'intervento precedente: la domanda alludeva ad un lavoro particolare che ho fatto attorno a casi orrendi di cronaca sociale, vivendo nel Nordest, che è terra che produce molti di questi casi, produce anche altro naturalmente, ma spessissimo produce fenomeni estremi di degrado ed efferatezze. Ho lavorato in particolare sul caso di Pietro Maso, che nel suo genere è un vertice. Lì tutto l'orrore di cui si è detto è fondato nella vicenda e nel suo non essere, al di là dell'approdo finale, una vicenda particolarmente estrema nei meccanismi che l'hanno preparata: la desolazione ricca in cui è cresciuto, la totale assenza di consapevolezza educativa negli adulti che circondavano lui e i suoi amici. Tutto l'orrore è vero, però è evidente che è un caso che ha scatenato semplificazioni, luoghi comuni. Oggi su "Repubblica" c'è, a proposito di un'altra vicenda - quella delle lettere che riceve il mostro di Martinelle - la citazione della vicenda di Maso e nella didascalia c'è scritto: "Maso ha ricevuto in carcere migliaia di lettere di ammiratori". E' una balla colossale, non è vero. Quando la notizia uscì ebbe subito una grande eco, ma non era vera, e io in quell'occasione ebbi la possibilità di vedere queste lettere: erano dipinte come centinaia lettere di ammiratrici entusiaste, ma erano pochissime, e quasi tutte di persone che facevano la morale a Maso, dicendogli di vergognarsi. Molte erano di religiosi e di educatori, qualcuna di coetanei, una o due di mitomani, di persone disturbate, ma questa era la realtà e lui stesso, al cronista che è alla fonte dell'equivoco, aveva detto: "Ricevo delle lettere". Questo era scritto a pagina 10 del "Corriere della Sera", mentre in prima pagina venne scritto che le lettere erano centinaia. La sera stessa il Tg3 fece l'apertura - allora usava il servizio d'apertura, la copertina - su questa notizia e io ho cercato di smentirla varie volte, nel libro, ma senza effetti: e così, aumentano, adesso sono diventate migliaia...

C'è la tentazione di far assumere ad una cosa che ha radici da capire, da analizzare, un'altra veste: c'è la tentazione da parte di molti che appartengono alla società degli adulti di omologare a Maso tutti i giovani, o viceversa, insomma di non capire fino in fondo. Credo che la fascinazione della violenza, a cui si faceva riferimento nella domanda di prima, abbia a che fare con questo e che i cosiddetti "mostri" assolvano una funzione di semplificazione. La comunità locale per esempio si liberò di Maso dicendo che era un mostro, un matto, il vescovo disse che era opera del diavolo. Era una semplificazione, ma quella del mostro che riceve migliaia di lettere è una semplificazione laica, speculare a quella che ci impedisce di scavare nelle ragioni banali, ma tremende, che hanno preparato quella tragedia e che rischiano di prepararne altre.

Roberto Koch*

Parto dalla questione del reporter e della figura che raccoglie insieme operatore di immagine e testo per la televisione. Esiste attualmente una tendenza ad una certa commistione dei linguaggi nei vari media, per vari motivi: ovviamente i motivi economici sono quelli dominanti, ma non solo. Per esempio, accanto a questo, si assiste ad un fenomeno per cui molti fotografi sono stati chiamati ripetutamente da alcune televisioni a realizzare delle immagini in movimento, non solo delle immagini fisse, spesso anche da canali radio. Un fotografo inglese, in Cecenia, ha realizzato ripetutamente reportage per la Bbc in diretta e riprese televisive che poi sono state trasmesse dalla Cnn. La modalità di rapporto con la realtà dei fotografi spesso li porta ad essere in condizioni avvantaggiate rispetto agli altri. Una troupe televisiva, per quanto mobile, è sempre composta di almeno due persone, se non tre, e le difficoltà di spostamento sono diverse da quelle di un singolo. Un giornalista non ha necessità di trovarsi nel punto focale dell'esplosione di un conflitto o per lo meno non lo ha così forte come il fotografo che, se non sta lì, non riporta un bel niente. Ci sono dei momenti nell'attività di un fotografo, che copre soprattutto degli avvenimenti esplosivi, come la guerra, o di grande tensione, in cui in realtà le immagini fisse non servono a niente.

Immaginate un fotografo che sta al fronte e si trova sotto un bombardamento aereo: non può muoversi assolutamente e non può probabilmente fare delle fotografie. La registrazione del suono in quel momento, in una postazione avanzata, o una ripresa televisiva invece sono fortemente comunicative e quindi consentono di utilizzare l'esperienza e la professionalità di stare in quei posti per altri mezzi.

Quindi il discorso del reporter mi sembra che rientri in questa logica di commistione. Credo che sia molto grave che i telecineoperatori abbiano sempre avuto un ruolo marginale all'interno dell'informazione televisiva. Una delle lotte degli operatori dell'immagine, per essere inseriti nell'Ordine dei giornalisti, che è tutt'ora in corso, è stata vissuta in modo completamente differenziata a seconda dei vari Ordini regionali. In alcune regioni sono stati inseriti dei fotografi, in altre regioni no, a seconda delle spinte corporative di questo o di quell'Ordine, in una o in un'altra direzione. Quello che comunque è ancora in atto da molti anni è la battaglia dei telecineoperatori della Rai per essere riconosciuti a tutti gli effetti come giornalisti, è una cosa che ancora non è avvenuta del tutto e in ogni caso che viene ostacolata per motivi facilmente immaginabili, il montaggio, cioè la scelta dei frammenti di immagine che vengono trasmessi, viene molto più facilmente gestito se non si deve rispondere a chi quelle immagini le ha girate; essendo un tecnico che fornisce soltanto il prodotto che poi i giornalisti dovranno a loro volta amalgamare e mettere insieme, ovviamente si crea una sfasatura rispetto al rapporto con la realtà e alle scelte, che non tengono conto degli operatori. Sarebbe bene tra l'altro che i giornalisti televisivi avessero almeno un po' di esperienza diretta di che cosa significa girare delle immagini, perché pochissimi di loro, e questa è di nuovo una specificità italiana, sanno che cosa significa, mentre chi lavora in radio sa come si fa una registrazione sonora e di questo si avvale nel momento in cui la racconta. Spesso i giornalisti televisivi hanno delle cognizioni tecniche molto alte rispetto al montaggio e a come si costruisce un servizio, ma la ripresa diretta è una cosa che non conoscono del tutto. Volevo anche dire una piccola cosa rispetto alla questione Internet e mi sembra importante correggere almeno parzialmente i dati che sono stati dati, perché si fa un gran parlare di Internet, ma spesso, in alcuni casi anche sui giornali, se ne parla un po' a sproposito. La questione di quanti computer sono connessi a internet: vorrei capire da dove vengono questi dati, perché come io non ho nessuna prova dei 30 milioni di due anni fa, non credo che ci siano prove dei 40 milioni di oggi, e in ogni caso mi sembra che sia un dato che dica poco, nel senso che se noi diciamo quanti telefoni sono collegati alla rete telefonica italiana, scopriremo che sono forse 20 milioni, ma quante persone parlano in quel momento è un altro dato, perché il dato che corrisponde alla tiratura di un giornale o al numero dei lettori è quello dei contatti effettivamente avvenuti attraverso quel mezzo.

Quando si parla genericamente di numero di persone coinvolte si rischia di enfatizzare in maniera esagerata un mezzo che ha delle potenzialità, ma i siti più visitati, che è l'unico dato certo dalle persone collegate a Internet, non superano alcune centinaia di migliaia a settimana. Questo significa che il contatto giornaliero arriva a dei numeri ben inferiori a quelli che si dicono. Con questo non voglio certo dire che non sia una delle cose più importanti con cui ci troveremo a rapportarci, ma vorrei un po' ridimensionare i dati; al tempo stesso la gestione di questi spazi e le difficoltà di accesso rischiano di essere interpretate secondo delle categorie che sono ormai totalmente desuete. E' vero che molte persone fanno fatica ad apprendere delle modalità o delle parole o delle tecniche di rapporto con questi mezzi, ma è anche vero che i ragazzi di 12 anni o di 13 anni usano linguaggi e frasi e parole del mondo dei computer che sono totalmente sconosciute a persone dai 30 anni in su e che per loro sono pane quotidiano e quindi costituiscono la stessa difficoltà dell'andare in bicicletta per un ragazzo di quell'età.

Gianfranco Bettin ha parlato a lungo del rapporto con la morbosità del pubblico, dell'autoassoluzione rispetto ad una richiesta di informazione in qualche modo morbosa. E' chiaro che i fotografi in questo senso hanno una funzione molto importante rispetto a che cosa si vede, si fotografa, si mostra di quello che si è fotografato e, soprattutto in certe situazioni particolarmente scabrose, la scelta è fortemente importante sul piano della responsabilità individuale che rischia di provocare delle conseguenze molto forti. Ci sono tre momenti in cui in realtà questa scelta si applica. In realtà fotografare è soprattutto una scelta di non intervento, cioè quando si registra una certa situazione non si sta intervenendo per modificarla, ed è legato alla propria professione il fatto di registrarla e non di modificarla o di intervenirci. Quindi c'è una prima scelta: fotografare o non fotografare a seconda della situazione che ci si presenta. C'è però un'altra scelta: che è quella di far circolare una fotografia fatta o non farla circolare. C'è un modo di rapportarsi alla professione molto scrupoloso che alcuni giornalisti e fotografi applicano, che è quello di riflettere a lungo - di nuovo qui c'è il problema del tempo, ma credo che sia la chiave di volta per ritrovare un rapporto diverso con questa professione - nel momento in cui fanno la scelta definitiva sulle immagini da mettere in circolazione. Faccio un esempio per tutti. James (?), che ha realizzato un reportage straordinario in Afghanistan, stando lì sei settimane, fu uno dei primi testimoni, cinque mesi fa, dell'impiccagione collettiva. Ovviamente la forza dell'evento e la presenza quasi unica come testimone l'ha portato a fotografare, anche in una maniera molto personale e molto profonda. In un momento successivo c'era una fotografia particolarmente forte, particolarmente decisiva della ripresa di quell'evento, che mostrava una di queste persone che era stata condannata a morte e impiccata: questa persona dopo la morte guardava direttamente nella macchina fotografica e sembrava una persona viva nell'atto di morire. Questa fotografia, che è in una prima selezione che lui ha fatto sembrava determinante, assolutamente necessaria per tener su la forza del racconto, in un secondo momento, pur sapendo che era una fotografia che gli avrebbe probabilmente portato il premio Pulitzer, è stata da lui stesso eliminata e tolta di mezzo per non assecondare un modo di fare che rischia appunto di essere alcune volte morboso. Quindi il problema di che cosa si sceglie di fotografare e di mostrare è effettivamente molto serio, soprattutto in certe situazioni di guerra: si parlava prima di Bosnia. In Bosnia purtroppo è dimostrato che ci sono state in alcuni casi delle esecuzioni di persone che sono state realizzate esclusivamente ad uso e consumo degli operatori dell'immagine, siano essi fotografi o operatori della televisione, questo ovviamente è un fatto estremamente drammatico e moralmente disgustoso che obbliga ad un rapporto diverso con questa professione.

L'eccitazione della presenza di una persona che può riportare nel mondo le immagini di un certo evento, in alcuni casi modifica profondamente gli eventi.

Ciò nonostante penso che ci sia una cosa molto più grave di questo ed è la manipolazione delle immagini, perché la fotografia, per quanto cruda e morbosa, o tendente ad assecondare appunto le pulsioni più riprovevoli del pubblico, è comunque un documento dì una realtà che è avvenuta. Quello che invece è veramente grave è che nei giornali costantemente vengono utilizzate immagini mistificate, che vengono rappresentate come vere ma che non lo sono affatto. Vengono fatti dei reportage: ultimamente c'è stato un grosso reportage in un settimanale sulla guerra in Liberia, ma c'erano foto di Sudan, cioè di un altro Paese. Le foto della guardia del corpo di Gheddafi, pubblicate su un grande settimanale, erano in realtà guerriglieri del fronte Poiesario, impegnati nella difesa dei loro Paese, a centinaia di chilometri di distanza. Questo viene fatto volutamente, in maniera irresponsabile e con continuità da parte di molti direttori di giornali.

Credo poco alle autoregolamentazioni scritte, ma molto nella libertà etica dell'individuo e nell'assunzione di responsabilità. Una questione che nel giornalismo italiano non è affatto presente è quella a cui accennava prima Brancoli, cioè [a verifica dei fatti, che dovrebbe obbligatoriamente essere inserita nelle strutture d'informazione più grosse e consentire delle sanzioni attraverso l'Ordine dei giornalisti - se poi l'Ordine dei giornalisti chiudesse forse non sarebbe un male per nessuno - o attraverso altre istituzioni che abbiano la funzione di prendere delle decisioni: questo se è stata provata la manipolazione violenta e non veritiera di alcuni eventi o di alcune notizie, siano esse riportate attraverso forme di scritto o di immagine.

Ieri sera, nel confronto tra Goffredo Fofi e Michele Serra, ad un certo punto Gad Lerner diceva: "Ma voi non vi confrontate col fatto della prima pagina: sì, ci sono dei reportage approfonditi, c'è Deaglio che fa "Raccolto rosso", c'è Capushinsky che gira i Paesi dell'est europeo e scrive dei libri, a me questo piace, lo metto nel giornale, ma è una parte marginale del lavoro dei giornali e c'è una prima pagina da fare". Credo che la presenza di questi reportage nei giornali non sia affatto marginale, anzi credo che purtroppo invece sia marginale la modalità con cui vengono costruite le prime pagine. Se voi provate, per esempio al ritorno da un viaggio all'estero, a leggere le prime pagine dei giornali di quattro giorni prima, vi accorgete della fatuità con cui molte notizie sono state riportate e della loro precarietà nel momento in cui sono state scelte. Al contrario, alcuni reportage, alcuni approfondimenti di operatori dell'informazione che li affrontano con una scelta autonoma da un sistema economico, che li obbligherebbe a dei tempi più costretti, in certe situazioni sono stati decisivi.

Per fare degli esempi sui fotografi: il reportage di Salgado sulla miniera a cielo aperto di Sierra Pelada ha provocato la chiusura della miniera: il problema non è se è entrato dentro al giornalismo o no, c'è entrato pesantemente, tutti i giornali del mondo hanno fatto a gara per pubblicare quei servizi, e non solo, nei fatti la miniera è stata chiusa. James (?) ha seguito per mesi l'operatività delle pattuglie di polizia americana in alcune città a forte tasso di violenza come New Orleans, New York, Los Angeles; le sue immagini hanno provocato immediatamente un cambio di direttive all'interno degli organi della polizia americana: la prima è stata impedire in futuro l'accesso a qualunque giornalista all'interno delle macchine di polizia e in conseguenza di ciò c'è stata poi una serie di cambi di modalità nel rapporto con gli arrestati, e dibattiti in Parlamento. Le foto di Hughes Richards sui problema della droga in America hanno provocato costantemente interventi e convegni di studio nelle università, oltre che articoli di giornale che partivano appunto da quelle immagini.

Credo che ci sia, anche se ritorno forse ad un'immagine un po' romantica di questa professione che nella quotidianità è assente, la possibilità di un rapporto diverso con il racconto, anche, come si diceva prima, imparando a dire dei no, magari a dei direttori che non sanno nulla di che cosa sia viaggiare. Uno degli altri problemi dei giornali italiani oggi è che, mentre prima i direttori dei giornali costruivano la loro carriera essendo dei giornalisti, poi degli inviati, poi facendo i corrispondenti e infine diventando direttori, quindi con un'esperienza di rapporto col mondo e con la professione molto ampia che gli consentiva - grazie ai successo con cui l'avevano svolta - di essere direttori; oggi i direttori spesso sono delle persone che hanno vissuto tutta la loro carriera all'interno della redazione, e tenendo un occhio ben attento alla parte manageriale della casa editrice più che a quella giornalistica. Spesso ci si trova di fronte a delle persone che danno delle istruzioni professionali di cui non hanno la minima conoscenza.

Si deve andare in Libia, e un direttore dice: "In Libia, con visto o senza visto: parti". Questa è un'idiozia evidente da parte di una persona a cui bisogna dire di no. Credo che nel nostro campo la figura del free lance o del lavorare in proprio, consenta di potersi barcamenare a seconda delle difficoltà e della capacità di dialogo che si instaurano con le varie testate, di potersi muovere da una testata all'altra.

Mi pare purtroppo che, sul piano del giornalismo scritto, sia molto difficile l'affermazione della figura del free lance in Italia, in quanto i collaboratori dei giornali tendono comunque a lavorare esclusivamente per un giornale. Può darsi che in futuro si sviluppi questa possibilità e che in qualche maniera questo contribuisca ad una maggior libertà professionale e di racconto dei singoli individui. Credo che comunque il recupero di un rapporto genuino con questa professione - che poi trova le sue ragioni nella curiosità, nella passione, nel racconto del mondo molto più che nella partecipazione ad un ipotetico potere - e la conseguente scelta individuale di una minore disponibilità ai compromessi, siano delle possibilità per ricostruire un giornalismo più diretto, più interessante e più profondo.

Roberto Brancoli*

Il rapporto tra regole e valori, chi deve fare le regole e come farle rispettare, come fermare o bloccare questo impazzimento dell'enfatizzazione, il ruolo eventuale dell'Ordine, e se sia meglio bucare una notizia, nel caso non si possa darla in modo approfondito, sono tutti aspetti di uno stesso problema. Non sento una mancanza di enunciazione di regole, perché in questi anni molto è stato detto ed elaborato: c'è una legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti, c'è la famosa Carta dei doveri, ci sono altre carte specifiche - quella che menzionavo prima per la tutela dell'infanzia, poi i giornalisti Rai se ne sono data una loro - in genere, di fronte ad ogni scandalo, la reazione in questi ultimi anni è stata quella di elaborare carte. Il problema non sono le regole, nel senso che non sappiamo che cosa debba essere fatto, il problema è che molte di queste regole vengono enunciate in assenza di valori condivisi nella categoria che le rendano vive e restano un fatto molto astratto la cui applicazione, o per meglio dire la sanzione per la mancata applicazione, è rimessa alla voglia di fare di qualche Ordine regionale.

Il problema dei valori. Indubbiamente è vero che dovrebbero esserci prima i valori e poi le regole. Le regole dovrebbero essere espressione di valori condivisi. Mi chiedo però se davvero sia pensabile che, in una professione tutto sommato intellettuale, che ha responsabilità così forti, non esista quanto meno una parte cosciente di chi la esercita, che muova da valori condivisi. Non è possibile, non è nemmeno credibile. Allora perché non si riesce a prendere il bandolo in mano e cominciare a invertire questa tendenza? Ci sono situazioni oggettive, alcune ne ho enunciate anche prima, che complicano questo processo che dovrebbe portare a dare credibilità. Però c'è anche molta leggerezza, vengono trovati anche molti alibi.

Uno per esempio è quello dello scoop, della competizione: in realtà sono balle, lasciate che ve lo dica francamente. Nel 99% dei casi sono autentiche balle, perché l'idea che se il giornale X non ha la notizia è grave perché ce l'ha l'altro, è una cosa che all'interno di un sistema totalmente autoreferenziale può avere importanza, cioè le 250 persone addette ai lavori il mattino dopo si accorgono che il giornale X ha questa notizia e l'altro l'ha bucata. Ma in un Paese in cui nessuno legge, in cui al massimo si compra una copia di giornale, davvero il lettore il giorno dopo diserta l'edicola perché sul giornale accanto c'era la notizia e su quello che ha preso lui no? Non raccontiamoci balle! Lo scoop: qual è il valore sociale dello scoop? Talvolta ce l'ha, indubbiamente, ma si è persa qualsiasi gerarchia: come si è persa la gerarchia della notizia, si è persa anche una gerarchia dello scoop. Ci sono cose del tutto marginali, che vengono però elevate a manifestazioni di grande giornalismo, quando sono semplicemente manifestazioni di piccolo giornalismo provinciale.

Come nasce e cresce l'enfatizzazione della notizia. Purtroppo le agenzie di stampa hanno contribuito prepotentemente a questo e mi piace che il quesito sia stato sollevato da un collega dell'Ansa. Purtroppo devo dire che l'Ansa è in prima fila in questo processo. Com'è che la Reuters o l'Associated Press non concorrono a questo tipo di enfatizzazione? Qualcosa è impazzito proprio nel sistema informativo a livello delle agenzie di stampa, che pure è vitale, è fondamentale. C'è una competizione malintesa, che porta ad enfatizzare e rilanciare queste cose, specialmente dall'estero, dove il controllo è inferiore. Non devo ricordare quell'episodio anche abbastanza recente del ragazzo in coma di San Francisco fatto miracolosamente rivivere quando non era mai stato in coma, ma potrei raccontare anche episodi di cui sono stato involontario protagonista negli ultimi mesi, essendo uscito dal semianonimato in cui preferisco vivere, esempi di citazioni di frasi mai dette ritrovate sull'Ansa e circolate. Naturalmente non è solo un problema di agenzie, ma come bloccare questo meccanismo? Bisogna cominciare a dire di no. Qui la responsabilità maggiore, secondo me, è dei direttori e via via a scendere nella gerarchia. Il giornalismo è un sistema estremamente gerarchizzato, non è una repubblica dove chiunque fa quello che gli pare, è un sistema a piramide, il redattore non decide lui, anche se si occupa di un determinato argomento, in quale pagina andrà, in quale parte della pagina, il titolo: tutto questo gli è sottratto. Quindi se il sistema è fortemente gerarchizzato, chi comanda deve assumersi delle responsabilità. Faccio un esempio di una cosa che mi è capitata negli ultimi mesi. Qualcuno di voi ricorderà una balla, ma forse non la ricorda come balla, di un'esercitazione svolta da reparti di alpini in Cadore, presentata come un'esercitazione per reprimere una situazione di secessione, quindi contro la Lega. Una balla totale. Si trattava di un'esercitazione già programmata da un anno, in cui si ipotizzava una situazione di guerra civile, di tipo bosniaco, per vedere come un corpo di pace che interviene deve regolarsi nell'assistere la popolazione civile. Qualcuno, un giornale locale, un'agenzia - non si è capito bene -Io ha completamente capovolto, ha interpretato l'esercitazione come una preparazione di reparti a intervenire in funzione repressiva di un fenomeno di secessione, ed è diventato in funzione anti Lega.

Faccio un esempio di una cosa che mi è capitata negli ultimi mesi. Qualcuno di voi ricorderà una balla, ma forse non la ricorda come balla, di un'esercitazione svolta da reparti di alpini in Cadore, presentata come un'esercitazione per reprimere una situazione di secessione, quindi contro la Lega. Una balla totale. Si trattava di un'esercitazione, già programmata da un anno, in cui si ipotizzava una situazione di guerra civile, di tipo bosniaco, per vedere come un corpo di pace che interviene deve regolarsi Dell'assistere la popolazione civile. Qualcuno, un giornale locale, un'agenzia, non si è capito bene, Io ha completamente capovolto, ha interpretato l'esercitazione come una preparazione di reparti a intervenire in funzione repressiva di un fenomeno di secessione, ed è diventato in funzione anti Lega. Questo era chiarissimo già dopo poche ore. lo ho deciso di non far fare un servizio su questo, ma nei TG serali di altre testate si è andati su tutta la faccenda, l'esercitazione, la repressione: eppure avevamo tutti le stesse fonti, sapevamo che era una balta presentarla in quel modo. Quindi, torno a dire, questo è un mestiere in cui ciascuno deve assumersi la sua responsabilità.

L'Ordine dei giornalisti. Ho molti dubbi sulla funzione e sulla capacità di assolvere a questo ruolo dell'Ordine: mi sembra una macchina burocratica: sapete che l'Italia e il Portogallo sono gli unici paesi occidentali in cui esiste l'Ordine, anzi in Portogallo neanche esiste l'Ordine, ma il sindacato svolge anche funzione di ordine. In America latina va scomparendo perché ci sono Corti costituzionali che ne dichiarano l'incostituzionalità, perfino in Costa Rica è stato abolito. Ci sono Paesi in cui c'è un rispetto delle regole deontologiche perfino superiori senza Ordine e, anche se non voglio generalizzare perché ci sono situazioni diverse, spesso vedo una notevole riluttanza da parte dell'Ordine a svolgere una funzione disciplinare. Comunque ho fatto un esposto all'Ordine dei giornalisti di una regione contro una collega che si è letteralmente inventata un'intervista fatta a me, che io non avevo mai dato, e vedo un'estrema riluttanza ad intervenire, come se non fosse interesse della categoria reprimere queste forme di malcostume giornalistico che tolgono credibilità all'intera categoria. Per cui non ho molta fiducia nell'Ordine. Tutto sommato penso ancora che sia un problema di coscienza e di responsabilità individuale: non cerchiamo assoluzioni nelle strutture. Non è vero nemmeno che la scelta si ponga sempre in modo drammatico, cioè tra salvare il posto, lo stipendio o salvare l'anima. Qualche volta si pone così, molte volte no: significa semplicemente accettare che, magari per una settimana, si è scavalcati nell'assegnazione di un servizio più gratificante, quasi sempre non si rischia molto di più, si rischia talvolta di entrare nel cono d'ombra. A ciascuno di noi chiedo un momento di riflessione su che cosa si voglia fare da grandi e quale tipo di responsabilità intenda assumersi. Mi è piaciuta molto, del collega dell'Ansa di Potenza, quell'accenno all'onestà intellettuale. Forse allargo un po' il concetto, ma secondo me parte integrante dell'onestà intellettuale è un forte senso dei propri limiti, limiti che sono innanzi tutto culturali e di capacità di approfondimento. Forse c'è troppo poco, in chi fa questo mestiere, di senso del proprio limite: il giornalista si considera troppo spesso onnisciente, forse c'è anche da parte del lettore, da parte dell'ascoltatore l'idea che il giornalista lo sia. Non è vero: siamo dei poveretti alle prese con problemi quotidiani molto complessi e molto difficili; il massimo che il lettore o l'ascoltatore ci può chiedere è di metterci un minimo di scrupolo. A chi mi chiedeva: ''Ma perché passi tanto tempo a studiare?", rispondevo sempre: "Perché questo è un mestiere in cui la fregnaccia è inevitabile, per la pressione, la complessità dei problemi, l'andare saltando di palo in frasca ogni giorno, per cui al lunedì siamo esperti di Polonia, al mercoledì siamo esperti di Costa Rica". Semplicemente cerco di dire: "Mettiamocela tutta almeno per ridurre la fregnaccia". Purtroppo ho l'impressione che negli ultimi anni si siano un po' rotte le dighe e che la fregnaccia sia quasi la scelta preferenziale di informare. Se questo sia ancora riconducibile entro un alveo più sobrio è da vedere, è la scommessa dei prossimi anni. Secondo me sì, perché poi si va per mode, ci sono degli andamenti ciclici anche nell'informazione, probabilmente arriverà un momento di saturazione, ma non mi pare ancora il momento.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.