Farsi viaggiatori per raccontare il viaggio: le migrazioni secondo Leogrande

12nov2015

Appena uscito per Feltrinelli, “La frontiera” è un ottimo libro fatto di tanti libri, storie simbolo e analisi rigorose oltre la cronaca ossessiva. Un “format” indovinato di giornalismo narrativo per capire un fenomeno di cui crediamo di sapere tutto

Farsi viaggiatori per raccontare il viaggio: le migrazioni secondo Leogrande

“La frontiera” di Alessandro Leogrande, appena uscito per Feltrinelli, può sembrare al primo impatto un insieme di frammenti. È invece un libro fatto di molti libri, storie chiuse o “to be continued” ma sempre legate tra loro, che alla fine della lettura risulta essere il format più adatto per raccontare, oggi, le migrazioni.

Leogrande, vicedirettore del mensile “Lo straniero” di Goffredo Fofi, è autore di straordinari libri inchiesta come “Uomini e caporali” e “Il naufragio”, caratterizzati da ricostruzioni rigorose di vicende dimenticate troppo in fretta (il caporalato più crudele della Puglia, il tragico speronamento della “Kater i rades”). In questo caso ha aggiunto una componente forte di “giornalismo narrativo”, scegliendo decisamente uno stile da anni affermato nel mondo (dai maestri sudamericani a Kapuscinski e Aleksievich) e ormai riconosciuto anche in Italia.

Come parlare di migrazioni, altrimenti, dopo che il 2014 e il 2015 è stato così pieno di articoli e inchieste, di numeri, di video e fotoreportage? Dopo che tutto pare essere già conosciuto? È come se l’autore si fosse posto queste domande prima di cominciare il lavoro. E si fosse risposto che, per offrire qualcosa di diverso e di utile, bisognava tornare con calma sui luoghi delle tragedie quando tutti le hanno abbandonate, cercare le fonti primarie, leggere i documenti. E soprattutto “farsi viaggiatore”, come unico modo per raccontare il viaggio. Perché è il viaggio la chiave delle migrazioni, cioè il passaggio non solo fisico (e spesso drammatico) tra la vita di prima una nuova vita solo immaginata, tra il di qua e il di là della “frontiera”. Il viaggio che “ha avuto inizio anche anni prima” di compiersi sulle coste europee, e i cui motivi “sono spesso complicati”. Il viaggio che ha le sue regole condivise da tutti - il libro ne elenca 28 - l’ultima delle quali è “non guardarsi indietro”.

Per “farsi viaggiatore” in viaggi ormai avvenuti, la scelta di Leogrande è stata quella di parlare a lungo con testimoni che hanno elaborato la loro vicenda e sono in grado di raccontarla in modo compiuto, riuscendo a mettersi dalla loro parte ma a rappresentarle oltre la categoria di “vittima”, e anche ad andare oltre la cronaca ossessiva (e spesso uguale) di questi anni, come solo un libro forse può fare. Si è affidato a persone in parte indicate dall’Archivio delle migranti e dalla Scuola Asinitas di Roma, raggiungendo poi decine di testimoni e “narrando giornalisticamente” le loro storie con l’atteggiamento di pietas e di partecipazione umana che costituiscono la sua cifra letteraria. Con la disposizione ad ascoltare “non solo quelle storie che rientrano nei parametri che abbiamo prefissato”. E con l’assillo di tante domande che ha riassunto con trasparenza e onestà a metà del libro – ad esempio come “maneggiare la memoria e il dolore”, “fino a che punto è lecito scavare”, “come farsi testimone dell’unicità di ogni ferita” – fornendo una sorta di guida per chiunque voglia trattare fenomeni come questo.

Leggiamo così le parole profonde del curdo iracheno Shorsh (una sorta di fil rouge dell’opera) che fa avanti e indietro tra la sua terra e l’Italia, del darfuriano Ali e del somalo Hamid con i loro incubi ricorrenti fatti di deserto, prigioni libiche e acqua salata, del baby-scafista Abdel. E poi i libri nel libro: come la descrizione dell’accampamento di Patrasso preso continuamente di mira da Alba Dorata, con centinaia di migranti in attesa di imbarcarsi illegalmente per l’Italia, raccontato dall’afgano Ahmed che ce l’ha fatta. Come l’Eritrea, soprattutto: con Syoum, Gabriel, Behran e altri; con don Mussie Zerai, riferimento in Europa per tutta la diaspora del suo paese, instancabile nella denuncia, nell’aiuto, nell’evitare naufragi; con la eccezionale figura di Alganesh Fessaha, la donna eritrea-italiana (vive a Milano) che è riuscita a liberare con azioni di guerriglia centinaia di suoi connazionali finiti nel traffico di esseri umani tra l’Africa e il Sinai; con il ritrovamento di un incredibile archivio di giornali eritrei in lingua italiana dei tempi del colonialismo, a dimostrare quanto sia carente il racconto di una dittatura che dovrebbe invece interessarci moltissimo.

Libri nel libro come il quartiere romano di Tor Pignattara, perché la frontiera non è solo il Mediterraneo o la Grecia, ma può essere ovunque. O come l’odissea di quello che può essereconsiderato lo “scopritore” della rotta dei Balcani: nonostante il flusso di centinaia di migliaia di profughi attraverso Turchia, Grecia, Serbia e Ungheria sia esploso nell’estate 2015 quando il libro era di fatto concluso, Leogrande è riuscito infatti a trovare Aamir, giovane afgano partito con due amici destinazione nord Europa e poi rimasto solo a percorrere tre anni prima, con successo, quella stessa strada che nessuno aveva tentato prima e che sarebbe stata costellata, oggi, di guide, trafficanti, fiumi di persone e muri di filo spinato. Una storia che Aamir ha prima scritto nella sua lingua e poi ha faticosamente tradotto in italiano, perché dovevano essere solo sue le parole per raccontare un viaggio durato più di tre anni.

Le oltre 300 pagine del libro di Leogrande dosano questo e molto altro in un percorso puntellato da cifre, riferimenti storici, analisi, atti ufficiali giudiziari e non. È un’inchiesta fatta di storie, e viceversa, che resterà a lungo un riferimento per il giornalismo e per la storia recente delle migrazioni verso l’Europa.

Alessandro Leogrande sarà ospite il 28 novembre alla 22ma edizione del seminario di formazione per giornalisti organizzato da Redattore sociale presso la Comunità di Capodarco, qui il programma completo. (st)