IV Redattore Sociale 14-16 novembre 1997

Dire, non dire, dire troppo

Cinici, spaventati guerrieri

Intervento di Vinicio Albanesi

 

Vinicio Albanesi - sacerdote, presidente della Comunità di Capodarco e  del C.N.C.A.*

Presentazione

Qui a fianco a me c'è Marcelle Padovani, da 28 anni giornalista, corrispondente dal 1975 dall'Italia del "Nouvel Observateur". Ha scritto anche dei libri, tra cui "La Sicilia come metafora" con Leonardo Sciascia e "Cose di cosa nostra" con Giovanni Falcone.
Perché questo incontro? Il titolo è "Cinici, spaventati guerrieri". È tratto da un libro di Stefano Benni: in realtà noi che viviamo a contatto con la marginalità, abbiamo dei pessimi rapporti con la stampa. I motivi sono facili da immaginare. Tuttavia non abbiamo un atteggiamento contrario alla comunicazione per presa di posizione. Siamo convinti che la comunicazione sia indispensabile, per questo da quattro anni facciamo, nelle Marche, quest'iniziativa che si chiama "Redattore sociale". Vi hanno partecipato 530 giornalisti di reti e testate di estremo significato. Cerchiamo questo contatto anche perché alcuni rimproveri dobbiamo farli ai comunicatori, ma alcuni limiti li abbiamo noi stessi, perché molto spesso non riusciamo a comunicare.
Le domande che porrò sono tre, e derivano da una precisa presa di posizione e quindi da una precisa angolatura. Noi rappresentiamo gente che è carne da macello, i destinatari, i soggetti della cronaca nera. Nella mia regione, nelle Marche, per una settimana un quotidiano locale è riuscito a scrivere la "maciullata", riferendosi ad una signora che era finita sotto il treno, il treno l'aveva ridotta male, e per una settimana, nei richiami, c'era questa maciullata: una signora come tante che aveva avuto una disgrazia. Dicevo che noi siamo rappresentanti di queste categorie di persone le quali molto spesso sono soggetto, destinatario, strumento, materiale di cronaca nera e non nera. Abbiamo assistito alle notizie date su Giovannino Agnelli morto di cancro con una correttezza che ha impressionato tutti noi, sono stati delicati, non si è andati al di là di certi dettagli, lo si è lasciato morire in pace. Mi venivano in mente le foto di Pio XII morente, quando le foto furono vendute dal suo medico curante, e ogni tanto riappaiono. Questo per dire che poi non è vero che nella realtà non sia possibile trattare la notizia con rispetto: è che, evidentemente, ci sono altri meccanismi che non permettono o non vogliono questo rispetto.
Passo alla prima domanda a Marcelle Padovani: in Italia a noi sembra che i giornalisti, che siano o appaiano professionisti, in realtà siano dipendenti, e ogni dipendente risponde ad un contratto, quindi al suo padrone. Il problema non è essere dipendenti, il problema è l'ambiguità con cui questo giornalismo, a volte paludato, a volte invadente, a volte straccione, si pone nei confronti non dico dell'opinione pubblica, ma dei propri lettori, cioè dei propri clienti. La cosa che a me ha scandalizzato è stato, ad esempio, il rapporto Feltri-Di Pietro: attacchi per mesi, per anni, poi improvvisamente un accordo reciproco ha permesso una transazione, perché erano in ballo 800 milioni, c'erano delle denunce per calunnia e improvvisamente quello che era vero per 8 mesi, non è stato più vero. Una smentita fatta di due pagine, a nove colonne, da un direttore di un giornale: allora uno si chiede: era falso prima? era falso dopo? era un dipendente? era un professionista? che cos'era? L'Ordine dei giornalisti fa parte delle categorie dei professionisti, sono professionisti o non lo sono?

Marcelle Padovani

L'Italia: sfatare i luoghi comuni

Prima di tutto vorrei dirvi che sono terrorizzata dalle domande che sta facendo don Vinicio, dal pubblico, vedo che c'è Goffredo Fofi, ci sono persone che dicono e scrivono delle cose molto belle, molto azzeccate, e temo di non essere veramente all'altezza e sono terrorizzata anche da quella lista di cose che tu mi hai mandato, che è il riassunto dei vostri dibattiti. Dico questo per chiedere la vostra indulgenza, prima di tutto. Poi vorrei dire che don Vinicio dice di sentirsi marginale, di sentire il lavoro che fa come marginale, ma anch'io sono una giornalista marginale. Chi fa il corrispondente in un Paese straniero, è qualcuno di periferico, è qualcuno che non partecipa né alla carriera interna del giornale, né ai giochetti che ci sono all'interno di un giornale, giochetti di potere. Sono molto marginale anch'io, ma sono, come don Vinicio, molto indipendente e questo è importante, perché praticamente scrivo quando voglio scrivere e se mi chiedono una cosa che non mi va, mi arrangio per non farla, per non scriverla, se non sono d'accordo propongo un altro servizio. Se mi chiedessero ad esempio come l'Italia ha vissuto la morte di Lady D, mi arrangerei per proporre un'altra cosa. Dunque sono una giornalista periferica, in un Paese che ha delle difficoltà a farsi accreditare come Paese serio a livello europeo. E diciamo che da questa situazione di periferia mia e anche di periferia dell'Italia ho trovato la possibilità di scrivere delle cose che avevano il senso di ristabilire una specie di verità sull'Italia, di evitare i clichés. Mi ha permesso di evitare di parlare dell'Italia come di un Paese folcloristico, perché questo è il modo generale col quale si parla dell'Italia, e dunque mi ha aiutata a testimoniare di quanto l'Italia fosse un laboratorio: so che è banale dirlo, ma è vero, l'Italia è un grande laboratorio, con alti e bassi, con luci e ombre.
Da quando sono arrivata in Italia ci sono state delle esperienze, degli esperimenti che sono stati vissuti da questo Paese e che, secondo me, avevano e hanno una valenza internazionale o almeno europea. Io ho vissuto il terrorismo, per esempio, e credo che fosse importante testimoniare di come il terrorismo non sia stato sconfitto, né da leggi, né dalla repressione, ma è stato sconfitto veramente dalla mobilitazione della "gente", cioè nel momento in cui l'opinione pubblica ha cominciato a sentire che la democrazia era in pericolo, ma veramente in pericolo, quando la gente è scesa per strada o ha fatto delle assemblee in fabbrica per dire di no al terrorismo, fregandosene che il rapito fosse un democristiano, quando è stato rapito Aldo Moro. Credo che in quel momento sia stato importante poter raccontare all'estero che il terrorismo in Italia era stato vissuto in modo completamente diverso da come è stato vissuto in Germania. In Germania è stato sconfitto da apparati specializzati, come in Francia, dove il terrorismo è stata una pallida imitazione del terrorismo italiano. "Action directe" è stato veramente una pallida riproduzione delle Brigate rosse.
Ho vissuto anche l'evoluzione del comunismo, per esempio, e credo che l'evoluzione del comunismo all'italiana sia stata una lezione per molti partiti comunisti all'estero; ho vissuto il fenomeno Europa in Italia, come è stato percepito l'obiettivo Europa e come è diventato un obiettivo per tutta la popolazione, e anche questo credo che meritasse di essere testimoniato, come meritava descrivere il modo in cui un certo ceto, un certo gruppo dirigente ha cercato di far sì che l'Italia diventasse un Paese serio e fosse vissuto come Paese serio all'estero. In questo caso credo che si debba parlare di uno come Ciampi, come Prodi, come D'Alema, persone che hanno tentato di andare al di là degli interessi specifici personali o di partito, e di far cominciare a pensare all'interesse collettivo.
Dunque ho cercato in un certo modo di rendere giustizia, nel mio piccolo, ad un Paese del quale mi sembrava che si parlasse in modo assolutamente o esagerato o stereotipato, perché quelli erano i clichés sull'Italia, che a volte rimangono ancora, non sono scomparsi. I clichés erano la superficialità, il pressappochismo, la confusione, gli scioperi: non si capisce perché lo sciopero fosse una cosa che sembrava caratterizzare l'Italia, come se fosse indice di una minore serietà rispetto agli altri Paesi europei. Mi ricordo di un periodo, nel mio giornale, in cui ogni volta che facevo un pezzo lo volevano intitolare "all'italiana", come se all'italiana fosse una categoria dello spirito e io mi dovevo battere perché non si scrivesse "sindacato all'italiana", "comunismo all'italiana", o qualsiasi altra cosa all'italiana, e ci ho messo parecchi anni perché i miei pezzi non venissero intitolati in quel modo. Dunque rimangono questi clichés, questo modo assolutamente folcloristico di parlare dell'Italia: sull'Italia si può raccontare qualsiasi cosa e uno viene creduto. Per esempio, un inviato speciale del mio giornale è stato mandato a Napoli per fare un servizio, una decina di anni fa; io in quel momento ero in vacanza e lui ha fatto il servizio e ha raccontato che c'era una famiglia napoletana alla quale avevano rapito il figlioletto e che questa famiglia lo vedeva passare ogni giorno in treno alle dieci sotto le finestre di casa, cosa assolutamente assurda che è stata pubblicata, stampata e nessuno ha smentito.
Ed è difficile lottare contro questo aspetto folcloristico, lo vedo anche con i miei colleghi qui alla stampa estera, sono più di 500, e all'80% sono dei free lance, non dei salariati, dunque sono delle persone che devono vendere degli articoli, cioè suscitare l'interesse per vendere l'articolo, essere pagati e vivere anche loro, e siccome devono vendere tendono a confortare l'interlocutore nei suoi clichés, nei suoi pregiudizi, perché è più facile. Allora si telefona al capo redattore a Parigi, o a Bonn o a Francoforte, e gli si dice per esempio: "Eh sì, è una cosa all'italiana, molto confusa con dei politici poco credibili". E allora il pezzo viene comprato e viene stampato. Devo dire che dunque c'è una coincidenza obiettiva fra questa condizione da free lance dei colleghi e questa permanenza dei clichés che all'estero continuano in un certo modo a caratterizzare il discorso sull'Italia. Dunque, le mie motivazioni in questo contesto sono di cercare di rovesciare questo trend e di rendere giustizia.

D'Alema e il "Corriere": un caso esemplare

Quando uno viene dall'estero e lavora in Italia, le cose che più colpiscono del giornalismo italiano, all'inizio, sono il fatto che non ci sono cifre negli articoli, non ci sono riferimenti precisi; spesso devi leggere tutto un articolo, arrivi alla fine e capisci il fatto, l'evento che motiva quell'articolo. Io invece mi ricordo che quando ho iniziato a fare questo mestiere l'ho fatto non dopo una scuola di giornalismo, ma dopo una laurea di filosofia, e una in scienze politiche, dunque non avevo una formazione giornalistica e sono entrata direttamente in un giornale che era l'"Express" e mi ricordo che quando sono arrivata mi hanno detto: "Nei tuoi articoli metti sempre dove, quando, come, chi, perché e a questo devi rispondere nelle prime dieci righe". Devo dire che questo piccolo vademecum mi è stato molto utile per scrivere delle cose. Non scrivo degli articoli brillanti, molto ben scritti, ma credo di scrivere delle cose dove c'è la motivazione dell'articolo, dove ci sono delle informazioni, dove c'è gente intervistata, che cito fra virgolette, e dove c'è un rapporto concreto di informazione. In questo senso sono una giornalista marginale, che fa un giornalismo prosaico, molto prosaico e molto pedagogico, laborioso anche in questo senso.
La domanda di Don Vinicio, se i giornalisti italiani sono professionisti o non sono professionisti o sono dipendenti è difficile. Non ha nessun senso dare un giudizio globale, ci sono veramente degli ottimi professionisti nel giornalismo italiano, credo che ci sono dei nomi, nel giornalismo italiano, che sono al di sopra di qualsiasi media in Francia, in Inghilterra, in Germania. Sono molto bravi, hanno una penna molto acuta, spesso scrivono molto bene. Ci sono dei problemi nel giornalismo italiano, a parte quello che dicevo prima del poco riferimento ai dati precisi, che sono stati illustrati anche dalla polemica che ha intentato Massimo D'Alema. Recentemente il leader del Pds ha denunciato un giornale e due giornalisti, il giornale è il "Corriere della Sera" e i giornalisti li ha denunciati all'Ordine dei giornalisti.
Francamente a me non interessa se Massimo D'Alema abbia avuto ragione a rivolgersi all'Ordine e se abbia il diritto di dare delle lezioni al giornalismo, ma mi interessa il fatto che aveva perfettamente ragione: non si fanno articoli come quelli che sono stati denunciati da D'Alema, non si scrivono, non si può dare una finta notizia, interpellare della gente e chiedere: "D'Alema pensa che si deve creare un sindacato unitario?" Questo era il tema dell'articolo: poi tu interroghi dei politici, delle personalità, dicendo: "D'Alema pensa che si debba creare..., lei che ne pensa?" Poi si riproduce la sua dichiarazione e si dà una notizia che non esiste verosimilmente, almeno così credo, dato che non è stata confermata dall'interessato. Creare un finto evento su una finta notizia credo che sinceramente non sia un buon giornalismo e su questo io darei veramente ragione a D'Alema, e credo che i giornalisti italiani, per difendersi e per rifiutare l'intromissione di un politico nelle cose del giornalismo, hanno avuto il torto di non prendere la palla al balzo e di porsi il problema vero, cioè "ma si fanno degli articoli di questo tipo? È giusto scrivere su delle cose inventate?" C'è una finta verità che viene da questo metodo di giornalismo. Dunque sono dei professionisti? Sì, sono dei professionisti e c'è questo tipo di giornalismo che è da bandire completamente...

(Albanesi: c'è un detto in Italia che dice che "la non realtà produce realtà con effetti nella realtà". L'esempio più classico è la bugia. È una cosa che non esiste, che però esiste in quanto bugia e quindi produce effetti in quanto bugia).

Invece se uno fosse costretto a dare le sue fonti, ad interrogare la persona della quale si dice che ha l'intenzione di fare o non fare qualcosa, forse si farebbe un giornalismo più prudente e che creerebbe meno attriti.

Vinicio Albanesi

Passo alla seconda domanda: secondo te, come straniera che si è integrata in Italia, il giornalismo italiano è una specie di teatro nella quale gli autori, i protagonisti, la trama, i destinatari, i linguaggi, i toni sono già predisposti? Noi abbiamo la sensazione, e la esponiamo come tale, che si tratti di un enorme teatro nel quale tutto è stato già prestabilito: il tal giornale scrive le tali cose perché i suoi lettori vogliono le tali cose, oppure quella notizia è più desiderata di un'altra, oppure il modo di fare notizia è ancora più adeguato che un altro. Stiamo assistendo negli ultimi tempi ad intere pagine di vacuità: dato che stiamo a Roma, ad esempio il "Messaggero" ha introdotto una pagina con le terrazze di Roma, in cui c'è l'attrice X o il personaggio Y che fanno il brindisi - o che fanno non so che altro, perché io salto quella pagina - però evidentemente introdurre questa nuova sezione del giornale ha un motivo. Tra l'altro, facendo un cattivo servizio anche ai propri clienti utenti - perché se tu non informi i tuoi utenti, in realtà non fai un buon servizio: è come se avessi un buon cliente e lo trattassi male: alla lunga lo perdi. Non so se il fatto che stiamo ai livelli del 1984 con le vendite dei giornali in Italia sia l'effetto di questa politica che non è nemmeno commerciale, è una specie di avvitamento in un Olimpo i cui effetti sono solo nefasti; perché capisco che inseriscano degli inserti non so di quale materia, ma che vendano profumi, che "Repubblica" abbia messo dei gadgets - non so se era un deodorante o un sapone o qualcosa del genere - ti lascia veramente male. Uno dice: "Ma per chi m'ha preso, per scemo? per un imbecille che compra il giornale perché ci sta una piccola pasta di dentifricio?". Però, per ritornare al concetto centrale, quindi per porti la domanda, in realtà si è creata una divaricazione tra informazione e gestione della clientela. Cioè, tu hai un pacchetto di tuoi clienti che compra il giornale, gli fornisci quello che i clienti desiderano e a questo punto l'informazione non ha più senso. Io ricordo un episodio, diversi anni fa, quando fu incriminato Einaudi, che allora era il presidente del gruppo Einaudi. "Repubblica" fu capace di dare la notizia senza metterlo nel titolo, fu una cosa allucinante. Una persona del livello di Einaudi viene incriminata, non mi ricordo se per un problema di tipo finanziario, non è che fosse niente di eccezionale, e "Repubblica" riporta la notizia senza darla. O meglio, leggendo l'articolo, c'era anche l'incriminazione di Einaudi, però non c'era nel titolo. A questo punto non siamo più in presenza di informazione, siamo in presenza nemmeno di un movimento, ma di propaganda. Altri esempi: l'inserto motori, che tutti i giornali hanno. C'è stato il "Motor show" di Bologna e "Repubblica" annunciava un inserto di 24 pagine sul Motor show: è propaganda. Noi abbiamo notato, ad esempio, nello stesso giorno in cui era previsto l'inserimento della pubblicità, mezza pagine di cronaca su Gucci. Un articolo redazionale su Gucci, proporzionato alle pagine comprate. Allora siamo di fronte a informazione, o siamo invece oramai di fronte ad una vendita di un prodotto di un'azienda, la quale, per carità di Dio, ha tutte le possibilità di vendere i suoi prodotti, ma un conto è vendere un prodotto e un conto è dire di fare informazione, addirittura scandalizzandosi, come avviene quando si fanno quelle manfrine sulla libertà di informazione, che sono bugie più grandi di quelle di Pinocchio.

Marcelle Padovani

Giornalisti e politici: una sola classe

Risponderei sul rapporto giornalismo-mondo politico, perché è una delle cose che in Italia più mi colpiscono, e non direttamente sul rapporto con l'oggetto che accompagna il giornale, perché questo è un fenomeno che si ritrova un po' dappertutto, ma sul rapporto fra giornalismo e mondo politico. C'è qualcosa di specifico dell'Italia che credo debba essere detto: c'è un rapporto di complicità obiettiva fra il giornalista e l'uomo politico. Hanno bisogno l'uno dell'altro, l'uno è lo specchio dell'altro, e quando tu vedi l'uomo politico che protesta o il giornalista che dice che la sua indipendenza è messa in pericolo dalle dichiarazioni di un tale, in verità è un gioco tra di loro, perché sono l'uno veramente degno dell'altro e l'uno riflette l'altro esattamente. 
Credo che non esistesse una classe politica, ma che adesso esista e che dentro questa classe politica c'è il politico ed il giornalista insieme, e in definitiva quando gli uomini politici si lamentano dei giornalisti non hanno ragione, perché appartengono tutti e due ad un sistema di scambi reciproci. I politici hanno i giornalisti che meritano, reciprocamente, c'è una responsabilità condivisa. Per esempio, quando c'è la classe politica, quando c'è un ceto dirigente che si presta al mescolamento fra vita pubblica e vita privata, quando l'uomo politico si dà in spettacolo e c'è il giornalista che riproduce lo spettacolo, lo scrive; quando l'uomo politico si lascia andare a confidenze su un altro uomo politico, questo fa parte di un sistema intricato fra uomo politico e giornalista e non c'è motivo che l'uno si dica deluso dell'altro, perché sono esattamente gli stessi. Come giornalista straniera, quando ho dei contatti con questo mondo del giornalismo e della politica, mi rendo conto che sono le stesse persone, tra l'altro si vestono allo stesso modo: hanno degli stipendi che sono assolutamente gli stessi, hanno dei costumi che sono gli stessi, frequentano gli stessi ristoranti, mangiano la stessa cosa, hanno dei divertimenti uguali, parlo del giornalismo che fa notizia parlando di politica ovviamente; non parlo del giornalismo culturale, ma del giornalismo più appariscente. Quando tu li vedi ti rendi conto che sono gli stessi, tra l'altro si danno del tu, una cosa che è assolutamente incomprensibile. Io quando incontro in Transatlantico Fini, Tatarella o Berlusconi - e mi capita di incontrarli - non gli do del tu, non appartengo a quel mondo, se ho un'amicizia con un uomo politico è un'amicizia che si è fatta fuori, non amicizia di ceto, di classe, di tribù.
Il tu fra uomo politico e giornalista è la cosa forse più deleteria che esista oggi nel rapporto tra mondo politico e giornalismo, e dovrebbe essere bandito completamente. Per esempio i giornalisti italiani hanno degli stipendi che sono stipendi da uomo politico: ho fatto i paragoni con quello che guadagnano i giornalisti francesi, non credo che siano specialmente virtuosi, ma c'è minimo un 30% in meno sulla media degli stipendi dei giornalisti in Italia. Non crediate che sia una cosa secondaria, perché quando sei pagato molto, quando hai dei benefici corporativi, come li hanno i giornalisti italiani - che sono veramente una setta molto protetta, non solo dal licenziamento, ma anche quando devono chiedere un prestito, per la loro salute - quando sei così protetto, hai un riflesso di classe, solidarizzi con quelli che appartengono al tuo ceto. Non ho mai visto i giornalisti italiani denunciare per esempio il corporativismo del loro sindacato. Il sindacato italiano dei giornalisti è molto corporativo, molto elitario. Invece vedo il giornalista che scrive dei pezzi per protestare quando degli operai ottengono un aumento di stipendio dello 0,5% dicendo che questo porta a uno squilibrio nel budget delle imprese e che è inflattivo: vorrei veramente che i giornalisti italiani cominciassero a riflettere su questo corporativismo, su questo ceto di appartenenza al quale fanno riferimento.

Potere, non contropotere

Per non parlare solo del giornalismo italiano, ma del giornalismo in genere, credo che i giornalisti ormai si comportino sempre di più dappertutto da potere e non da contropotere, cioè fanno veramente parte del potere e hanno questo "vantaggio" di costituire praticamente l'unica istituzione irresponsabile della società: perché i partiti rispondono dinanzi agli elettori, i sindacati pure, le istituzioni elettive pure, i giornalisti no, non rispondono a nessuno. Dunque, la riflessione alla quale arrivo è che bisognerebbe trovare un modo per compensare questa carenza e che si dovrebbe certo salvaguardare l'indipendenza del giornalista, che è una cosa sacrosanta, ma si dovrebbero anche difendere i diritti della cittadinanza. Bisognerebbe che i giornalisti, e non solo in Italia, abbiano il diritto di dire tutto senza essere sanzionati, ma che nello stesso tempo non possano affermare impunemente delle cose non veritiere, delle cose qualsiasi e che comunque ci vorrebbe un grande dibattito, ci vorrebbe un giornalismo che discuta su se stesso, che si riunisca, che si critichi, che cerchi il confronto con gli altri poteri, dato che è un potere.

Vinicio Albanesi - sacerdote, presidente della Comunità di Capodarco e  del C.N.C.A.*

Marcelle, con questo tono delicato e gentile, dà delle "randellate"... in perfetto italiano. Il giornalismo "non è più contropotere, ma è potere", ha detto: non so se vi rendete conto di un'affermazione di questo genere.
Ma veniamo alla terza domanda. I soggetti, la materia dell'informazione, a noi sembra che siano tratti dalla realtà ad uso e consumo non so se del potere o del contropotere, ma la realtà non è letta: viene assunta, viene manipolata, dopo di che viene comunicata. Gli esempi sono infiniti. Che tutte le sere al Tg delle 20 o delle 10 o di mezzanotte appaiano delle persone che rappresentano il popolo, ma che non hanno nulla da dire - lo ricordava Ambra l'altra sera a "Porta a porta", il che è tutto dire - lascia sconcertati. Oppure, io non ho letto un approfondimento sui Cobas del latte, non ho mai visto un giornale che abbia sentito la necessità di dire: "Mettiamo le mani dentro questa storia delle quote del latte, ma sul serio". Nessun grande giornale ha sentito la necessità di prendere un corrispondente, oppure di mandare un inviato a Bruxelles per sapere esattamente che cosa era avvenuto sulla spartizione delle quote del latte, perché poi la gente intuisce che lì qualcosa è avvenuto. C'è stato latte senza vacca e vacche senza latte, adesso non sappiamo bene come e dove, però dopo 15 giorni di trattori - poi molto spesso, soprattutto in Tv, dicono di avere fretta, ma è una notizia che ormai sta in onda da 15 giorni, e questa storia della fretta non funziona più, perché gli aerei per Bruxelles partono cinque o dieci volte al giorno - che nessuno abbia sentito la necessità di vedere che cosa stesse avvenendo dentro la storia delle quote del latte, lascia perplessi e lascia intuire che la realtà è diventata virtuale e invece l'informazione è diventata realtà. Tu hai un mondo, hai dei comprimari di questo mondo e questo mondo poi non ti viene riprodotto, ti vengono riprodotti spezzoni e uno dei modi per non dire la verità è dire parte della verità. Fatevi consigliare da un vecchio prete: invece di dire le bugie, dite un pezzetto di verità che è una bugia, però non è una bugia. Non lo prendete questo esempio, però molto spesso avviene così e credo che l'informazione ormai stia a questi livelli. Se tu una notizia non la dai, è una notizia, se tu la dai parziale è una realtà che tu manipoli, o se ti fermi ad alcuni aspetti invece che altri è un'altra manipolazione e così all'infinito.
Questo per chiederti se effettivamente questa realtà è diventata virtuale o invece è diventata realtà l'informazione. Non è un gioco di parole, purtroppo, perché poi - come quando si è parlato del bambino violentato e bruciato - in realtà non si fa scoprire il mondo, si danno degli spezzoni, delle sensazioni. Eppure è una notizia che è stata sui giornali una settimana, dieci giorni. Classico è il tema della pedofilia, su cui ho una tesi, cioè che, essendo un delitto maturato nella medio-alta borghesia, c'è proprio un tappo, cioè c'è un oscuramento della notizia.

Marcelle Padovani*

La fabbrica delle immagini

Sono colpita anch'io dall'omologazione, dall'uniformità dell'informazione, perché sempre di più un giornale scrive quello che scrivono gli altri e questo mi colpisce molto, ma prima vorrei dire una cosa sul virtuale che tu hai evocato. Sono stata recentemente nelle zone del terremoto, due mesi dopo la prima scossa, e ho visitato come tutti campi e tendopoli, e ho chiesto: "Ma che fate di sera?" Ho scoperto che di sera si riuniscono sotto le tende, mangiano, ovviamente, e poi ci sono i bambini che si mettono a fare i compiti, ci sono delle signore che fanno un po' di cucito, si gioca a carte, si parla. Ho chiesto: e la televisione? No, mi hanno detto, la televisione non la guardiamo e questo mi ha colpito parecchio, perché in una situazione di estrema gravità il virtuale non funziona più, non c'è più voglia di virtuale. L'ho visto un po' dappertutto: la gente non guarda più la Tv quando si trova in una situazione estrema. Il disastro allontana il virtuale. Quando la realtà è veramente forte, non c'è più bisogno del virtuale. Sul terremoto vorrei dire un'altra cosa: ero andata in queste zone dell'Umbria con l'idea che avrei trovato situazioni disastrate, gente che piangeva, che stava male, ero partita con questa idea, anche perché è quella che i giornali e le Tv mi rimandavano da due mesi e sono arrivata in una zona, che è l'Umbria, dove non solo non si vedevano praticamente più le rovine, perché avevano messo dei pali, avevano arginato, avevano cinturato tutto, ma c'era un'attività sulle strade, dei camion, delle gru, delle scavatrici, la macchina della polizia, la macchina del soccorso della Croce bianca, c'era una presenza dello Stato e c'era un'attività delle persone, specialmente dei volontari - che hanno lavorato molto in quella zona - che dava l'impressione di una grande riscossa, come di gente presa da una febbrile attività e da un attivismo. A Nocera Umbra, per esempio, la prima cosa che ho visto è l'ospedale distrutto, che è tutto cinturato, e accanto l'ospedale di fortuna, e accanto ancora l'ospedale nuovo che stanno costruendo, per me è stata una cosa molto simbolica. Poi sono andata a trovare la gente nelle tendopoli e ho visto che erano persone che vivevano in modo molto impegnato, tutte insieme, con un senso della normalità all'interno del disastro, con una capacità di reagire, di fare delle cose che ho trovato decisamente stupenda, e questo sinceramente non l'avevo visto, né nei servizi Tv, né l'avevo letto sui giornali. Devo riconoscere che sui volontari c'è stato uno sforzo per raccontare che cosa fanno effettivamente in queste zone, sia dal punto di vista della salute e dell'aiuto agricolo, che della raccolta dei mosaici. Dunque credo che bisogna lottare contro l'uniformizzazione dell'informazione, questo mi sembra il più grande pericolo: bisogna andare sempre sul posto, non accontentarsi delle cose lette o dette dagli altri, soprattutto non fidarsi della Tv che, con la sua apparenza veritiera, in verità nasconde molto, cioè si vede sempre l'immagine, ma non si vede chi sta dietro l'immagine, non si vede il panorama che sta dietro la cinepresa, che a volte può essere una cosa del tutto diversa.
Vorrei raccontarvi - non so se lo conoscete - del caso di un giornalista tedesco, Michael Born, che è stato condannato recentemente in Germania perché aveva inventato delle cose per la Tv. E' stato condannato per 17 casi di esercizio fraudolento della professione. Questo giornalista televisivo girava con delle comparse, per esempio dei finti membri del Ku Klux Klan, dei finti militanti curdi che dicevano delle cose terrorizzanti sul modo in cui avrebbero agito, che erano degli albanesi di passaggio, dei finti trafficanti di uranio che venivano dalla Russia, dei finti immigrati; insomma, lui aveva fatto dei finti servizi che rispondevano ad un'attesa non so se del pubblico, ma almeno del gruppo dirigente della sua Tv. Per la sua difesa sapete che cosa ha detto Born? Ha detto che le Tv chiedono delle immagini di avvenimenti che esistono realmente nel mondo, ma per le quali non ci sono appunto le immagini, e lui le fabbricava: "Io le fabbricavo - ha detto - perché c'erano questi fatti che non erano documentabili". Lui li inventava. E l'avvocato di questo giornalista ha sostenuto, in sua difesa, ovviamente, che ad ogni modo questi servizi hanno attratto milioni di telespettatori e che hanno dato un ricavo pubblicitario enorme alle reti che li hanno passati: questo per la difesa del giornalista. Credo che sia un caso molto bello, ma è stato condannato: è un giornalista che non eserciterà più il mestiere o se lo eserciterà lo farà in giornali che si prenderanno la loro responsabilità, prenderanno dei rischi. Questo per dire che si può reagire sia all'uniformizzazione che alla contraffazione, perché la contraffazione è molto facile e soprattutto nel giornalismo televisivo, dove appunto non si sa mai cosa c'è dietro la cinepresa, si vede un solo aspetto della realtà.

Giornalisti troppo insicuri

Il giornalismo italiano spiega poco le cose. E' come se il giornalista riferisse i fatti, le reazioni ai fatti, la polemica, e non desse mai il suo sapere, la sua cultura, le sue conoscenze per aiutare il lettore a farsi un'idea. Un caso emblematico per me è stato la decisione della Bicamerale di fare due CSM: di spaccare in due il Consiglio superiore della magistratura. Ho letto dappertutto la notizia e le polemiche, ma non c'è stato un giornalista che ha deciso di spiegarmi perché era un bene, se era un bene, e perché era un male e perché comunque c'era un problema reale. Non c'è stato nessuno che mi desse la sua opinione, per cui ancora non so se sia giusto oggi fare questa separazione fra i due rami del Consiglio superiore della magistratura. So anche che, per esempio, in Francia c'è la separazione delle carriere fra pubblico ministero e altri magistrati e non credo che l'Italia sia una dittatura da questo punto di vista: dunque avrei voluto che il giornalista italiano con i suoi saperi, la sua personalità, non si accontentasse di riferirmi il fatto e le polemiche, ma mi desse la sua cultura, per capire che cosa stava succedendo.
Credo che questo sia il principale "difetto" del giornalismo italiano: il giornalista non si sente abbastanza sicuro di sé e si nasconde sempre dietro delle citazioni, delle persone o delle polemiche e non ha questa capacità di avere una sua autonomia, di spiegare le cose per conto suo ma per conto degli altri e questo falsa molto la lettura dei giornali.

Domande del pubblico

Volevo intervenire avanzando un'ipotesi sulla logica, intrinsecamente suicida, che hanno esposto benissimo tanto don Vinicio Albanesi quanto Marcelle Padovani. Secondo la mia personalissima opinione è che costa molto meno sia in termini economici, sia in termini fattuali, basare un sapere sui luoghi comuni, piuttosto che discuterlo criticamente. Questo può avvenire a diversi livelli: un livello sicuramente è quello che una notizia di "gossip" parlamentare costa enormemente meno e riempie molto più spazio che non una notizia tratta da un'inchiesta, per cui c'è un giornalista che deve muoversi attraverso l'Italia, spendendo dei soldi per conto del giornale, utilizzando delle risorse quali possono essere computer portatili da un certo tipo di prestazioni, fax, Internet e quant'altro si possa inventare. Un giornalista a spasso costa molto, un giornalista fisso sotto la sede del Pds pagato male, che deve dare semplicemente un lancio di agenzia su cui qualcun altro costituirà la notizia, costa enormemente meno, basta pagare quattro o cinque grossi articolisti, editorialisti, che poi su questi lanci di agenzia costruiscono delle storie e dei commenti che a volte - come è stato il caso citato dalla Padovani - si sono risolti nel fatto che erano semplicemente inverosimili. Basta questo per tenere, per fare molte pagine. Dal giornalismo italiano, per esempio, sono scomparsi alcuni formati, non se ne trova più traccia fisicamente: l'inchiesta giornalistica è scomparsa del tutto. Dico che è scomparsa l'inchiesta, ma anche la capacità di analisi dei caporedattori, e quello che viene proposto è un reiterare dei luoghi comuni. Questo vale tanto per i politici, per i quali abbiamo visto che si costruisce la realtà, quanto per altre categorie: l'importante è rientrare in un quadro mentale rassicurante per chi va a comprare il giornale, che sono sempre le stesse persone. I lettori del "Messaggero" che vogliono vedere le fotografie del "king" of paparazzi sono quelli, sempre quelli saranno, a loro basta così, basta sopravvivere e galleggiare in questo mercato, non si pongono altri problemi. Io penso che questa sia una logica suicida e lo vediamo perché ci sono dei giornali come l'"Unità", il "Manifesto" che stanno chiudendo e sono proprio quei giornali che in qualche modo ottenevano o hanno cercato tradizionalmente di fare un discorso diverso e più approfondito sulla lettura della realtà. Vorrei che qualcuno mi spiegasse anche cosa ne pensa e perché.

Mi chiamo Eleonora Orlandi. Il giornalismo dovrebbe informare le persone, perché quando uno compra un giornale dà per scontato che lo compra per capirci di più, però molto spesso si dà per scontato che chi legge il giornale sappia tutto di storia, tutto di economia. Ho 20 anni e tante tappe della storia italiana non le ho vissute, però mi piacerebbe appunto capire quello che non ho vissuto e viverlo in modo riflesso. Però mi rendo conto che tante volte leggo il giornale e sono più confusa di quando sono andata a comprarlo, perché tante nozioni non le ho e quindi ho pensato che molto spesso si ritiene che chi legge il giornale necessariamente sia un tuttologo o comunque una persona che ha nozioni che spaziano, non so, dall'astrofisica alla filosofia greca.

Marcelle Padovani*

Sono d'accordo con quello che è stato detto negli interventi. Per esempio, a me ha colpito molto che col passare degli anni si è dimenticato che la lotta alla mafia è una cosa seria e allora si scrivono, si cominciano a scrivere delle cose sui giornali come se non ci fosse un passato di lotta alla mafia, un passato di pericolo e forse anche un presente. C'è una specie di responsabilità del giornalista che scrive, che non si documenta, che non rifà la storia di quelli che sono stati gli ultimi anni: dieci anni fa la lotta alla mafia non era così ovvia come lo è oggi, non si sapeva dell'organizzazione denominata "Cosa nostra" quello che si sa oggi. Ma ogni volta, quando si fa un articolo, bisognerebbe ricordare tutto, anche se uno deve essere noioso, dovrebbe ricordarlo perché il lettore cambia, il lettore è nuovo: non è che il lettore è unico e sa le cose una volta per tutte. Per esempio, sono stata molto colpita quando tre estati fa sono state pubblicate le foto di Buscetta in crociera. Ancora oggi mi chiedo a che cosa poteva essere utile pubblicare le foto di un pentito che fa una crociera, che fa una cosa che non dovrebbe fare, ovviamente, che mette in pericolo la sua vita sicuramente, e che mette in pericolo la lotta alla mafia, perché se scompare un testimone importante è la lotta alla mafia che ne risente. Voglio dire che nel pubblicare questa foto, per dare un esempio, credo che ci sia stata una mancanza di senso dell'interesse collettivo, che fa sì che il giornalista diventi un irresponsabile. Questo non per dire che il giornalismo francese è bello e quello italiano è brutto: ma in Francia credo che nessun giornale l'avrebbe pubblicata e infatti nessun giornale ha pubblicato la foto del direttore della Renault ucciso da "Action directe", da un gruppo terroristico: c'erano le foto, ma nessun giornale le ha pubblicate, perché non serve a niente. Occorre che anche il giornalista, il direttore di giornale, il caporedattore si chieda se una foto - parlo della foto, perché è la cosa più visibile, più facile - serva per capire qualcosa, per difendere qualcosa. Credo che ci dovrebbe essere, nel patrimonio di ogni giornale, che è il senso dell'interesse collettivo, la domanda: a che serve quello che pubblico, che scrivo, che faccio? è utile? non è utile? Su questo sono completamente d'accordo con quello che hai detto.
Quello che vale per i giornalisti italiani, tutti i giornalisti, vale per i corrispondenti esteri: su più di 500 che siamo qui a Roma alla stampa estera, vi dicevo che l'80% è free lance, dunque ha degli stipendi bassissimi e per sopravvivere non può spostarsi troppo, perché è costoso, dunque deve riprodurre le cose che scrivono gli altri giornali, cioè accontentarsi di quello che scrive la stampa italiana, non andare sul posto e confermare all'interlocutore che ha a Parigi o a Londra i suoi clichés, perché il caporedattore non è per definizione aperto alla contraddizione, non è aperto alla novità e se tu gli vendi una cosa che lo conforta nei suoi pregiudizi, nei clichés che esistono su un Paese, è ovvio che lui ti comprerà più facilmente il tuo pezzo. Allora effettivamente il degradarsi del rapporto di lavoro di alcuni giornalisti e specialmente di corrispondenti esteri può avere come conseguenza un abbassamento della qualità dell'informazione e della sua veridicità.

* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.