XII Redattore Sociale 2-4 dicembre 2005

Meraviglia

Resoconto dei workshop paralleli

Interventi di Marco Reggio, Nicoletta Bosco, Salvatore Esposito, Marino Niola, Stefano Laffi, Gioanni Sandonà, Paolo Restuccia, Franco Lorenzoni, Marina Carta

Marco Reggio*

Noi siamo partiti immaginando quella che è una massima della filosofia orientale , cioè "l'illuminazione non è vedere cose nuove, ma vedere nuove tutte le cose", cioè cercare di andare oltre quelli che sono i dati e le apparenze. Ecco perché siamo partiti dall'analisi di dati statistici dell'Istat che oggi ci dovrebbero spiegare che cos'è la povertà. Un altro aspetto che mi sembrava rilevante e che comunque al termine di questo nostro dibattito è venuto fuori, è che oggi la povertà ha mille facce, però sostanzialmente non è più solamente un problema di reddito, ma come dice anche un professore dell'università di Bologna, Stefano Zamagni, è più che altro privazione e vulnerabilità. Per privazione si può intendere tranquillamente la mancanza di accesso a fenomeni scolastici, al digital divid ossia la difficoltà ad accedere alle nuove tecnologie, all'invecchiamento della popolazione, alla mancanza quindi di una politica sociale che sia in grado di difendere anche le classi più esposte alle normali vicissitudini dell'esistenza. Oggi questo non l'abbiamo enfatizzato, ma è chiaro che le politiche sociali dovrebbero avere più la necessità di costruire un asset building, cioè dei beni patrimoniali a disposizione delle classi più deboli rispetto a una politica, quella che si è seguita sempre fino ad oggi, di azione sociale residuale. Abbiamo riscontrato anche la difficoltà di ridare speranza in qualche modo, attraverso il nostro lavoro, alle persone che oggi hanno bisogno di evolversi culturalmente, personalmente e anche economicamente e ricordavamo che nel 1750 il pensiero economico civile italiano nasceva a Napoli con la prima cattedra di economia che si chiamava "Scienza della pubblica felicità". A distanza di 300 anni, dopo 300 anni di mercato, di liberismo spinto, noi abbiamo oggi, fortunatamente, una ripresa di queste teorie che ci porterebbero a verificare come la tenuta di una Nazione non si misura tanto in termini di Pil, quanto forse di benessere in termini di felicità; c'è chi ha addirittura proposto di sostituire il Pil con il Fil, cioè con l'Indice di Felicità Interna Lorda su veri e propri parametri misurabili e che dimostrerebbero come oggi le nazioni con un maggiore indice di felicità interna lorda sono quelli che hanno poi un Pil pro capite relativamente basso.

Nicoletta Bosco*

Oggetto di discussione è stata la questione delle nuove disuguaglianze , del cambiamento delle stesse all'interno della società che dai dati emergono come un aspetto rilevante che si propone in misura crescente, che differenzia soprattutto gli estremi nella distribuzione della società, la diversità tra i super ricchi e chi si colloca ai gradini più bassi. Però direi che il fulcro della nostra discussione non è stata tanto l'analisi dei dati, sui quali molto si potrebbe dire, per altro molti di quelli che vengono utilizzati sono discutibili, quanto sulla presentazione, sulla rappresentazione delle disuguaglianze e soprattutto sulla distanza che c'è tra la disuguaglianza reale e quella percepita. Ci sono diversi studi che mostrano come non ci sia necessariamente corrispondenza fra questi due aspetti. Ci sono società come gli Stati Uniti dove c'è forte disuguaglianza e bassa percezione delle disuguaglianze. In contesti come il nostro l'alta disuguaglianza si declina con un'alta percezione della disuguaglianza. Quest'aspetto è particolarmente importante per chi si occupa del mondo dell'informazione perché ovviamente le rappresentazioni sociali, quindi le immagini che noi proponiamo all'esterno sull'andamento di una serie di fenomeni, hanno delle profonde conseguenze sulla società, ovviamente in generale; nel mondo dell'informazione le parole acquistano un peso e una rilevanza che produce delle conseguenze, produce conseguenze nel modo in cui stigmatizziamo alcune categorie di individui a scapito di altri, produce conseguenze, perché sulla base delle immagini che sono considerate pubblicamente rilevanti, si determinano le scelte di politica e quindi la gestione, l'investimento delle risorse che vanno su alcuni settori a scapito di altri. Abbiamo a disposizione una coperta che se vogliamo è troppo piccola, quindi se la tiriamo da una parte necessariamente la dobbiamo togliere da qualche altra parte e quindi il modo in cui si discute di tutto questo ha poi delle profonde implicazioni sulle forme attraverso le quali si interviene. Direi che lo slogan che è uscito un po' dalla nostra discussione è che è necessario, anzi urgente, rimettere a tema la questione sociale, cioè aprire una vertenza sulla questione sociale, per usare un'espressione che è stata utilizzata da Esposito. Il welfare, le politiche non sono un aspetto residuale del nostro modo di vivere, non è una cosa che può essere risolta, declinata con le plusvalenze, ma è una delle condizioni principali attraverso le quali si produce sviluppo, si produce integrazione, si definiscono dei contesti in cui le persone non solo vivono meglio, ma percepiscono anche di essere inserite in un ambiente che ha un senso. Un ultimo spunto sulla ricchezza del dibattito è stato quello dell'etica e della responsabilità individuale che devono essere come dire, portate al centro delle nostre attività dei molti lavori che facciamo. A me ha molto colpito il processo inverso a quello accennato prima, cioè una sorta di auto-flagellazione della categoria dei giornalisti che è venuta fuori nel dibattito, per cui c'è un senso critico direi eccessivo. Mi ha molto colpito questa capacità, questo bisogno di scendere nel dettaglio, di capire dove, come si riesce ad ottenere un'informazione puntuale dove si possono seguire dei percorsi formativi che permettano di aumentare le competenze, le nostre capacità di rispondere ai problemi.

Salvatore Esposito*

Nicoletta ha avuto il merito di metterci subito sulla strada giusta quando, affrontando un po' le questioni di merito, i dati sulla povertà, ci ha detto: questa questione dipende molto dal modo in cui si comunica, dal modo in cui si legge questo dato. La prima riflessione che noi abbiamo fatto si è centrata sulla povertà che è aumentata, come anche la rigidità della forbice tra ricchi e poveri. Un secondo ragionamento si è incentrato su questa mancanza di comunicazione che c'è tra i ricercatori sociali, quelli che leggono, fanno ricerca, gli operatori sociali, quelli che lavorano un po' sul campo, e i comunicatori sociali. Bisogna aprire un qualcosa di più di una vertenza, una vera e propria questione sociale, il welfare condizione dello sviluppo, il welfare processo di distribuzione delle risorse, ma sulle gambe di chi? Io credo che se lo mettiamo sulle gambe degli operatori sociali che hanno su di loro la scure della maggiore flessibilità in Italia, o sulle gambe dei giornalisti co.co.pro, non ce la facciamo.

Giovani/vecchi (tra gerontocrazia e non autosufficienza, tra giovani invecchiati e anziani giovanilisti, tra realta e retorica…)

Marino Niola*

I relatori sono riusciti a sciogliere la cosiddetta questione giovanile , in una questione sociale più ampia e poi hanno fatto affiorare l'immagine di una società che trasforma quella che dovrebbe essere la sua forza, in una debolezza, cioè una società che si ferisce da sola e che guarda una parte di sé, o alcune parti di sé, come i giovani e gli anziani, come degli oggetti altri, degli oggetti quasi estranei. I giovani sono le periferie, sono delle zone di emergenza della società, ma zone di emergenza nel senso positivo; Walter Benjamin diceva: "le periferie sono la giovinezza della città", esattamente i giovani sono la forza di una società, il luogo dove una società cresce. Allontanando la categoria dei giovani, trasformandola in una categoria autonoma che poi spesso è oggetto di una sorta di accanimento pedagogico, la società rinvia l'interrogazione su sé stessa. Noi non ci dobbiamo interrogare sui giovani, ma ci dobbiamo interrogare sull'insieme della società, sulle interconnessioni. Ho avuto l'impressione che i giovani sono spesso una metafora più che un dato empirico, una metafora che assume i più disparati significati. Sono una categoria che serve a parlare del disagio, o meglio del passaggio che diventa disagio, una società è fatta di passaggi, non di luoghi fermi, se i passaggi funzionano, se le interconnessioni funzionano, la società funziona altrimenti no. Ora trasformare tutto questo in forma di inquietudine è anche uno dei segni della nostra debolezza, della debolezza di questo tempo, giovani stranieri, anche queste sono spesso categorie. I giovani sono la parte altra di noi stessi. La debolezza di oggi è di non riuscire a vedere tutto questo.

Stefano Laffi*

L'OMS ha cambiato i criteri di definizione dell'autosufficienza, dell'autonomia delle persone nel mondo spostando sostanzialmente sull'ambiente, su ciò che ci circonda, le possibilità che ciascuno di noi ha per muoversi e poter fare quello che si vuol fare. Il che vuol dire che sempre di più conta l'ambiente in cui siamo, gli oggetti che ci circondano per renderci tutti più o meno autosufficienti e tutti più o meno forti e padroni del nostro mondo. Siamo stati tutti d'accordo sul fatto che usare le soglie di età per definire le persone e soprattutto per categorizzarle è poco utile perché l'età non è un click, non succede nulla a 18 anni o a 65, meglio ragionare su altro. Sugli anziani ci è parso che ragionare per passaggi fosse molto più produttivo, attraverso le cosiddette carriere morali, dei passaggi particolarmente delicati da sano a malato, da autosufficiente a non più autosufficiente. Sui giovani questo ragionamento per passaggi non funziona, o meglio pone un rischio molto forte. Noi tendiamo a immaginare i giovani come le persone che devono affrontare alcuni stadi, alcuni passaggi di vita, uscire di casa, metter su famiglia, sposarsi, far dei figli e così via. Sono saltati i calendari, è saltato il potere normativo dei calendari, cioè il fatto di dover fare alcuni passaggi in certi momenti, non può essere questo il modo di guardare i giovani. La domanda su cui ci siamo arrovellati è: lo puoi chiedere o non lo puoi chiedere ad un ragazzo cosa farai da grande? La nostra impressione, scaturita dal dibattito, è che non lo puoi più chiedere, sicuramente non lo puoi più chiedere da giornalista, con un tempo breve, perché la rappresentazione del futuro che hanno i giovani che forse continuano ad avere è oggi probabilmente sempre più priva della parola progetto, della categoria di progetto, quella con la quale noi adulti e gli anziani abbiamo sempre cercato di tirare i fili. Un futuro senza progetto potrebbe essere il modo in cui i più giovani esprimono quello che li attende che è difficile da raccontare. Questo futuro senza progetto per esempio ha un grande pregio, è l'apertura all'accidentale, al casuale che hanno i ragazzi molto più di tutti gli altri. Quindi da questo punto di vista abbiamo solo da imparare. Forse si diceva durante il dibattito, questo futuro senza progetto è una strategia di adattamento, cioè un modo con cui ci troviamo a fare i conti con le difficoltà insomma dell'essere precari.

C'è stato un breve ragionamento su quello che è stato chiamato un po' la pedagogia del tasto play e sostanzialmente in questo mondo popolato di oggetti che sono sempre più tecnologici e seriali succede qualcosa di magico che è sostanzialmente che le cose che vanno da sole e noi assistiamo a questa recita che ci rende più o meno abili e più o meno consapevoli del mondo. I ragazzi sono gli stregoni del mondo degli oggetti seriali, ne sanno infinitamente più di noi. Qualche preoccupazione desta un mondo di merci tecnologiche dove non sappiamo più nulla perché nessuno sa governare esattamente quella roba lì e sa cosa c'è lì dentro. Questo è il mondo che ci circonda, che ci rende più o meno abili, più o meno coscienti. I ragazzi in questo sono più abili a muoversi, forse hanno da insegnarci, forse su questo si gioca per esempio una scommessa che la scuola ha sempre fatto fatica a giocare, cioè il giovane insegna all'adulto, all'anziano. Questa magia del mondo però pone credo qualche problema. Possiamo vivere davvero senza lo sconto dell'esperienza? Cioè possiamo davvero stare in un mondo senza essere davvero consapevoli e coscienti di quello che ci circonda? Il fatto che la tecnologia crea una separazione fra giovani e anziani difficile da reggere, pone un problema forse di tecnocrazia. Alla fine ci siamo trovati paradossalmente a ragionare di linguaggio, cioè di comunicazione verbale. Il codice del ragazzo, il codice dell'azione, molte delle azioni del corpo, il codice dell'adulto, sicuramente quello dell'anziano il codice della parola. Se il linguaggio va un po' in crisi, se dobbiamo assolutamente ripensare alle parole forti e se come ormai tutti hanno capito è inutile da adulti inseguire i giovani sul loro linguaggio, cercare di essere simili a loro e così via, come riusciamo a comunicare fra adulti, anziani da un lato e giovani dall'altro? Non sarà che questa è un'epoca di maestri e non d'insegnanti, cioè di persone che soprattutto sanno fare le cose e quindi le mostrano parlando, piuttosto che di professionisti della parola?

Giovanni Sandonà*

Io alla domanda: che cosa farò da grande, ne ho aggiunta un'altra che nessuno si fa mai : che cosa farò da vecchio? Sono convinto che dentro ci sia un'ideologia, c'è un blocco ideologico nel senso negativo, di rimozione, perché in realtà dentro quel "farò" si nasconde una impossibilità di futuro, per cui siamo rinviati, schiacciati sul presente, che diventa una specie di spazio pesante di blocco, di confine, perché in quel "farò" noi siamo abituati a coniugare altri due verbi, cioè "avrò" e appunto lo stesso "farò" nel senso tecnico, come potrò interagire tecnicamente e che opportunità avrò e che proprietà, che sicurezze, che presenze, che relazioni avrò. Ma non mettiamo mai "chi sarò", "chi diventerò". La risposta secondo me, se c'è una risposta, è recuperare una delle categorie come ambiente sostenibile. Un'identità sostenibile può essere un percorso con cui si possono incontrare i giovani e i vecchi e può essere un percorso che toglie spazi di ideologia castrante a quel fare e a quell'avere che bloccano i giovani e i vecchi in un presenzialismo inteso come solo presente, senza passato e senza futuro. Allora se gli adulti e i vecchi devono imparare ad abitare il presente come fanno i giovani, il presente frammento, il presente bricolage, il presente che mentre lo si fa lo manipoli, ci crei dentro qualcosa, credo che si possa trovare un modo di dialogare, una reciprocità giovani-vecchi lì dove i vecchi danno all'abitare il presente anche quella sostenibilità perché torna ad essere abitato anche da un futuro, un futuro di cui non si ha più paura perché non è più solo possesso e azione, ma diventa per esempio riconciliarsi coi propri bisogni, diventa per esempio appartenenza e quindi "che cosa farai da grande?" può voler dire "a chi deciderai di appartenere?", "con quali appartenenze giocherai?", "con quali dipendenze positive coniugherai la tua vita?", "dove sarà il tuo nord? Il tuo sud, est e ovest che ti permetterà di non essere un eterno disorientato, ma dare un senso, un nome, un significato a quel tratto di strada che stai per fare?".

Istruiti/ignoranti  (scuola e formazione culturale, insegnamento formale ed informale, educazione e mass mediadispersione e  analfabetismi di ritorno…)*

Paolo Restuccia*

Sono venute fuori delle cose che mi hanno colpito , soprattutto negli interventi dei relatori che stanno qui accanto a me, interventi molto forti. Abbiamo fatto la scelta di parlare d'istruzione, di educazione, di ignoranza in relazione alla presenza degli immigrati, la relazione tra la nostra presunta istruzione o la loro e la nostra presunta ignoranza, quindi non un discorso troppo ampio, troppo generico. Ne sono venute fuori delle discussioni di valore, anche con delle cifre che potrebbero essere utili perfino ai giornalisti; parto dal fatto che mi ha colpito di più, ossia la percentuale di immigrati laureati che è del 12%, una percentuale decisamente alta, considerando che la nostra percentuale come cittadini italiani in assoluto, pare sia intorno all'8-10%.
Il mio punto di partenza è stato trovato da qualcuno provocatorio, ma non era affatto provocatorio; occupandomi da tempo di radio, di linguaggio e di scrittura, perciò di parole scritte, io credo che noi viviamo una profonda crisi della parola, non sappiamo bene darle importanza, la consideriamo uno strumento secondario. Oggi le parole sono un po' scarse e quindi dicevo non soltanto i giornalisti hanno difficoltà ad usarle; noi pensiamo che l'istruzione passi attraverso la parola e la scuola ne è un esempio, considerando che a scuola non si fa altro che parlare e leggere, interrogare e rispondere.

Franco Lorenzoni*

Molte domande che sono venute fuori nella discussione hanno riguardato questa questione del linguaggio , cioè se il linguaggio ancora ha la possibilità di dire, di dire effettivamente qualcosa, di dirlo in modo significativo e profondo. Io sono insegnante elementare, quindi diciamo posso solo da lontano guardare quello che accade nel giornalismo. La mia idea è che il problema è individuale, diciamo il problema è di assumersi pienamente le responsabilità ciascuno di noi in qualsiasi posto stiamo. C'è purtroppo un'abitudine nazionale molto forte che addossa le colpe sempre agli altri, qualsiasi cosa è sempre colpa di qualcun altro mentre io penso che c'è una questione di etica e di responsabilità individuale importantissima. C'è una frase di Flaubert che a me piace molto: "Dio sta nel dettaglio", allora io penso che è nella cura del particolare, di fare ogni cosa veramente bene, di farla con attenzione che forse possiamo reagire ad un uso delle parole che butta via tutto.
In ultimo è venuta fuori la domanda: che ne pensate di quello che è successo a Parigi nelle banliue . Oggettivamente noi oggi possiamo dire di non aver capito niente di quello che è successo, molto poco, ci sono forse degli accenti, delle cose, ma se uno cerca in giro per la stampa quello che è venuto fuori dopo, c'è molto poco. Ci sono tante cose che noi non comprendiamo forse addirittura tutto ciò che è accaduto dopo l'11 settembre, molte cose ancora non riusciamo a capirle. Allora io penso che il problema di responsabilità individuale, che uno faccia l'insegnante, il manager, il giornalista, o anche altri mestieri, sia quello di approfondire. A me è venuto da citare le parole che mi sono molto care di Alexander Langer quando contrappone al motto olimpico del più forte, più veloce, più alto, quello più profondo, più lento, più gentile, più dolce. Credo che sia una cosa che c'entra con la nostra civiltà in generale, ma anche col mestiere che noi facciamo, riuscire a fare spazio tra le parole. L'ultima cosa che è stata più volte ripresa nella discussione è la questione della lungimiranza. Io ho cominciato citando una bellissima poesia di Pasolini del '64 in cui il poeta immagina le barche che arrivano sbarcando gli africani che vengono a centinaia, a milioni. Ora 40 anni fa in Italia nessuno immaginava questo, e questa poesia che lui ha chiamato "Profezia", che è impressionante a leggerla, sembra proprio raccontare quello che è successo negli ultimi 10 anni. Allora il problema è che per educare, ma io penso anche per informare, noi dobbiamo comunque sforzarci di immaginare cosa sarà l'Italia fra 40 anni. Penso che forse non sia un caso che abbiamo scelto, senza dircelo, il tema dell'immigrazione. Un mutamento enorme sta succedendo nel nostro paese, il passaggio da una monocultura a un luogo pluriculturale. Quali sono i disegni, le immagini, su cosa lavoriamo, questo è ancora tutto da scoprire, già qualcuno ci sta lavorando molto bene.
Uno dei grandi difetti dei media è di stare tutti molto schiacciati sul presente. Io ho trovato scandaloso per esempio che quando c'è stata una riunione di capi del governo del nord e sud del mediterraneo, tutti i telegiornali hanno posto l'accento solo su quello che ha dichiarato Berlusconi di Casini, cioè il provincialismo micidiale del nostro paese, il poco spessore, la poca curiosità verso quello che succede un po' fuori dal nostro confine che secondo me corrisponde alla poca curiosità per quello che succede dentro, nel microcosmo, nei luoghi dove noi operiamo. La scuola da questo punto di vista è un territorio particolarmente sensibile, perché le scuole sono il luogo obbligatorio d'incontro tra stranieri e italiani, ma non solo naturalmente.
L'ultima immagine è un mio ricordo: quando nacque il mio primo figlio, sua nonna materna disse che dovevamo mettere un vestito alla rovescia, un calzino, una mutanda, insomma una cosa bisognava metterla alla rovescia, perché era l'unico modo di proteggersi dal malocchio e io ci credo a questa cosa, nel senso che il malocchio in cui siamo sempre tutti immersi è quello dell'obbligo al consumo, del dover sempre essere ossessionati dal pensare che la felicità sia legata alla ricchezza. Mettere un calzino alla rovescia significa respingere l'onda corrente.

Marina Carta*

Vorrei essere sintetica e a grandi linee dare il quadro di quelle che sono state alcune riflessioni legate alle criticità nell'integrazione degli alunni stranieri dentro la conversazione più ampia che è stata quella del nostro gruppo, che ha focalizzato la sua attenzione sull'immigrazione, sulle nuove criticità e mi riferisco alle criticità della fascia più debole, soprattutto degli adolescenti, che oggi numerosi in Italia sono esposti a maggiori rischi di marginalità con altri giovani non stranieri. Abbiamo riconosciuto come nuove criticità l'insuccesso scolastico, il ritardo, le bocciature, le dispersioni e la penalizzazione che ogni giovane immigrato incontra nella scuola per non conoscere l'italiano, segnalano la necessità che i percorsi scolastici di istruzione, di formazione, siano rivisitati, non solo per gli studenti stranieri, ma certamente gli studenti stranieri sono l'occasione per riflettere su questo cambiamento.
Oggi per una percentuale abbastanza alta di studenti stranieri la scuola non è il luogo privilegiato di integrazione, sappiamo che invece la scuola lo deve essere in quanto integrando gli alunni stranieri si integrano le loro famiglie. La scuola è debole, non solo per gli alunni stranieri, è una scuola debole nel suo complesso, in quanto non è capace di fare cultura per tutti, non sa favorire l'incontro, le storie, la narrazione, inoltre non sa gestire la pluralità, la pluralità di comportamenti, di saperi, di culture, la pluralità dei ceti sociali, di interessi, di lingua. Allora partendo da questa analisi anche attraverso il dibattito e gli interventi che sono stati fatti, si è arrivati a definire la necessità di una scuola innanzi tutto che, praticando già da 10 anni delle buone prassi, possa usufruire di linee guida nazionali in modo che quello che viene fatto a macchia di leopardo avvenga a più ampio raggio, dando una risposta al diritto dei giovani italiani e stranieri in termini di localizzazione; abbiamo anche sottolineato come oggi il processo d'integrazione sia più delle volte un caso, una probabilità, una fortuna.

 

Per problemi tecnici è saltata la registrazione del workshop "Istruiti/ignoranti (scuola e formazione culturale, insegnamento formale e informale, educazione e mass media, dispersione e analfabetismi di ritorno…). È stato possibile pertanto riportare solo il resoconto finale dei lavori


* Testo non rivisto dall'autore.