XVIII Redattore Sociale 25-27 novembre 2011

Bulimie

Esserci

Incontro con Mario Dondero. Conduce Massimo Raffaeli

 
Parte 1
Durata: 15' 54"
 
Parte 2
Durata: 11' 32"
 
Parte 3
Durata: 10' 07"
 
Parte 4
Durata: 6' 58"
 
Parte 5
Durata: 17'
 
 
 
 
Mario DONDERO

Mario DONDERO

Nato nel 1928, è uno dei più importanti fotografi e giornalisti viventi. Viaggiatore instancabile, ha collaborato fin da giovane con varie testate ed ha intrecciato la sua vita con innumerevoli altre, tra cui quelle dei più noti intellettuali italiani ed europei.

ultimo aggiornamento 30 novembre 2014

Massimo RAFFAELI

Massimo RAFFAELI

Critico letterario, scrittore, traduttore di autori francesi, collabora con il manifestoLa Stampa e varie riviste. Ha scritto una decina di libri.

ultimo aggiornamento 25 novembre 2011

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LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Massimo Raffaeli

Buonasera a tutti e grazie veramente di cuore di questo invito. Per me personalmente è una prima ed è un luogo così singolare e anche così vissuto, così tangibilmente vissuto che è anche abbastanza emozionante trovarsi da questa parte , tanto più che devo presentare un grande maestro, non solo, della nostra fotografia. E' una presenza longeva e splendidamente giovane della nostra cultura.

Mario Dondero in realtà è un diorama fotografico , cioè ha un'esperienza del mondo che va molto al di là di una singola tecnica, fosse anche quella straordinaria delle sue fotografie. Pensate che in uno dei più grandi siti fotografici che capita di aprire in internet, viene definito "a living legend" ossia una leggenda vivente del foto-giornalismo. Lavora da 60 anni, è nato anagraficamente a Milano, ma è genovese, del tutto genovese, persino genoano… Enzo Biagi, se non ricordo male, lo assunse a Milano sera nel '51.

Dondero è un uomo che ha almeno tre grandi epicentri prima di avere la globalità come sua dimensione. Questi tre epicentri sono stati Milano e il bar Giamaica, dove ieri è ritornato diciamo in una postura accademica addirittura aggettante e noi gli facciamo le congratulazioni, dove ha cominciato il suo lavoro vicino a figure altrettanto straordinarie, ne cito due facendo torto a molte altre e me ne rendo conto, uno è Luciano Bianciardi l'autore come voi sapete de "La vita agra" e uno è addirittura qualcuno a cui Mario Dondero ha messo in mano per la prima volta una macchina fotografica ossia Ugo Mulas. L'altro epicentro è Roma dove è stato negli anni '60 e poi Parigi dove è emigrato una prima volta nel '55, dove ha molti dei suoi affetti e dove è stato un vero e proprio protagonista. A Parigi ha lavorato a lungo per esempio per Le Monde.

Le sue foto sono uscite in Italia nell'estate storica della sinistra de L'Unità, Il Manifesto, il Venerdì di Repubblica e in grandi riviste monografiche della fotografia, penso all'illustrazione italiana che è stato un sito molto importante per i fotografi della sua generazione. Ha un contatto non interlocutorio con questa terra in particolare dato che da 20 anni abita in Vicolo Zara a Fermo in una piccola casa che non è esattamente un modello di ordine piccolo-borghese.

 

Una domanda sempre nell'ambito della bulimia, di un eccesso che è anche un sospetto da parte mia: ti ho visto fotografare come diverse persone qui per molti anni con una macchina filologica, mentre negli ultimi anni, con sospetto di tutti i conservatori come me, ti sei, io uso una parola forse abusiva, convertito al digitale. Non trovi che sia uno strumento che è portato naturalmente alla bulimia rispetto alle vecchie macchine? Oppure sono i pregiudizi di un conservatore?

Mario Dondero

Il digitale è più democratico

Non sono affatto passato al digitale per la verità, solo che trovo che il digitale sia democratico, nel senso che costa meno, allarga gli orizzonti, magari nascono dei formidabili fotografi che prima non avevano i soldi per comprarsi la pellicola . Adesso non si può essere radicali, come dire fotografa solo in bianco e nero e non a colori. Trovo che ci sono delle situazioni spettacolo che vanno fotografate a colori, mentre invece trovo che i grandi temi, la storia, i drammi, le miserie, le sofferenze, l'umanità della gente è meglio fotografarla in bianco e nero, trovo che è più intensa…

Massimo Raffaeli

In che senso?

Mario Dondero

Sono rimasto affezionato alle mie macchine fotografiche non in digitale

Per dire che il digitale fa parte del commercio ed è particolarmente valido però il digitale nel video con il quale adesso una sola persona può fare un grande film e questo mi sembra un bellissimo progresso, però rimane che io sono sensualmente affezionato alle mie macchine fotografiche, non vado a letto con la Leika, una macchina costosissima, come Gianni Berengo Gardin per paura che gliela rubino, insomma, non ho toccato questo livello…

Massimo Raffaeli

In che senso, l'hai detto così en passant, trovi che ancora il bianco e nero vada al dunque delle cose, paradossalmente più che non il colore? In che senso?

Mario Dondero

La foto in bianco e nero: una fonte di poesia

Ad esempio sono andato in Francia da giovane, sia perché mi ha sempre estremamente appassionato la rivoluzione francese, ma anche e soprattutto perché c'era la grande scuola fotografica francese del bianco e nero che era ben diversa dalla foto hollywoodiana a colori che si praticava altrove. Ho sempre trovato che il bianco e nero fosse una fonte di poesia, qualcosa di più alto, di più nobile, di più affascinante.

Massimo Raffaeli

Non trovi che, invece, molti fotografi e cineasti che oggi, al di là del budget più povero e più accessibile, che usano il bianco e nero abbiano invece una posizione fortemente manieristica e idealistica della fotografia , cioè che quasi accedessero a un bello prefigurato del bianco e nero stesso? Ossia che nel colore sparato c'è molta volgarità, ma forse meno filisteismo che nel bianco e nero?

Mario Dondero

I fotografi sono spesso i precursori, le avanguardie della ricerca

Io credo che la volgarità sia dentro nella testa di chi fotografa, cioè non è il materiale che è volgare . Mi viene in mente un bellissimo film che probabilmente quasi tutti avrete visto, che si chiama "L'uomo che verrà", ci son delle foto notturne a colori, di una poesia intensissima della campagna emiliana, di una grandissima bellezza. Ad esempio quando è arrivata la pellicola Hps, una pellicola imperfetta perché produceva eccellenti effetti quando fotografavi gli interni, invece andava malissimo quando fotografavi fuori perché venivano delle foto impastate, ecc., è stata comunque una grande rivoluzione perché ha permesso di poter fotografare a luce ambiente con grande facilità a differenza del flash che tra l'altro era praticamente obbligatorio nella stampa italiana. Io collaboravo con i giornali che pretendevano che io facessi le foto al flash che io invece ho sempre trovato che fosse, come dire, una cosa univoca, è sempre quel tipo di luce lì, non è quella del mondo reale. Ho anche sempre sostenuto che se tu fotografi in un bordello o in chiesa col flash è uguale, anche se col flash si possono drammatizzare fantasticamente le situazioni come faceva Weegee in quel suo bellissimo lavoro su New York, "The naked city", da cui poi in seguito Jules Dassin ha tratto l'ispirazione per fare quel bellissimo film "La città nuda". Va anche detto che i fotografi sono spesso i precursori, gli esploratori, le avanguardie della ricerca, perché sono da soli con una piccola macchina e penetrano ovunque, mentre ad esempio le troupe televisive tutti le vedono, sono in tanti voglio dire, tutto risulta falsato invece la fotografia può essere una formidabile verità.

Massimo Raffaeli

A proposito, è noto che hai le tue idee, una storia che nasce quando tu adolescente partecipi alla resistenza armata in Val d' Ossola, ci sono tutta una serie di precise scelte in termini etico-politici e non è un caso che uno dei rarissimi che citi sempre è proprio Robert Capa che dice: "La verità è la migliore propaganda". Ma davvero è possibile oggi, al di là del tuo caso che ha una stratificazione già di grande spessore, e non prenderla come un'interrogativa retorica, una politica della fotografia, quello che una volta si chiamava " engagement ", impegno? E' davvero possibile o esiste un sistema di compatibilità per cui questo no diventa subito un si dell'industria culturale?

Mario Dondero

La fotografia come mina vagante

La fotografia è stata avvertita come una mina vagante, come un pericolo immenso per le grandi propagande politiche, al punto che per esempio è diventato quasi impossibile andare nelle guerre americane, dove c'è lo stato di "embedded" , per cui devi firmare un documento con il quale ti impegni a non denunciare, a non danneggiare gli Stati Uniti. Devi guardare come vogliono loro e non devi rivelare cose che a loro non piacciono, del resto tutti i fastidi che ha avuto Emergency in Afghanistan, dove ho avuto l'emozionante e straordinaria gioia di stare, è proprio dovuto a ciò.

Nella mia vita sono stato tra l'altro un fotografo di guerra soprattutto sugli aspetti collaterali, nel senso che sono stato con Medicin sans frontier in Cambogia, con i medici cinesi nel Mali, con i medici cubani, sono stato con Emergency che ha questa caratteristica straordinaria di essere un equipe cosmopolita, che quindi viene accolta e non identificata con un'azione specifica e quindi non subisce le ostilità pregiudiziali che i popoli che sono in guerra possono avere verso i francesi, verso gli inglesi, ecc…

Massimo Raffaeli

Tu hai sempre molto apertamente sospettato la cosiddetta foto artistica, sia nelle tecniche dell'esposizione , il cavalletto, ecc., sia nella gara più o meno implicita per differenziale o per omologazione con la pittura e con altre arti. Addirittura più volte, da ultimo, hai dichiarato apertamente che persino Cartier Bresson è troppo bravo e fa delle foto troppo belle. La stessa cosa hai detto di Sebastiao Salgado che è noto per essere il fotografo dei "Sen terra" brasiliani. Non ti viene in mente che le foto troppo belle sono foto brutte? In che senso anche Cartier Bresson e Salgado fanno ai tuoi occhi delle foto brutte? In che senso lo sono?

Mario Dondero

Se non avessi visto le foto di Capa magari non avrei neanche fatto il fotografo

Io provo la più viva ammirazione per questi fotografi, sono veramente degli artisti straordinari ma a me più ancora dell'arte interessa la denuncia sociale. Ecco perché mi piace Capa, se non avessi visto le sue foto magari non avrei neanche fatto il fotografo. Robert Capa ha toccato dei livelli di straordinaria capacità di documentare il mondo, che mi han talmente commosso che ho trovato che fare il fotografo valeva veramente la pena e infatti non mi sono mai pentito. Comunque Sebastiao Salgado fa delle foto formidabili, solo che ti mostra una favela che sembra una scena teatrale meravigliosa e tu ti dimentichi che sei dentro una miseria terribile; poi naturalmente ci sono altre foto e questo perché lui ha un talento naturale, un gusto proprio direi dell'armonia visiva, una grande passione del racconto della bellezza del mondo e trova tutto bello. Salgado ha fatto per esempio una foto fantastica che sembra la foto di Spartaco in una miniera a cielo aperto: si tratta di un minatore che prende la canna del fucile del guardiano. E' una foto di una forza immensa e basterebbe quella foto lì da sola per dire che Sebastiao Salgado è un grandissimo fotografo, è un grandissimo testimone coraggioso, umanissimo e bravissimo.

Massimo Raffaeli

Molti oggetti della tua fotografia sono degli autentici pellegrinaggi laici . Mi viene in mente una foto che tu hai fatto a Portbou sulla tomba di Walter Benjamin, un intero reportage per diario .

A proposito invece della foto celeberrima di Robert Capa e del miliziano che cade durante la guerra civile spagnola, ho letto da qualche parte, non so nemmeno se è così come viene riferito, che hai in mente di fare un vero e proprio viaggio sulle tracce di Robert Capa. Per chi non lo sapesse, Capa non solo è il maestro fondatore del fotoreportage ma è stato anche il fotografo che di fatto ha documentato per tutti noi su una mina in Vietnam. E' vera questa cosa di Robert Capa? E perché ogni tanto senti questo bisogno di veri e propri ritorni a figure archetipiche?

Mario Dondero

La storia della foto del miliziano di Capa

Periodicamente scrivono che la foto di Robert Capa è falsa, che lui si è inventato questa foto, ha fatto recitare ai soldati miliziani spagnoli e ai repubblicani . Intanto se lo avesse fatto, sarebbe il re dei registi, il più meraviglioso autore che esiste, ma invece tutta questa storia è completamente vera. Io semplicemente ho scoperto chi ha scoperto, cioè sono andato a trovare l'uomo che ha avuto l'idea di mostrare questa foto e che tra l'altro era interdetta nella Spagna franchista. C'è un libro del sociologo austriaco Franz Borkenau che era insieme a Robert Capa e alla sua morosa Gerda Taro quel giorno in cui morì il miliziano, perché stavano andando a Cerro Muriano, un paese vicino a Cordova, dove doveva scatenarsi un'offensiva repubblicana. La propaganda repubblicana aveva invitato i giornalisti a portarsi verso Cerro Muriano per partecipare all'operazione. Quando sono arrivati invece stavano scappando tutti, c'erano alcuni che cercavano di frenare la ritirata, ma i combattenti miliziani, anarchici in prevalenza, che erano lì sul fronte, erano morti di paura mentre stavano avanzando a tenaglia i regulares marocchini che tra l'altro avevano quasi circondato il gruppo di giornalisti con Robert Capa, un gruppo tra i migliori reporter del mondo presenti a Cerro Muriano. Stavano per essere catturati dai soldati marocchini del generale Varela quando irruppe sul fronte la brigata anarchica di Alcoy che respinse l'attacco. Non si sa neanche se la foto l'ha scattata Robert Capa o Gerda Taro perché si passavano le macchine fotografiche; hanno scattato queste foto dal basso della trincea mentre i soldati si lanciavano e in quell'occasione Federico Borrell Garcia, un ragazzo di 24 anni, operaio tessitore di Alcoy, morì in questa situazione, in quel giorno lì che era il 5 settembre del 1936. Per molto tempo hanno continuato a raccontare che era una balla grande una casa e invece ci sono tutti i documenti che confermano che questo ragazzo è morto lì. Un insegnante di Alcoy mi ha raccontato come sono arrivati all'identificazione: hanno preso questa foto e gli hanno detto che era stata scattata a Cerro Muriano e allora si è ricordato che i miliziani di Alcoy, del suo paese, avevano combattuto proprio a Cerro Muriano, così è andato con questa foto da Mario Brotons che era stato l'ultimo sopravvissuto che aveva 15 anni in quell'occasione, il quale riconobbe non il miliziano bensì le giberne che portava il soldato che erano esclusiva di un artigiano di Alcoy, quindi era certamente uno di Alcoy. Hanno fatto girare nelle famiglie questa foto, alla fine sono arrivati a identificarlo. Io sono andato anche a casa della famiglia, ho conosciuto i discendenti. Forse per ragioni politiche denigratorie hanno continuato a dire che era un falso, anche perché trattavano Robert Capa come un frivolo, qualcuno di fatuo, cosa che invece non era.

Massimo Raffaeli

Neanche a farlo apposta: ma è in dubbio anche così agli occhi dei profani che la foto di impegno, o la foto di una linea che si può tracciare da te all'indietro fino a Robert Capa, fotografa sempre la guerra, gli uomini al lavoro, le grandi manifestazioni politiche…Ma allora è una questione, perdona se sovrappongo categorie che magari sono più di pertinenza della letteratura, del cosa o del come? Quanto c'entra cioè il tuo occhio di soggetto? O è solo una questione di documentare qualcosa? Quanto ti senti implicato? Io ho l'impressione che tu tendi a evadere diciamo la verbalizzazione di quanto ci sia di tuo. Dici a Salgado che esagera perché trasforma in torsi caravaggeschi, io almeno sono d'accordo con te almeno in parte, però tu continui ad avvalorare le tue fotografie in termini grezzamente contenutistici e questo secondo me non funziona. Quanto poi c'è di tuo nella fotografia?

Mario Dondero

Uno riceve guardando il mondo

C'è qualcosa che diventa quasi innato, che vuol dire che uno riceve guardando il mondo . Per esempio Caio Mario Carrubba che è un grandissimo fotografo italiano, mi ha raccontato come ha reimparato a far le foto, guardando i libri della grande pittura del Rinascimento del suo papà e vedendo il modo di costruire l'immagine come facevano i grandi artisti di quella grande epoca.

Massimo Raffaeli

Tu come hai imparato?

Mario Dondero

Io sono nato uno che guarda

Io penso che non ho neanche imparato, cioè sono nato uno che guarda, non so, hai capito che voglio dire? Non è che ho imparato, fotografo in una certa maniera che alcuni considerano singolare, particolare, ecc., insomma ripeto, a me quello che interessa è l'utilità, la funzione che può avere l'immagine, l'importanza che ha. Ecco perché mi piace il foto-giornalismo. Per esempio mi piace moltissimo essere in treno e vedere il mio vicino che apre il giornale e c'è la mia foto. A Parigi ho visto delle mie foto sbattute lì e mi sono detto: sono entrato nel gran fiume della vita… Voglio dire, io non sono affatto contro la voluttà di fotografare, il senso estetico, però il senso estetico non deve uccidere la denuncia e questo Robert Capa per esempio l'ha proprio scritto in modo radicale. Secondo me è fondamentale raccontare le cose come sono in modo chiaro e semplice. Sono infastidito da troppo sperimentalismo fotografico che si allontana dal racconto vero. Adesso per esempio i giovani fotografi non pensano neanche al giornale, pensano alla mostra e poi dopo trasferiscono questo spirito della mostra nelle foto per cui i racconti non ci sono più. Bisogna invece raccontare le cose come sono, gli avvenimenti. Io non sono affatto un maniaco della fotografia intesa come piacere del fotografare, a differenza del mio amico Ugo Mulas che era un maniaco della foto, sono invece molto attratto dal discorso fotografico, cioè del racconto. Tra l'altro ho fatto molte volte delle foto storie per la tv dei ragazzi per la Rai, mi pagarono un milione di lire negli anni '60 per tornare con 150 foto che raccontassero una storia scritta da me, tra l'altro poi raccontata alla televisione da Cocciolla e Satta Flores che erano i direttori in voga nell'epoca. Il fatto di raccontare, cioè di concatenare le immagini, di fare insomma una sorta di film con le immagini fisse, è sempre stata una mia particolare passione…

Massimo Raffaeli

Il senso comune è chiarissimo: siamo in crisi economico-finanziaria, se n'è discusso anche oggi da tempo e c'è naturalmente una retorica della crisi, cioè di dispositivi di racconto, di analisi, ecc . E' una cosa che senti che ti riguardi, cioè è cambiato qualcosa? Che cosa ha aggiunto questo frangente così duro anche per tutti noi?

Mario Dondero

La censura verso il reportage è diventata severa

Ha colpito durissimamente il giornalismo ed è sicurissimo ; un'altra cosa che ha colpito durissimamente il giornalismo seppure facilitandolo se vogliamo, è l'arrivo di internet per esempio, ragion per cui i giornalisti viaggiano 90 volte meno di prima per esempio, perché in tre minuti collezioni 5 o 6 notizie che incameri e scrivi un articolo.

Penso che è diventata severa la censura verso il reportage approfondito e coraggioso perché fan di tutto per ostacolare questa cosa, ma il raccontare è una necessità assoluta. Documentare il mondo è fondamentale e il reportage non morirà mai.

Interventi

Cinzia Guerrini (TelevideoRai)

Maestro, c'è una foto o ci sono delle foto che non ha potuto fare, oppure che una volta fatte non le sono state pubblicate? E perché?

Mario Dondero

No, delle volte mi sarebbe piaciuto far delle foto, ma ho capito che gli interessati non gradivano e quindi non le ho fatte . Per esempio una volta al piccolo teatro di Milano mi è sfilato davanti Bertolt Brecht a un metro, avevo in mano la macchina fotografica, stavo per fare clic e qualcuno dello staff dirigenziale mi ha detto: "Il maestro non ama essere fotografato" ed io non ho fatto clic. Un'altra volta un giornale mi aveva mandato a fare un reportage a casa del pittore Andrè Masson che aveva già 90 anni circa, l'unica cosa viva che aveva erano gli occhi… Gli ho fatto una foto e poi i suoi parenti volevano spostarlo, portandolo fisicamente nel suo studio, nel suo atelier completamente coperto, in cui c'era tutto però era un posto che non funzionava più, lui non dipingeva più e allora ho mentito, ho detto che mi si era rotta la macchina fotografica, mi son scusato e non ho fatto nessun reportage… Di reportage ne ho falliti una quantità industriale, per tante ragioni.

E' difficile fare questo mestiere anche per la committenza, perché io tra l'altro sono sempre stato moltissimo impegnato in politica, molto attento a quello che facevo, non volevo dare a tutti i giornali le mie foto. Delle volte m'interrogo se è il caso, perché una foto parla per suo conto però anche la didascalia ha un'importanza capitale, ad esempio ho visto una foto di una mia amica fatta ai partigiani in Monzambico e nella didascalia c'era scritto: africani dalla parte del governo portoghese… proprio ribaltata… Dunque le parole possono cambiare le foto. 

Un fatto divertente: ero sulla Costa Azzurra e lavoravo per un'agenzia fotografica milanese
 che mi chiedeva di fare i reportage che volevano loro, che generalmente erano delle cose turistiche, contro però il diritto per me di fare ciò che mi piaceva e mi interessava. Tra le cose che m'interessavano c'era andare a trovare Chagall, un'epoca remota in cui si poteva andare a casa di Chagall e suonare il campanello, penso sia una cosa che non esiste più… Quindi io suono il campanello, viene una signora che doveva essere la badante che mi dice: "Il maestro la riceve, venga con me"; era in alto nella sua casa e salivo per questi corridoi con le pareti tappezzate di Chagall meravigliosi, proprio una cosa da sogno, assolutamente emozionante al massimo. Arriva il maestro che mi accoglie, io avevo 23 anni e sapevo pochissimo il francese poi ero intimidito dal suo stato, perché lui parlava con me, poi per un momento la sua mente partiva nel nulla e poi tornava indietro. In uno di questi ritorni mi ha detto: "Ma lei ce l'ha il tesserino giornalistico? È talmente negato…" ed io gli ho detto di no, che l'avevo dimenticato ed è finita che non gli ho fatto nemmeno una foto. Il tesserino ce l'avevo ma non l'avevo in tasca, non l'ho quasi mai in tasca…

Alessandro

Volevo chiederle un chiarimento riguardo al concetto di bulimia che era emerso durante il dialogo. Dal suo punto di vista il problema oggi è che ci sono troppe fotografie o che ci sono troppe fotografie brutte? Intendendo per brutto una fotografia che non è in grado di svolgere quella funzione sociale di denuncia a cui secondo lei la foto dovrebbe aspirare. Dal mio punto di vista c'è una profonda differenza: in questo caso si cerca di mettere in rilevanza attraverso questa critica al brutto il fatto che dietro il concetto di bulimia c'è una dimensione profondamente qualitativa, che è emersa sia nelle sue parole, ma anche ad esempio nelle parole precedenti di Don Achille Rossi.

Mario Dondero

Effettivamente c'è un uso proprio invasivo della fotografia, per esempio le gigantografie immense sulle città a me non piacciono affatto… Poi ci sono delle campagne pubblicitarie di una volgarità infinita con delle foto squallide. Ce n'è una ad esempio della Berlitz dove si vede uno con due lingue, una foto veramente artificiale, orrenda… Insomma ci son spesso delle pessime foto è vero, ma io penso sempre che, insomma, il lavoro è lavoro e la gente fa queste cose… Per esempio un giorno ero a Stalingrado ed ero emozionato, ero nel mio albergo, apro la finestra per la prima volta e vedo un'immensa gigantesca foto di Armani e sono svenuto. Adesso vado a Stalingrado e incontro di nuovo Armani che m'insegue continuamente con i suoi maschi nudi, con le sue foto così… insomma ecco… non so se ho risposto bulimicamente alla tua domanda…

Giordano

Una volta un fotografo mi ha detto che lo scatto di cui va più fiero è quello che non ha fatto, perché era una situazione particolare che lui non la riteneva degna di essere fotografata. Qual è la sua fotografia di cui va più fiero?

Mario Dondero

Ci sono delle mie foto non considerate importanti ma che a me piacciono moltissimo, per esempio la foto di un emigrato che dorme avvolto in un telo… Perché bisogna sapere che gli africani vanno in giro attrezzati per dormire per terra e quindi poi si ritrovano in Europa come se fossero nella savana. Nella foto c'è un negozio di una compagnia di viaggi con un'hostess di carta pesta e un uomo che dorme davanti e che per me sta sognando il viaggio. Questa è un'osservazione sottile, cioè io trovo che sono spesso le foto più interessanti, sono delle osservazioni minime di cose minime. Per il resto penso che la foto più intensa che ho fatto è quella dei prigionieri durante il conflitto algero-marocchino; tra l'altro fotografare dei prigionieri è estremamente delicato, perché tu stai dalla parte dei guardiani e sei visto come un nemico, invece quella volta lì credo che sono riuscito a stabilire, in silenzio nello sguardo di questi uomini e del mio, un rapporto di solidarietà e ho fatto una foto che ritengo la mia migliore in assoluto.

Francesco

Nel suo ultimo libro Susan Sontag sostiene che davanti al dolore degli altri si può leggere una fotografia in due modi diversi. Quindi una fotografia di guerra può essere letta in un modo diverso da chi partecipa alla guerra da chi la guerra la vive in una maniera mediata. Le è mai capitato di fare una foto con un intento preciso di testimonianza e di ritrovarsi invece la sua immagine icona di un gruppo politico o di un partito invece a favore di quelle violenze?

Massimo Raffaeli

Se non ho capito male il nostro amico chiede: ti è mai capitato che una foto a cui tu davi un intento militante preciso, è stata poi rovesciata e utilizzata diversamente?

Mario Dondero

Certo, delle volte nelle foto ci sono situazioni di ambiguità . A me non sembra di essere incappato in particolari situazioni equivoche, però ci sono delle foto che effettivamente fanno pensare. Ci sono foto che possono suscitare anche una forte indignazione, per esempio questa indignazione la trovo fortissima di fronte alla foto di Adams, un ex marines insomma e che quindi andava alla guerra con lo spirito dei marines, che ha fotografato il generale Nguyen Ngoc Loan che spara nella testa di un vietcong. Io penso che se non ci fosse stato il fotografo, il vietcong non sarebbe mai morto, quindi i fotografi portano delle responsabilità pesantissime facendo questo lavoro, perché provocano avvenimenti. Anche nella guerra jugoslava, capitava spesso che arrivavano i fotografi e si cominciava a sparare. Mi viene in mente una cosa che non è direttamente in risposta alla questione posta dal nostro amico, che raccontava Carmen Llera, l'ultima moglie di Moravia : una volta s'innamorò perdutamente di Kemal Jumblatt e in presenza di suo marito scapparono per il Libano e lei che secondo me non ha brillato particolarmente per libri meravigliosi indimenticabili come un'altra moglie di Moravia che era Elsa Morante, racconta che arrivarono a Beirut e sparavano da tutte le parti, poi d'improvviso, di colpo, smettevano i combattimenti e si accendevano delle lucine in tutti i fortini, perché era cominciato il campionato di calcio mondiale; quindi il campionato di calcio bloccava la guerra… effetto secondario del calcio, perché il calcio provoca morti, ma talvolta ne salva.

Sara

Una volta il fotografo Francesco Zizzola ci ha mostrato una foto scattata da un altro fotografo in Africa, di un cadavere di una bambina che era stata trucidata per un barbaro rituale che c'era in quel villaggio. Un altro fotografo che è andato in quello stesso villaggio ha poi denunciato il fatto che il fotografo aveva pagato la famiglia di questa bambina per diseppellire il cadavere, perché era stata sì trucidata in questo modo, ma molto tempo prima. Il fotografo che aveva scattato quella foto si giustificava dicendo: si, ma io volevo denunciare… è vero che la fotografia era artefatta, cioè io ho fatto cacciare fuori il cadavere di quella bambina, però io volevo denunciare quella cosa al mondo intero, perché altrimenti non lo avrebbe saputo mai nessuno. Da li si è scatenato il dibattito se fosse giusto o meno documentare certe cose e a quale "prezzo" si dovevano documentare. C'erano alcuni fotografi che sostenevano che raccontare, "denunciare" quel rituale era più importante del fatto che in realtà il fotografo avesse pagato la famiglia per scattare quella fotografia, mentre c'erano altri che dicevano che quella non è vera fotografia di reportage, che se pagavi o se comunque rendevi l'immagine in maniera artefatta non era giusto. Quindi mi domandavo se in nome della denuncia si poteva ricorrere anche a questi mezzi. Se era giusto o meno e fino a che limite. Lei che ne pensa?

Mario Dondero

Il caso mi sembra particolare, la sensibilità del fotografo è individuale e non so, non ho un'idea precisa… lo so è insoddisfacente come risposta…

Caterina Boschetti

Volevo farle una domanda allacciandomi anche al discorso che faceva il collega Alessandro prima sulla pubblicità, quindi sulle foto utilizzate nelle campagne pubblicitarie. Qualche settimana fa abbiamo visto questa campagna shock di Benetton, che poi anche il Vaticano ha ovviamente lamentato; lo stesso Benetton tramite Toscani, ha fatto anche delle campagne pubblicitarie in cui il marchio era anche un'occasione di denuncia, penso agli anni '80 quando si parlava dell'Aids o anche alla campagna contro l'anoressia. Volevo sapere cosa ne pensa di questa forma di fotografia legata alla pubblicità, quindi una pubblicità che vuole lanciare un messaggio sociale, grazie.

Mario Dondero

E' molto interessante. Oliviero Toscani ha fatto campagne in cui insinuava delle idee di giustizia dentro le foto , cioè era criticato perché toccava dei temi drammatici della storia del mondo per qualcosa che era la vendita del pullover… Del resto è singolare che la ditta Benetton per esempio, che non è nel mio cuore, è padrone delle autostrade quando fabbrica le mutande… fa parte delle stranezze della nostra società diciamo… In questo momento c'è lo scandalo delle foto dei politici che si baciano, Obama, ecc… E' chiaro che queste foto qui non hanno nessun senso etico. Oliviero Toscani lo conosco benissimo, non poteva scrivere nella scintilla di Lenin sicuramente però ha un cuore generoso da qualche parte e si vede nelle sue campagne. Lo hanno censurato pesantemente e cacciato via e adesso fanno delle sinistre orribili campagne, delle cose tremende come la partenza di quegli albanesi, vi ricordate quella foto della gente sulla nave, quella campagna sul cuore che diceva che il cuore del bianco è uguale a quello del giallo e a quello del nero? Insomma ci sono delle cose che aiutano la gente a capire il mondo attraverso qualcosa di equivoco, di commerciale che è la pubblicità. Sembra che ci sia un peggioramento molto grave in questa direzione. Certo che la Benetton, Oliviero Toscani non lo assume più…

Massimo Raffaeli

Ringrazio veramente di cuore chi ci ha ospitato, tutti voi e ringrazio naturalmente il maestro Mario Dondero… lunga vita a Mario Dondero.

* Testo non rivisto dagli autori.