XI Redattore Sociale 26-28 novembre 2004

Nascondigli

Il senso del reportage. Bilancio delle prime quattro edizioni del “Premio Paola Biocca” e Presentazione del Bando 2004

Intervento di Maria Nadotti

Maria NADOTTI

Maria NADOTTI

Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice. Ha curato il libro “10 in paura” (Epochè, 2010), dieci racconti di autori italiani.

ultimo aggiornamento 26 novembre 2010

Maria Nadotti*

Vorrei intanto invitare con noi due partecipanti alle 4 edizioni del premio Paola Biocca: Antonella Patete e Stefano Femminis. Propongo un'inversione di questo tipo per capire perché abbiamo sentito il forte desiderio e la forte urgenza di creare un premio Paola Biocca per il reportage. Bisogna sapere chi era Paola. Se non si sa chi era Paola questo premio non ha alcun senso. Quindi propongo che Lucia Marghieri, la madre di Paola, ci racconti chi era sua figlia.

Lucia Marghieri*

Difficile dire in poche parole chi era mia figlia. Vi dirò che Paola era del "56 quindi nel ''99 aveva 42 anni. Era una persona molto vitale, piena di iniziative, aveva tante curiosità per tutto quello che la circondava. Leggeva moltissimo e negli anni si era appassionata a tante, tante cose: dalla storia dell'arte, alla storia delle religioni, alla geografia, alla mitologia, l'astrologia. Aveva studiato il cinese andando in Cina con una borsa di studio. In Nepal aveva passato parecchio tempo e poi in vari paesi del Medio Oriente. Per anni lavorò con Greenpeace, collaborò con la campagna mine e diverse altre associazioni umanitarie e ambientaliste. Era molto appassionata nelle cose che faceva, però non perdeva mai la sua lucidità, ecco, la sua capacità di critica e anche il senso di humor. Questo l'aiutava a pensare con la sua testa e non essere mai come dire, catturata fino in fondo da queste passioni. In quanto allo scrivere aveva cominciato fin da bambina. Era come un gioco per lei, un gioco con le parole, un gioco di cui non si era mai stancata e negli anni aveva scritto diversi racconti, un romanzo "Giallo Mar Nero", che non fu mai pubblicato. Lo mise nel cassetto e cominciò a scriverne un altro con cui vinse il premio Calvino. Questo romanzo si chiamava "Buio a Gerusalemme". Quello fu un momento per lei credo molto importante, perché, forse per la prima volta, si rese conto che la scrittura poteva essere anche la sua professione. Diciamo che cominciò ad ammetterlo. Io credo che in fondo comunque l'avesse sempre saputo che la scrittura era come un punto di confluenza di tutti i suoi interessi.

Poi venne il '99. Un anno importante perché fu assunta dal World Food Program delle Nazioni Unite e il suo romanzo fu pubblicato da Baldini e Castoldi. Sembrava proprio che fosse finito il tempo della semina e cominciato il tempo del raccolto. Era felice, piena di idee e di progetti. Venne la guerra del Kosovo e anche l'esperienza nuova del reportage. Scrisse dei piccoli pezzi che il Corriere della Sera pubblicò durante la guerra. Il fatto di dover scrivere diciamo di articoletti, impose una specie di scrittura nuova, un compito diverso, perché si trattava di comunicare giorno per giorno in una forma sintetica le esperienze che faceva durante la guerra: l'impatto con le tragedie dell'esodo, la distribuzione quotidiana del cibo. Quello era l'argomento di cui lei si occupava. Queste brevi corrispondenze le abbiamo raccolte in un volumetto, un Diario Umanitario. Lo stile di questi piccoli pezzi è molto asciutto, molto essenziale, è diverso da quello dei romanzi che invece è molto ricco, metaforico. Il senso del premio come l'abbiamo immaginato è proprio quello di cercare di offrire ad altre persone, ragazzi più giovani, che fanno questo lavoro e a cui piace scrivere, un'occasione per far conoscere le loro esperienze, perché in fondo questo è il modo migliore per far sì che Paola sia ancora con noi. 

Maria Nadotti*

Il premio Paola Biocca nasce a Torino quasi come una costola del premio letterario Opera Prima Calvino, proprio perché nel '98 Paola partecipò con, "Buio a Gerusalemme", pubblicato successivamente da Baldini-Castoldi. Quell'anno facevo parte della giuria del premio Calvino. "Buio a Gerusalemme" vinse indiscutibilmente perché era un romanzo formidabile, una spy story che la diceva molto lunga sul sapere politico, storico, geografico, sociale, diplomatico, scientifico di Paola. Questa ragazza a differenza di molti autori di romanzi italiani contemporanei non stava chiusa nella sua stanzetta a pensare ai propri problemi, era una che ce li aveva i suoi problemi, ma aveva una gran passione per il mondo, come diceva giustamente Lucia e in questo suo romanzo lei aveva travasato tutto questo suo sapere.

E' un ottimo romanzo, sulla questione del nucleare nello stato di Israele, con una grande capacità di tenuta. Potrebbe essere un ottimo film tra l'altro. Paola vince nel '98 questo premio Calvino e poi l'anno successivo, nel '99, ci lascia. Abbiamo di lei anche altri lavori: le cronache pubblicate dal Corriere della Sera, un'altra grande lezione di buon giornalismo, possiamo dire perché erano caratterizzate da due cose che raramente si trovano nella carta stampata in Italia e certamente nelle televisioni non si trovano. Paola scriveva di fatti che conosceva direttamente, con grande modestia, di cose di cui non ci racconta mai nessuno. Per esempio del silenzio assoluto che si accompagna ai momenti di acume nelle guerre. Lei diceva: quando cala un certo tipo di silenzio in una città, in un villaggio, in una strada, lì sta per succedere qualcosa. Osservava gli animali e cosa succedesse loro in una situazione di guerra. Sono tutti quei fuori scena, tutti quei margini della realtà che vediamo nell'esperienza diretta e che ci permettono di orientarci nel mondo e questo bisogna che noi continuiamo ad esigere dal buon giornalismo.

Antonella Patete*

Ho scritto un reportage su Ventimiglia, perché abbiamo scoperto quasi per caso, in realtà chattando, che Ventimiglia era una frontiera particolare. Una frontiera non d'ingresso, ma d'uscita, dove passavano molti di quelli che arrivavano all'epoca in Italia attraverso l'Adriatico o Lampedusa. Stiamo parlando non di 100 anni fa ma da un certo punto di vista sì perché era nei tempi anteriori alla legge Bossi-Fini. Siamo partiti dalle difficoltà dei curdi che rimanevano incastrati tra i monti di Ventimiglia per poi decidere di fare un lavoro più globale sulle frontiere. A me è toccato verificare la situazione di un Centro di permanenza nel Salento. Ogni volta che ho fatto un lavoro di questo tipo, un reportage, è partito sempre tutto da una grande delusione. Ho il vizio di voler avere sempre tutto sotto controllo e di preimmaginarmi le situazioni ma quando in un posto puntualmente, sono costretta a smentirmi: devo fare i conti con delle cose che sono molto diverse da come me le aspettavo, più complicate. Spessissimo quelli che avevo identificato come le mie guide, sono personaggi sì da intervistare ma che non necessariamente mi portano per mano alla scoperta di quei territori.  Quindi da questa grande sofferenza di non vedere quello che mi aspettavo di trovare è nato anche questo reportage, che è stato completamente diverso da quello che pensavo: perché i buoni e i cattivi si sono a un certo punto scambiati le parti, se così si può dire, perché anche il "cattivo" che allora era appunto il gestore del centro di permanenza temporaneo, aveva una sua verità da mettere sul piatto, aveva dei testimoni che non erano gli agenti di polizia, ma erano gli stessi immigrati che portavano avanti le sue teorie e appunto da questo grande caos è nato un racconto che non aveva più la pretesa d'interpretare niente. Ho partecipato a questo concorso perché m'interessava molto questa linea di confine tra il giornalismo e la narrazione che il reportage rappresenta. Lavoravo e lavoro in una rivista del terzo settore che sì, pubblica dei reportage, ma sempre limitati, due-tre pagine. E' per questo che ho partecipato e in realtà devo dire che effettivamente è stato un vantaggio perché trovare spazio per lavori di questo taglio, di questa dimensione, animati da questo tipo di sensibilità di andare proprio a ficcare le mani nella terra, nella sabbia, nelle stiorie, è una cosa che sembra quasi per cultori della materia.

Stefano Femminis*

L'anno in cui ho partecipato al concorso il tema erano le frontiere. Mi aveva incuriosito e stimolato dare questa lettura del Messico e della sua regione del sud, il Chiapas. Il Chiapas è una regione dove un bambino ancora muore per il morbillo, dove non c'è acqua corrente, elettricità, pieno di contraddizioni e di frontiera anche più in generale. Rispetto ai fenomeni della globalizzazione il Messico è un po' un luogo di rotture, è una faglia non solo fisicamente per i terremoti che ci sono, tra Stati Uniti e America Latina. Inoltre l'idea del reportage mi sembrava un ottimo mezzo dove fare quell'ascolto attivo di cui stiamo parlando in questi giorni. Stamattina ho partecipato al seminario sul carcere. E' venuta fuori questa esigenza di passare un po' dal particolare al generale, cioè di passare dalle storie che pure sono importanti e sono un modo per conquistare l'attenzione del lettore, dell'ascoltatore, a un'analisi , a offrire un'idea di società, di dove stiamo andando, di che cultura promuoviamo. E diciamo che il reportage, anche per il fatto che ha degli spazi ampi, offre questa possibilità. In effetti è molto difficile fare questa cosa in poche righe o in pochi minuti di video. Io ho la fortuna di lavorare per due mensili, che mi danno questa possibilità e questi vantaggi di spazi allargarmi come voglio.

Mimmo Tartaglia*

Farò una sintesi per spiegare cosa è un reportage. Pensate che volevo partire da Giulio Cesare, per dire che il primo reportage l'ha fatto questo condottiero con il De Bello Gallico, ma dovremmo stare qui fino a mezzanotte. Vi posso raccontare molto velocemente le mie esperienze personali. Ho cominciato 47 anni fa sui marciapiedi di Napoli e ho avuto la fortuna di lavorare in un quotidiano, poi al giornale radio e poi in televisione, quindi diciamo che le ho provate un po' tutte. Cerchiamo di rispondere al perché il reportage non va tanto bene, non va tanto di moda. Io credo che il reportage sia stato ucciso in qualche modo dalla fretta, dalla velocità. Non so se notate una cosa: c'è una notizia che va nel telegiornale dell'una e mezza ed è la notizia di apertura; alle 20 la notizia di apertura delle 13.30 è già diventata terza o quarta notizia, nel telegiornale della notte non c'è più, perché la gente vuole altro. Se c'è un incidente stradale con 6 morti la gente poi vuole sentire il prossimo con 12, perché se ce ne sono già soltanto 7, ha la stessa drammaticità. Allora se questo è vero immaginate dove possiamo trovare lo spazio in un telegiornale, in un giornale radio, in una radio, per fare un reportage, una cosa che va bene oggi e va bene pure fra un anno.

Allora immaginate un reportage in televisione, oppure su un quotidiano, dove occupa almeno una pagina; immaginate se un editore si possa consentire lo sfizio di dare una pagina a una cosa che va bene oggi, come va bene domani, ci rinuncia a priori. È questo uno dei motivi per cui non ha spazio in televisione. In più il reportage interessa una parte soltanto di ascoltatori, non tutti. Se guardiamo lo share, sicuramente un reportage fatto alle 11 di sera, perderebbe non solo con Porta a Porta ma anche con Costanzo. Perderebbe quasi con tutti insomma. E allora non è privilegiato, nessuno lo mette in conto. Mentre la televisione, 30-40 anni fa faceva dei bellissimi reportage sui paesi sud americani, sull'Italia meridionale, sul mondo del lavoro ed erano bellissimi perché gli italiani finalmente potevano capire chi erano gli italiani che stavano in sud america. Mi ricordo i grandi servizi di Cantucci nella Rai. Ho lavorato 10 anni all'Avvenire, e ho vissuto il terremoto dell'80 nell'Irpinia. Ho vissuto delle esperienze drammatiche. La cosa più importante quando facevo i reportages ogni giorno qual era? Quella di trovare un telefono perché potevo girare tutto il giorno ma se non trovavo un telefono fisso col quale collegarmi con Milano, avevo fatto un lavoro inutile perché il giorno dopo era un'altra storia. E lì c'era l'emozione vivissima di raccontare le cose, di parlare con le persone. Una volta ho parlato con un ragazzo che tartagliava, non so se da prima della scossa del 23 novembre. Fatto sta che stavamo sopra il cemento armato di 6 piani di un palazzo di cui si erano rotti tutti i pilastri e quindi sotto di noi c'erano 80 morti.  Dopo 3 o 4 giorni, faceva più notizia un cagnolino che era uscito vivo dalle macerie, piuttosto che 20 corpi di uomini che erano rimasti sotto.

Al giornale radio ho fatto una cosa molto importante per me, un reportage sulla Sicilia. Voi ricorderete che negli anni tra l'80 e il '90 quella regione aveva nell'opinione pubblica un'immagine che era veramente terrificante. Feci nell'86, in vista delle elezioni regionali, un reportage al GR2 sulla Sicilia degli onesti. Girai tutta l'isola per 15 giorni e cercai dei testimonial eccellenti. Trovai per esempio Padre Sorge a Palermo, trovai Enzo Maiorca a Siracusa…Nel reportage potevo fare tutte queste riflessioni.  In televisione infine ho seguito ancora una volta il terremoto, quello di San Giuliano, per la Vita in diretta. Anche lì facevamo dei reportages molto belli perché completi: pensate facevamo 40 minuti, 50 minuti al giorno di trasmissione, di dirette.

C'è una cosa che vi voglio raccontare e chiudo. Sono andato nella scuola 5-6 giorni dopo a parlare con la maestra Clementina che voi ricorderete era stata tirata fuori dalle macerie 5-6 ore dopo e aveva perso una classe intera, e ho parlato con i ragazzi. Ero senza telecamera, perché non volevo traumatizzarli. Ho cominciato a chiedere a ognuno di loro: "Tu quante galline hai a casa? Tu quante papere hai? Tu quante mucche?". Lo chiedevo a tutti per fare in modo che si aprissero. Alla fine di tutte queste domande, una bambina mi chiama, mi fa un cenno con la mano, m'avvicino e dice: "Io sono stata 20 ore sotto le macerie".


* Testo non rivisto dall'autore.