IV Redattore Sociale 14-16 novembre 1997

Dire, non dire, dire troppo

Il vizio dell'etichetta: stereotipi e catalogazione delle diversità nell'informazione

Incontro con Franco Prina

 

Franco Prina - sociologo della devianza, Università di Torino*

Definizioni: schematizzazioni, pregiudizi, stereotipi

Dopo i molti esempi di situazioni e vicende rappresentate sui media in modi non adeguati o palesemente scorretti, la mia vuole essere una riflessione di fondo che ha la pretesa di consentire uno sguardo "trasversale" sulle questioni che sono al centro dell'interesse del convegno. Riflessione che si rivolge a ciascuno come persona, prima che come giornalista, e come giornalista, prima che come redattore, inviato o corrispondente di un determinato, specifico giornale.
E' opportuno, in via preliminare, indicare di che cosa parliamo. Il titolo contiene infatti alcune parole che, sebbene siano definibili in maniera "neutra", appaiono in genere connotate negativamente e come tali costituiscono l'oggetto della nostra riflessione critica. Nel fare questo primo passaggio sono molto debitore dei contenuti di un volumetto recente di Bruno Mazzara (1997) intitolato Stereotipi e pregiudizi, che presenta un buon quadro di insieme della problematica.
Così la catalogazione, ovvero la semplificazione tramite categorie, "rappresenta un modo assolutamente non evitabile di rapportarsi agli eventi e anche di comunicare"; essa "porta a vedere gli altri in base ai possibili criteri in cui sono raggruppabili e in funzione delle nostre necessità del momento".
L'uso di categorie per dare un significato e classificare le informazioni diviene elemento fondante di stereotipi e pregiudizi quando gli elementi oggettivi connotativi di una certa categoria sociale vengono estesi ai tratti di personalità, alle disposizioni e alle qualità morali di coloro che vi appartengono "stabilendo una corrispondenza fra la definizione oggettiva (in termini di appartenenza) e quella soggettiva (in termini di disposizioni)".
Lo stereotipo può essere definito, asetticamente, come "l'insieme delle caratteristiche che si associano ad una certa categoria di oggetti", ma in genere viene considerato, più negativamente, come un "insieme coerente e abbastanza rigido di credenze negative che un certo gruppo condivide rispetto ad un altro gruppo o categoria sociale".
Esso "costituisce il nucleo cognitivo del pregiudizio", vale a dire "l'insieme degli elementi di informazione e delle credenze circa una certa categoria di oggetti, rielaborati in un'immagine coerente e tendenzialmente stabile, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti".
Il concetto di pregiudizio, il cui significato etimologico può essere espresso nei termini di "giudizio precedente all'esperienza o in assenza di dati empirici", che deriva dalla "tendenza a scegliere, tra i dati di esperienza, quelli che confermano le nostre opinioni e tralasciare quelli che le confutano", si è andato connotando di "una valenza emozionale di favore o sfavore" (Boileau, 1976a), fino a giungere a quella che risulta essere la concezione più diffusa di una valenza negativa, come "la tendenza a considerare, in modo ingiustificatamente sfavorevole, le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale". Il pregiudizio, osserva Giovanni Jervis (1996), "si struttura e cerca allora giustificazioni in quel sentimento di co-appartenenza che accomuna chi concordi sulla necessità di respingere fenomeni minacciosi".
La prassi di apporre un'etichetta (uno "stigma") alle persone "diverse" o che pongono in essere comportamenti devianti (oggetto di studi importanti, nella sociologia della devianza, da parte di autori chiamati appunto labelling theorists) è conseguenza dell'operazione del catalogare, del classificare: può essere considerata come l'operazione del trasferire sui singoli individui i giudizi elaborati per l'insieme degli appartenenti alla categoria in cui l'individuo è collocato. Con questa operazione l'individuo in questione cessa di possedere le caratteristiche di persona fino a quel momento a lui riconosciute da tutti, e viene valutato e trattato secondo quanto è previsto per quanti appartengono a quella data categoria o adottano il comportamento in oggetto. Così, uno studente sorpreso a fumare uno spinello diventerà un "drogato" e sarà trattato come tale. Le conseguenze di questa reazione sociale (informale e/o formale/istituzionale) sono molte e spesso vanno nella direzione di un rafforzamento dell'identità deviante, con il rischio che il soggetto intraprenda più facilmente quella che è definita una vera "carriera" deviante.

Gli oggetti del pregiudizio

Nel volumetto che ho già citato (Mazzara, 1997) si ricorda come alcune categorie di persone siano o siano state storicamente oggetto più di altre delle tendenze alla valutazione stereotipa delle loro caratteristiche e di un diffuso pregiudizio: le donne, i giovani e, all'opposto, gli anziani, gli appartenenti a culture, etnie, razze diverse, gli stranieri in generale, gli ebrei, i marginali (disabili, barboni, malati di mente), i devianti (omosessuali, tossicodipendenti, prostitute, delinquenti).
Se volessimo definire le categorie generali cui appartengono coloro che oggi sono più frequentemente valutati e descritti ricorrendo a schematizzazioni e che sono sistematicamente oggetto di stereotipizzazione e di pregiudizio, possiamo indicare:

- chi è straniero, estraneo agli stili di vita o alla cultura dominante in un dato contesto;
- chi appartiene a minoranze marginali o deboli economicamente e culturalmente;
- chi presenta limiti di efficienza, è portatore di malattia o di disabilità;
- chi offende alcuni sentimenti ritenuti importanti o dotati di particolare forza simbolica;
- chi intacca beni (materiali o immateriali) dotati di rilevante valore o ritenuti scarsi.

Una categoria più ampia, in parte coincidente con una o più di quelle appena citate, è rappresentata da chi è percepito come privo della capacità di opporsi al trattamento stereotipato e al pregiudizio: dal momento che, come vedremo, aspetto decisivo di tale trattamento è costituito dalle routines, oggetto di esso sarà sempre chi si sa non opporrà resistenza, non costringerà a difendersi o, nel caso dei giornali, a rettificare e magari a subire la condanna di un tribunale. Si può per questo dire che la stereotipizzazione e il pregiudizio sono una delle forme di relazione in cui appare evidente che è "normale" esser forti con i deboli.
La tendenza si amplifica naturalmente quando in un individuo si sommano due o più delle condizioni sopra indicate.

Esigenza funzionale o vizio?

Più difficile appare rispondere alle domande: perché proprio queste categorie? Perché questo avviene?
Rispondere a queste domande ci impegna ad osservare cosa succede alle persone in generale, evitando di considerare i giornalisti come "alieni", diversi dalla gente comune. Se è vero che esistono delle specificità legate al ruolo (di cui diremo più avanti), è tuttavia vero che molte delle tendenze di cui parliamo sono diffuse all'interno dei contesti culturali e di relazione in cui tutti, anche i giornalisti, sono inseriti.
E' dunque interessante osservare come viene spiegata e valutata, in senso generale, la diffusa tendenza a catalogare ed etichettare, ma soprattutto ad adottare, nelle relazioni e nella comunicazione, stereotipi e a coltivare pregiudizi. Sul punto due visioni piuttosto lontane si contrappongono.

1) La prima tende a giustificare l'esistenza di stereotipi e pregiudizi (considerati nell'accezione più neutra delle definizioni sopra riportate) in virtù di elementi diversi, che appartengono alla sfera del biologico, dello psicologico, del sociale:

- la "naturale" tendenza all'ostilità verso i diversi che caratterizza l'uomo come essere vivente al pari di qualsiasi altro animale: si tratta spesso di una visione della realtà intera come universo minaccioso, popolato di nemici cui opporre resistenza, salvaguardando le proprie peculiarità per non rischiare di vederle colonizzate o disperse;
- la necessità psicologica di semplificare il mondo troppo complesso per la mente degli individui che vi abitano: per sopravvivere risulta indispensabile, in primo luogo, operare adeguate selezioni e raggruppamenti in insiemi omogenei e relativamente semplici (le categorie) delle informazioni con cui si entra in contatto e, in secondo luogo, usare il processo di inferenza per valutare le caratteristiche non immediatamente visibili delle persone e delle situazioni, giudicando il tutto a partire dai tratti rilevabili;
- il bisogno di tipo psico-sociale di costruire la propria identità personale, la quale si struttura sempre attraverso la partecipazione ad un gruppo (l'in-group) in grado di garantire l'identità sociale proprio in quanto ha una propria fisionomia distinta da quella degli altri gruppi (out-groups), da cui deve necessariamente differenziarsi: il soggetto è così portato naturalmente ad attribuire agli out-groups caratteri meno positivi di quelli attribuiti all'in-group.
- l'esigenza propria di qualsiasi cultura di garantire ai propri membri un insieme piuttosto integrato di riferimenti di valore, di norme di comportamento, di risorse per la soluzione dei problemi: gli appartenenti ad ogni cultura verranno incoraggiati (con meccanismi di premio/punizione) ad adeguarvisi e finiranno inevitabilmente per ritenerla come quella centrale, superiore e migliore, mentre le altre appariranno periferiche, inferiori o pericolose.

Secondo questa prima posizione, categorie, classificazioni e stereotipizzazioni sono elementi importanti del funzionamento normale della mente dell'individuo e della vita di relazione. Il processo di riduzione della complessità del reale attraverso il ricorso a categorie, schemi interpretativi, quadri di riferimento riconoscibili è un'esigenza funzionale di qualsiasi componente di un dato sistema sociale e culturale. Ognuno, nella propria quotidianità e nella sfera delle relazioni che intrattiene, adotta meccanismi di questo genere: "Nella vita quotidiana nessuna azione è possibile, per quanto minuta, e nessuna azione viene di fatto compiuta, in assenza di uno schema interpretativo; e l'azione immediata che segue un evento entrato nel campo percettivo del soggetto dipende strettamente dallo schema che questi utilizza in quel momento"(Gallino, 1978, p. 587). 
Aderendo a questa visione, risulta naturale ridimensionare, di fatto, la valutazione negativa che in genere si tende ad attribuire alle tendenze di cui stiamo discutendo. Per estensione, anche i media saranno considerati con indulgenza, dal momento che non farebbero altro che riprodurre quanto naturalmente avviene a livello individuale e sociale.

2) La seconda posizione vede invece la propensione al pregiudizio e alla stereotipizzazione (assunti qui essenzialmente nell'accezione più negativa dei termini) come errore, vizio, come dice il titolo di questo intervento, discendente da bisogni profondi non soddisfatti, da patologie personali, dalla distorsione della percezione individuale e collettiva dell'altro o, ancora, da precisi interessi del sistema sociale. Passando dallo psicologico al sociale i fattori evocati in questa prospettiva sono definibili facendo riferimento a:

- il bisogno profondo di proiezione in altri, in particolare nelle intenzioni di un nemico esterno, delle caratteristiche negative (come la distruttività) di cui un individuo rifiuta di ammettere la presenza all'interno di sé: è la posizione freudiana in merito ai meccanismi di difesa, gli altri due essendo la rimozione e la razionalizzazione (Jervis, 1996);
- la presenza di tendenze aggressive in soggetti caratterizzati da alcuni tratti di personalità autoritaria (Adorno, 1973), frutto di processi di educazione rigida, gerarchica, conformista, chiusa al confronto;
- lo "spostamento" dell'ostilità che si prova nei confronti di oggetti ritenuti non attaccabili, appartenenti al proprio mondo e sistema di relazioni, dotati di potere elevato, verso un "capro espiatorio" (Chapman, 1971; Francia, 1995), scelto in modo appropriato, su cui si scaricano le proprie frustrazioni;
- l'espressione del sentimento di insicurezza, ossia della percezione individuale e collettiva dell'esistenza di un insieme piuttosto nebuloso di fattori minacciosi, alcuni dei quali - più visibili - vengono caricati di valenza simbolica e divengono oggetto di ostilità e tentativi di rimozione;
- la manifestazione del conflitto per l'appropriazione di risorse in sistemi sociali in cui queste siano, o comunque appaiano, limitate: la presenza di estranei o di non meritevoli scatenerebbe tentativi di squalifica finalizzati al rifiuto della pretesa di una partecipazione alla spartizione delle stesse risorse;
- la volontà esplicita, ancorché non dichiarata, da parte di chi detiene il potere, di sviare l'attenzione da altri interessi e responsabilità, individuando e isolando uno o più nemici "opportuni" (in quanto dotati di alcune caratteristiche; Quirico, 1993) cui attribuire la colpa di difficoltà o aspetti di problematicità presenti nel sistema.

Questa seconda posizione, assumendo l'accezione negativa di stereotipi e pregiudizi, li considera aspetti della vita sociale e di relazione da combattere in forme che contemplano sia azioni di tipo preventivo che azioni di tipo repressivo. 
Tra le due posizioni sopra esposte, sembra condivisibile una posizione intermedia, che considera il discrimine tra la naturale e necessaria tendenza a schematizzare, semplificare, ricondurre a categorie la complessità, e il "vizio" di adottare stereotipi e atteggiamenti pregiudiziali, essenzialmente come una questione di grado e di segno: se è vero infatti che un certo grado di schematizzazioni della realtà, di catalogazione o categorizzazione degli altri con cui si entra in contatto risulta essere meccanismo "normale", sia della vita mentale individuale che della vita sociale (in particolare nell'interazione sociale), l'eccessiva semplificazione e generalizzazione, ma soprattutto la rigidità di giudizio e l'attribuzione di connotati esclusivamente negativi all'oggetto trattato trasforma qualcosa di naturale in un atteggiamento da rifiutare, sia sotto il profilo etico, sia sotto quello giuridico, sia infine sotto quello funzionale, dal momento che un eccesso di pregiudizi impedisce al sistema sociale di modificarsi e di evolvere apprendendo da altre culture, confrontandosi con chi è diverso, approfittando dei varchi che alcuni comportamenti devianti aprono nella rigidità dei sistemi normativi.

Il ruolo dei media

Nella produzione e nel radicamento di stereotipi e pregiudizi è opinione corrente che il ruolo dei media rivesta una particolare importanza. 
La cosa è strettamente legata al loro essere, nella società contemporanea, il luogo per eccellenza della comunicazione sintetica sugli accadimenti che in tutto il mondo si producono: ricondurre a categorie ed adottare schemi semplificatori è, sotto questo profilo, inevitabile. Nel campo dei fenomeni sociali, l'operatore dell'informazione si confronta con realtà molto articolate, non semplici, nel determinarsi delle quali entrano in gioco moltissimi elementi. Egli deve necessariamente porre in essere meccanismi che consentano quella che, per usare una terminologia sociologica, viene definita una riduzione della complessità : l'operazione che fa un giornalista quando scrive un articolo in cui tratteggia o analizza una situazione o un fenomeno sociale è un'operazione di riduzione, inevitabile, della complessità della realtà, dal momento che l'alternativa sarebbe quella di scrivere un libro per ogni singolo caso o situazione. Operare "riduzioni" è dunque, per certi versi, costitutivo del suo lavoro.
In questa operazione vi è ovviamente il rischio di distorcere e falsare la realtà di cui si parla e soprattutto di farsi guidare da stereotipi e pregiudizi, contribuendo d'altra parte ad alimentarli.
Che sia un rischio diffuso è dimostrato dai molti esempi portati dalle altre relazioni in questo incontro. Aggiungerei solo che nel descrivere le persone e le cause del loro agire è evidente, tra le altre cose:

- l'assenza di considerazione per le dinamiche processuali in cui le vicende individuali si dipanano, ossia per il divenire degli individui (che hanno una storia precedente e che evolveranno in futuro in modi imprevedibili);
- l'incapacità di cogliere il contemporaneo appartenere di ciascuno a mondi diversi ("normali" e devianti, integrati e marginali) e la molteplicità di relazioni che sono intrattenute da chi è etichettato come estraneo o deviante;
- l'indifferenza per il carattere sistemico o collettivo, non solo individuale, di molte delle patologie rappresentate.

La presentazione schematica e superficiale, la rappresentazione stereotipa e l'esercizio del pregiudizio che hanno come oggetto gli appartenenti alle categorie sopra individuate, in genere si estendono ed investono anche le cause dei loro atteggiamenti o comportamenti, i fattori che ne sono all'origine (sul punto si può fare riferimento a quanto detto nell'edizione dell'anno scorso di Redattore sociale; Prina, 1997).
Tra le molte e più diffuse cause normalmente veicolate dai giornali possiamo citare:

- la colpa individuale, la volontà malvagia razionalmente applicata all'allontanamento dalla norma (sia essa sociale o penale) in assenza di una risposta sanzionatoria adeguata;
- la predisposizione innata, biologica, ereditaria o genetica (con la scoperta, annunciata sempre in maniera roboante, di questo o quel gene responsabile delle anormalità comportamentali); 
- la mancata o cattiva educazione da parte della famiglia e della scuola;
- le cattive influenze di particolari ambienti sociali degradati;
- il "contagio" da parte di chi è già deviante;
- i modelli di comportamento rappresentati negli stessi media o nelle opere di fiction.

E' pressoché quotidiana nei giornali l'enunciazione convinta della "causa" di questo o quel comportamento, ogni volta assolutizzando quella proposta dall'esperto più alla moda o quella che appare più originale e quindi spendibile sul piano giornalistico.
Interrogarsi sul perché tutto questo avvenga e su che cosa si possa fare per porvi rimedio implica riconoscere che un giornale è un insieme di persone e di una struttura organizzativa che ha un interesse proprio da perseguire e, in genere, interessi di altri da tutelare. La dialettica persone-struttura, come in tutte le organizzazioni o istituzioni, è interessante e ci porta a considerare con equilibrio il rapporto tra potenzialità e responsabilità del singolo da un lato, e vincoli posti dalla struttura dall'altro.
Per non fare un discorso impostato in chiave di generiche accuse alla categoria, adottando a mia volta un atteggiamento pregiudiziale fondato sullo stereotipo del giornalista medio, occorre in via preliminare osservare alcune cose. Innanzitutto si è senza dubbio assistito, in questi anni, ad una crescita di consapevolezza circa i limiti del diritto di cronaca e la necessità del rispetto dei diritti di chi è oggetto del resoconto giornalistico (per una molteplicità di fattori: promulgazione di leggi, elaborazione di codici di autoregolamentazione, maggiore sensibilità dei singoli, proteste di associazioni e di protagonisti nei casi più eclatanti). 
In secondo luogo è indubbio che il panorama italiano - e non solo - è fortemente differenziato sotto il profilo degli stili comunicativi e delle regole di autoregolamentazione adottati dalle diverse testate giornalistiche: non ci si può nascondere che esistono testate ideologicamente orientate in direzione del massimo risalto alla rappresentazione stereotipa delle categorie che costituiscono fattori di problematicità, con finalità o chiaramente politiche o di aggregazione di consenso (di lettori) dell'area moderata.
In terzo luogo esistono "i giornalisti", ognuno con le sue sensibilità e le sue esperienze, la sua etica professionale e il suo coraggio di fare scelte anche controcorrente, magari pagandone i prezzi conseguenti (per quanto riguarda i capiredattori e i titolisti il mio proposito di evitare i pregiudizi...rischia di vacillare).
Ciò premesso, va detto tuttavia che la tendenza al maggior rispetto dei diritti individuali e le crescenti sensibilità individuali non eliminano il problema più complesso del ruolo che i giornali continuano a ricoprire nella circolazione di luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi, come nel mantenimento di determinati orientamenti e gerarchie di valore e nell'alimentare la propensione alla marginalizzazione di diversi e devianti. Su questo punto non si possono non condividere le osservazioni classicamente riferite ai media come ambiti di trasmissione e di riproduzione di un universo di valori e di riferimenti che si nutrono di e a loro volta alimentano:

- il bisogno di dare un senso, organizzare in gerarchie, identificare con etichette riconoscibili la realtà che appare sempre più incomprensibile, caotica, e quindi fonte di insicurezza collettiva;
- il bisogno di definire, circoscrivere, isolare e rimuovere, almeno a livello simbolico, il male che è dentro il mondo in cui viviamo: termini come "mostro", "alieni", ecc. esprimono il rifiuto di accettare che appartenenti al nostro universo possano essere responsabili di atti gravi o assurdi;
- il bisogno di individuare uno o più nemici su cui scaricare le frustrazioni collettive;
- il bisogno di sviare l'attenzione dalle incongruenze e assurdità di aspetti organizzativi del sistema sociale e dalle responsabilità che ne sono all'origine.

Si tratta di funzioni che, senza assumere una posizione connotata ideologicamente, continuano ad essere assolte dal sistema dei media complessivamente inteso, sistema su cui molto si è scritto in tutta la letteratura critica in questi ultimi anni, forse troppo sbrigativamente rimossa.

Le responsabilità del giornalista

In questa sede appare forse più utile concentrare l'attenzione sugli atteggiamenti del giornalista e su quanto egli contribuisca a costruire un prodotto che ha quelle caratteristiche. I fattori che incidono sull'elevata probabilità che il modo di rappresentare fatti e persone veda un frequente ricorso agli schematismi, alla categorizzazioni, agli stereotipi, tanto da alimentare gran parte dei pregiudizi diffusi sono naturalmente diversi:

- la natura intrinseca del ruolo, ossia la sua funzione di tramite tra una realtà complessa e un lettore o un ascoltatore cui questa realtà va fatta comprendere utilizzando codici comunicativi che prevedono inevitabilmente una riduzione della complessità;
- limiti "umani" del giornalista, del suo normale funzionamento mentale: anche per lui vale quanto scrive Walter Lippmann, nel 1922, nel suo noto saggio dedicato aL'opinione pubblica (1922; 1995, p. 78): "Il resoconto è il prodotto congiunto di colui che conosce e della cosa conosciuta, in cui il ruolo dell'osservatore è sempre selettivo e di solito creativo. I fatti che vediamo dipendono dal punto di vista in cui ci mettiamo e dalle abitudini contratte dai nostri occhi...". E ancora (p. 79): "Nella maggior parte dei casi noi definiamo non dopo, ma prima di aver visto. Nella grande, fiorente e ronzante confusione del mondo esterno trascegliamo quello che la nostra cultura ha già definito per noi, e tendiamo a percepire quello che abbiamo trascelto nella forma che la nostra cultura ha stereotipato per noi";
- limiti culturali di chi, nell'impossibilità di essere specialista di una pluralità di questioni, è chiamato comunque ad occuparsene, con conseguenze diverse (scarsa attenzione alla credibilità delle fonti, non discernimento delle cose importanti e di quelle secondarie, difficoltà a percepire e trasmettere le peculiarità delle singole vicende ancorché simili ad altre, utilizzo distorto dei dati, ecc.);
- elementi oggettivi attinenti alla struttura dei mezzi (spazi, ordine delle pagine, criteri e vincoli della titolazione, ecc.) e agli aspetti di organizzazione del lavoro (fretta, gerarchie, ecc.).

Fin qui gli aspetti che possono rendere giustizia di un troppo frettoloso giudizio di colpevolezza dei giornalisti. 
Tuttavia non essendo essi del tutto esenti da colpe, possiamo aggiungere che schematismi, categorizzazioni e stereotipi sono espressione anche:

- del comodo adagiarsi nella routine, per indolenza e tendenza al risparmio delle risorse e del tempo. Lippmann aveva ragione a dire, a proposito della tendenza a scrivere per stereotipi: "Un atteggiamento di questo genere risparmia energie. Infatti il tentativo di vedere tutte le cose con freschezza e in dettaglio, invece che nella loro tipicità e generalità, è spossante; e quando si è molto occupati è praticamente impossibile. Non c'è il tempo né la possibilità per una conoscenza profonda. E così ci limitiamo a notare un tratto che caratterizza un tipo ben conosciuto, e riempiamo il resto dell'immagine grazie agli stereotipi che ci portiamo in testa" (op. cit., p. 85-86);
- dell'accettazione acritica delle cosiddette regole del giornalismo, delle convenzioni e dei luoghi comuni (tali essendo, a mio avviso, poiché tutti da dimostrare sul piano scientifico), in merito al che cosa va considerato "notizia", al come si deve scriverne, a quale linguaggio si deve usare, a come si confeziona un articolo, per interessare il lettore e/o per vendere più copie;
- della scarsa considerazione del lettore stesso, per la radicata convinzione secondo la quale egli avrebbe bisogno di riconoscersi nel medium che sceglie (il quale quindi rimane vincolato a stili e linguaggi, titoli e modelli di analisi), o per una sorta di più generale rassegnata opinione che solo la ripetitività dei riferimenti gli consentirebbe di comprendere il contenuto dei messaggi e di orientarsi nel caos dell'informazione;
- dell'adesione, per convinzione o per convenienza, alle specificità "ideologiche" del singolo mezzo ed agli obiettivi esplicitamente o implicitamente perseguiti dallo stesso: non mancano esempi di mezzi di informazione che sistematicamente esprimono, nei contenuti e negli stili comunicativi, il rifiuto del diverso, l'odio per chi tenta di inserirsi, provenendo da un qualunque "altrove", nella realtà cui si appartiene, la condanna senza appello di chi attenta alla sicurezza e alla tranquillità del territorio in cui vivono i cittadini "per bene".

Conclusioni: prevenire o reprimere?

E' indubbio che prevenire il mantenersi ed il radicarsi di nuovi stereotipi e pregiudizi sia indispensabile. Ciò può essere possibile agendo contemporaneamente su due livelli: da un lato, come molto si è detto in incontri di questo tipo, attraverso la crescita del senso del ruolo, della responsabilità, dei doveri di chi lavora in questo campo; dall'altro, però, anche attraverso la crescita del ruolo critico del lettore, ossia della sua capacità di discernere, leggere criticamente ed interloquire con i mezzi di informazione, manifestando assenso o dissenso per le modalità con cui affrontano gli avvenimenti e trattano le persone.
Tuttavia è mia convinzione che non si possa escludere il ricorso a quegli strumenti che possiamo definire, in senso lato, di repressione, contrapponendo forza a forza, usando gli strumenti che il diritto (Ambrosini, 1997) pone a disposizione dei cittadini per contrapporsi all'arroganza di non pochi operatori dell'informazione o all'incuria colpevole dei più. 
E dal momento che, come abbiamo detto sopra, la tendenza dei media è di essere forti con i deboli e deboli con i forti, chi difende quotidianamente i diritti dei più deboli nell'accoglienza e nel lavoro di sostegno (nel campo del volontariato, del terzo settore o delle istituzioni pubbliche), deve sentire l'impegno per sancire i diritti al rispetto della privacy delle persone meno tutelate e per affermare l'esigenza di un'informazione corretta ed equilibrata, anche attraverso l'uso del diritto e della denuncia, come una componente essenziale della propria presenza nei contesti della marginalità e dell'esclusione sociale.

Riferimenti bibliografici

T. Adorno et al. (1950; 1963), La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, Milano.


G. Ambrosini (1997), Ti querelo. I diritti di chi informa e di chi è oggetto di informazione, Il Segnalibro, Torino.

A.M. Boileau (1976a), Pregiudizio, in F. De Marchi - A. Ellena (a cura di), Dizionario di sociologia, Edizioni Paoline, Milano

A.M. Boileau (1976b), Stereotipo, in F. De Marchi - A. Ellena (a cura di), Dizionario di sociologia, Edizioni Paoline, Milano

D. Chapman (1968; 1971), Lo stereotipo del criminale, Einaudi, Torino.

A. Francia (a cura di) (1995), Il capro espiatorio. Discipline a confronto, Franco Angeli, Milano.

L. Gallino (1978), Schema interpretativo, voce del Dizionario di sociologia, Utet, Torino.

G. Jervis (1996), Pregiudizio, voce dell'Enciclopedia delle scienze sociali, vol. VI, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma

W. Lippmann (1922; 1995), L'opinione pubblica, Donzelli Editore, Roma.

B. Mazzara (1997), Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna.

F. Prina (1997), Gente sola, gente violenta: i dati, la lettura, l'interpretazione, in Periferie umane, atti del III Seminario Redattore sociale, Comunità Edizioni, Capodarco di Fermo.

M. Quirico (1993), Capro espiatorio, politiche penali, egemonia, in Dei delitti e delle pene, n.1.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.