I Redattore Sociale 27-28 maggio 1994

Redattore Sociale

Giornalisti sociali si diventa

Intervento di Carlo Di Cicco

 

Carlo Di Cicco*

La fatica

"Questa relazione dovrebbe essere una relazione che facciamo insieme. Perché è difficile, diciamo così, tra colleghi farsi delle lezioni. Quindi io prego tutti quanti, soprattutto quei colleghi che hanno già un'espe­rienza e sono già navigati nella professione, a non pren­dere questo scambio come una lezione ma solo come un'introduzione, spero abbastanza breve per il dibattito che sarà, ritengo, la parte più interessante di questa mattinata.
Quando si parla a giornalisti, più che parlare biso­gnerebbe ritrovarsi nelle singole redazioni e lì, nella pratica, confrontarsi per poter tirare fuori il prodotto - perché la nostra professione è funzionale ad un prodotto e la qualificazione del prodotto ci permette di rispondere in modo significativo e opportuno a quella che è la nostra funzione eventuale dì informatori sociali.
Quindi chiedo scusa se leggo alcune pagine, sulle quali poi potremmo fare un approfondimento.
Credo sia importante completare il tema di questa comunicazione, che è appunto "Giornalisti sociali si diventa" con un'aggiunta significativa. Giornalisti so­ciali si diventa, è vero, ma con fatica. Occorre fatica, sia perché non ci sono ancora modelli precostituiti tali che esprimano in modo emblematico questo nuovo tassello della nostra professione giornalistica. Sia perché la fatica e l'impegno occorrono per diventare anzitutto dei buoni giornalisti. Buoni giornalisti significa veri professioni­sti, competenti, che raggiungono gli obiettivi non per grazia ricevuta; e che una volta inseriti nei circuiti produttivi, a qualunque livello, non si contentano di essere arrivati, perché la professione, se la si ama e si ha stima di sé e rispetto per gli altri, esige un continuo aggiornamento.

Competenti e orecchianti

Nella storia e nella pratica giornalistica ci sono due filoni. Quello dei professionisti competenti e quello degli orecchianti e pressappochisti, ai quali interessa di più apparire che essere. La storia del giornalismo di informa­zione sociale sta quasi agli inizi ma è auspicabile che ricalchi le orme solamente della competenza. Sono infat­ti due gli stadi indispensabili perché si realizzi il redattore sociale. Uno di competenza professionale generale e uno di specializzazione. Se non si ha stoffa e se non si è bravi giornalisti, nel senso di competenza, non si diventerà neppure buoni redattori sociali. Si tratta infatti di saper applicare, contestualizzare nella specializzazione, anzi­tutto le norme generali della professione e della deonto­logia giornalistica.
Alcuni dicono che il giornalismo non sia una vera scienza. Forse hanno ragione perché lascia molto spazio al soggettivismo, alla soggettività, all'iniziativa, ma proprio per questo è indispensabile che sia supportato da eticità e sete di apprendimento.             

Quale potere?

Si usa dire che la stampa rappresenta un potere. A volte più, altre meno, lo è stato effettivamente. Perlome­no a livello di condizionamento del modo di pensare di molta gente. Scadendo il rigore informativo, scade anche il contributo che noi diamo alla sensibilità generale sui valori e la responsabilità civile. Emblematica è la vicenda di Tangentopoli. Una degenerazione che una stampa più eticamente animata e più professionalmente esercitata avrebbe potuto prevenire con una costante informazione dalla parte della gente. Ma ci sono continuamente casi in cui la debole professionalità nell'informazione produce equivoci o attizza dibattiti speciosi. Ci può essere a volte un uso distorto delle fonti. Faccio un esempio. Moltissime volte, negli ultimi mesi, sui giornali è apparso il pensiero dei vescovi: "I vescovi dicono..."; in televisio­ne: "I vescovi dicono..."; "Sulle adozioni i vescovi dicono..." con titoli tali che hanno creato in qualche modo una certa immagine dei vescovi nell'opi­nione pubblica. In realtà non erano i vescovi a dire, ma erano degli interventi sull'Agenzia SIR (Servizio di Informazione Religiosa), che è una agenzia di servizi per i settimanali cattolici, dove ci sono tanti interventi di sacerdoti, di laici, di giornalisti qualsiasi che sono anche molto bravi.

Il caso dell'Olocausto

Allora attribuire qualsiasi servizio di questa agen­zia come fosse la voce dei vescovi è una distorsione profonda e fa apparire a volte l'episcopato, i vescovi quel che non sono o far dire ai vescovi quel che non dicono. Allora bisogna invece dire che su questa agenzia che è di questa natura, pinco pallino dice: "...". Allora sarebbe molto diverso, sarebbe ridimensionato.
A volte le fonti non sono verificate o i giornalisti non verificano. C'è quest'ultimo esempio, grave per la natura della cosa, però ricorrente.
In questi giorni avete visto sui giornali che è tornata la questione dell'olocausto degli ebrei. Quindi la vicenda degli olocausti, la Chiesa chiede perdono, si pente perché è all'origine anche dell'olocausto e quindi dello stermi­nio dell'ultima guerra. Ecco anche qui: su questa notizia che era molto imprecisa, approssimata, i giornali si sono buttati e hanno fatto addirittura degli editoriali, degli elzeviri, delle colonnine di riflessione, ecc. Poi con il tempo si è venuto a precisare che anzitutto non è un "documento" ma è ancora una bozza, e che non è un documento della Chiesa cattolica universale ma è una bozza di documento di due episcopati; e se è una bozza, può cambiare, tanto più un giornalista attento sa che, soprattutto, nelle cose ecclesiastiche, i documenti cam­biano moltissimo. Da una bozza se ne possono fare altri 7 o 8 per esempio, come per l'ultima del digiuno: da un documento di base, scritto da un teologo, nel giro di due anni hanno fatto 8 bozze e il teologo che stava all'origine della bozza non si riconosceva più nel documento finale.
Quindi non si può prendere una bozza come fosse un documento. Se il collega che era all'origine di queste informazioni avesse chiarito e avesse chiesto al rabbino Rosen: "Ma è una bozza o è un documento? Ma di chi è questo documento?" avrebbe colto la parte che era informativa e la parte che era "propagandistica".

Se un fatto vecchio diventa scoop...

A volte manca la precisione sulla contestualizzazione, che può aiutare a dare spazio o a ridurlo nel riferire notizie. Esempio, anche qui recente. Il bambino di Conegliano che è vissuto coi lupi. Ecco, anche questo è un episodio che è stato dato inizialmente come fosse accaduto e fosse ancora in essere, mentre era un episodio di alcuni anni fa: questo bambino adesso ha 7 anni, ha finito il periodo di recupero nell'istituzione ed è tornato alla normalità. Allora scoprire un fatto che è accaduto nel passato e darlo come se fosse di oggi naturalmente è un'ambi­guità che comporta dei rischi molto gravi. Anche qui i giornali si sono buttati, con commenti vari, come se adesso noi andassimo a commentare fatti che ci sono stati alcuni anni fa: questo non è giornalismo ma piuttosto dovrebbe essere, diciamo così, un'esperienza di carattere storico. Il giornalismo è più sull'attualità. Non che non bisognava dire, ma se l'informatore iniziale contestualizzava la cosa c'erano tutti gli elementi per poter ridimensionare il fatto.
A volte il desiderio di scoop spinge a falsificare alcuni dati. E' di ieri per esempio l'uscita su Repubblica di un servizio a proposito di Vaticano e famiglia, in vista della conferenza de II Cairo sulla popolazione e lo sviluppo, in settembre, presentato dal giornale come fosse apparso il giorno prima, quando invece il documen­to era stato pubblicato e ampiamente diffuso il 13 maggio scorso. Il pressappochismo, l'improvvisazione, la febbre di scoop, anche fittizi, il menefreghismo della verità dei fatti, la prevaricazione, la legge esasperata della concor­renza non sulla qualità ma sulla degenerazione informa­tiva sono tutti tarli che rovinano la professione giornali­stica, il prodotto giornalistico. Tarli che vanno tanto più evitati quanto più si deve informare di una realtà che pone al suo centro non solo i diritti di cittadinanza ma i diritti dei più deboli, le dinamiche di uria convivenza animata dalla solidarietà, politiche di trasformazione sociale e di servizio della qualità della vita, a livello di territorio, di regioni, di paesi, di rapporti internazionali.

Cultura ed etica a tutto campo

Volendo infatti realizzare una convincente infor­mazione sociale occorre muoversi in una prospettiva culturale concentrica, dal particolare territoriale all'uni­versale e viceversa, perché i deboli e i marginali sono dovunque e i problemi che li riguardano sono trasversali alle società povere ed opulente. E' questa una lezione che alla professione giornalistica viene dal mondo del volon­tariato e della marginalità. Senza una forte carica etica, anche conoscitiva, e una forte cultura delle questioni ambientali, delle questioni religiose, delle questioni di municipalità e politiche sociali a tutti i livelli, non si può raccontare una vera informazione sociale. Si potrebbe fare della spigolatura di informazione sociale, più vicina alla cronaca, ma è un'altra cosa.
Al volontariato noi giornalisti dobbiamo questo grande richiamo. Perciò è necessario anzitutto conoscere i problemi, i contesti, i protagonisti dell'emarginazione, delle politiche sociali e sanitarie. Ciò non significa che solo un giornalista che proviene dal volontariato potrà essere un buon informatore sociale. Ma certamente que­sto mondo bisogna conoscerlo davvero bene per non restare alla sola superficie del bello scrivere.

Non solo marginalità

L'agenda del redattore sociale dovrà essere zeppa di telefoni e indirizzi del mondo sociale, ma dovrà anche saper leggere fatti e accadimenti fondamentalmente di altra natura in rapporto alle problematiche sociali: anche un'assemblea della Confindustria o della Banca d'Italia potrebbe avere risvolti importanti per l'informazione sociale. Il mondo della marginalità e della società civile non vive infatti in un ghetto. Far circolare al suo interno conoscenze di andamenti strutturali della politica e del­l'economia aiuta a "sghettizzarsi". E' importante non limi­tarsi nell'informazione sociale all'ambito della margina­lità. La marginalità deve occupare un segmento premi­nente. Tuttavia occorre convincersi che sono tanti i livelli di marginalità. Parlare di donne, di giovani, di disoccu­pati significa fare informazione sociale; quando però si raccontano le loro lotte di liberazione, la richiesta di politiche eque si entra nei mille rivoli dell'educazione scolastica, del linguaggio e della comunicazione giova­nile (vedi i fumetti), delle dinamiche di attrazione/repul­sione esistenti tra generazioni. Non è un caso che nella rete informativa quotidiana che abbiamo cercato di dedi­care nell'Agenzia Asca all'informazione sociale, si è cercato di salvaguardare prima e di perfezionare la connessione tra le politiche sociali e sanitarie a livello comunale, regionale, nazionale, europeo e degli organi­smi sovranazionali, privilegiando in questo le iniziative sia istituzionali che partitiche e le iniziative-risposte del volontariato o dei soggetti marginali.
E' un'interconnessione che non è sempre facile. Un buon giornali­smo sociale deve certamente attenersi a tante cose che ritrovate egregiamente nella guida Cnca.

I rapporti giornalista-volontariato

Vorrei toccare altri due temi che mi sembrano di rilievo. La libera iniziativa del giornalista e il rapporto con il volontariato. Come si predica l'autonomia del giornalista dai vari centri di potere politico, economico, sindacale, religioso, così si deve mantenere come un bene prezioso l'autonomia giornalistica anche rispetto al mon­do dell'emarginazione. Occorre cioè mantenere la capa­cità di informare sempre, di promuovere inchieste, ap­profondimenti, confronti, sempre, senza limitarsi a rife­rire l'ufficialità della marginalità. La stampa sociale non può rinunciare a diventare e restare coscienza critica. Cosa diversa dallo scandalismo.
Riguardo al volontariato, se noi siamo la sua anima critica, il volontariato quando è di qualità e non è sovrastrutturale è coscienza critica della nostra profes­sione. Occorre frequentarlo e confrontarsi. Non ci può essere tra noi il rapporto tra Pinocchio e il Grillo parlante. L'esperienza della marginalità ridimensiona molte cose.

Qual è la notizia?

Tanto più noi saremo giornalisti professionalmente esigenti e garanti, tanto più riusciremo di utilità per la causa del volontariato e del mondo del disagio.
Anche tenendo conto degli aspetti peculiari del volontariato, ci sono cose importanti nel mondo del volontariato, meno per chi non si muove nell'ottica del volontario. Professionalità giornalistica significa saper mediare anche questa apparente contraddizione. Questo anche nello scrivere le più piccole notizie sociali. Devo­no rispondere alle norme generali della notizia: a me non piace che si parli di "notiziabilità", che è una parola che ritengo riduttiva dell'informazione che noi dobbiamo fare; perché "notiziabilità" rafforza quella vecchia teoria (che vige nel giornalismo) che solo alcune cose sono notizie ed altre non lo sono.
Bisogna mettersi d'accordo su che cosa è notizia. E il termine di paragone - o di referenza - non dev'essere la decisione cervellotica nostra, ma l'interesse che può avere per poche o più persone. Quindi (si deve risponde­re) alle norme generali della notizia, proprie della tradi­zione giornalistica, ma anche alle esigenze di chi vive e opera nel disagio.
Questa informazione si presta a critiche sostanziali da parte di questo mondo? Nella storia si racconta di santi e predicatori, o scrittori, che leggevano i loro scritti a persone semplici prima di pubblicarli, per rendersi conto se erano sufficientemente comunicativi. Il nostro target, come operatori dell'informazione in generale, deve resta­re il lettore differenziato. Ma la costruzione e la comple­tezza dell'informazione devono essere tali da "passare", cioè da essere promosse ad un ipotetico esame del mondo della marginalità e del volontariato".


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.