II Redattore Sociale 10-12 novembre 1995

Redattore Sociale

Mondi nascosti

Intervento di Sr. Maria Rosario "Charo" Bolanos

 

Sr. Maria Rosario "Charo" Bolanos - Associazione On the road*

Chiedo scusa se la mia non è una relazione scientifica, io non sono una studiosa del fenomeno "prostituzione", è soltanto la testimonianza di una religiosa apparten/umbraco/umbraco.aspx#contentente alla Congregazione delle Suore Oblate del SS.mo Redentore che, insieme ad un gruppo di volontari con cui hanno formato l'Associazione "On The Road", si è avventurata nella condivisione accanto alle donne prostituite.

Da un giornale dell'epoca...

2.000 anni fa qualcuno ha raccontato, attraverso la carta stampata di quel tempo, il seguente fatto di cronaca: si è svolta a Gerusalemme una manifestazione contro la prostituzione. Vi hanno partecipato Scribi e Farisei, dottori della Legge, giudici ed anziani, tutti conoscenti e praticanti la Legge di Mosé. Il corteo è arrivato fino al tempio, spingendo con sé una donna colta in flagrante. Si noti bene, solo la donna. L'uomo non si sa che fine abbia fatto. L'hanno buttata davanti ad un tale chiamato Gesù di Nazareth che si distingueva proprio per difendere le donne, specialmente di questa categoria (Gv. 8,1-11). Ella è lì da sola, nuda, con la sua realtà in mano, oggetto degli sguardi maliziosi, delle burle e degli improperi della gente perbene, di quegli uomini che la usano e la buttano via, giudicata perché è un'adultera, sporcacciona, donnaccia, propagatrice di brutte malattie, rovina famiglie, non persona.
Lei, cosciente di questa verità, non desidera altro che perire sotto le pietre scagliate da uomini più o meno come lei, poiché così pagava con la sua vita la colpa di essere venditrice di piacere. Invece è davanti ad un uomo del quale sapeva che non condannava, non giudicava e il cui perdono gli pesava più della morte.

Di giorno ha paura di tutto e di tutti

E' questa la donna della strada, apparentemente felice, disinvolta e svergognata. Ma questo atteggiamento non è altro che la maschera che nasconde la smorfia del dolore, della ferita profonda nel suo essere, della violenza subita ogni volta, della rabbia e della paura.
E' costretta a sdoppiarsi pericolosamente perché odia ciò che fa e non si azzarda a guardare negli occhi chi vuole comperare i servizi che offre quasi con volgarità.
E' talmente assente che non distingue, alle volte, il timbro della voce; perciò si scusa umiliata quando scopre che dietro al finestrino dell'auto c'è una donna che affettivamente gli offre amicizia; allora questa donna tanto disprezzata gira la testa o se ne va per nascondere una lacrima che la tradisce e che gli fa perdere quella finta sicurezza che l'aiuta a scongiurare i pericoli della strada.
Questa donna, che sulla strada sembra sfacciata, volgare e padrona di sé sa bene di non essere se stessa (o quella che vorrebbe essere) perciò evita di andare in mezzo alla gente comune.
Lì le sembra di essere riconosciuta, additata, guardata, guardata con diffidenza e si autocondanna alla solitudine, all'isolamento e all'annullamento come soggetto sociale. Di giorno ha paura di tutto e di tutti, è stata talmente bastonata, ingannata, sfruttata che si è vista nella necessità di sviluppare la corazza della presa in giro, della bugia, del mimetismo per sopravvivere.

La donna prostituita, violentata dall'informazione

Gli uomini che 2.000 anni fa formavano il corteo di Gerusalemme, coerenti ed onesti con se stessi, si defilarono discretamente al sentir dire dal Maestro: "Chi è libero dal peccato scagli la prima pietra". Queste persone sapevano che Lui, senza aver studiato Freud, conosceva bene la psicologia del profondo ed i meccanismi di difesa come la protezione, e potevano essere scoperti.
Invece, nel nostro tempo, sembra che si sia persa ogni sorta di ritegno o di valori umani e morali; i nostri quotidiani, settimanali, mensili ecc. sono pieni di denigrazioni, offese, accuse.
La donna prostituita è in mezzo alla piazza pubblica dei mass media, abbruttita ed inaccettabile. Ella viene presentata come responsabile unica delle malattie trasmissibili sessualmente e non è sanitariamente tutelata come esibizionista e mercante di piacere il cui profitto qualcuno vorrebbe imponibile fiscalmente, anche se è il prodotto del deterioramento nella persona della propria stima fisica e morale.
La donna prostituita, maltrattata, impoverita, molte volte violentata da parte di professionisti dell'informazione per carpire la notizia, la curiosità, l'aneddoto, il dato poi manipolato senza scrupolo o tergiversato, per alimentare negativamente la malsana opinione pubblica.
Questa donna è alla vista di tutti, ripresa in TV per documentare e far toccare con mano lo stigma della volgarità nel modo di presentarsi, perché ha dimenticato la spontaneità.
La critica si fa ancora più dura se questa donna è straniera, clandestina, negra. Allora diventa centro di "scoop" e di servizi "piccanti" tanto cari ai benpensanti, con giornalisti spesso venditori di oscenità, di notizie forzate e superficiali a scapito delle più povere e meno tutelate.
Tutti la possono colpire perché lei non è difendibile da nessuna legge, non ha identità né patria perciò non è riconosciuta, non ha nessun diritto, non ha le carte in regola, ha tanti fogli di via o di espulsione, deve soltanto andarsene e vagare con angoscia per evitare mali peggiori, braccata senza via d'uscita.

Cambiate la percezione di queste donne

Anche chi ha il dovere dì proteggerle, perché investito di autorità, fa leggi che la fanno diventare perseguibile, permette l'insulto. Lei può impunemente finire morta in una discarica senza che nessuna voce si levi per chiedere giustizia. In fin dei conti, dicono, se l'è cercato! Eppure questa donna condannata è capace di solidarietà, di affetto, di tenerezza, di sacrifici, di sogni ed anche di guardare verso le stelle, e penetrando con lo sguardo interiore al di là di esse, captare in un atto di altissima contemplazione la forza che le fa muovere ed inabissarsi nella scoperta di possederla dentro di sé.
Noi Oblate del SS.mo Redentore, insieme ai volontari che costituiscono l'Associazione "Oh The Road" (aderente al Cnca), scendiamo sulla strada accanto a loro senza moralismi né pregiudizi, solo nell"impegno di fare strada insieme nella coscienza che questo significhi un'umanizzazione ed un'evangelizzazione liberatrice.
Non abbiamo mai conosciuto donne che liberamente abbiano scelto questo stile di vita o emancipate e contente di sé. Solo in Tv appare quell'altro modo di fare prostituzione di alto bordo, le porno star o esibizioniste di varietà ma anche queste, anche se molte volte invitate come ospiti d'onore ai diversi programmi TV, le percepiamo poco vere ed i loro discorsi molto razionalizzati per farli accettare a sé e agli altri.
Per finire voglio invitare anche voi a cambiare gli occhi ed il senso della percezione ed in questo modo diventare interlocutori di questa donna e fermarvi, scalzandovi prima nel rispetto della sua sofferenza, lì in mezzo al chiasso ed alle luci della notte. Far silenzio e lasciare al cuore la libertà di sentire gli ultrasuoni e le vibrazioni e di vedere con gli ultravioletti per percepire quelle grida silenziose di dolore e di impotenza, di quei brandelli di persona sganciata da ogni senso di appartenenza, senza identità, senza forza di reagire nella più buia solitudine, nel degrado dell'emarginazione. Volete anche voi contribuire ad aiutare, come fa l'artista che ricompone ed incolla le figure di ceramica che si spezzano in 2, 10, 100 pezzi, le donne prostituite a ricostruire la propria persona?

Roberta Tatafiore*

Il mio ruolo qui è quello di parlarvi della prostituzione - tema molto complesso in sé - rispetto ai mass-media. Quindi stampa, televisione e quella parte di comunicazione on line, come Internet, che sarà la comunicazione del futuro. Per la mia analisi ho attinto dal mio archivio - che è un archivio stampa molto artigianale - e ho navigato in Internet. Non ho potuto utilizzare la documentazione Rai, e questo è un fatto molto significativo per lo stato della comunicazione in alcuni nostri settori.

Stampa che mescola, stampa che separa

Vorrei iniziare facendo due premesse o, meglio, ponendo due domande. Perché si parla tanto di prostituzione in Italia? Non so quanto se ne discuta fra amici o nei luoghi politici, ma certo la comunicazione è occupata massicciamente da questo tema. E' comprensibile perché la prostituzione è oggi un fenomeno vistoso ed è un problema sociale. Ed è nell'aria, anche se personalmente non la ritengo imminente, una modificazione dell'attuale legge vigente sulla prostituzione.
Seconda domanda: in Italia si parla di prostituzione in modo differente da come se ne parla negli altri Paesi europei? Risposta affermativa, considerando in particolare i Paesi del nord Europa, che sono anche quelli in cui è stato coniato uno stile di giornalismo - il famoso modello anglosassone - molto diverso dal nostro: penso alla Germania, all'Inghilterra, in parte anche alla Francia, all'Olanda, alla Scandinavia. In questi Paesi non esiste quel miscuglio fra cultura e politica da un lato, cronaca, scandali e pettegolezzi dall'altro che caratterizza la nostra comunicazione. Negli altri Paesi le differenze sono nette, in Italia no.
Un esempio: nelle prime pagine dei nostri quotidiani - la Stampa piuttosto che ilCorriere - con una certa facilità troviamo storie di ragazze albanesi prostituite con tutti i dettagli relativi alle sevizie degli sfruttatori. Una cosa del genere voi non la troverete mai né sul Guardian né su un altro giornale del nord Europa. Perché? Ovviamente non perché questi episodi non ci siano in questi Paesi. Anzi, le statistiche dimostrano esattamente il contrario. Non le troverete perché queste notizie occupano uno spazio proprio, quello della cosiddetta stampa di boulevard: quella scandalistica, quella pomeridiana, notturna qualche volta. Quindi si tratta di comunicazioni separate. La mancanza di distinzione fa parte invece della nostra tradizione, della nostra cultura giornalistica. Vedremo dopo se ciò sia un bene o un male.

Due esempi di "inchiesta"

Lo stesso per quanto riguarda la tv. La nostra televisione ormai è invasa da un modulo informativo che è quello dei famosi salotti, salottini o tinelli, come li chiamo io. A questi luoghi la Rai, come la Fininvest, riserva la maggior parte dell'informazione. E lì si chiacchiera moltissimo di prostituzione. Torniamo ad agganciarci alla stampa con un nuovo esempio. Recentemente sono uscite due grandi inchieste sulla prostituzione, simili per contenuti, una sullo Spiegel tedesco l'altra sull'Espresso. Contenuti simili, ma copertine completamente diverse, e su questo voglio invitarvi a riflettere. Quella delloSpiegel, sormontata da un grande titolo, "Prostituzione", scritto in tedesco, aveva ovviamente un'immagine legata al sesso e al denaro. Però era un'immagine stilizzata: una donna con uno slip, un reggicalze e del denaro infilato nelle calze. Un'immagine con una sua autonomia grafica, e un titolo freddo, economico. L'analoga inchiesta sull'Espresso si chiamava "Il giro del porno in 80 giorni" e come copertina aveva qualcosa di simile ad un bagno turco con delle donne bellissime in posizione di attesa. Questa differenza, secondo me, si spiega perché in virtù dell'attrazione per la trasgressione sessuale che imperversa in Italia, la prostituzione viene accostata ad altri fenomeni di comportamenti sessuali della nostra epoca che con la prostituzione non c'entrano niente. Allora si mette tutto in fila: pornografia, spogliarelli, scambi delle coppie, tutto quello che attiene alla cosiddetta trasgressione sessuale. Tutto nello stesso calderone e in questo modo si occulta la nudità, l'essenza del rapporto sessuale a pagamento, che è un rapporto di potere sociale ed economico, da parte di un sesso nei confronti dell'altro o, se vogliamo essere anche noi "moderni", e pensare che nulla impedisca ad una donna di essere una potenziale cliente, da parte di chi compra nei confronti di chi vende.

Dividersi tra vestiti e spogliati

Se parlassimo solo di domanda ed offerta, parleremmo alla fine della verità, degli uomini e delle donne, e dei transessuali, e di tutti i tipi di soggetti presenti sul mercato. Dovremmo parlare di che cosa cercano e scambiano gli uomini nella sessualità e di che cosa sono disposti a scambiare i soggetti che si prostituiscono. Ma questo è il grande rimosso della prostituzione, ciò che si vuole evitare. Ci si affida quindi allo spettacolo delle apparenze, cioè a questa equazione fra prostituzione e trasgressione sessuale.
Esemplari, in questo senso, i talk-show. In questo tipo di trasmissioni si mettono a confronto persone diverse: c'è la prostituta, il prete, la pornostar, il politico. Ognuno fa discorsi differenti, che si elidono gli uni con gli altri. Proprio perché la chiave vera del rapporto nudo e crudo è occultata. Dio non voglia che in questo tipo di show ci sia anche la femminista. Personalmente mi sono formata facendo la politica delle donne, ma in questo caso sono ben felice di non essere mai chiamata come femminista. Perché, nel gioco delle parti, è sempre alla femminista che si chiede di stare in qualche modo all'essenza del rapporto denaro-potere, ma le si chiede anche di riprovarlo e dargli la censura. Il tutto con un effetto ottico veramente sconcertante. Ve lo riassumo: da un lato gli uomini, il politico, il sociologo, naturalmente vestiti. Poi ci sono le donne come me, le esperte, vestite anche loro, assimilate agli uomini. Dall'altro ci sono le donne spogliate: le pornostar, le prostitute. Ed è questa, malgrado l'occultamento, la verità del rapporto di potere. Dividere le donne fra vestite e spogliate, donne per bene e donne per male. E gli uomini, invece, sono sempre vestiti e impegnati a coprire la loro collocazione fondamentale nel mercato della prostituzione e, cioè, il fatto di essere i clienti. Non dico che lo siano in carne ed ossa. Ma questa è la caratteristica astratta. lo poi sono molto grata alla presenza delle spogliate perché, siccome questi discorsi diventano spesso senza senso, per lo meno loro un senso lo danno.
Mi è capitato recentemente ad una trasmissione di Rete 4 di pensare che per fortuna c'era anche MiIly D'Abbraccio, perché tra le sciocchezze che sono state dette a raffica sull'Aids, lei con le sue belle tette siliconate, per lo meno è riuscita a dire ad un certo punto una verità importante: che il sesso commerciale avviene quasi sempre con l'uso del preservativo, ed ha restituito un po' di senso e verità.

Prostituta, ma non 24 ore su 24

Qui c'è un aspetto che mi interessa sottolineare: la trasgressione sessuale, come codice implicito per rappresentare la prostituzione, agisce anche sulla stampa e, soprattutto, a livello di immagine. Fateci caso, non c'è articolo di quotidiano sulla prostituzione che non sia accompagnato da una fotografia di prostituta. C'è uno stereotipo fotografico che viene ripetuto all'infinito ed è l'immagine della prostituta colta da dietro, mentre sul bordo della strada contratta con il cliente in auto. Questa è l'immagine canonica. Ma c'è una cosa che a nessuno viene in mente, e che mi è stata fatta notare da una donna che conosco e che fa la prostituta: quelle donne, quei travestiti hanno come tutti gli altri cittadini diritto all'immagine. Nessuno pensa a come possano sentirsi umiliate queste persone, vedendosi rappresentate in quelli che per loro sono abiti da lavoro. E la maggior parte delle prostitute di strada, a differenza delle pornostar, non ha deciso di stare al lavoro 24 ore su 24. E' talmente automatica la convinzione che la vita di chi si prostituisce debba tutta risolversi lì, nel luogo dove lo fa, che probabilmente queste riflessioni non sono venute in mente a nessuno di voi. lo stessa non avevo mai notato questo particolare.

Recentemente il Tg1 ha trasmesso uno speciale piuttosto interessante. A dare lo spunto un mio articolo pubblicato questa estate dal Manifesto, un articolo in cui parlavo di un progetto per l'educazione delle prostitute migranti che si svolge a Torino e che si chiama Tanpep. In quest'occasione finalmente abbiamo visto delle immagini di prostitute non negli abiti da lavoro, ma impegnate a seguire questi corsi, ad imparare a fare le educatrici alla pari, a vivere, insomma, una condizione di comunicazione differente. Un buon servizio, ma queste immagini sono state automaticamente seguite da altre prese dalla strada: donne che scappano e si nascondono. Il modo in cui vengono riprese le prostitute di strada è terribile. Spesso gli operatori vanno con la polizia, perché altrimenti hanno paura di passare dei guai. Quindi immaginate il livello di violenza di questa operazione.

Pretty woman, ma pagate

E' lecito domandarsi perché ci sia questo tipo di comunicazione. lo credo che sia per effetto del codice implicito dell'attrazione per la trasgressione sessuale. Tanto credito si dà all'immagine trasgressiva della prostituzione, tanto poco alle parole che vengono effettivamente dette da chi si prostituisce. Segnalo subito una cosa poco gradevole per la mia categoria, ma che è capitata anche alla sottoscritta. Le testimonianze delle prostitute, a volte toccanti, a volte divertenti, a volte serie, in molti casi legate al fenomeno pretty woman - donne che vengono '"salvate" dai marciapiedi non per loro scelta ma perché arriva il fidanzato, in genere ex cliente, che le salva - spesso sono pagate. Le prostitute non hanno difficoltà, insomma, a dire quello che voi volete che esse dicano, dietro un congruo compenso. Questo non toglie il fatto che le storie siano vere. Pensate però a quale sottilissima manipolazione agisca in questo tipo di relazione. Perché naturalmente il/la giornalista vive il proprio lavoro attraverso il filtro di questo codice, attraverso il sospetto che in assenza di questa mediazione la prostituta avrebbe detto cose differenti. Questo fa sì che quando il/la giornalista si avvicinano a fenomeni nuovi, emergenti - e devono farlo perché questo è il nostro mestiere - proprio perché c'è questo velo del sospetto così pesante hanno sempre il dubbio di trovarsi di fronte dei cliché ripetitivi e lontani dal vero.

Per esempio, quando arrivarono a Torino le nigeriane, "le prostitute di colore", io feci un servizio per Noidonne e la prima cosa che andai a vedere era se queste donne, di cui si diceva già "sono state ingannate", "non facevano le prostitute" il che è vero ma non nella misura in cui è stato detto - lo fossero state veramente! Ma c'era un altro aspetto importantissimo: molte di queste donne, in verità, facevano le prostitute anche nel loro paese d'origine. Ma una cosa è fare la femme livre nella baraccopoli di Nairobi, piuttosto che nel Sudan, e altra è stare alla catena di montaggio, sotto protettore, sui marciapiedi di Torino.

Le generiche denunce del racket

La ricerca della testimonianza in vivavoce, avvolta da questo velo  profondissimo che è il sospetto, mi fa dire di quanto poco noi riusciamo, se non in termini ripetitivi, a descrivere la realtà. Solo quando dice qualcosa che salta dalla verità del sospetto, la prostituta riesce a bucare la comunicazione. E questo paradossalmente succede più con le immagini che con la carta stampata.La tv, che è molto più normativa per certi versi, in altri casi si rivela più libera. La carta stampata, che sembrerebbe meno normativa della tv, per certi versi è molto più manipolata.
lo ricordo una trasmissione del Coraggio di vivere, fatta subito dopo la grande ondata repressiva dell'estate del '94, quando sui giornali non si faceva altro che parlare di prostituzione, di retate e abrogazione della legge Merlin. In quell'occasione furono mandate in onda delle interviste fatte ad una serie di prostitute e transessuali per strada, dove intelligentemente gli intervistatori insistevano sul tema della riapertura delle case chiuse, facendo leva sulla pericolosità della strada per chi si prostituisce. Prostitute e prostituti rispondevano in una maniera che in quel caso bucava lo schermo, e cioè che, a dispetto della grande montatura sulla riapertura delle case, la maggior parte di loro non si percepivano come persone che possono essere segnate a vita dal marchio della prostituzione o dalla tesserina della legalizzazione, cosa che ovviamente accadrebbe se la prostituzione venisse totalmente legalizzata. Questo tipo di veridicità viene fuori più facilmente in tv invece che nella carta stampata. Di fronte alla prostituzione dilaga poi un altro sentimento: lo sdegno per la sopraffazione, lo sfruttamento e la violenza. Questo è un buon sentimento che a volte però fa più danni degli altri. Ci sono ormai quantità enormi di pezzi giornalistici che denunciano il racket, riprendono i vari fatti di cronaca, e sembrano tutti scritti allo stesso modo. Tutti vanno a finire in qualcosa di nebuloso e indefinito per dire che lì, in un certo contesto, agisce la cosca tal de' tali. Non esiste più, e poi cercheremo di capire perché, un giornalismo di inchiesta che miri a scoprire quello che non è stato ancora scoperto. Questo genera assuefazione e il lettore non si accorge più di quello che legge. Perché non c'è più alcuno stimolo del nuovo.

Diverse schiavitù

Inoltre, parlando di prostituzione, non c'è dubbio che per varie forme di racket si tratta di vera e propria riduzione in schiavitù. Ora, la schiavitù sessuale in questo caso pare che codifichi un linguaggio particolare, e questo linguaggio è quello che fa tornare a ripetere le stesse espressioni, a cercare sempre le stesse testimonianze. Ma la schiavitù oggi non è solo quella sessuale, riguarda anche altri settori del mercato: i bambini e le bambine rinchiusi negli scantinati a fare camicie, gli adulti prigionieri delle mafie cinesi dei ristoranti, le ragazzine nelle fabbriche di scarpe a incollare i pezzi con la colla tossica. E via di seguito. Quando si parla di queste ed altre schiavitù, il linguaggio è più asciutto e, soprattutto, non si cerca la testimonianza di chi è oggetto della schiavitù, come se chi è oggetto di questa schiavitù non dovesse avere voce. La schiavitù sessuale ha una voce filtrata dal sospetto. Le altre nemmeno quella. Vi sottopongo un problema: io credo che la schiavitù sessuale abbia qualcosa di particolare rispetto alle altre schiavitù, che io vorrei anche "denunciare", ma non nella maniera pietistica con cui abitualmente viene fatta questa denuncia. Vorrei invece mettere in risalto, per esempio, il fatto che il denaro e il ruolo sessuale che esso ha nel sesso a pagamento compensa e occulta molte sofferenze. A questo elemento di verità della prostituzione come schiavitù non viene mai data voce. Per questo dicevo prima che anche lo sdegno, che è un buon sentimento, può avere pessimi effetti.

"Hanno le mani legate"

Infine c'è un tipo d'inchiesta legata alla prostituzione come sfruttamento o come schiavitù che non viene mai fatta. Ed io stessa avrei molta cautela a farla. La polizia, in base alla legge vigente sulla prostituzione, non ha la possibilità di combatterla, perché da noi come negli altri Paesi europei, la prostituzione di per sé non è reato: quindi sentite dire, e la cosa è in parte vera, che "le forze di polizia hanno le mani legate". Però non ce le hanno nel senso che una serie di apparati della legge Merlin e del codice di pubblica sicurezza dà alle forze di polizia un potere molto grande di gestione del territorio. Nella gestione del territorio, che vuol dire organizzazione della prostituzione di strada, non solo da parte del racket ma anche con un ruolo della polizia e dei carabinieri. E su questo nessuno fa inchieste. Io stessa avrei molta difficoltà a farne argomento di inchiesta, perché penso che oggi non bisogna creare un ulteriore allarme sociale. Parlando del ruolo delle forze dell'ordine non si tratta di connivenza pura e semplice. E' una cosa molto più delicata. Non credo, inoltre, che né una seria repressione alla prostituzione come riduzione in schiavitù, né qualsiasi problema di convivenza sul territorio si possa oggi risolvere senza l'aiuto delle forze dell'ordine.

Chi crea allarme sociale

Ultimo e più difficile punto: il sentimento dell'allarme sociale. Quando si parla di allarme sociale -prostituzione, aids, carcere, tossicodipendenza - il ruolo dell'informazione diventa enorme. E il potere dei media si mostra davvero come potere. Non sempre i media hanno quella forza che si tende ad attribuire loro. In questo caso sì, perché i media si possono sia dispiegare per moltiplicare
l'allarme sociale, sia per interpretarlo e quindi dotarlo di un senso.
A proposito di allarme prostituzione, le più vistose carenze che ho registrato nei media e nelle decine di articoli scritti - in questo caso sono state fatte poche trasmissioni tv - sono la mancanza di un'analisi seria della composizione sociale e sessuale: di quei soggetti del territorio che non sono le prostitute, ma i cittadini e le cittadine, che hanno contribuito con le loro proteste, con i loro cortei, con le loro fiaccolate a fare emergere l'allarme.
Analisi seria della composizione sociale e sessuale, dico. Perché sessuale? Sociale lo si può ben capire: sono settori della società civile che sono stati per molti anni abbandonati a se stessi, con la paura di avvicinarsi, soprattutto con la paura di quel settore di informazione che per comodità, ma non lo voglio dire per ragioni ideologiche, noi definiamo di sinistra, e che si è sempre considerato l'organizzatore di alcuni comportamenti socialmente esistenti. Quando questi comportamenti sono sfuggiti di mano, invece di andare coraggiosamente lì dove le cose accadevano, queste cose sono state lasciate andare per loro conto. Non dobbiamo dimenticare che l'allarme sociale vero lo creano i clienti. Poi le prostitute, cioè l'offerta che risponde alla domanda. Ma non sono loro a fare la gazzarra vera: questa è opera di quelli che sono andati in giro con le fiaccole, hanno manifestato a Torino e in altre città. Loro hanno creato l'allarme.

Un cartello per soli uomini

Dico invece composizione sessuale perché, a questo punto, c'è da fare un atto di coraggio, ed è quello di affidarsi alle donne per il ruolo fondamentale che esse hanno nella composizione quotidiana dei conflitti.
Mi sono accorta, facendo il mio lavoro, che le donne sono state importantissime nel far emergere questo allarme sociale e che erano loro i soggetti sui quali andava e va fatto un lavoro, che è quello di capire le profonde motivazioni. Non mi piace lo spettacolo delle cosiddette donne per bene che si accaniscono contro le cosiddette donne per male, però devo riconoscere che dove le donne hanno avuto un minimo di egemonia, i conflitti erano meno sanguinolenti. Tanto è vero che ultimamente a Torino io ho notato, con grande allarme, non la questione che è uscita sui giornali e cioè che persone di sinistra partecipassero ai cortei per cacciare le prostitute. Questa, certo, è una notizia. Ma la vera notizia, secondo me, era uno striscione tenuto solo da uomini, e che diceva "via il mercato del sesso da sotto casa". Quello è un doppio messaggio: io la prostituta la voglio fuori da sotto casa. Quindi voglio il bordello, tanto per andare al sodo. Quel messaggio era portato da una fila di soli uomini.
La questione dell'allarme sociale non è risolta. Bisognerebbe discutere e anche scrivere di riforma della legge Merlin in maniera molto più seria di quanto non si faccia. Su questi temi l'informazione scende a livelli bassissimi. Per esempio, non si sa niente di quello che accade negli altri Paesi europei. Si parla a vanvera di riapertura delle case, senza capire che cosa è successo. Si danno notizie false: "Le prostitute tedesche pagano le tasse". Sì, è vero. Ma bisogna capire anche i meccanismi.

Prostituzione, Aids e dati in contrasto

Voglio arrivare ad un'ultima questione che riguarda l'allarme sociale e che è gravissima. Ed è la questione dell'aids, della trasmissibilità della malattia attraverso i rapporti a pagamento. Non c'è sui giornali una corretta informazione per quanto riguarda le fonti. Le fonti sono quelle degli studi che parlano della diffusione dell'aids attraverso il commercio sessuale.
Noi in Italia, al momento, abbiamo due fonti principali: una è il Ministero della Sanità, attraverso il Centro Operativo Aids, l'altra è l'istituto Oncologico di Aviano. Queste due fonti dicono cose differenti perché l'istituto Oncologico di Aviano utilizza i campioni dei presidi sanitari per stabilire l'aids prevalenza. E siccome utilizza campioni di gente che va nel presidio sanitario e quindi è già malata, e spesso somma due devianze una sull'altra, ne esce fuori un dato nudo e crudo che dice che il 14% delle prostitute è infetto da hiv. Questo dato rimbalza sui quotidiani un mese sì e uno no. Se uno non conosce tutta la storia della campionatura non ci capisce niente. Il Coa, che mette l'accento sulla difficoltà della campionatura, fornisce dei dati molto più bassi. Anzi, addirittura fa il discorso inverso: l'allarme crescita dell'aids va ricercato nei rapporti sessuali non a pagamento e non protetti.

Questa è una questione serissima. Perché non è che quelli di Aviano sono dei banditi e quelli del Coa sono dei santi. Si tratta di due visioni legate forse ad una diversa ideologia, ma rappresentano comunque dei dati scientifici con cui dobbiamo confrontarci. La stampa mette ora l'uno ora l'altro, senza spiegare il nesso. Non solo: la scorsa estate è stata sollevata la questione delle prostitute infette e della perseguibilità penale di chi infetta attraverso aids. Senza entrare nel merito dei fatti accaduti, mi limito a segnalarvi alcuni episodi. A Pescara sono stati dati grossi titoli al fidanzato di una prostituta che diceva "l'ho scoperto, lei mi ha infettato, ha infettato tutti, va in giro a fare prestazioni senza profilattico etc". Poi è seguita la smentita in due righe, dopo una settimana.

Nei panni di Luther Blisset?

Ultimamente sono uscite notizie sulla perseguibilità o punibilità della mancata informazione anche fra partner non a pagamento. E si tratta di una questione giuridica di rilievo, sulla quale si dovrebbe discutere. Se le informazioni vengono date senza mettere insieme le cose, voi capite bene che bisogna perseguire tutte le prostitute perché potrebbero essere, come vien detto con un'espressione disgustosa, "bombe batteriologiche". Questione gravissima, quindi, e importante. E' vero che l'informazione seria è in un certo senso noiosa, perché se io devo scrivere un articolo che metta insieme tutte queste cose, non me la posso cavare con le 40 righe, con il codice linguistico che uso abitualmente. Devo parlare un altro linguaggio, avere più spazio. Certamente se io devo scrivere un pezzo di cronaca e voglio tener conto di tutte queste cose, ho bisogno di un'acculturazione e anche che il giornale mi sostenga e ci creda. Invece, tutto è slegato, tutto è senza senso. Al punto che il 19 ottobre, sul Resto del Carlino, appare una pagina tutta intera dedicata alla lettera di una prostituta, la quale diceva di essere una studentessa, di avere scoperto di essere sieropositiva, infettata probabilmente da un partner occasionale e che da allora la sua rabbia è tale che lei va in giro ad infettare i clienti bucando i preservativi che adopera. In questo paginone c'era il parere dello psicologo, del sessuologo, del grafologo, e in più grandi titoli sulle bombe batteriologiche. Ebbene, frequentando Internet, dove non è stato aperto ancora alcun discorso sulla prostituzione, ma c'è molto scambio sessuale, Luther Blisset, che è un nome collettivo e dietro il quale può nascondersi chiunque, ha rivendicato la maternità o paternità della falsa notizia, e ha riportato con i suoi commenti tutta la questione su Internet, dicendo anche che Luther Biisset è colui o colei che foraggia quasi tutte le finte lettere ai giornali. Finti giornali, mi verrebbe da dire, perché se le notizie sono false anche i giornali sono falsi.

Chiudo con un auspicio: non vorrei che il redattore sociale del 2000 fosse costretto a rivestire solo i panni di Luther Blisset, che è un idolo per le nuove generazioni ma, anche, un terrorista dell'informazione.

 

Elvio Damoli*

Il detenuto è nessuno

Comincio subito col catenaccio di un articolo riferito alle carceri: "26 detenuti su 100 non sono italiani. Record per nord africani e slavi''. 26%: i dati che questa mattina ho avuto dal Ministero di Grazia e Giustizia parlano del 16%. Dal 26 al 16 c'è un dieci in più. Non so che cosa significhi. Se è un errore di stampa o se è voluto. Comunque, nella cultura della gente, nella mentalità, una volta uscita la notizia, provate a correggere questo dato, se siete capaci.
Mi è capitata in mano un'altra indagine uscita su La Stampa e commissionata dalla Ucsi a Pragma, un'indagine che chiede chi è che influenza i mass media: i politici, gli editori o altri? La gente dice che per il 68% sono influenzati dai politici, per il 43% dai proprietari delle testate. Per i giornalisti, invece, il 68% dai proprietari, il 30% dai politici. Comunque cambia poco. Perché la notizia sul carcere, sia per il politico che per la stampa, non vale niente. Il detenuto non interessa.
E' dal '72 che sono cappellano a Poggioreale. Ho visto parecchi politici venire, specialmente da quando è stato dato il voto ai detenuti e specialmente sotto le elezioni. Vedo parecchi giornalisti e ne sento parecchi quando succedono fatti eclatanti, ma quando chiedo qualche servizio su certe situazioni mi si risponde sempre che non c'è spazio...
Questa mattina ho sentito disapprovare le interviste telefoniche: io sono fra quelli che nell'orario in cui i giornalisti telefonano fra le tre e le sette, non ci sono mai, sono in carcere e mi rendo irreperibile. Il detenuto, per l'opinione pubblica, è nessuno. E' un rifiuto sociale, un residuo, un brandello rimosso dalla coscienza sociale e buttato nel cassonetto, quel cassonetto che si chiama carcere e che è un contenitore a perdere.

Durante il concerto

Vorrei fare la prima riflessione sull'uomo, sulla persona detenuta. Ma prima vorrei aprire una finestra sul mondo del penale. In Italia le persone recluse sono circa 52.000. In Campania 6.000, a  Poggioreale, dove opero, sono circa 2.200. In Campania ci sono altri istituti per minori, adulti, donne. Ma la popolazione carceraria non finisce qui, perché dietro le spalle di ogni carcerato c'è una famiglia. In un anno nella casa circondariale di Poggioreale passano circa 25mila detenuti: quante famiglie sono? Ci sono i recidivi, ma si tratta almeno di 20mila famiglie che vengono a contatto con questo ambiente. In questo mondo vivono anche gli operatori. Soltanto in Campania sono 4.500 gli agenti di custodia. Qualcuno si interessa di loro? La stampa no di certo, la stampa che comunemente li chiama "secondini". Una parola offensiva e sbagliata. Perché correttamente si chiamano corpo di polizia penitenziaria. Secondino è un termine spregiativo. Ma quando ci si accorge di questo mondo del penale? Soltanto quando c'è il fatto eclatante. Per esempio, lo scorso 5 febbraio a Poggioreale organizzammo una manifestazione con Eduardo De Crescenzo, il quale ha voluto offrire ai detenuti una serata, la prima con un cantante napoletano molto stimato. E' stata una serata eccezionale. C'era anche la stampa. Durante il concerto all'ospedale Cardarelli muore un detenuto che era ricoverato da tempo. La stampa, il giorno successivo, esce con questo titolo: "Durante lo spettacolo di Eduardo un detenuto muore". Mentre il carcere promuove queste manifestazioni, trascura di curare altri aspetti. Per cui uno muore. Provate a togliere voi dall'opinione pubblica questa negatività della notizia.

Marchiati come bovini

Allora io mi pongo delle domande: i media fanno informazione ma anche cultura. E se vogliamo fare cultura, certo la verità è necessaria, ma la verità è fatta anche di valori, di ricerca dei lati positivi oltre che di denuncia del negativo. In genere i fatti di cronaca sul carcere sono sempre sensazionali, suscitano scandalo, allarmismo, reazioni emotive contrarie ai carcerati. In un seminario che facemmo con la Caritas anni fa a Napoli era previsto anche un incontro con la stampa. Chiamai un gruppo di ex detenuti per fare quell'incontro. Parlando ai giornalisti uno di loro disse: "Voi ci chiedete tante cose: che cosa vogliamo, che cosa ci aspettiamo dalla società, etc. Ma perché ci chiedete queste cose? Noi ex detenuti siamo marchiati come bovini, e questo marchio lo portiamo in fronte e voi ce lo avete dato, parlando di noi come di nemici, come delinquenti che hanno rovinato e rovinano la società. Come volete farci inserire, adesso?".
E' un'affermazione molto forte, ma che possiede un certo fondamento; io mi chiedo che cosa potete fare, che cosa può fare la stampa. Informazione sì, non deformazione. E' tutto negativo quello che avviene nel carcere? Certo, c'è molto di negativo. Il carcere è disumanizzante, come istituzione. E' un'istituzione chiusa e totale. Personalmente penso che dovrebbe essere eliminato, che dovrebbero essere create delle alternative. Ma non per questo si deve cogliere solo il negativo.
Pensiamo agli ultimi dati del ministero sulle evasioni. Per quanto riguarda i permessi premio, semilibertà, lavoro all'esterno, l'affidamento in prova e servizio sociale, sapete qual è la percentuale di detenuti evasi? E' l'1%. Ma appena uno evade sui giornali partono i grossi titoli e la demonizzazione. I 99 su cento che sono rientrati non contano. Un fatto concreto. Da diversi mesi io porto fuori, in occasioni diverse, gruppi di detenuti. L'altro ieri ne ho portati dieci a visitare il museo di Capodimonte. Il magistrato me li affida, li porto fuori e sono rientrati sempre tutti quanti. Nessuno ne parla. Ho dato notizia anche alla stampa ma nessuno se ne è interessato. Il 7 e 8 ottobre ne ho portati dieci a Firenze per un convegno di canto e musica. Li ho portati in pullman, in albergo, fuori, il pomeriggio della domenica siamo tornati che erano le due. Dovevano essere in carcere alle 23. Allora ho detto: "Adesso andate a casa, ci troviamo alle 11 davanti a Poggioreale". Nessuno è mancato e a riaccompagnarli c'erano anche le famiglie. Se uno di loro fosse scappato, chissà quale eco sulla stampa! A volte succedono casi come questo: un detenuto ha un permesso perché ha la figlia morente in ospedale. Il ragazzo va. Passano i tre giorni di permesso e la figlia non muore. Lui è lì e deve tornare in carcere. Non se la sente di lasciare la bambina e non rientra. Ma ha ragione, lo farei anch'io!

"Neanch'io ti condanno"

Oggi il carcere sta cambiando, sta cambiando fortemente. Prima gli unici operatori esterni erano il cappellano e il medico, adesso ci sono esperti, assistenti sociali, volontari, insegnanti; il carcere diventa sempre più casa di vetro, come la chiamava Nicolò Amato. Sarebbe bello che ci fosse anche per il carcere una sala stampa, in modo da permettere ai giornalisti un accesso diretto alle fonti. A Poggioreale c'era prima, adesso l'hanno tolta. Andiamo a vedere adesso chi sta dentro nel carcere. Prima, quando sentivo parlare dell'esperienza della prostituzione, mi è venuto in mente un episodio. Un giornalista del settimanale "Oggi" è venuto in carcere a fare un giro, io mi sono trovato lì per caso e l'ho seguito. Entriamo in una cella. Era la cella dove c'erano gli omosessuali. Fra questi Tonia-Tonio, una ragazza magra, alta, snella, vestita da donna. Era lì che leggeva attentamente la Bibbia. Me la dà. E nella prima pagina di copertina c'era raffigurata la peccatrice davanti a Gesù. Il volto della peccatrice era il suo: lei, che sa disegnare bene, era riuscita a riprodurre la sua immagine. E sotto c'erano le parole di Gesù: "Donna, chi ti ha condannato? Nessuno, neanch'io ti condanno". Ho pensato: come sarà giudicata la vita di questa ragazza? Fra l'altro, il sabato, durante l'omelia, nel corso della celebrazione della messa, quando molti detenuti intervengono, una volta aveva anche parlato. Era il giorno in cui avevamo letto la parabola del figliol prodigo. Aveva raccontato la sua scelta di prostituirsi, osteggiata dal padre, dalla madre e dai famigliari, e aveva raccontato che suo padre, nonostante tutto, non le ha mai fatto mancare le 50 mila lire e che adesso la madre le passa i vestiti. Se pensiamo superficialmente alla vita di questa ragazza, potremmo giudicarla depravata. Se penso invece a quello che interiormente passa in questa persona, e conoscendola perfettamente, so quale sia la profondità dei suoi sentimenti religiosi; se penso a quella fotografia che lei si è fatta e al modo in cui si identifica con quella peccatrice, amata e salvata da Cristo, il mio pensiero è per forza diverso.

Da persona a fascicolo

Chi è il detenuto, chi è il carcerato? Il carcerato è una persona che ha una sua dignità, anche se ha sbagliato. Una delle cose che ho imparato in tanti anni è quella di non giudicare. lo non chiedo mai che cosa hanno fatto e perché lo hanno fatto. Non lo chiedo mai. Quello può interessare i giornalisti, senz'altro. Ricordo un convegno "Carcere e mass media" a Porto Azzurro, nell'86. Tutti i giornalisti entravano e andavano alla caccia di Cavallero e degli altri. E poi la stampa riportava il passato di tutta questa gente. Ma come si fa a riportare il passato di queste persone, che dopo anni di carcere sono totalmente cambiate? Se loro uscendo, dopo 10 o 15 o 20 anni di reclusione, ritornano alla vita di prima, hanno ragione. Perché loro sono cambiati. Non altrettanto l'atteggiamento dell'opinione pubblica verso di loro; io non li giustifico, ma comprendo.
Dobbiamo imparare a pensare che lì c'è una persona, non un fascicolo, una persona che ha il diritto di avere rapporti interpersonali, il diritto alla vita fisica, morale, intellettuale, religiosa, il diritto alla famiglia. L'altro ieri, portando fuori quei ragazzi quando sono venute le famiglie, ho pensato di fare la proposta al magistrato di autorizzarmi ad organizzare degli incontri esterni con le famiglie. II carcere nega il rapporto con la famiglia, quando il primo elemento, il primo valore per aiutare una persona a recuperare è proprio la famiglia, sono i figli, i genitori, la moglie, il marito. Il diritto anche a vivere in una comunità, ad avere rapporti sociali, il diritto all'autodeterminazione.
Direi che il detenuto è un escluso socialmente. E' una persona che diventa vittima. Ha commesso un reato ed è giusto che la giustizia lo giudichi. Ma la giustizia deve essere erogata nei tempi giusti, perché la dilatazione dei tempi, in questo caso, è di per sé una grande ingiustizia. Quando uno entra, riconosce il proprio reato, la propria colpa. Passato il tempo, dimenticato dall'esterno e dal proprio avvocato, diventato un fascicolo, in lui entra la convinzione di essere vittima di un'ingiustizia. E non so se abbia tutti i torti. Perché non è trattato da uomo, da persona.

"Fatti l'intervista da solo"

Ci siamo incontrati con alcuni cappellani delle carceri per fare una riflessione sul convegno ecclesiale di Palermo. La prima esigenza che è stata esplicitata è questa: il detenuto venga valorizzato come persona. Perché viene già offeso due volte nella sua dignità: dalla politica penitenziaria, cioè dall'uso indiscriminato della custodia cautelare, dal sovraffollamento nelle carceri, dalle iniziative di risocializzazione previste e mai attuate; e poi dalla pubblica opinione, dalla spettacolarizzazione dei processi, dalla mentalità punitiva, dai pregiudizi nei confronti degli ex detenuti.
Dicono i cappellani: riteniamo necessario passare da una mentalità contraria al detenuto o puramente assistenzialistica, ad un nuovo modo di affrontare il sistema carcerario, che valorizzi la persona dei detenuti, riconoscendone la ricchezza umana e i doni. E poi chiedono ai mezzi di informazione di essere più rispettosi della verità e della dignità di chi viene sottoposto a procedimenti penali. lo credo che i mezzi di informazione e i giornalisti, il giornalista cristiano se c'è, debba essere non soltanto vigile e consapevole circa la verità e circa il rispetto che deve avere della persona, ma deve avere anche il coraggio dell'informazione, la fedeltà alle esigenze della verità e della coscienza morale e anche, direi, sapere e capire che pure nella persona detenuta ci sono valori che vanno colti e veicolati.
Ricordo un'intervista fatta da una rete nazionale ad un ex detenuto, Ciro, che ha raccontato la sua esperienza in carcere, costellata da elementi negativi ma anche positivi. Succede spesso che dicano: "Meno male che sono arrivato in carcere" - e tenete presente che la popolazione detenuta è soprattutto giovane. A Poggioreale la media è di 30 anni. A Secondigliano, con 1.300 detenuti, la media è di 18-25 anni. Quel giornalista ha fatto ripetere tre volte a Ciro il racconto della sua giornata in carcere. Alla quarta volta ha detto no, basta. Perché? "Devi essere più violento, devi avere una faccia più rabbiosa". Allora Ciro risponde: "L'esperienza l'ho fatta io. Se, vuoi che io sia me stesso va bene. Se vuoi che io dica quello che serve a te, fatti l'intervista da solo".

Il carcere: specchio della vita sociale di una nazione

Riguardo alla qualità della vita in carcere, un detenuto mi scriveva due righe e sottolineava questo: "Basta con certi titoli, quasi ironici tipo "Poggioreale, l'inferno dei vivi". E' vero che tante cose che si vedono qui sono da inferno. Perché qui c'è tanta gente che soffre e all'inferno si soffre. Ma chi è che non soffre quando è privato della libertà?" Questo dovrebbe far riflettere di più tutti voi, al fine di rendere il carcere non un inferno dei vivi, ma luogo di redenzione morale, civile e sociale.
Altro concetto che a mio avviso dovrebbe essere approfondito è quello di pena. La pena non può essere vendicativa, ma deve servire alla risocializzazione e al recupero. Da cosa nasce questo concetto di pena giusta ma dignitosa? Dall'esigenza che il nuovo modello di difesa sociale marci sull'onda di un carcere diverso, di un carcere meno carcere. Ricordate nell'86 la legge Gozzini? La riforma penitenziaria è stata fatta perché sembrava quello il momento politico adatto per riprendere quei valori della riforma che erano stati affossati nel tempo.
Noi vediamo nel carcere riflessa tutta la vita sociale di una nazione e di un popolo. In carcere, in vent'anni, io ho assistito a cambi generazionali estremamente rapidi. Il carcere ti porta la fotografia e il riflesso della società esterna. Non a caso, non è curando il carcere che si sana la società esterna, ma è curando la società esterna che si elimina il carcere. Ho visto passare la generazione della vecchia Camorra, della nuova Camorra, del terrorismo, della tossicodipendenza, della malavita organizzata, di tangentopoli, dell'immigrazione.

Il "nostro carcere''

Questi flussi danno la lettura del fenomeno da sanare: ma non all'interno del carcere. Fuori. E allora è necessaria l'opera di prevenzione all'esterno. La legge Gozzini portava veramente questo concetto: la non punitività con il carcere. E' ingiusto che ogni delitto venga punito con la stessa misura: il carcere, anzi la carcerazione preventiva. Tutte le misure alternative, carcerazione in famiglia, carcerazione fuori, o metà carcere e lavoro all'esterno. Però che cosa ha trovato questa legge? Direi un'opinione pubblica contraria. Forse il momento politico non era il più adatto. Ma certamente non c'è stato il contributo della stampa. Perché la criminalizzazione dei fatti singoli crea allarmismo, rifiuto, una mentalità contraria.
Allora è giusto avere concetti adatti sulla pena: non la vendetta ma l'accoglienza, l'attenzione alla persona. Il detenuto non come causa di tutti i mali, ma come vittima dei mali. Proviamo a chiederci: da quale famiglia proviene? Da quale contesto sociale? E, invece, la condanna continua ad investire sempre e solo il detenuto.
Quando si occupano di carcere, i mass media parlano sempre di certe categorie di detenuti. Ma ce ne sono altre di cui nessuno parla. I minori, per esempio, che sono pochi, fortunatamente. Tutto quello che lo Stato spende per mantenere i pochi carceri minorili potrebbe essere speso diversamente, lasciando il minore nel suo territorio, nel suo ambiente ed aiutandolo ad inserirsi. Perché una "vacanza" nel minorile, di 3 o 4 mesi, può anche fare bene, ma cambiare la vita nella famiglia, nel territorio, dove manca tutto, dove il minore è un ragazzo di strada è molto più difficile.
Ed ecco il problema della prevenzione sul territorio, un elemento su cui voi giornalisti potreste fare moltissimo. Ogni carcere appartiene ad un territorio, la politica carceraria è ora quella territoriale. Casa circondariale significa la casa del territorio. La legge di riforma penitenziaria prevede che il detenuto rimanga nel suo territorio, nella sua regione. Questo mi porta al concetto del carcere non come qualcosa di estraneo, rimosso dalla coscienza civile e sociale, ma del carcere come il "nostro carcere". La riforma penitenziaria prevede il rapporto carcere-territorio, attraverso esperti, esterni, volontariato, il carcere va aperto al territorio. Credo che questa nuova cultura del carcere i mass media potrebbero portarla avanti.

Emarginati fuori, esclusi dentro

In carcere poi trovo i tossicodipendenti. Sono 15.000 su 52.000 detenuti circa.Il tossicodipendente in carcere quasi sempre non userà stupefacenti, ma quando esce ritornerà immediatamente alla droga. Ciro, che dopo due anni e mezzo di carcere voleva fare il volontario, perché oramai era uscito dalla droga completamente (e mi ero illuso anch'io), l'ho preso in comunità da me e dopo dieci giorni che era in casa mi aveva già rubato due calici, un piccolo televisore ed altri oggetti.
Il carcere è una comunità terapeutica? Assolutamente no. Allora bisogna cercare e trovare forme diverse di trattamento. A Poggioreale in questo momento ci stiamo provando. Ma fino a due anni fa abbiamo trovato il rifiuto delle istituzioni esterne a trattare il detenuto in carcere. Sono mentalità che vanno cambiate. Penso al problema degli alcolisti che vanno curati perché sono sì detenuti, ma sono malati. In carcere non sono curati. Penso ai malati mentali. Quanti sono? Certo, per quelli dichiarati ci sono gli ospedali psichiatrici giudiziari; a Napoli sono due ma quelli non dichiarati vengono trattati come detenuti comuni, e dovrebbero avere un trattamento diverso. Penso ai nomadi e, soprattutto, agli stranieri, che non conoscono la legge, la, lingua, non hanno rapporti con la famiglia, non hanno avvocati perché, tranne in pochi casi, non li possono pagare. Non dico che sono tutti innocenti, ma ci sono anche degli innocenti. Ricordo il caso di un nomade accusato di omicidio che piangeva continuamente, piangeva talmente che mi sono detto: "Bisogna intervenire". E ho chiamato un cappellano dei nomadi. Non lo conosceva direttamente, ma conosceva la sua cultura e la sua lingua. E' stato chiamato in assise e il presidente lo ha interrogato non sul fatto particolare, ma sulla cultura dei nomadi. La sentenza è stata assolutiva e il presidente, dopo la sentenza, ha ringraziato il cappellano e lo ha abbracciato, dicendo che se non ci fosse stato lui avrebbero emesso una sentenza ingiusta e avrebbero condannato quell'uomo.
Pensiamo ai senza fissa dimora, ai barboni e alle tante categorie di detenuti che sono i più deboli e i più fragili. Sono gli emarginati fuori e sono gli esclusi all'interno.

L'ex-detenuto: uomo libero in detenzione extra-muraria

Concludo con due accenni che a me interessano. Una categoria di detenuto che va curata è l'ex detenuto. E' un uomo per il quale si sono aperte le porte del carcere, ma si sono chiuse tutte le altre. Se in carcere viveva una costrizione fisica, adesso vive una coercizione morale, il rifiuto della società. Ricordate l'ex detenuto di cui ho parlato all'inizio, quello che diceva: "Siamo uomini liberi ma siamo marchiati come bovini, e nessuno più ci accoglie?". Direi che è un uomo libero in detenzione extramuraria. E' una persona che ha pagato e dovrebbe essere trattata come tutti gli altri cittadini.
Non è giusto, non ha senso creare allarme sociale attorno agli ex detenuti. Così come non è giusto farlo nei confronti degli extracomunitari. Un aiuto, una strada che non può essere disattesa credo che sia quella del volontariato. La riforma penitenziaria prevede la presenza di volontari per partecipare al progetto di trattamento individualizzato dei detenuti ai fini della risocializzazione, per creare una cerniera fra il carcere e la comunità esterna. Vedendo che siete tutti giovani io vi pongo una domanda: perché non provate a fare, non come giornalisti, ma come persone, un'esperienza di volontariato in carcere? Il volontario in carcere può fare molte cose ma, in particolare, ha contribuito a cambiare, a modificare l'ambiente penitenziario. Se c'è più umanizzazione all'interno del carcere, più attenzione alla persona e alla sua dignità, ai problemi di risocializzazione, questo è dato anche dalla presenza del volontariato. Del volontariato nel carcere si parla poco o per niente. Invece questo è un valore che va accolto affinché la società esterna sia più accogliente nei confronti del detenuto.
Non possiamo dimenticare poi la famiglia del detenuto, che insieme al detenuto è quella che soffre di più. Alla famiglia vengono a mancare figure essenziali: pensiamo al padre per un adolescente, e il supporto economico, e si moltiplicano i costi. Le famiglie non possono essere dimenticate. Tanto più che la criminalizzazione del detenuto diventa facilmente quella della famiglia. Ci sarebbero altre cose da accennare: il sovraffollamento. Di questo si parla spesso e direi che è il male peggiore. La capienza delle carceri italiane è di 28- 29mila posti. I detenuti sono arrivati a 55mila. Mancano i fondi per costruire nuovi istituti. E speriamo che comunque ne costruiscano pochi perché i nuovi sono peggiori dei vecchi. Non sono per una difesa indiscriminata dei detenuti, vorrei però che fossero guardati da voi con occhi diversi, mirando alla loro dignità, al loro recupero e non ad una criminalizzazione generica.

 

Maria Luisa Albera*

Sull'Aids, problema e tragedia anche per come, se ne è scritto e parlato, credo però che sia opportuno porre una serie di interrogativi in qualche modo paradigmatici. L'Aids in Italia è stato monopolizzato dai mass media e dai medici. Il volontariato, in questa situazione, si è rimboccato le maniche come poteva e come sapeva, rimanendo oltre ogni limite immerso nell'emergenza e, di conseguenza, non producendo, o producendo a fatica, sapere e pensiero nuovi. Sono passati quindici anni dall'inizio di questa pandemia e continuano ad esistere lacune enormi riguardo la sua conoscenza, colpevoli rimozioni, discriminazioni e stigmatizzazioni.
Frammentarietà ed inesattezza nell'informazione hanno coltivato una visione a volte pietistica, altre volte ideologica o cinica dell'Aids, rendendo difficilissima la consapevolezza sia nelle persone sieropositive e ammalate, sia in tutte le altre.
Purtroppo ci si deve ancora scontrare con le categorie a rischio, con gli stereotipi linguistici e con un sistema di pensiero costruito su premesse sovente inesatte, e dunque anche pericolose.
Soprattutto ci si scontra ancora con una radicata, patetica e crudele popolazione di metafore.
I mass media poi hanno creato un problema nel problema: "Sfruttando la nostra paura di morire, ci fanno morire di paura" dice Norbert Bensaid riferendosi ad un certo tipo di medicina preventiva. Ma l'affermazione è applicabile senza forzature all'Aids.

La complessità semplificata

In questa situazione è difficile puntualizzare, in quanto ogni cosa può essere semplificata (meglio dire semplicizzata) così come avviene di solito, oppure considerata nella sua complessità, come non avviene quasi mai.
Molto dipende dalla correttezza dell'approccio.
Per complessità si intende innanzitutto la situazione venutasi a creare in un tempo in cui la scienza era o è ritenuta onnipotente. L'Aids ha messo a nudo l'impotenza della scienza medica e, fatto ancora più inquietante, sta mettendo lentamente ma inesorabilmente a nudo la capacità di guarigione della medicina allopatica, quella tradizionale occidentale.
Complesse sono la risonanza sociale e psicologica che questa malattia più di altre ha e la sfida negata ad un modello culturale che non contempla incertezze, costruzione dialettica del pensiero, ricerca di senso, imperfezioni, malattia, dolore, morte, lutto.
E' soprattutto complessità la messa in discussione radicale di una concezione di sessualità efficientistica, ridotta all'orgasmo simultaneo e alla democrazia sessuale, la cui ricerca è fatta sui manuali e non sul libro della vita. Una sessualità mistificante ed escludente di un appagamento che solo la conquista e la maturazione possono dare. Esiste, infatti, l'obbligo del piacere, senza peraltro sapere bene cosa esso sia per sé.
L'impossibilità di avere un linguaggio che esprima quanto l'Aids solleva di non detto, di assurdo, di creatività, di senso si accompagna alla rivelazione di una terra di nessuno che è la terra della ricerca dell'uomo e dell'insufficienza di un sistema di valori che colleghi il particolare all'universale. Dell'assenza tragica di criteri etici, sostituiti da criteri di mercato. E ancora è complessità la messa in discussione del progetto esistenziale, delle relazioni, del senso, del tempo, della storia personale, in chi è sieropositivo o ammalato; messa in discussione in un tempo che non ha tempo - perché non se lo concede - di elaborare, maturare, scegliere, soffrire, disperarsi, sperare, fallire, acquisire saggezza, crescere in umanità che è il compito dell'uomo. E in questo contesto la solitudine e il silenzio diventano armi letali rivolte contro le persone sieropositive e con Aids, da loro stesse prima di tutto e poi dagli altri.    
Il silenzio è uguale alla morte per le persone con Aids. Non si può continuare a tacere dello scontro frontale con una malattia inconfessabile, poiché è inguaribile; inconfessabile come tutti i problemi che non possono essere tollerati in quanto non hanno soluzione.
La nostra è la cultura delle soluzioni per ogni problema, dalla pulizia della casa all'esistenza. Non vi possono perciò avere cittadinanza il dubbio, la morte, il dolore, l'amore: "Ma come, ci si ammala? Ma come, si muore?" "Ebbene sì", rispondono le persone con Aids. Da qui la ricerca disperata e disperante del posto in cui collocare il proprio dolore, senza dimora più di altri in questo modello, perché senza soluzione, assunto a simbolo di colpevolezza e di trasgressione, di diversità e di contraddizione.

Questi sono solamente alcuni interrogativi ed aspetti di una innegabile complessità che l'Aids pone e propone in maniera prorompente a chi li voglia vedere e ascoltare.
Ciò che accade, invece, è un'estrema e pericolosa semplificazione o semplicizzazione: si riduce tutto ciò, il più delle volte, alla contagiosità dell'infezione, alla fragilità psichica e sociale dei portatori di tale infezione o alla loro latente delinquenza, alla giusta colpa per una vita disordinata, ad una sessualità nel migliore dei casi discutibile.
E' una complessità che forse fatica a trovare cittadinanza in quanto complessità perdente, non comprensibile e non compatibile con un codice di mercato; essa mette in discussione un modello funzionale ad un benessere che non esiste di fatto se non nelle quantità di ciò che si possiede.
E' una complessità che riguarda l'essere e non la può comprendere, con lo schema dell'avere.

Il silenzio: una sfida culturale non accolta

Inoltre, se da un lato questa complessità si rivela nella varietà degli interventi in atto o nella difficoltà stessa dell'informazione, dall'altro si individua nella fatica che il mondo dell'arte, della letteratura, della musica vive in rapporto ad una creatività in parte mancata, ad un appuntamento storico (con l'Aids) fondamentalmente disatteso.
Si fatica in ogni campo a produrre sapere e pensiero nuovi. E questa fatica cela uno dei lati più oscuri del nostro tempo, che è il tempo dell'Aids.
Come mai nel nostro Paese a mala pena si inizia ad esprimere questa sfida o la si coglie sussurrandone solo la turbinosità? E' un interrogativo che ci si dovrebbe porre molte volte, ma questo interrogativo inquieta, così come inquieta il silenzio nel quale siamo vissuti sinora. Silenzio interrotto solamente dai clamori della cronaca e banalizzato, nella sua comprensione, da fatti pretestuosi e inutili, devianti rispetto alla conoscenza di un problema che riguarda la persona. La persona sessuata, la persona amante, la persona protagonista della costruzione della storia, la persona mortale. Un silenzio che destabilizza poiché rivela una paura profonda; è un silenzio che per migliaia di donne e uomini malati vuol dire morte sociale, psichica, esistenziale prima ancora che biologica. Ne impedisce il compimento e porta la disperazione là dove è assolutamente necessaria la riconciliazione con la propria storia ed il proprio destino.

La provocatoria complessità, anche culturale, dell'Aids non è stata presa in considerazione dagli organi di informazione e dagli intellettuali. Anzi, la semplificazione ha sostituito troppe volte la ricerca, la comprensione e la costruzione di pensiero che in questo caso, più che mai, sarebbero stati essenziali per evitare disperazioni, stigmatizzazioni e anche contagi. Da anni noi avremmo voluto parlare a tutti coloro che fanno informazione - dico noi per dire persone sieropositive, ammalate, operatori, volontari, parenti, amici, amanti.
Avremmo voluto parlare, dire molte cose o forse poche, per chiedere "rispetto", la categoria etica o mentale che maggiormente è mancata in questo tempo dell'Aids.
Non che giornalisti e studiosi, medici o rappresentanti degli enti pubblici, volontari, artisti e letterati siano volutamente estranei a questo rispetto, ma piuttosto in difficoltà nello sfuggire all'imposizione di un modello culturale che non prevede comprensione e dubbi, ma solo certezze. Non tollera complessità, ma esige semplificazioni, non crea altri modelli e non fatica per mettere in discussione quelli che possiede. O forse perché si associano, più del dovuto, l'arte, la cultura, la produzione di pensiero, all'astrazione, all'assenza di storicità.

Anche questa resistenza all'Aids e alle sue sfide, al cambiamento e alla comprensione, anche questa profonda e dolorosa mancanza di rispetto, è in fondo la vicenda dell'uomo e della donna di sempre, capaci di grandi slanci e di crudeli meschinità.
Ma non ci si può dimenticare per troppo tempo che l'Aids colpisce le persone.
E ormai sono tante, milioni. E non ci si può neanche dimenticare che questa è una vicenda che ci penetra più di quanto non ci piaccia pensare.

Il diverso

Vorrei fare un bilancio che riguarda la diversità.
All'Aids sono state attribuite infinte metafore, quasi una costruzione sistemica di rappresentazioni negative, punitive, colpevolizzanti che vanno dalla vittima innocente, forse la più raffinata, al giusto castigo, la più popolare.
Tralasciando la descrizione di questo universo peraltro assai ricco, vorrei fermarmi al suo senso e alle sue conseguenze concrete, quotidiane, nella vita di chi è sieropositivo o ammalato.
Il diverso che ciascuno di noi ha dentro è stato esternato e focalizzato prevalentemente nell'ammalato di Aids, isolandolo in una sfera sacra, ma dissacrata.
Quasi un contenitore a perdere di parti scomode di ciascuno e di tutti.
La funzione sociale di questo tipo di isolamento, che poi si può chiamare emarginazione o stigmatizzazione, è evidente: un contenitore delle scorie contaminate del nostro inquieto e incompleto modello esistenziale, della nostra difficoltà a diventare adulti, della nostra fuga di fronte alla lotta, al dolore, alla coscienza di essere mortali, come sempre e come tutti. Della ormai sterile creatività e della persa capacità di ricerca di una libertà che non sembra più essere capita, perché sconosciuta come coscienza comune e come ambizione (sembrano arcaici i tempi in cui si amava dire: "libertà va cercando ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta)".
Il diverso in questo senso è funzionale all'automantenimento di un modello edonistico ed efficientistico, profondamente capace di adattarsi, ma non creativo.
La partita del tempo e del senso non la si gioca nella dipendenza dai mass media o da Internet. Anzi, la si sotterra con le inquietudini non ammesse, oggi più di ieri assimilate all'inefficienza fisica e alla consapevolezza dell'assenza di certezze. Inquietudini dell'umano che ci appartiene, impossibilitate ad esistere da profonde e radicate mistificazioni.
Intendo dire che il diverso, molto bene interpretato dal sieropositivo o dall'ammalato di Aids (da notare che non si usa quasi mai il sostantivo persona) è sempre altro da sé, ed è qualcosa di negativo che tranquillizza, purché rimanga diverso.
Lo si carica di significato e di giudizio.
Proprio lo stesso significato e lo stesso giudizio che si temono per sé. Eppure il mantenimento di questa categoria crea una profonda incapacità di capire l'Aids, le persone, se stessi e mette a rischio di contagio praticamente chiunque ritenga il sieropositivo diverso da sé.
Questa diversità poi genera una sofferenza di cui poco si conoscono la profondità e la violenza. Genera anche le maschere non solo dell'Aids, ma di chiunque vi si ponga di fronte, e dunque un po' di tutti, perché ormai è difficile che qualcuno non conosca almeno una persona ammalata.

Il morente

Quando poi la propria storia personale porta a vivere dal di dentro la categoria del diverso, le cose cambiano, e di parecchio.
Una delle "diversità" che ha creato peggiori danni e più grandi sofferenze è quella relativa alla diagnosi di sieropositività: la persona si considera morente dal momento in cui prende in mano il foglio del test e legge HIV+.
Questa percezione di sé, assolutamente stravolgente del senso dato al vivere fino ad allora, è in  gran parte dovuta all'applicazione di uno stereotipo stigmatizzante ad una malattia che potrebbe essere paragonabile ad altre nella sua gravità, ma non assimilabile in quanto ad effetti sociali e psicologici di stigma.
Il considerarsi morente, là dove forse si potrebbe anche non esserlo, è in gran parte dovuto a quanto si attribuisce all'Aids di tragicità, di drammaticità e di ineluttabilità.
La confusione sieropositività/malattia ha fatto danni quanto il virus, ha devastato la vita di migliaia di persone ed ha impedito alle stesse, in molti casi, di attrezzarsi per lottare, per curarsi, per compiersi come donne e uomini, così come farebbe chiunque al quale fosse comunicato di avere la leucemia, un tumore, un'epatite cronica.
Una malattia grave e non un sistema di pensiero colpevolizzante, che fa scattare la diversità e la retrocessione nelle categorie sociali inferiori. Da quel momento si diventa clandestini e di serie B, extra-umani senza il permesso di soggiorno, costretti, per continuare a dimorare nella propria casa, quasi sempre all'assoluta e totale clandestinità.
Clandestini, la cui soggettività è messa in discussione dal tipo di infezione e la cui capacità di esistere viene delegata quasi in toto ai sacerdoti della scienza medica.
La casa, poi, in cui è lecito dimorare e sopravvivere, è quella deputata dallo stigma e dalla diversità: l'altare degli ospedali, o più esattamente dei reparti infettivi degli ospedali.
Iniziano le iniziazioni, i riti sacri di una liturgia che si predispone solo al sacrificio ed esclude qualsiasi compimento e che, per essere celebrata, esige la cancellazione dei sentimenti e dell'unità, dell'armonia e della passione. Iniziano le furtive apparizioni nella normalità, le lotte contro la colpa e la vergogna, il non senso e il senso, l'incombenza del tempo e l'assenza di tempo, il nulla e il progetto.
La vita, la morte, la malattia si susseguono in un rincorrere disordinato di desiderio e di assenza di desiderio.
Ed è qui che si riscoprono i sogni, i figli, la casa, la vita. Quella semplice normalità che forse prima non si era proprio messa a fuoco o si era trascurata in attesa di domani.
Ed è in quei momenti che ci si accorge dell'informazione e dei giornalisti, dei mass media e della prevenzione, della paura.
Faccio un altro esempio: noi lottiamo da anni per superare o comprendere questa categoria del diverso, che poi è il problema dell'alterità. Si sono attivate iniziative e percorsi. Compare la banda dell'Aids e bastano pochi titoli di giornale per far ripiombare centinaia di persone nella clandestinità, per deprimere anche i più collaudati sul fronte della visibilità, per vanificare una legge sulle carceri che l'intera Europa ci invidiava.
Ora chi è ammalato di Aids, in quanto potenziale delinquente, potrà uscire dal carcere per morire, s'intende, solo in base al suo curriculum penale. Pochi titoli rivelatori di una visceralità nel presentare i problemi assai pericolosa, proprio come metodo di approccio.
In quei giorni le persone si sentivano delinquenti. Hanno perso la parola conquistata a caro prezzo, magari in tanti e tanti percorsi travagliati, rivisitando la loro storia e la loro rete di relazioni. Sono ritornati nell'afonia. Nessuno è insorto contro questa generalizzazione. C'è stato il silenzio di tutti. C'è stato il silenzio poiché la parola è stata bruciata da un'esigenza di cronaca o da un titolo che catturasse o attirasse l'attenzione di spettatori sempre distratti e insoddisfatti, bisognosi di notizie forti e sconvolgenti per ridestarsi da un letargo che è anche assenza di idee o difficoltà a costruirle. I diversi erano stati finalmente ritrovati, dopo una latenza che stava prolungandosi troppo.
Ciò permetteva di sentirsi ancora uguali e sani.
Uguali a chi e sani da che cosa?

Il dolore

Esiste anche e soprattutto un percorso nel dolore, l'andare da un dolore a perdere ad un dolore salvato, da una storia come fallimento alla valorizzazione della memoria di sé, attraverso il silenzio e la parola, l'assenza e la comunione.
Pensando al dolore, al suo senso e alla sua salvezza intrinseca, dolore salvato purché lo si attraversi, ci si rende conto di quanto sia difficile passare dal silenzio alla parola, dalla violenza alla nonviolenza, dall'assenza alla comunione, dal fallimento alla valorizzazione della propria memoria. Quanto sia difficile attraversare queste emozioni senza rimanerne schiacciati.
E ritengo indispensabile che il giornalista debba aiutare attraverso le sue competenze, prima umane e poi professionali, la società e le persone sieropositive/ammalate a passare proprio dal fallimento alla valorizzazione della memoria di sé.
Contribuire a creare degli spazi in cui ciascuno possa ricavare il suo spazio, nella convinzione che la realizzazione di tutti passi anche attraverso l'assenza per andare verso la comunione.
Credo debba essere una preoccupazione prioritaria la ricerca della capacità di sapersi spostare al centro del punto di vista altrui, anche di quello degli operatori, delle persone sieropositive e ammalate, dei familiari e degli amanti.
E per i giornalisti è un itinerario da ripercorrere e sviluppare per imparare ad incrementare e condividere la capacità, nonostante tutto, di vivere e offrire e offrirsi.
Quella dell'Aids è per tutti una straordinaria esperienza di dolorosa possibilità di ribadire le ragioni della vita.
Una strada difficile e unica, spogliata dalle preoccupazioni superflue e dunque arricchita. Strada che perciò è diventata anche silenziosa, anche compassionevole, anche essenziale.
E' un tentativo di ripercorrere una via di dolore, a monte e a valle della sieropositività. Via imboccata con la consapevolezza che l'uomo è uomo, qualunque sia la sua storia; è uomo malgrado tutto e con la profonda convinzione che egli possa compiersi proprio nel dolore. In un dolore che troppo spesso, da chi ne è colpito e dagli altri, quegli altri che sono anche altro da questa sofferenza, è considerato inutile, a perdere, senza speranza.
Ed esiste un dolore - per compagni, amanti, amici, familiari, volontari, operatori, giornalisti, intellettuali, artisti - che paralizza e, a volte, trasforma, costringe alla ricerca della parola e del nome, frantuma e ricompone in un sé nuovo e scarno.
In questi anni ci si è scontrati con la violenza dell'Aids e con la violenza della lettura che dell'Aids si fa, sia pur con qualche modifica, forse più dettata dalla convenienza che dalla reale comprensione della situazione.
Abbiamo anche subìto l'emarginazione e la frantumazione, il silenzio e il fallimento. Silenzio sulla progettualità ferita, silenzio sulla propria angoscia di morte. Silenzio sulla paura del diverso e sul confronto col diverso. E per diverso si intende colui che deve riprogettarsi e rispecchiarsi con la malattia e la morte, soprattutto con la vita e con la sua voglia di vivere. Che deve imparare a scegliere la necessità, compito ineludibile del suo tempo che gli rimane.
Ci si è resi conto, sieropositivi e sieronegativi, di non aver avuto per anni parole adeguate, anzi di non avere avuto proprio parole.
Questo silenzio è diventato esprimibile a poco a poco, esodo dall'afonia di un dramma che sembra non avere fine, espressione di una dignità non solo ferita, ma anche schiacciata, violentata, ignorata. Si sono cercate con tenerezza e rispetto le parole, il senso, il tempo; si è anche tentato di attraversare l'assurdo e il non senso per creare la memoria.
Ed è per opporci a questa violenza che divide ed impedisce dì dare parola al dolore, alla speranza, alla compassione, alla grazia (qualcosa di donato), che si sperimentano una serie di percorsi.
Parlare di dolore credo sia uscire, forse un pò provocatoriamente, dal silenzio che è morte. Forse è anche esplorare il terreno della nonviolenza, ossia della creatività e della verità di sé.
Quando si soffre di solito ci si interroga. E forse sarebbe opportuno che tutti ci interrogassimo sulle motivazioni del nostro agire, sui nostri silenzi e sulle nostre parzialità.
In questo senso parlare di dolore, qui, potrebbe significare rendere un progetto alle persone che hanno percorso la vita di tutti i giorni con noi, nel modo in cui per loro era bene che fosse, che hanno dovuto compierlo in un tempo troppo breve per averlo potuto stemperare nella quiete dell'appagamento e della pace. Significa anche "…ritrovare i morti sulle labbra dei vivi" e, forse, porre mano al cambiamento di un modello che stigmatizza e uccide chi porta il dolore.

Il segreto più profondo

Vorrei ricordare le parole di una poesia di Rhumi, mistico sufi vissuto nel 1200. Parole usate tanti anni fa per tentare di capire cosa stava succedendo a tutti noi con l'Aids: "... e nessuno cercò nel mio cuore il mio segreto più profondo... ".. Anni dopo, questa frase è stata oggetto di una rilettura ed è diventata:  "e qualcuno....cercò nel mio cuore il mio segreto più profondo.. ". Questa semplice sostituzione di una parola, "qualcuno" anziché "nessuno", ha voluto dire ricerca di una strada, distacco, lotta per imparare a vivere, per dare senso al tempo.
Trovare o ritrovare speranza e futuro, attraverso un percorso operativo ed esistenziale soprattutto, iniziato con un'assistenza alle persone ammalate, una più dura condivisione nella comunità ed interminabili tentativi per ritrovare una progettualità perduta. Con la ricerca, poi, nei gruppi di sostegno, di uno spazio per dare parola a quella terribile afonia che soffocava le persone sieropositive ed il tentativo di rileggere un evento ed una sofferenza attraverso la cura dell'interezza di sé, attraverso la corporeità e la spiritualità troppe volte cancellata dalla medicalizzazione della propria vicenda umana e dalla stigmatizzazione delle proprie incertezze e paure.
Pensiamo che il "segreto profondo" rimanga sempre, irresistibilmente, segreto profondo e quindi indicibile, incomunicabile, inviolabile. Pensiamo anche che sia possibile passare dalla colpa, tante volte vissuta per dare voce alla propria incomprensibile vicenda umana, alla responsabilizzazione e alla consapevolezza di sé.
Passare dall'imputazione alla grazia per noi ha significato passare dalla riparazione, dall'intervento riparatorio alla risposta compartecipata e responsabilizzante.
Ha anche voluto dire uscire dall'isolamento, come gruppo e come persone sieropositive, per attraversare quella terra incognita dei non detti e tracciare una mappa che avesse confini, territorio e sovranità.
"L'uomo è il rimedio dell'uomo". E l'uomo non può essere rimedio se non impara a curare; forse non saprà guarire, ma potrà curare e lenire. Potrà anche ritrovare un senso e un tempo che sembravano irrimediabilmente perduti.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.