III Seminario Redattore Sociale 8-10 Novembre 1996

Periferie umane

Lo Stato sociale, volano dello sviluppo. Verso una cogestione dei servizi

Intervento di Ugo Ascoli

 

Ugo Ascoli - presidente facoltà di Economia, Ancona*

Vorrei rispondere alle domande importanti che sono state poste. Innanzi tutto sgombriamo subito il campo dall'idea che qui io abbia voluto fare del moralismo sul Terzo settore. Il mio compito precipuo era quello di mettere in primo piano quali siano i pericoli di un'ideologia del Terzo settore, di un mito del Terzo settore; era quello di comunicare a voi la necessità di non mitizzare questo Terzo settore, anzi di non parlare proprio di Terzo settore. Sicuramente non c'è da fare moralismo, non c'è da scandalizzarsi; so che dentro al sindacato, dentro la sinistra, dentro i partiti storici c'è stato un grosso travaglio su questo tema, come su altri. Ricordo un dibattito di dieci anni fa all'interno della Cigl che riguardo a se fosse giusto o no parlare di una politica di reddito minimo garantito, di reddito di cittadinanza e ricordo velenosissimi e durissimi articoli di rispettosi e bravi e autorevoli studiosi che dicevano: "Allora non vorremo dare la pensione gratis anche ad Agnelli? Vorremo aiutare tutti, dobbiamo invece pensare sempre ad una protezione sociale che è costruita sulla partecipazione al lavoro, sui diritti dei lavoratori". Questo è il retaggio di cinquant'anni di Stato sociale che si è costruito in Italia proprio su questo tema. Tu accedi al mercato lavoro, perciò hai diritto alla previdenza, alla sanità, alle tutele. Ma se la società produce precarietà, instabilità, disoccupazione, esclusione sociale crescente, dovremo pure preoccuparci di non allargare queste fratture sociali.
Il sindacato, i partiti della sinistra fino a pochi anni fa parlavano di volontariato, pensavano che fosse solo un discorso di Dame di San Vincenzo, di carità cristiana, di filantropia, e quindi rifuggivano, perché avevano la loro base in quella cultura strutturalista, marxiana, legata al posto di lavoro, ai rapporti economici. Quindi il volontariato veniva visto come fantasia di cuore buono e di fede illuminata e ci si è accorti invece che il discorso è tutto un altro. I dati che ha riportato prima Marcon si riferiscono ad una ricerca che offre una fotografia dell'Italia al 1990 addirittura - lui parlava dei dati del '90-'91 - e se oggi si sta per procedere ad un secondo round di quella stessa ricerca con la stessa metodologia, probabilmente troveremmo dati ancora più importanti su occupazione e fatturato, con una crescita di importanza, perché effettivamente stanno crescendo, nella nostra società, una serie di fenomeni associativi importanti di persone che si associano con altre, senza fini di lucro, e che vogliono impegnarsi e fare attività, anche lavorativa, ma con un impegno sociale e civile di tutto rispetto. Quindi, prima cosa, divarichiamo i termini, volontariato è una cosa, Terzo settore è tutta un'altra.
Volontariato significa quel movimento che è partito e che è esploso negli anni '70-'80, cioè un insieme di persone le quali - a fini di puro scambio gratuito, quindi senza ricavare alcuna remunerazione - offrono il loro tempo, la loro vita, le loro capacità per azioni delle quali sono convinti e che possono essere a sfondo sociale o civile.
Il volontariato quindi è una dimensione del problema, mentre, quando parliamo diTerzo settore, entriamo in tutta un'altra serie di organizzazioni. Se volessimo esprimerci con una specie di simbologia insiemistica, diremmo che il volontariato è un sottoinsieme dell'insieme Terzo settore, che è una sua parte. Potremmo discutere se è la parte più viva, più autentica, se è una parte da salvaguardare, se è in pericolo, se può essere strumentalizzata, però è una parte di un discorso molto più ampio.
Perché questo Terzo settore sta crescendo anche nel nostro Paese? E' perché il nostro Welfare se la passa male. Lo Stato sociale italiano - di cui certo adesso non mi metto a tratteggiare i contorni e le caratteristiche - è indubbiamente in una situazione di crisi irreversibile, come lo è lo Stato sociale in Germania, come lo è in Francia, cioè nei Paesi europei che hanno costruito un certo sistema di protezione sociale e collettiva sulla base di presupposti che oggi non tengono più. I presupposti erano quelli della piena occupazione, di un motore economico che tirasse forte, di una divisione di genere tra maschi e femmine, di un tipo di famiglia, di una demografia in equilibrio, di un Paese che potesse fare i conti in casa propria senza dover guardare altrove, di un Paese nel quale c'erano richieste morigerate, sobrie e non l'esplosione della domanda. Tutti pilastri che ormai non ci sono più. Quello Stato sociale quindi è in crisi, però questo non significa che vada smantellato un qualche sistema di protezione sociale. La difficoltà del ragionamento è su come costruire un sistema di protezione sociale collettiva, che consenta di allargare l'inclusione sociale e ridurre l'esclusione, gli "scarti" per dirla nella terminologia immaginifica ed evangelica di Vinicio Albanesi, e come farlo tenendo conto che però sono cambiate molte cose.
Rispondo telegraficamente alle domande che faceva Gad Lerner. Il nostro Stato sociale è giusto? No, il nostro Stato sociale contiene livelli di iniquità fortissima, per esempio nel settore della previdenza. Quando il dibattito sulla previdenza è solamente contro i poveri pensionati "baby", cioè contro chi, in base alla legge, è andato in pensione dopo 30 anni di lavoro, e non si discute invece del fatto che il governo non fa gli adempimenti previsti dalla riforma Dini, che dovevano eliminare i privilegi nell'insieme del sistema pensionistico - perché quelle armonizzazioni non gliele fanno fare i gruppi di interesse forti - questo è un modo di sviare il discorso. E' tutto incentrato sulle pensioni di anzianità, mentre "le armonizzazioni" - che è parola dolce che però significa legnate - che vuol dire togliere i privilegi a chi li ha, quelle non si possono fare perché sono politicamente costose. 
Per esempio i giornalisti, non ci sono dubbi: che siate una categoria privilegiata questo si sa (naturalmente per chi è stabile, regolare, col contratto). I professori universitari se la cavano bene, quindi io sono in un'ottima corporazione e non mi lamento. Altro settore di profonda iniquità è quello dell'istruzione. Si parla tanto di numero chiuso/non numero chiuso, ma che numero chiuso! Qui abbiamo università che prendono cento studenti, ne bocciano 70 e quei trenta che si laureano ci mettono sette o otto anni, mentre il corso di laurea legale ne prevede quattro, e quelli che si laureano sono soprattutto i figli del ceto medio alto, non di quello di De Rita su cui dirò qualcosa dopo. Non è un sistema iniquo? E questo sistema universitario viene a costare un milione di tasse l'anno, che è una cifra che non spaventa il ceto medio alto, e il resto viene messo sulle tasse dei lavoratori dipendenti che poi non mandano i figli all'università perché non ce la fanno. 
E' un sistema di classica regressione, di redistribuzione alla rovescia; queste cose le hanno scritte in Inghilterra, in Italia, però di questo non si parla, si parla solo di numero chiuso, autonomia, e non si capisce più cos'è questa università. Questa università è una macchina che funziona male, che premia soprattutto chi sta meglio e che viene finanziata da chi sta peggio. E' un sistema iniquo, che va cambiato. E potrei andare avanti. Quindi la presenza di gradi di iniquità elevati nel nostro sistema di protezione sociale non vuol dire abolire l'istruzione pubblica o il sistema di pensionamento pubblico, vuol dire cogliere le iniquità, ridurle, tirare un livello di protezione sociale più equo, più garantito, ma questo è costoso in termini politici, in termini culturali.
Altra domanda: Lo Stato sociale dà veramente a chi ha bisogno? Non sempre, però, qui c'è una trappola. L'ho sentita scattare nelle parole di personaggi, diciamo così, di "sinistra doc" che hanno detto: "ma è ora che il Welfare italiano dia veramente a chi ha bisogno". Su questo si può scatenare un applauso che va fino ad AN, non so, al Fronte Nazionale: tutti possono applaudire, ma che vuol dire questa frase? E' una frase ad effetto, ma che può essere anche tirata così: che ci sia Welfare solo per i poveri e che gli altri se la cavino col loro mercato. Era il programma scritto da Berlusconi e dalla Lega nord, prima che diventasse "verde". Dare veramente ai poveri potrebbe voler dire fare il Welfare soltanto per i poveri. Ma "quando un Welfare è fatto per i poveri, è un welfare povero", ricordatevelo: se ci sono ospedali solo per i poveri saranno i peggiori, se ci sono le scuole pubbliche solo per i poveri saranno le più degradate, le più dequalificate, che pagano meno gli insegnanti, che avranno una pessima istruzione, se c'è la previdenza solo per i poveri sarà minima, per non morire di fame. Quindi il problema di dare veramente a chi ha bisogno vuol dire: riorganizzare un sistema di protezione sociale che abbia una base universalistica, la massima includente, sempre da aggiornare e che abbia la capacità di far accedere ai servizi anche a quei gruppi sociali, che non altrimenti potrebbero godere del Welfare. Allora sì che andremmo a sconfessare questa idea che anche Darhendorf scrive oggi su "Repubblica" e che cioè il "Welfare è un self service per i ceti medi", che mi pare un'esagerazione, anche se contiene elementi di analisi importante.
C'è un tasso di mobilità sociale nel nostro Paese? E' molto basso. Le ricerche fatte dai gruppi più seri di sociologi italiani hanno dimostrato che la mobilità sociale, cioè l'idea che una persona riesca a risalire questi gradini della gerarchia sociale in modo consistente rispetto ai propri padri, alle proprie madri, è molto bassa. Si cambia lavoro, da operai si va in città e si diventa gestori di pompe di benzina, da impiegati di un certo tipo si diventa impiegati di un altro tipo, però la mobilità sociale è molto bassa. Qual è il gruppo sociale che ha fatto più passi in avanti? Sono le donne. Il gruppo delle donne in Italia, non grazie allo Stato sociale, ma grazie a due conquiste fondamentali che sono state l'elevamento del grado di istruzione media e il minore tasso di fecondità. Le donne in Italia hanno capito che dovevano studiare di più, essere più brave, più preparate e fare meno figli. Piaccia o non piaccia è un dato di fatto. 
Gli unici processi di mobilità sociale sono stati innescati all'interno del discorso di genere fra maschi e femmine e, ripeto, non grazie alle politiche, ma alla consapevolezza, alla crescita di sensibilità e di capacità di muoversi che, anche se a Vinicio non piacciono, sono un effetto della stagione dei movimenti, del decennio di mobilitazione '68/'77. Bologna, che è stata citata, è sicuramente una città in cui si vive mediamente bene, in cui i servizi sociali sono sicuramente fra i più avanzati, ebbene lì il tasso di fecondità delle donne è diminuito nella maniera più veloce rispetto a tutte le altre città italiane, tant'è vero che gli americani vengono a studiare Bologna come negli anni '50 studiavano il Mezzogiorno, cioè come un caso particolare. Perché a Bologna c'è anche una crescita sociale, civile, di partecipazione, una richiesta di parità e, in una società profondamente maschilista, paternalista e intrisa di determinati valori, si è capito che o le donne si affrancavano dal fardello, che comunque gli viene scaricato addosso, del lavoro domestico e si presentavano più agguerrite sul mercato del lavoro pur avendo ancora molti problemi da risolvere, oppure non ce l'avrebbero fatta ad elevarsi: questo è un dato di fatto.
Il mercato del lavoro. Anche questo è un discorso da sfatare. Non è che i giovani non trovano lavoro o che ci siano problemi perché c'è un'eccessiva rigidità delle regole di mercato di lavoro, questa è una balla. Il mercato del lavoro è molto flessibile, ha abbattuto quasi tutte le frontiere di rigidità e più flessibile di così non potrebbe essere: basta guardare quello che accade nei Paesi del sud come nei Paesi del centro, nelle fabbriche, nelle fabbrichette: il problema è che qui non c'è lavoro, è una cosa molto diversa. Dovremmo entrare in un discorso totalmente nuovo, che non è sulle politiche di aiuto e di sussidio tradizionali, ma sulle politiche che creano lavoro, imprenditorialità.
Se noi non riusciamo a creare un'economia dei servizi, un mercato sociale dei servizi, incentivando la domanda e l'offerta, cercando di portare chi non può a domandare servizi, e dandogli la possibilità di accedere ai servizi, in questo modo favorendo anche una crescita dell'offerta dei servizi, non si capisce quale altro possa essere il futuro. Il futuro è lo Stato sociale, paradossalmente. Voglio ribaltare proprio la prospettiva da cui siamo partiti: è l'unico volano vero di sviluppo in questo Paese, se non si capisce che le nuove tecnologie possono essere sviluppate se applicate ai servizi alle persone, che saranno quelli a più alta domanda, a più alta occupazione, parlo dei servizi per l'ambiente, per la cultura, per l'istruzione, per la formazione, che sono quelli in divenire. Se non riconvertiamo la struttura del Paese verso i servizi e quindi verso lo Stato sociale del Duemila, non avremo scampo alla disoccupazione crescente. Non è certamente difendendo questa o quella fabbrica, questo o quel De Benedetti, questa o quell'Ivrea che noi riusciremo a garantire occupazione. Riorganizzare il Welfare state non vuol dire solamente costruire un sistema di protezione sociale che sia all'avanguardia e che non debba necessariamente veder crescere l'esclusione sociale, ma significa anche percorrere l'unica strada possibile per salvaguardare e sviluppare l'occupazione.

Verso una cogestione dei servizi

Voi mi direte: ma i soldi dove li troviamo? Rispondo che non ne ho tanti in tasca, però se distribuisco bene le tasche, se mi organizzo bene, forse li spendo meglio. Questo vuol dire che il Terzo settore, anzi tutti i soggetti che fanno parte del Terzo settore, possono coprogettare con la pubblica amministrazione un sistema di protezione sociale che sia più avanzato e che costi meno. Questo è l'ultimo giochetto che voglio farvi fare: l'ente locale si lamenta perché diminuiscono i finanziamenti, quindi può fare a meno dei servizi sul sociale. Sappiamo che ormai l'ente locale è il punto strategico di snodo per interventi sulla povertà, sull'emergenza, sui minori, sugli anziani che non ce la fanno da soli, sulle separazioni che provocano impoverimento. L'ente locale dice: "ma se voi mi togliete i denari, non ce la faccio più". Se cominciamo a cambiare le politiche, per esempio l'intervento sul territorio, e a creare una capacità di concertare insieme fra i soggetti pubblici e del Terzo settore, e discutiamo su come mettere insieme tutte queste risorse ai fini di un'ottimizzazione dei risultati, potremmo con meno risorse creare un sistema, una rete di protezione sociale e collettiva che non faccia andare indietro il Paese, ma anzi lo faccia andare avanti. Perché oggi le problematiche sociali di cui parlava anche Vinicio non si affrontano con una legge, con una normativa, con una circolare amministrativa e neanche con un assessore illuminato, e neanche con un assessore illuminato che ha dietro un sociologo più bravo di lui. Se Prina diventasse assessore a Torino - Prina è bravissimo - non riuscirebbe da solo, ma siccome Prina sa come stanno le cose, riuscirebbe a creare quel tavolo di coprogettazioni in cui mettere insieme tutte le associazioni, tutti i soggetti, per far discutere insieme quali sono le risorse del territorio, come promuovere una concertazione, una coprogettazione dei servizi, come migliorare gli interventi. C'è molto spazio, purché si entri in una logica di necessità della riforma, di necessità di riorganizzazione, di nuove culture.
Il discorso di questa coprogettazione dei servizi vi sembrerà una formula astratta, ma non è così, perché in realtà stanno emergendo elementi di cambiamento nella cultura dei soggetti pubblici e dei soggetti del Terzo settore che spingono verso questa coprogettazione. Vinicio parlava degli appalti al minimo prezzo: stanno cambiando anche le regole regionali negli appalti fra soggetti pubblici e cooperative sociali, in cui l'appalto non può più essere fatto al minimo costo, ma si deve valutare la professionalità, l'esperienza, la capacità, la congruità del progetto. Stanno cambiando molte cose, la cultura della valutazione sta entrando nel pubblico, come la crescita di managerialità e di professionalità sta entrando nel Terzo settore, che non possiamo più chiamare così, ma con termini specifici. La legge delle Onlus è importante se riesce ad essere una cornice-quadro che consenta poi provvedimenti specifici per le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, di un certo tipo e di un altro tipo. 
Chiudo dicendo due cose. La prima, che si ricollega a quello che diceva Lerner: è vero che c'è una centralità delle periferie, ma metterei un tocco politologico in più. Quello che è cambiato in questi ultimi 10 o 15 anni è che i partiti hanno perduto quella capacità che avevano - gli americani la chiamano gatekeeper - di far custodia del cancello. I partiti fino ad adesso hanno avuto questa capacità di tenere fuori tutte le istanze della società civile, di raccoglierle e di farsi portatori di istanze. Questi partiti ormai hanno perduto questa funzione, i cancelli sono saltati e i gruppi di interesse arrivano direttamente alla politica con i loro rappresentanti e questo comporta il caos nella politica, perché ogni categoria vuole farsi come giustizia politica da sola, il partito non è più in grado di selezionare e filtrare. Questo è il ribollire della società che forse ci porterà lontano. De Rita dice che siamo tutti ceti medi. Questo è veramente un gioco di prestigio.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.