I Redattore Sociale 27-28 maggio 1994

Redattore Sociale

La malattia mortale

Intervento di Goffredo Fofi

 

Goffredo Fofi - direttore La Terra vista dalla luna*

Credo che una delle grandi difficoltà dell'informa­zione, in particolare di quella televisiva, ma anche di quella giornalistica, oggi stia in quella sorta di meccani­smo, un po' obbligato, un po' perverso, che mette a confronto e lega fra di loro la velocità della notizia, l'assenza di memoria, il fatto che si corre da un giorno all'altro appresso a quello che la cronaca pone sotto gli occhi e il dover scegliere, dover enfatizzare certe notizie rispetto ad altre, dover dare spazio ad alcune osservazioni rispetto ad altre: quindi velocità da un lato e spettacolarizzazione dall'altro.
Probabilmente la spettacolarizzazione è un aspetto perverso della velocità. E' il risultato di una sorta di concorrenza tra testate sia televisive che giornalistiche che porta poi ad un'enfasi eccessiva su certe situazioni e su certi avvenimenti, e alla dimenticanza degli altri. Nell'insieme porta soprattutto, ripeto, all'assenza di memoria e produce quella sorta di superficialità che credo sia la malattia mortale del giornalismo contempo­raneo. Tutto dura un giorno e il giorno dopo è come se non fosse mai successo niente. Nulla si sedimenta, bisogna sempre ricominciare daccapo.

Il persuaso e il rètore

L'altro aspetto su cui volevo richiamare l'attenzio­ne è un po' un problema di morale, di metafisica, o anche di filosofia dell'esistenza. C'è un filosofo che si è suici­dato giovanissimo, Staedter, triestino, che ha scritto un libro straordinario che si chiama "La persuasione e la retorica". Questa doppia divaricazione della figura dell'intellettuale  o del filosofo, dell'uomo pensante, tra il persuaso e il rètore, credo che resti una delle grandi distinzioni del nostro tempo, considerando ovviamente insegnanti e giornalisti come le figure intellettuali centra­li del nostro tempo: mi sembra che questa divaricazione riguardi possentemente la figura del giornalista.
Il persuaso è colui che fa il suo lavoro sulla base di una convinzione, di una vocazione, di una scelta di valori da contrapporre ai disvalori di una società, alla crudeltà della storia; che sceglie di testimoniare la verità attraverso modi che sono consoni alla sua professione e alla sua collocazione nel mondo. Il rètore è colui che inganna con le parole i valori, che cioè li mistifica, che li trasforma in frasi fatte, in enfasi, in pubblicità, in propaganda, in retorica per l'appunto.

I grandi vecchi del giornalismo

Credo che anche questa della retorica sia una delle tentazioni dominanti e più pericolose del giornalismo e della televisione italiana. Tra l'altro, credo, accentuata, enfatizzata se possibile, nelle figure dei grandi giornalisti che io trovo personalmente assolutamente detestabili. I grandi vecchi del giornalismo italiano, diventati dei grandi otri pieni di aria che buttano fuori parole spesso molto in libertà, sempre molto ricattatorie, sempre con una sorta di parlare ex-cathedra, semplicemente perché essendo più vecchi si è più cinici dei giovani giornalisti.

Idee separate dai fatti?

Allora il problema di combattere la retorica e di lavorare all'interno delle situazioni da persuasi implica alcune cose fondamentali. Tra queste cose è un'attenzio­ne molto forte alle pratiche. Ora, nel discorso che Vinicio faceva prima mi sembra molto evidente questa distinzio­ne gravissima della cultura italiana, della società moder­na in generale, tra teoria e pratica.
E' un'eredità del machiavellismo, è un'eredità an­che della Chiesa cattolica e del marxismo, quella di disgiungere le idee dai fatti, le teorie dalle pratiche. Tra l'altro Panorama, che Vinicio citava prima, era nato sulla scia di un'altra rivista americana con l'idea di disgiunge­re i fatti dalle opinioni, cosa lodevole in sé però non lodevole in assoluto perché credo che le opinioni derivi­no dai fatti, non possono esistere opinioni senza il confronto diretto con i fatti. Così come non dovrebbe esistere teoria senza un qualche tipo di verifica, soprattut­to all'interno del mondo dell'informazione.

La sparizione della "verifica"

Questo che cosa significa? Significa che il giorna­lismo italiano pecca di opinionismo, pecca di propagan­da, pecca di pubblicità. E' un giornalismo di pubblicitari in funzione di qualche cosa, di qualche potere, di qualche idea, di qualche gruppo; mai in funzione della verità o del confronto con la realtà. Quindi questo problema della verifica, nel senso letterale della parola, del constatare ciò che è vero e del vedere che cosa è concre­tamente alla base della morale del giornalista è un problema che si ripropone in continuazione, proprio perché in continuazione viene mistificato e tradito dall'opinionismo e anche dalla spettacolarizzazione di cui si diceva prima.
Per esempio l'enfasi sulla cronaca è sempre un'en­fasi in funzione della spettacolarizzazione e del vendere, quindi è un'enfasi particolarmente pericolosa. Io credo che soltanto dopo avere inchiestato, verificato, studiato delle situazioni coi propri occhi si possa giudicare, si possano dare delle opinioni rigorose e coerenti. Cosa che non avviene di solito nel giornalismo italiano perché appunto il giornalismo di inchiesta, di reportage è poverissimo: si fanno le inchieste a base di telefonate, con un breve viaggio di mezza giornata, magari alloggiati in un albergo e vedendo le due o tre autorità del posto e accontentandosi di questo si ritorna a casa e si scrive il grande pezzo sulla realtà della mafia in Sicilia o della delinquenza minorile a Napoli e così via.
Questi esempi credo che chi sta nel mondo del giornalismo potrebbe farne a migliaia, proprio perché sono pane quotidiano di questa professione oggi.

Tra il sì e il no

L'altro problema che mi pare derivi da tutto questo (io non sono credente e quindi mi posso permettere di citare gli Atti degli Apostoli e in questo caso il Vangelo) lo trovo in quella base fondamentale di una morale professionale dell'intellettuale - del prete, ma anche del giornalista, dello scrittore, dell'insegnante ecc. - che è nella lettera di Giacomo, l'unica lettera di Giacomo in cui si dice il famoso: "Che il vostro sì sia sì e il vostro no sia no". Questo nel giornalismo è qualcosa che non esiste proprio. I no e i sì ci sono: tutti i giorni ci sono centinaia di no e di sì ma cambiano di giorno in giorno. Per la stessa persona e, ripeto, i grandi giornalisti ne hanno dato l'esempio con il loro perenne trasformismo nel corso di cinquant'anni e più - alcuni, i più lodati del momento, nel corso di settant'anni - il sì diventa velocissimamente un'altra cosa: è un sì che non è mai di persuasione ma di retorica, un sì di servizio rispetto ad un potere nei confronti di un altro potere.
Faccio un ultimo esempio e poi passiamo ai discor­si concreti.
Nel modo di affrontare i problemi della società, io credo che ci siano delle grandi mistificazioni ideologiche che sono presenti in tutti noi e che vanno combattute, vanno un pochino "laicizzate" perché sono spesso delle convinzioni molto viscerali, a volte anche un filino isteriche. Faccio l'esempio dell'infanzia, perché l'infanzia non è soltanto l'infanzia abbandonata, è anche infanzia normale e questo è un tema che riguarda tutta la società, riguarda tutti noi.

Il bambino: salvatore o diavolo

Vinicio parlava dei vecchi, io parlerò un poco dei bambini. Come viene vista l'infanzia all'interno della nostra cultura, della nostra società? Io credo sostanzial­mente in due modi, a vedere la letteratura, il cinema, i giornali, la pubblicità, i media. Uno di questi modi è l'infanzia come portatore di futuro liberatorio. Ogni generazione fallisce il suo scontro con la storia, le sue rivoluzioni, e rinvia ai figli, ai nipoti, ai figli dei nipoti il compito di liberare la storia, di liberare l'umanità dalle sue catene, dalle sue tragedie, dai suoi limiti, dai suoi condizionamenti.
L'esempio ultimo di questo atteggiamento che mi viene in mente è il famoso manifesto del Manifesto, col neonato col pugno alzato che dice: "La rivoluzione non russa". Un'immagine un po' triste del futuro: si aspetta il liberatore, il salvatore. Dall'altro lato invece i media, in continuazione, il cinema, la televisione, la letteratura ci raccontano terrificanti storie di bambini mostri.
Dal tempo di "Rosemary's baby" in avanti il bambino può essere molto precisamente figlio di Satana, figlio del diavolo. Nel film "Rosemary's baby" questo era. Da allora in poi la figura del bambino mostro, la figura del bambino che sta accanto a noi ma ha dei poteri e dei linguaggi diversi dai nostri e che può aggredire e distruggere il nostro mondo, il bambino portatore di valori che non conosciamo, portatore dì un'alterità mostruosa, brutta, che a noi pare terrificante, ha riempito il nostro immagi­nario. Direi che noi ci muoviamo rispetto all'infanzia tra queste due immagini contrapposte e non riusciamo più a vedere, al centro, l'infanzia nella sua concretezza, nella sua realtà, anche nei suoi limiti, nelle sue potenzialità reali, per viverla invece in modo mitico attraverso questo immaginario o troppo positivo o troppo negativo.

Il bambino: consumatore e vittima

Allo stesso modo sul piano della cronaca, quello che i giornali continuamente ci propongono rispetto all'infanzia è: infanzia come soggetto di consumo, che ha potere d'acquisto (non ce l'ha l'infanzia ma ce l'hanno i genitori: la Chicco ha costruito un impero su questo. Se andate in un negozio a comprare un vestitino per una comunione costa più di un abito da sera per signora). Il mercato dell'infanzia è entrato a far parte del meccani­smo economico complessivo e l'infanzia è coccolata, esaltata, perché ci sono delle industrie che vivono di questo e devono quindi rimandarci questa immagine dell'infanzia.
Dall'altra parte invece abbiamo una cronaca che più nera di così non potrebbe essere. Abbiamo un rapporto molto concreto, questo molto reale con l'infanzia, che è fatto di sadismo, di uso, di sopraffazione, uso sessuale. Quotidianamente, credo, i giornali del mondo, non spe­cificatamente i giornali italiani - nel primo, nel secondo, nel terzo, nel quarto mondo, dovunque - ci raccontano di traffico di organi di bambini, di traffico di bambini da adottare, di bambini venduti e comprati per fare i mendi­canti, di bambini massacrati nelle guerre, di bambini seviziati e violentati nelle famiglie.

Liberarsi dall'immaginario

C'è quindi questa ambiguità continua all'interno della quale il compito dell'informazione dovrebbe essere quello di non vivere di immaginario. Quando dicevo di laicizzarsi non volevo dire che bisogna rinunciare alla persuasione. Un atteggiamento laico può essere un atteg­giamento profondamente persuaso, profondamente "re­ligioso" se così si può dire. Si tratta di vedere quello che c'è di reale, di liberare noi stessi da queste immagini, di liberare noi stessi da queste ideologie, da queste sopraffa­zioni mentali che ci vengono dalla cultura, dalle paure e dalle manipolazioni del presente, per ritornare a vedere concretamente la realtà e a raccontare la realtà.
Credo che questo si possa fare soltanto con una sorta di nostra crudeltà, certo non nel senso di sadismo di nessun genere, ma proprio crudeltà come bisogno di andare a fondo nelle cose, come bisogno di verificare, bisogno di verità, confronto diretto con la realtà e non di confronto mistificato. Credo che di questo ci sia un enorme bisogno.
E' ovvio che questo non è un compito che riguarda soltanto l'informazione, riguarda un po' tutti: gli intellettuali, i preti ecc. Ma nell'informazione questo compito potrebbe oggi avere una sua chiave propositiva nei confronti di un cambiamento di atteggia­mento nostro e di tutti nei confronti della realtà in cui viviamo. Guardare la realtà senza paraocchi ma con quel tanto di persuasione che ci impone il dovere di contribu­ire al suo cambiamento, al suo miglioramento".


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.