I Redattore Sociale 27-28 maggio 1994

Redattore Sociale

Handicap

Intervento di Augusto Battaglia

 

Augusto Battaglia*

130.000 miliardi

"Vorrei cominciare citandovi un lancio del libro bianco sulla disabilità che è stato presentato in una conferenza stampa una settimana fa. Su mandato dell'ANMIC, che è l'Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili, l'Eurispes ha fatto uno studio, un librone così, e lo lancia così: "Almeno 4 milioni di Italiani totalmente o parzialmente privi di autonomia. Circa 7 milioni di pensioni di invalidità erogate da istituti previdenziali, dal Ministero degli Interni con un impegno complessivo di spesa superiore agli 80.000 miliardi. Un giro di servizi e prestazioni, consumi e investimenti sull'universo handicap stimabile in non meno di 130.000 miliardi". Ora i toni sono certamente quelli di un lancio, sono toni molto forti. Però probabilmente in questo caso si sono usati toni troppo forti, se è vero che alcuni giornali, me lo diceva prima Nanni Velia, sono usciti con questa semplificazione: "In Italia ci sono 4 milioni di handicappati, 7 milioni di pensionati e quindi ci sono 3 milioni di falsi invalidi". Ecco: da una parte un'associa­zione che dice "siamo tanti, siamo forti, eccoci qua"; dall'altra parte una semplificazione di stampa che non conoscendo bene il problema fa un po' di calcoli ed esce fuori che in Italia ci sono 3 milioni di pensioni false.

Chi è l'handicappato?

Naturalmente questo non è del tutto vero, anche se il problema dei falsi invalidi è un problema grosso che va affrontato. Ma al di là di queste questioni che poi vedre­mo meglio nel dettaglio, credo che quei dati ci diano comunque l'idea di quale sia la corposità e la significa­tività del problema handicap nel nostro Paese.
Ma chi è l'handicappato? Io credo che riflettere sulla definizione di handicap possa aiutare ad affrontare meglio questa questione. Se guardiamo Fart.3 della L.104 (la L.104 è la legge quadro sull'handicap, cioè l'ultimo provvedimento legislativo significativo appro­vato dal Parlamento, nel febbraio 1992) si legge questa definizione: "E' persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizza­to-progressiva che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione, o di integrazione lavorativa e tale da deter­minare un processo di svantaggio sociale o di emargina­zione".
Io credo che questa definizione sia molto buona, che faccia capire bene qual è la sostanza del problema. Nella definizione c'è l'origine del fenomeno, cioè la minorazione, il danno biologico. E quello è un dato di fatto: cioè, la persona ha questo danno biologico. Però il danno biologico ha significatività quando determina la disabilità, che è la conseguenza del danno biologico sulla vita di questa persona. Ora c'è da dire che non sempre il danno biologico determina una disabilità o influisce sulla vita di questa persona. Dalla disabilità deriva lo svantag­gio, l'handicap, che può portare, se non è affrontato con i servizi, con le dovute misure sul piano sociale-economi­co, a processi che vengono definiti "emarginazione".
Quindi, dalla definizione della L.104 si evidenzia che non c'è una corrispondenza netta tra danno biologico, disabilità ed emarginazione, ma definisce quelli che sono i tre aspetti di questo fenomeno.

Cifre sovrastimate e cifre attendibili

Prima parlavo del lancio dell'Eurispes, dei dati forniti in questa occasione. Ma sono realmente tanti gli handicappati? Questi milioni di pensionati, poi, si riferi­scono a 4 milioni di handicappati? Probabilmente io credo che siano cifre forse un po' sovrastimate. Anche se il fenomeno, come dicevo prima, è molto corposo. Ma io non sono di quelli che pensano che i problemi degli handicappati in Italia non si affrontano come si dovrebbe o non si risolvono perché non sappiamo qual è il loro numero preciso. Non sono uno innamorato delle statisti­che. Però certamente l'ordine di grandezza e di misura credo che sia importante.
Io credo che lo studio più affidabile da questo punto di vista - e chi si occupa nella stampa di queste cose deve conoscerlo - è l'indagine periodica che l'Istat fa sullo stato di salute degli Italiani. Cominciata nell'80, viene fatta ogni tre anni, e l'ultima dovrebbe essere uscita intorno al '90. Questo studio si fa su un campione di circa 26.000 famiglie e di 65.000-70.000 persone. 

Un fenomeno in crescita

Secondo l'Istat, le persone con handicap sarebbero in Italia 2.100.000, di cui 369.000 ciechi, 45.000 sordo­muti, 590.000 sordi che hanno problemi di sordità di vario grado (questo è uno dei fenomeni in crescita), 309.000 insufficienti mentali, 894.000 invalidi motori. Se confrontiamo il dato del 1980 col dato del 1990 ci rendiamo conto che c'è una crescita notevole. Nell'ana­loga ricerca del 1980 all'Istat  risultavano circa 1.100.000-1.200.000 handicappati.
Come si può spiegare questo aumento notevole? Si può spiegare, intanto, attraverso un perfezionamento dello strumento di indagine. In secondo luogo, nella prima indagine non si prendeva in considerazione, ad esempio, la sordità. Ma soprattutto si spiega con quello che è il fenomeno oggi dominante nel campo delle minorazioni  e degli handicap: l'invecchiamento della popolazione.
I più alti tassi di crescita del fenomeno handicap li abbiamo naturalmente in correlazione con l'aumento della vita media degli Italiani e quindi con l'insorgere di malattie della terza età e di malattie invalidanti. Ma se vediamo come l'Istat ha fatto questa ricerca, ci rendiamo conto che forse c'è da aggiungere qualcosa. Ad esempio la ricerca non prende in considerazione tutta una serie di stati patologici che sono poi di fatto invalidanti: per esempio una cardiopatia grave, una disfunzione renale o altre malattie di questo genere.

Il 6% della popolazione

Quindi probabilmente tra i 4 milioni dell'Eurispes e i 2.100,000 dell'lstat si tratta di fare non dico una media matematica che porta intorno ai 3 milioni, circa il 6% della popolazione. Io credo che una valutazione intorno ai 3 milioni di unità, tenendo conto di tutta una serie di patologie che poi la legge sull'invalidità civile riconosce soprattutto ai fini del riconoscimento dell'in­validità, sia attendibile.
La percentuale del 6% trova analoghi riscontri in Francia, dove dal punto di vista dell'organizzazione dello Stato probabilmente c'è più precisione, e quindi questo dovrebbe essere il dato di massima. Però credo che sia interessante vedere quali sono i flussi e quali gli andamenti!

I motivi di un aumento

Intanto l'invecchiamento della popolazione, e quindi tutta una serie di tipologie di invalidità si stanno modifi­cando nella nostra società. Prima, quando pensavamo per esempio ad un cieco, pensavamo alla guerra come origine di questo stato invalidante. Ci sono molti ciechi di guerra, diversi ciechi per invalidità sul lavoro e infine ci sono quelli con invalidità congenita. Oggi soprattutto l'handicap sensoriale, cecità e sordità, è un handicap prevalen­temente associabile alla terza età.
C'è il problema, e questo è molto importante, che ancora troppi bambini nascono handicappati (...). Si calcola che circa 35.000 bambini all'anno nascono malformati o con delle minorazioni ed è ancora un numero alto; questo ci fa capire quanto sia importante l'interven­to di prevenzione, l'opera del consultorio su cui poi spenderò qualche parola.  
Ma gli incrementi più forti sono nel campo dell'in­validità motoria con l'insorgere, soprattutto dopo i 15 anni, di una serie di invalidità che derivano da incidenti. Per esempio, noi abbiamo 60.000 paraplegici e tetraplegici all'anno che diventano tali per effetto di incidenti stradali, per effetto di incidenti nella pratica sportiva e di incidenti nel lavoro: queste sono le tre grandi cause. Poi vengono gli incidenti domestici ma sono cause minori.

Invalidi civili: gli errori dei giornali

Questi dati sono da correlare anche con il fenomeno delle pensioni di invalidità. Naturalmente è un fenomeno importante che è direttamente collegato con l'invalidità. In Italia ci sono 4 milioni di pensionati Inps, ce ne sono 1.400.000 che hanno rendite che derivano dall'assicura­zione Inail (quindi per incidenti sul lavoro), 700.000 invalidi di guerra e 1.350.000 persone che hanno una pensione di invalidità civile.
L'errore più grosso che noi potremmo fare è quello di sommare tutte queste cifre; e questo è anche l'errore che si legge di più sui giornali. Ogni volta che qualcuno comincia a parlare di falsi invalidi si butta lì subito il dato: 7 milioni di pensionati invalidi. La gente si fa l'idea che in Italia ci siano 7 milioni di persone magari giovani, in età lavorativa, che invece di andare a lavorare ricevono a casa una bella pensione. Questo non è vero, perché per esempio tra i 1.400.000 di trattamenti assicurativi dell'Inail, c'è tanta gente che ha una rendita sulla base di un'assicurazione pagata per un incidente avuto sul lavoro, ma che non determina necessariamente una situazione di handicap, di emarginazione, di isolamento, di esclusione e di particolari servizi; è un indennizzo per un incidente che ha avuto.

I pericoli delle semplificazioni

Sui 4 milioni di pensioni di invalidità, ci sono (...) migliaia e migliaia di persone che hanno 60-70-75 anni e che comunque sarebbero dei pensionati, anche se da un punto di vista normativo quella pensione è stata data perché ad un certo punto della vita lavorativa questo soggetto, che magari faceva il minatore, ammalato, non poteva più farlo e non aveva possibilità di avere altre occupazioni; e allora è scattato un meccanismo di solida­rietà tra lavoratori che gli ha dato la possibilità di andare in pensione qualche anno prima o qualche mese prima rispetto a quando avrebbe maturato la pensione.
Questo non vuol dire che non ci siano stati degli abusi, che non ce ne siano tuttora e che non ci sia un problema dei falsi invalidi da denunciare e certamente da reprimere. Però bisogna stare attenti alle semplificazioni, perché se poi andiamo a fondo dei problemi ci rendiamo conto che i dati reali non sono quelli dei 3 milioni di falsi invalidi da eliminare, ma che siamo di fronte a cifre molto più ridotte e comunque a problemi molto più complessi da affrontare.

L'evoluzione del concetto di invalidità

Faccio un altro esempio sull'invalidità civile. Il concetto di invalidità nel corso degli anni si è modificato. Una persona con la poliomielite in ambedue gli arti inferiori, con le stampelle, 20 anni fa era considerato generalmente una persona che non aveva nessuna possi­bilità di lavoro e di inserimento e quindi poteva avere un 100% di invalidità, che gli è stata data magari quando aveva 20-25 anni. Dopo 20 anni le persone che sono in quelle condizioni sono considerate - per fortuna, perché si sono fatti dei passi avanti - in una condizione diversa. Ma questo non vuol dire che ora lo Stato può tornare da quella persona a cui 25 anni fa ha dato la pensione e dire: "Adesso te la tolgo e tu vai a lavorare". Quella persona risponderà che non riesce a reinserirsi e che non gli si può togliere oggi la sua unica rendita. Quindi il problema certamente è complesso e va affrontato avendo presente quelli che sono i dati veri del fenomeno. 

Venti anni di handicap e i problemi di oggi

Ma quali sono oggi i nodi del problema invalidità? Certamente il mondo dell'handicap negli ultimi 20 anni si è modificato radicalmente. Vent'anni fa il mondo dell'handicap era caratterizzato dalle marce del dolore, dal sussidio assistenziale che dava Tega previa tessera di povertà ritirata in Prefettura, dall'emarginazione negli istituti.
Poi sono venuti i grandi cambiamenti di questi anni, le leggi innovative, la L. 482 che è quella sul collocamento obbligatorio, la L. 118 del 1971, fino all'ul­tima legge quadro, la L. 104 sull'handicap. In particolare, tutto il periodo tra la fine degli anni '60 e tutti gli anni '70 ha visto una crescita importante di una rete di servizi territoriali riabilitativi, come consultori familiari, unità territoriali di riabilitazione. Si sono fatte le prime espe­rienze di inserimento lavorativo. C'è stato il grande fenomeno dell'integrazione scolastica.
Quindi oggi ci troviamo ad affrontare dei problemi che sono di una qualità e di una natura completamente diversa da quelli che erano i problemi che si affrontavano nel passato.

All'avanguardia tra gli squilibri

Quali sono le questioni di fondo? Intanto la prevenzione e la riabilitazione.
Da questo punto di vista non è vero che in Italia stiamo indietro come spesso si dice; anzi, diciamo che si è consolidata negli anni una tradizione, una rete di servizi riabilitativi. Semmai il problema italiano è quello della cattiva distribuzione dei servizi, che è anche il problema della sanità italiana, è il problema di una organizzazione insufficiente delle risorse professionali e umane che ci sono, della loro cattiva utilizzazione, della concentrazione di servizi in alcune zone e del completo deserto che c' è in alcune regioni.
Quindi ci sono dei grossi squilibri, ma al loro interno c'è una scuola riabilitativa soprattutto nel campo della neuropsichiatria infantile, della diagnosi e interven­to precoce, dell 'intervento riabilitativo nell'età evolutiva nella quale certamente la sanità italiana non ha da invidia­re nulla rispetto ad altri Paesi. Anzi, per certi versi ha fatto scuola in Europa. Pensate soltanto a quanto è stato importante il processo di integrazione scolastica di 90.000 bambini all'anno handicappati nella scuola di tutti, e quello che ha significato, non solo per dare quell'imma­gine diversa che gli handicappati e le famiglie si sono conquistati in questi anni, ma cosa ha significato questa esperienza tipicamente italiana nel confronto con gli altri Paesi europei.

Le grandi trasformazioni

Io credo che il frutto del lavoro di tanti operatori, di tanti servizi, ha portato a delle grandi trasformazioni. Oggi noi consideriamo normale che una famiglia che ha un bambino handicappato quando ha 6 anni va alla scuoia e che quindi la famiglia vada ad iscriverlo alla scuola. Oggi lo si considera un comportamento normale. 15 anni fa non era così. Quando inserivamo i primi bambini handicappati nelle scuole parlavano di inserimento sel­vaggio e si trattava di andare lì la mattina alle 7.30 a litigare col bidello, con l'insegnante, col direttore, in alcuni casi anche con gli altri genitori per affermare quello che noi operatori consideravamo un diritto fonda­mentale ma che la scuola non era in grado di soddisfare.
Questo non vuol dire che non ci siano problemi. Ad esempio nel campo dell'integrazione scolastica di qua­lità dell'intervento educativo, di maggiore coordinamen­to tra servizi riabilitativi, servizi sociali e servizi sanitari. E questo, diciamo, è il lavoro che negli anni più recenti si sta facendo soprattutto a livello territoriale.
E poi conosciamo quelle che sono le carenze delle scuole e quindi certamente anche il processo di integra­zione scolastica del bambino handicappato risente delle insufficienze del servizio scolastico nazionale. Però io credo che l'esperienza della scuola sia importante perché è un po' alla base di tutto il processo di cambiamento dell'atteggiamento dell'handicappato verso la società, dell'immagine che l'handicappato ha di se stesso e della sua famiglia, e dell"immagine che noi tutti abbiamo della persona handicappata e della sua famiglia.

La prevenzione e l'aborto "eugenetico"

II problema della prevenzione è importante. In questi giorni c'è stata la polemica: legge sull'aborto, prevenzione dell'handicap. Io credo che quella sia stata una discussione posta male, posta in termini poco cor­retti.
Io non credo che ci sia in Italia un ricor­so all'aborto con fina­lità eugenetiche. Cre­do che se ci vogliamo sinceramente preoccu­pare anche del diritto alla vita del bambino handicappato, il problema vero è quello della prevenzione, quello dell'informazione, quello di mettere in condizione la famiglia di affrontare quello che certamente è un dram­ma. Un dramma che oggi ha connotati e caratteristiche diverse rispetto a come si presentava anni fa, ma comunque è una sofferenza, un problema.
Le condizioni in cui una famiglia si trova ad affron­tare questo problema possono determinare un atteggia­mento diverso rispetto alla prospettiva di avere un figlio handicappato. Quindi la verità è che bisogna potenziare i servizi territoriali sociali, di prevenzione e di riabilita­zione assistenziale per far sì che la famiglia non si trovi in piena solitudine, come spesso avviene, ad affrontare problemi gravi e drammatici.

La prevenzione è anche sulle strade

Ma il problema della prevenzione non si limita alla prevenzione sanitaria. Voi avete visto per esempio in Italia quanto ci abbiamo messo per metterci le cinture di sicurezza nelle automobili. Siamo stati l'ultimo Paese d'Europa. Quando un ministro ha trovato il coraggio di porre dei limiti di velocità sulle autostrade e sulle strade è successa la rivoluzione e quel decreto è sparito dalla circolazione immediatamente e il ministro è andato a fare un altro mestiere. Se consideriamo quanti handicappati ci sono ogni anno in conseguenza di incidenti stradali ci rendiamo conto che la strada della prevenzione sia una strada che è necessario percorrere ma che incontra degli ostacoli perché la prevenzione significa pestare i piedi a degli interessi, significa modificare comportamenti non facili da cambiare.

Tanti soldi, ma spesi male. Il caso della Sicilia

Sul problema invece della riabilitazione ci sono due cose da considerare. Un primo problema, dicevamo prima, è quello della distribu­zione della qualità dei servizi. Badate, esso non è direttamente proporzionale alle ri­sorse che si mettono in campo. C'è un pro­blema di volontà politica, c'è un proble­ma di concezione dei servizi, c'è un pro­blema di cultura so­ciale e sanitaria. Vi faccio l'esempio della Sicilia. La Sicilia è una delle regioni dove si spende e si è speso di più per l'handicap; la Sicilia è una delle regioni dove gli handicappati godono di peggiori livelli di integrazione rispetto ad altre situazioni regionali. Perché? Il problema è anche come si spendono i soldi. Per esempio in Sicilia troviamo una rete di centri Aias, non so se avete seguito sulla stampa, c'è stato un vostro collega che è stato ucciso a Milazzo pare perché indagava sulla gestione dei centri Aias che sono stati decapitati recentemente dalla magi­stratura, con arresti di quasi tutti i dirigenti Aias della Sicilia. Voi lo sapete quanto prendeva di stipendio il direttore Aias di Milazzo? 23 milioni al mese. Io incon­trai la presidentessa nazionale all'epoca e dissi che se mi dava la metà ci andavo io...Per dire come non è soltanto un problema di risorse, ma è come si spendono i soldi. In Sicilia c'è Traina, in provincia di Enna, una sorta di villaggio dove centinaia e centinaia di handicappati sono concentrati e badate che il Ministero della Sanità ha riconosciuto a questo grande istituto lo stato di "Istituto di ricovero a carattere scientifico", quindi con rette di 300.000 lire al giorno; quindi pensate quanto si spende per emarginare gli handicappati e non per inserirli.

Il problema "unità spinali"

Un secondo problema molto importante è anche quello della carenza dei servizi di riabilitazione per i traumatizzati adulti, le cosiddette "unità spinali".
Sapete che quando si spezza una spina dorsale più tempo passa più muoiono le cellule e quindi l'intervento chirurgico e l'avvio del processo riabilitativo devono avvenire nel più breve tempo possibile. Più tempo passa, minori saranno le funzioni che si possono recuperare. Anche qui c'è un problema tipico della sanità italiana: in Italia non ci mancano le professionalità perché abbiamo degli ottimi neurochirurghi, eppure non si fanno le unità spinali. Ci sono alcune sperimentazioni a Firenze, a Milano, ma ancora siamo molto indietro. Pensate che a Roma per la prima proposta in campo regionale di realizzare l' unità spinale - cioè quel posto dove il trauma­tizzato alla colonna vertebrale viene portato perché si possa fare l'intervento e avviare il processo riabilitativo nel più breve tempo possibile - i primi finanziamenti sono stati dati nel 1984. Siamo nel 1994, sono passati dieci anni, si sono fatte delle circolari, ci sono stati degli investimenti, si è assunto del personale, ma ancora l'unità spinale non funziona.
Perché non funziona? Perché il problema vero della sanità italiana, soprattutto rispetto a questi problemi, non è tanto quello, anche qui, delle risorse o delle professio­nalità ma è dell'organizzazione sanitaria. Perché, vedete, quando la riabilitazione del paraplegico è un processo multidisciplinare, cioè di più professionalità che devono lavorare insieme, immaginate nel sistema sanitario na­zionale cosa succede. C'è il primario che non lo può toccare nessuno, i cui concorsi si fanno con commissioni in cui ci sono sempre gli stessi funzionari del Ministero della sanità e quasi sempre gli stessi funzionari regionali. Il primario che non parla con nessuno e non condivide la sua responsabilità con altri...

"Ma lei fino adesso dove è stato?"

La riabilitazione del paraplegico è legata ad una corsa contro il tempo. Pensate all'incidente, all'ambu­lanza che non arriva e magari quando arriva ti porta nell'ospedale sbagliato e magari stai tre ore in astanteria e nessuno interviene e poi ti portano nel reparto di emergenza, ti operano e ti mettono a letto, ma non c'è un'organizzazione infermieristica preparata che ti gira ogni tre ore e allora intervengono le piaghe, e allora bisogna curare le piaghe e non sempre siamo in grado di curare le piaghe e allora si fa l'intervento di chirurgia plastica e poi alla fine, dopo qualche mese, si decide di prendere il malato e portarlo ad Heidelberg, in Germania, dove ti domandano: "Ma lei fino adesso dove è stato?'' Sarebbe bene che di questi episodi non ce ne preoccupia­mo soltanto quando non si trova il posto all'ospedale, si girano 8 ospedali e intanto il paziente muore. Bisognerebbe vedere che cosa succede ogni giorno nelle nostre strutture ospedaliere.

E dopo la scuola?

Quindi la riabilitazione è un fatto centrale. Ma riabilitarsi per che cosa? Questo è il problema.
Parlavamo prima della scuola, perché non ci può essere un processo di riabilitazione senza un contestuale processo di integrazione sociale. Riabilitazione e socia­lizzazione non possono essere due fasi. La riabilitazione è un processo sanitario ma è anche un processo psicolo­gico dell'individuo, dell'handicappato che deve trovare le risorse anche all'interno di se stesso per inserirsi al di fuori.
Parlavamo prima dei problemi della scuola e dei problemi di qualità dell'intervento scolastico. Ma la vera questione che noi dobbiamo affrontare in Italia, e che è un po' la carenza del nostro sistema assistenziale nei con­fronti dell'handicap, è quello che succede dopo la scuola.
Ogni anno la scuola sforna 12.000 bambini, che non sono più bambini ma che cominciano a diventare adole­scenti. Una parte possono proseguire gli studi, e gli altri? Per gli altri c'è un problema di carenze dei servizi di formazione professionale e di avviamento al lavoro. Pensate che anche nelle situazioni più favorevoli, quindi anche nelle regioni più organizzate, l'offerta di formazione professionale a persone con handicap, nelle situazioni migliori, raggiunge il 50% del fabbisogno. Pensate inve­ce quello che succede nelle regioni dove i servizi di formazione professionale sono carenti.

Mi ridevano in faccia...

Ma se è vero che abbiamo un'offerta carente di servizi formativi, è anche vero che in questo campo negli ultimi anni sono stati fatti dei grossissimi passi in avanti. Io sono in particolare un operatore della formazione professionale, e ricordo che quando io ho cominciato a fare questo mestiere, esattamente 20 anni fa, e venivano le famiglie a iscrivere i loro figli e io dicevo che i loro figli dopo la formazione professionale sarebbero andati a lavorare o comunque speravamo di poterli mandare a lavorare, mi ridevano in faccia soltanto perché non avevano un altro posto dove portare i figli.
Oggi, invece, quando vengono le famiglie a iscrivere i loro figli al centro di formazione professionale mi dicono: "Mio figlio deve andare a lavorare. Lo portiamo qui perché dopo gli trovate un lavoro". Cioè si è passati dalla incredulità rispetto ad una prospettiva di lavoro, addirittura alla pretesa di un lavoro: "Ma perché mio figlio lo mandi in una azienda privata? Mandalo in quella pubblica perché lì ha più possibilità di essere inserito al lavoro". Quindi c'è stata una grande trasformazione.
Ma perché? Perché c'è stato un grande rinnovamen­to dei servizi di formazione professionale. Quello che era una routine di corsi che si facevano, sempre uguali, con gente che passava dal corso di ceramica a quello di elettronica a quello di giardinaggio e poi ricominciavano daccapo senza nessuna finalità, si è trasformata.

L'"inserimento mirato": ritagliare un lavoro

Per esempio si è molto diffusa la cosiddetta forma­zione in azienda, il tirocinio di lavoro, cioè per l'insuffi­ciente mentale la possibilità di inserirsi in ambito lavora­tivo già nel momento della formazione, coinvolgendo l'impresa, quindi lavorando non tanto a raggiungere la qualifica professionale...
Perché, vedete, un insufficiente mentale inserito in una officina elettromeccanica difficilmente avrà la capa­cità di individuare un guasto in un motore elettromecca­nico e ripararlo. Però se noi analizziamo tutto ciò che si fa in una officina elettromeccanica, possiamo ritagliare per un insufficiente mentale una serie di mansioni e di attività che sono alla sua portata e possiamo formarlo a fare quelle cose. E quindi un insufficiente mentale diven­ta capace di smontare un motorino elettrico, di cambiare un avvolgimento del motore elettrico; così come in un reparto di gommista di una grande impresa di trasporti può smontare la gomma e fare tutta una serie di mansioni che servono a riempire la sua giornata lavorativa. Ma non in forma assistenziale, semplicemente riorganizzando il lavoro della squadra e del reparto...
Così si ritaglia e si costruisce quello che noi chia­miamo "inserimento mirato", cioè mettere la persona handicappata al posto giusto, dove quella persona può rendere e allo stesso tempo dare piena risposta alle sue esigenze. Ci sono molte esperienze in Italia, a Genova, a Roma e a Bologna, dove sono migliorati molto gli interventi formativi anche nel settore dell'handicap fisi­co. Ci sono delle esperienze di punta in Italia. A Bologna, al Centro Gavazza, sono stati sperimentati nuovi modelli organizzativi di formazione professionale per handicap­pati fisici pluriminorati che sono diventati degli operatori di computer che oggi lavorano anche in imprese impor­tanti e quindi hanno raggiunto una reale capacità di lavoro.

La formazione cresce, il lavoro si "chiude"

Ma se la formazione professionale in questi anni ha fatto dei passi da gigante, avvalendosi anche delle nuove tecnologie, di tutto ciò che è cambiato nel mondo del lavoro, paradossalmente questi sono stati gli anni in cui il mondo del lavoro ha fatto dei passi indietro. Vi do un dato: negli ultimi dieci anni, dal 1982 al 1992, gli handicappati, gli invalidi che lavorano sono passati da 295.000 a 234.000, cioè meno 61.000 unità: il 21% in meno della totale occupazione, calcolato poi su un anno, il 1982, che non è nemmeno il massimo dell'attuazione della legge 482. Questo dato ci dà l'idea di come c'è stata poi di fatto, nel momento decisivo, una restrizione.
A che cosa è dovuta questa restrizione? Certamente abbiamo una legge superata: la legge sul collocamento obbligatorio è culturalmente superata, è burocratica, non collega la formazione professionale al lavoro, non si avvale delle possibilità delle nuove tecnologie, non è una legge dinamica, non dà incentivi alle aziende: tutto questo è vero.
Ma questo non giustifica il fenomeno che nella pubblica amministrazione sono entrati quasi sempre falsi invalidi o invalidi lievissimi per raccomandazione e chia­mata nominativa diretta; che c'è stata una resistenza passiva delle imprese. Pensate che l' 80% degli invalidi che il collocamento manda nelle imprese private viene, o per un motivo o per un altro, respinto. Una parte viene respinta il giorno stesso che si presenta, un'altra parte viene respinta entro il mese di prova, e l'80% ritorna indietro.

Qualche miglioramento: l'art. 42 e la chiamata numerica

In questo campo ci sono state alcune novità positi­ve, per esempio negli ultimi tempi. Una la devo dire perché probabilmente il Governo l'ha cancellata proprio oggi. Vedete come si fa a perdere un diritto in un momento? Se le notizie che ho raccolto sono queste, ci sarà da rimboccarsi le maniche e ricomin­ciare.
Ma la cosa più importante è l'art. 42 del decreto legislativo sul pubblico impiego, il decreto n. 29 che stronca quel mercato dei falsi invalidi. Vedete, il fenome­no dei falsi invalidi nel settore dell'handicap non è tanto diffuso, è solo in parte diffuso nella pensionistica. Ma il fenomeno dei falsi invalidi ha riguardato più il colloca­mento. Perché è nella maniera in cui si ottiene un lavoro che bisognava colpire e lì abbiamo colpito: con l'art.42 da quest'anno nel pubblico impiego si entra solo per chiamata numerica. Quindi il Ministero che deve chia­mare l'invalido deve andare al collocamento a chiamarlo secondo la graduatoria, oppure per collocamento mirato per quegli interventi mirati che descrivevo prima, laddo­ve l'handicap è particolarmente grave e va trovato il posto giusto.
Naturalmente ci vuole una riforma complessiva del collocamento degli invalidi ma io non mi dilungo su questo.

L'handicappato come risorsa

Qual'è allora la questione di fondo? E' che noi dobbiamo ribaltare la logica dell'approccio col problema dell'handicap. L'handicappato non può essere conside­rato un peso della società verso il quale dirottare delle risorse per assisterlo e mantenerlo. Deve essere conside­rato una risorsa della società.
Quindi il problema, oggi, di una società moderna rispetto all'handicappato è di come metterlo in condizio­ne di esprimere al massimo le sue possibilità, che sono possibilità lavorative, possibilità relazionali, possibilità affettive.
C'è stata in questi anni una sorta di mutazione antropologica del fenomeno dell'handicap. Oggi un han­dicappato non chiede di essere assistito, chiede di poter lavorare, di andare in giro, di divertirsi, di fare dello sport, di fare della cultura, di fare del turismo. Il problema delle amministrazioni locali e delle istituzioni non è quello quindi di dargli il minimo per sopravvivere perché gli è negato tutto il resto, ma è quello di organizzare dei servizi che mettano in condizione la persona handicappa­ta di poter essere se stessa.

Barriere architettoniche: ultimi in Europa

Quindi i servizi alla persona, i servizi di assistenza domiciliare, il lavoro, la mobilità, attraverso quegli inter­venti di eliminazione delle barriere architettoniche per le quali il nostro Paese è tra quelli europei che spende meno di tutti: non si supera la cifra di 500 miliardi all'anno che è una cifra ridicola, se consideriamo che noi arriviamo su questo tema con 20 anni di ritardo rispetto agli altri Paesi europei, che la prima legge che parla di eliminazione di barriere architettoniche risale al 1971, che il regolamento di quella legge esce nel 1978, quindi 7 anni dopo, e che i primi interventi in questo campo cominciano intorno agli anni '80.

1.300.000 invalidi. Ma 200.000 potrebbero lavorare

Quindi il problema è quello di reinserire, perché se non si affronta il problema dell'handicap in questa logica nuova, è chiaro che poi non possiamo lamentarci, come ha fatto per esempio il ministro Spaventa qualche mese fa, sollecitato da ambienti ministeriali e anche dalla Confindustria, che per le pensioni di invalidità civile si spendono 15.000 miliardi all'anno: è certamente una grossa spesa.
E anche lì la stampa uscì dicendo: "quei falsi invalidi; in quel milione e 300.000 invalidi che prendono la pensione ci sono un sacco di falsi invalidi e la spesa è insostenibile". Non è vero. Perché io vi posso dire che di quel milione e 300.000 che prendono le pensioni di invalidità civile, circa 600.000 sono anziani non autosuf­ficienti che prendono le indennità di accompagnamento, sono quelle persone che hanno bisogno di un'assistenza continuativa da parte della famiglia.
Invece il problema è un altro. In quel milione e 300.000 ci sono almeno 200.000 invalidi che potrebbero lavorare. Allora il problema non è quello di diminuire la spesa pensionistica, è quello di riconvertire la spesa assistenziale da un trasferimento quasi esclusivo di risor­se finanziarie in forme assistenziali a servizi che aiutano a trasformare quello che oggi è un assistito in un lavoratore, in un contribuente. Il problema da affrontare è dunque quello della riconversione della spesa.

La sfida del lavoro

Io non so se i 130.000 miliardi (che dava Eurispes per conto dell'Amnic), di spesa complessiva nel settore delle invalidità sia una cifra probabilmente un po' sovrastimata. Però certamente questo è il problema che oggi le società moderne devono affrontare.
Riconvertire la spesa assistenziale in una spesa per l'inserimento e per lo sviluppo. Perché quando non c'è lavoro, c'è la pensione. Quanto non ti riabilito, ti ricove­ro. Quando non ti inserisco, ti assisto. Il lavoro è certa­mente la questione centrale della sfida che dobbiamo affrontare oggi. Il lavoro dà dignità, dà autonomia e soprattutto affrontando il problema del lavoro si può affrontare meglio il problema dell'assistenza. Perché una delle questioni che noi abbiamo in campo è quella dell'uso improprio dei servizi. Perché se io dò un servizio assistenziale a chi potrebbe andare a lavorare, dò un servizio assistenziale scadente a chi non può andare a lavorare, ma usufruisce di finanziamenti e di risorse che invece potrebbero essere meglio finalizzati ad assistere bene chi ha un handicap grave. Perché dobbiamo sapere che ci sono pure gli handicappati gravi, che non possono andare a lavorare.
Quindi oggi si deve andare verso un servizio più individualizzato, più personalizzato, in cui l'handicap­pato non sia considerato un assistito ma una persona. In cui la persona handicappata è protagonista del processo riabilitativo perché lui stesso concorre ad individuare il percorso.

Dal "posto alla persona"

Oggi si parla sempre più di vita "indipendente": questo è il termine nuovo dell'assistenza alla persona handicappata. Cioè la rivendicazione di un ruolo, di un riconoscimento del diritto della persona e quindi della necessità di avere degli strumenti, che sono gli strumenti dell'assistenza, che sono la protesi moderna, che sono tutto ciò che oggi la tecnica, la riabilitazione mettono a disposizione della persona handicappata per essere auto­noma.
Quindi c'è un cambiamento anche nella legislazio­ne. Se noi paragoniamo ad esempio la legge 118 del '71 alla legge 104 - che è una legge sulla quale ci sarebbe ancora molto da discutere perché è una legge inapplicata, sulla quale si dovrà lavorare molto - ci rendiamo conto che la legge del '71 parla sempre di "centri" e "posti" dove si fanno delle cose per gli handicappati che devono andar lì. La legge 104 invece parla sempre più di "persone" che devono ricevere degli strumenti, degli interventi per potersi inserire. E quindi oggi il problemi dei servizi è un problema di assistenza alla persona, di maggiori possibi­lità per la famiglia.
Per esempio: la questione della possibilità delle famiglie che hanno dei congiunti handicappati gravi nel nucleo familiare, dei tre giorni di permesso al mese per poter far meglio fronte alle esigenze del congiunto, credo che sia un fatto rivoluzionario, una delle cose nuove dell'assistenza nel nostro Paese. Sostegno alla famiglia, percorsi individuali, sono cose che si realizzano attraverso un concorso tra intervento pubblico e privato, tra intervento del volontariato.

La mobilità: non solo taxi

Parlavo prima del problema della mobilità. E' un altro dei problemi importanti. Ed è complesso. Molti Comuni lo hanno affrontato in maniera forse un po' superficiale. Per esempio assicurando il servizio taxi, senza considerare che il taxi è il mezzo di trasporto più costoso. Allora si deve andare, soprattutto nelle grandi città, a sistemi complessi: modifica, ad esempio, di una serie di mezzi pubblici per renderli accessibili. Non si capisce perché metropolitane, treni urbani e non soltanto urbani non debbano essere accessibili, così come alcune linee di mezzi pubblici. Riservando invece i servizi a chiamata e trasporto individuale laddove questo è neces­sario.

Quelle famiglie che non ci sono più

Ma tutto questo, che ci apre grandi prospettive rispetto all'inserimento, non ci deve far dimenticare che c'è una questione importante che riguarda tante persone handicappate che queste possibilità non ce l'hanno e delle quali ci dobbiamo occupare. Oggi il problema che preoccupa più le famiglie soprattutto degli handicappati è quello che viene definito "dopo di noi". Che cosa significa? Noi abbiamo oramai in Italia migliaia e miglia­ia di famiglie che 20-30 anni fa, quando non c'era niente, né servizi, né pensioni, né lavoro, hanno fatto la scelta di non ricoverare i figli in istituto e di tenerli nel nucleo familiare. Si sono sostituiti allo Stato, hanno assistito loro i loro figli, hanno fatto dei sacrifici enormi.
Oggi queste famiglie non ci sono più: muore uno dei coniugi e non ce la fanno più a sostenere il peso assistenziale perché il figlio è cresciuto, pesa molto di più, le forze vengono meno. Allora queste famiglie si domandano: che cosa succede dopo di noi, dopo una vita di Integrazione, di inserimento in famiglia, che cosa facciamo? Chiudiamo questa vicenda ritornando a vec­chie forme di emarginazione? Questo è uno degli argo­menti di discussione in questi tempi.

I rischi delle R.S.A.

Si parla molto di R.S.A. (Residenze Sanitarie As­sistite). Se queste strutture residenziali per anziani e persone non autosufficienti diventano uno dei tasselli di un sistema assistenziale integrato nel territorio, socializ­zante, allora noi abbiamo nelle R.S.A. una risorsa in più per completare quella rete di servizi che oggi è ancora insufficiente, soprattutto per gli aspetti residenziali.
Ma se le R.S.A. diventano le nuove istituzioni chiuse e si emarginano dentro istitu­zioni totali gli anziani e gli handicappati non autosuffi­cienti, voi capite che c'è il rischio reale di nuovi processi di emarginazione ancora più pericolosi e più drammatici perché magari vissuti dopo una vita di inserimento e dopo una prospettiva di inserimento.

50-60 righe in tutto...

Ho cercato di dare un po' il quadro di quelli che sono gli aspetti oggi più importanti del mondo dell'han­dicap, che è un mondo molto vivo e caratterizzato da un forte associazionismo. Ci sono 42 associazioni nazionali che si occupano di handicappati, centinaia di piccole associazioni. Se questi passi in avanti sono stati fatti, è dovuto prevalentemente alla spinta che è venuta dal movimento associativo degli handicappati e delle fami­glie, che è stata una componente importantissima di questo processo.
Il mondo dell'handicap ha avuto sempre un rapporto un po' difficile con la stampa, col mondo dell'informazio­ne, con la televisione. Io faccio sempre una battuta: migliaia di handicappati che scendono in piazza spesso vengono ignorati o si guadagnano il trafiletto. Duecento studenti che non vanno a scuola sono le nuove leve del rinnovamento della società. Questa è una esagerazione,
naturalmente, però fa capire quello che è lo stato d'animo.
E vi racconto un episodio. Oggi è ritornato questo tema dei falsi invalidi e prima dicevo che uno dei più grandi scandali italiani è stato quello dell'assunzione, per via clientelare nei migliori casi, ma anche a pagamento, di falsi invalidi nel pubblico impiego. Beh, quando con l'art.42 si è stroncato questo vergognoso mercato di voti e di corruzione politica e di clientelismo, ecco il movi­mento degli handicappati si è conquistato 10 cm quadrati di spazio su L'Unità, che era poi il giornale del partito che aveva promosso questa cosa.
Venti righe su Repubblica, previa raccomandazio­ne di Mino Fuccillo che era un nostro amico, compagno di scuola. Dieci righe sull'Avvenire. Dieci minuti in radio alle 7.40, sempre tramite amicizie, e poi qualche battuta al Coraggio di Vivere. Immaginate tutto il lavoro che c'è stato dietro, per conquistare in totale 50-60 righe sulla stampa.

Notizia e informazione corretta: si può fare

Io sono consapevole delle difficoltà del lavoro del giornalista, delle difficoltà dei giornali che devono ven­dere perché altrimenti non avrebbero ragion d'essere. Noi, da parte nostra, avremmo meno bisogno di notizie sull'handicappato segregato per 20 anni in un pollaio, sull'handicappato che uccide la madre, abbiamo bisogno di meno pietismo e, l'hanno detto tutti, di esposizione del dolore. Abbiamo bisogno invece di un po' di più. Ma questo si può fare anche seguendo la cronaca e dando la notizia.
Ecco, io vorrei ricucire la discussione di questa mattina: non necessariamente la notizia e l'informazione corretta non possono andar d'accordo. Perché è chiaro che il giornale esce su questi temi quando c'è la notizia, però la notizia si può accompagnare con un'analisi più approfondita che sia informazione, che porti a valorizza­ne le cose positive che ci sono in questo campo e che denunci le cose che vanno denunciate. Io non sono un pessimista. Credo che dei passi in avanti si siano fatti ma il mondo dell'handicap è un mondo ricco di esperienze, di storie, di sofferenze: se noi riuscissimo a farlo cono­scere meglio, io credo che daremmo un contributo alla cultura del Paese, alla cultura di tutti".


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.