IV Redattore Sociale 14-16 novembre 1997

Dire, non dire, dire troppo

La privacy dei N.I.P. "...capacità di intendere e di volere..."

Incontro con Paolo Rigliano

 

Paolo Rigliano - Psichiatra, componente Commissione Nazionale Aids*

Verso una nuova cultura della malattia mentale

Pur avendo il compito di introdurre degli spunti di riflessione su due tematiche, che non sono immediatamente imparentate, e che vanno trattate nel rispetto delle differenze che le distinguono, ho scelto di mettere l'accento sul rapporto tra privacy e tutela dei diritti delle persone che soffrono di disturbi mentali. Questo per una scelta precisa in quanto ritengo che, mentre ultimamente per fortuna le persone sieropositive o malate di Aids hanno ricevuto e ricevono, per tutta una serie di motivi che voi conoscete meglio di me, un'attenzione ed anche una tutela sociale e legislativa precisa, invece, per ragioni sociali e culturali, i portatori di disturbo mentale, psichico, sono un po' in ombra. Sembra che queste tematiche siano passate di moda: è una percezione sociale erronea, perché le questioni psichiatriche sono sempre un tema caldissimo e con cui tutti noi dobbiamo fare i conti. Credo che in occasioni come queste non si possano accumulare tantissime informazioni, e allora vorrei che da questo mio contributo voi portaste via alcuni o pochissimi criteri che effettivamente vi possono guidare, nell'oggi e nel domani, nel vostro lavoro. Vorrei che portaste via - e poi naturalmente riprenderò correttamente la riflessione dall'inizio - l'idea che ci si deve approcciare a questo rapporto non solo in termini di essere e di dover essere, cioè non solo in termini di ciò che non si deve fare, ma anche in termini di ciò che non si sa fare e di ciò che non si può fare.
L'altro punto è che uno dei criteri guida può essere l'attenzione forte ad abbassare la quota di violenza insita nella sofferenza mentale e che si sviluppa intorno alla sofferenza mentale: l'abbassamento della quota di violenza, della quota di stress che incide direttamente sulla vulnerabilità delle persone. Altro punto, diciamo conclusivo, è l'attenzione ed il tentativo di mettere in luce, di elicitare, di sottolineare tutti gli aspetti "in positivo" che le situazioni fanno venir fuori, cioè di rifiutare una lettura delle situazioni in cui è coinvolto un malato mentale sotto un segno negativo o distruttivo, quindi rifiutare di compartecipare alla creazione, all'emanazione e alla diffusione, alla propagazione di violenza. Queste sono un po' delle linee guida etiche su cui vorrei richiamare la vostra attenzione.
Vediamo come sono arrivato a queste conclusioni che, come vedete, sono eminentemente etiche. Nel nostro Paese il dibattito su questi temi si è sviluppato poco, c'è una scarsa attenzione da parte dei miei colleghi. C'è solo nella letteratura internazionale, soprattutto quella anglosassone, e bisogna dire che il Paese guida in questo campo sono gli Stati Uniti. Per tutta una serie di motivi legati all'organizzazione sanitaria, psichiatrica e per il tipo di esperienza che in quel Paese viene condotta, c'è una fortissima attenzione al rapporto privato-pubblico, alla diffusione di notizie e agli obblighi che competono, prima ancora che agli operatori della comunicazione e dell'informazione, ai curanti stessi che si fanno in qualche modo garanti della trasmissione - in casi, per esempio, di pericolo - e della diffusione delle notizie. Ci sono stati dei casi storici in America, come il caso Tarasov in cui un paziente paranoico uccise una persona e il medico non stette attento a diffondere l'informazione che invece avrebbe prevenuto altri casi, quindi questo omicidio ha fatto scuola, ha fatto epoca. Perché questa scarsa informazione da noi? E' molto strano, e questa è una cosa molto grave, ma deriva in parte dalla scarsa riflessione che facciamo noi come psichiatri e come psicoterapeuti. C'è scarsa attenzione a tutti gli aspetti etici: la storia della psichiatria è un insieme di paradossi, e il paradosso sta nel fatto che in Italia noi abbiamo un'esperienza di psichiatria comunitaria, territoriale formidabile, che non troviamo in nessun'altra parte del mondo. Ricordiamoci sempre che in tutto il mondo, di fatto, il manicomio è uno dei poli di aggregazione delle risposte date alla malattia mentale: in Italia si è tentato, si sta tentando un'esperienza di superamento, in parte riuscita, portata avanti con estrema fatica, della risposta manicomiale. Questo avrebbe dovuto consentire la possibilità di innescare una nuova cultura: penso che sia necessario allargare la nostra prospettiva oltre il diritto di cronaca, cioè credo che nello svolgere l'informazione, ma direi meglio la comunicazione, riguardo alle persone sofferenti a livello psichico, sia importante considerare che si è partecipi della creazione di una certa cultura. Allora credo che alcuni punti possano aiutarvi a muovervi rispetto a questa nuova cultura, in Italia resa possibile da un'organizzazione psichiatrica territoriale e comunitaria realmente emancipativa.

Tre linee guida

1 - Etichetta = ipersemplificazione

Il problema ineludibile è come noi guardiamo il malato mentale, quali sono i criteri guida. Il primo criterio è di rifiutare, lo dirà poi meglio di me Franco Prina, ogni etichettamento, intendendo per etichettamento sia la prescrizione di etichette ad una persona o a gruppi di persone, sia soprattutto la semplificazione implicita nel cercare di restringere tutta l'informazione rispetto ad una persona, ad una situazione, ad una condizione familiare, sussumendola dietro una parola che avrebbe un preteso potere esplicativo, tipo "schizofrenia", "borderline", o per passare ad altre situazioni, persona "sieropositiva". Queste etichette sono fallaci e fuorvianti, perché di fatto sono delle ipersemplificazioni che nulla dicono della persona di cui state trattando, di cui avete intenzione di parlare e praticamente hanno la pretesa di annullare l'enorme complessità e soprattutto l'enorme differenziazione che c'è e non può non esserci tra situazioni molto diverse. Voi rischiate di farvi vittime, agendo in questo modo, dell'ipersemplificazione psichiatrica e di quella che è una delle maggiori prospettive, ahimé, oggi dominanti - soprattutto di provenienza americana - della psichiatria descrittiva, che annulla l'estrema diversificazione delle esperienze mentali delle persone, semplicemente etichettandole con una diagnosi. Dire di una persona che è schizofrenica può non voler dire letteralmente nulla. Se poi teniamo presente che nella nostra formazione culturale, nell'immaginario collettivo, ci sono simboli estremamente vividi rispetto alla cosiddetta follia - ad esempio il termine schizofrenia è associato a tutta una catena di metafore mitologiche e di assunzioni effettivamente mitiche, come quelle della pericolosità sempre e comunque data, dell'imprevedibilità, della inspiegabilità - capite che annullare la complessità dell'esperienza di vita e dell'esperienza psicologica e relazionale delle persone semplicemente applicando un termine feticcio, significa aumentare la quota di violenza.

2 - Spiegazioni sempre più fallaci

Quindi, rifiutarsi di partecipare alla ipersemplificazione che accompagna anche moltissime delle operazioni psichiatriche: ipersemplificazione vuol dire anche - da parte degli psichiatri in questo momento vincenti, cioè quelli della prospettiva biologistica - annullare l'intera esperienza psichica della persona secondo un modello interpretativo che si presume "totipotente", onnipotente, e in grado di dare e di costruire i meccanismi causali, dando piena spiegazione di quello che è successo. Ritengo che invece un buon criterio guida possa essere quello di partire da una condizione di consapevole modestia e umiltà, di essere attestati, cioè, su condizioni di ignoranza più o meno parziale: moltissime sono le cose che noi non sappiamo, moltissimi sono gli elementi e i passaggi che vengono in gioco. Non perché non conosciamo il singolo dato, ma perché non c'è un'ipotesi interpretativa che si è dimostrata realmente in grado di cogliere tutti gli aspetti e quindi di dare conto di processi che sono ingranati vicendevolmente e che poi portano all'esplosione sintomatica. Non c'è una teoria interpretativa: oggi Franco Grillini dava un certificato di grande liberazione alla psicanalisi. Personalmente non sono così convinto che la psicanalisi abbia agito semplicemente da fattore di liberazione, e comunque le interpretazioni psicanalitiche oggi sono rifiutate dalla massima parte delle persone, ed è stato dimostrato che sono oltre centomila - l'una contrapposta all'altra, sempre di origine psicanalitica - e soprattutto molto fallaci, perché nessuno crede più che gli psicotici, per esempio i paranoici, abbiano alle spalle della paranoia dei processi proiettivi omosessuali. Vi inviterei ad una sana diffidenza nei confronti delle pretese spiegazioni, fossero anche provenienti da così detti luminari più o meno presenti nei mezzi di informazione; voi sapete benissimo che non c'è niente di meglio per la televisione che ospitare il cattedratico di Pisa o di Milano, che ha una teoria preconfezionata e che dà la verità sulle persone. Vi inviterei a mettere, come dire, fra parentesi queste pretese di verità.

3 - L'emergere di nuove soggettività

Terzo criterio guida, per arrivare al quale però faccio una premessa. Mi pare che anche questa tensione che si avverte, e si è letta anche sui giornali, rispetto all'applicazione della nuova legge sulla privacy, sia in qualche modo riportabile ad un altro tema scottante, che è quello del "consenso informato" che riguarda noi medici, ma riguarda evidentemente ognuno di noi in quanto potenziale paziente, riguarda realmente il diritto di cittadinanza, il diritto all'autonomia personale, quindi alla libertà personale quando si viene in contatto con le strutture sanitarie e psichiatriche. Mi occupo di questi temi nell'ambito della Consulta di bioetica e ogni volta, ma voi l'avvertite anche nel dibattito giornalistico o in televisione, che si parla di questo, c'è una grande levata di scudi molto stizzosa o irata, a volte da parte di medici. Mi pare che ci siano delle analogie tra questo tipo di reazione da parte appunto dei medici che hanno contestato, non riescono a darsi pace, né ragione di questo tipo di evoluzione del rapporto medico-paziente, e alcune reazioni di autorevoli esponenti della stampa. Perché queste reazioni stizzite? Credo che ci sia la necessità ineludibile per ognuno di noi - e parlo, per esempio, rivolgendomi anche a coloro che fossero medici, rivolgendo quindi anche l'attenzione sul rapporto medico-paziente - nelle società moderne o post moderne come sono state chiamate, di confrontarsi con le nuove soggettività che emergono. Prima i medici di fatto non avevano presente una persona, avevano presente un corpo a cui applicavano automaticamente delle cure, di fatto senza confini che non fossero autoreferenziali, cioè stabiliti dalla cosiddetta arte medica, e che quindi ogni volere, ogni riflessione e presa di decisione del medico non incontrava mai l'ostacolo della volontà, della libertà e dell'autonomia dell'altro. Quello che si verifica - lo ricordava molto acutamente Franco Grillini stamattina - da qualche decennio a questa parte, è l'emergere sempre più forte e di fatto inarrestabile di nuovi soggetti sociali, soggetti sociali non stabiliti una volta per tutte, non definiti a priori che abbracciano diverse, cangianti, fluttuanti, indefinibili identità, connesse a loro volta a ruoli, a momenti, a partecipazioni, fossero anche queste partecipazioni parziali: le donne, i minori, tutte le sfere delle diversità. Il paziente quindi acquista un valore di soggettività piena, e anche le persone di cui voi parlate. Perché sto facendo questo discorso? Perché uno dei miti da cui vi prego di prendere le distanze - me ne sono occupato anche nel libro sull'Aids: uno dei miti più gravi che vorrei sfatare riguardo al malato mentale, non lo dirò mai abbastanza, è che il malato mentale non sia in grado di esprimere pienamente la propria soggettività, perché i suoi atti, le sue produzioni mentali, psichiche e dunque relazionali non sarebbero in grado di essere interpretabili, spiegabili; il senso dei suoi atti non sarebbe cioè condivisibile. Questo è uno dei miti più nefasti e di fatto superati. Perché nel mondo si discute di come i malati psichici, le persone più gravi, cioè le persone che soffrono di paranoia o di schizofrenia - questo avviene all'estero, il fenomeno è di scarsissimo rilievo in Italia - si autorganizzano in associazioni, con efficienza, con efficacia nei confronti delle strutture pubbliche e dei governi. Sono stato recentemente ad un convegno mondiale sulla psicoterapia della schizofrenia, a Londra: c'erano i gruppi di pazienti organizzati che parlavano allo stesso tavolo dove parlavano illustri relatori portando, in termini di autoconsapevolezza, la propria esperienza, per esempio, di produzione di allucinazioni e di deliri. Uno dei migliori relatori a questo convegno era una persona che soffre attivamente di allucinazioni e che ha attivato dei gruppi che mirano a dare maggiori possibilità di controllo alle persone per l'appunto allucinate o deliranti. All'estero, in molte esperienze - che ripeto trovano una barriera drammatica in Italia - ci sono moltissimi gruppi che aiutano le persone a riacquisire il controllo sulle proprie produzioni psichiche disturbate o disturbanti. Quindi, per arrivare al criterio: c'è l'emergere di una soggettività piena, che rischia di essere ferita nel momento in cui si crea un contesto rispetto ad una certa esperienza patologica, rispetto ad un atto particolare per cui questa persona impatta il sistema della comunicazione sociale.

Abbassare la quota di stress

Questo mi dà la possibilità di aggiungere un altro elemento, che però ha a che fare strettamente con la follia. Attualmente una delle poche certezze che si fanno strada, e sono state dimostrate a livello mondiale, è il presupposto che, data una certa vulnerabilità della persona - e qui le interpretazioni divergono, ma c'è chi pensa che questa vulnerabilità sia genetica e dunque trasmessa all'interno della famiglia, c'è chi pensa che la vulnerabilità sia solo e soltanto psicologica, ma comunque tutti di fatto sono d'accordo che ci sia - questa vulnerabilità costituisca il fondo necessario su cui si instaurano degli eventi, dei processi, delle relazioni particolarmente stressanti. Quindi, la fenomenologia patologica sarebbe il risultato dell'incrociarsi, secondo differenti modi e situazioni, di particolari eventi stressanti di origine contestuale su un fondo di vulnerabilità individuale. La persona sarebbe, cioè, più debole, ma questa debolezza di per sé non sarebbe "causa" necessaria e sufficiente per il manifestarsi della patologia: importantissimo sarebbe il rapprendersi, l'aggregarsi di particolari situazioni stressanti. Queste situazioni stressanti sono di varia origine e livello: sono di origine interpersonale, familiare, gruppale, sociale, naturalmente di ogni ordine e grado, dal lavoro che manca alla marginalità sociale, e così via. Quindi lo stress: ecco perché dicevo, nelle conclusioni anticipate, che bisogna diminuire la quota di stress, perché è evidente ad ognuno di voi che una comunicazione giornalistica non attenta, di fatto rischia di accumulare, di contribuire anzi potentemente - non solo quella giornalistica, ma qualsiasi comunicazione - ad aumentare questo stress. Qualsiasi rapporto, sia interpersonale che sociale, può agire da peso, da elemento attrattore e scatenante di circuiti di ulteriore stress per la persona: qui c'è un dibattito enorme evidentemente, ma in qualche modo c'è sempre la partecipazione dell'ambiente sociale allo scatenarsi, o soprattutto al mantenersi della produzione patologica, e tutti siamo chiamati quindi a diminuire la quota di stress, di sovraccarico, l'insieme degli elementi che interagiscono, cementificando il circuito, la dinamica, sia sociale ma soprattutto personale, che porta poi all'esplosione della patologia.
Una delle forme di questo stress, uno di questi circuiti stressanti più pericolosi, è quello della conflittualità interpersonale, familiare. Moltissime volte si leggono questi fatti nei resoconti giornalistici che appaiono sulla stampa. Recentemente è apparso un caso sulla "Repubblica" che è successo a Milano, in cui un ragazzo, un giovane adulto, credo che abbia ucciso la madre, e abbia poi tentato il suicidio, e ora mi pare che sia ora ricoverato nel mio stesso ospedale: qui era evidentissimo che c'era stata una straordinaria alterazione familiare. Voi dovete tenere presente che nelle gravi patologie psichiatriche, la schizofrenia in primis, ma anche in molte altre forme c'è, ma non come momento causale - purtroppo non ho tempo di parlare di come noi siamo ingabbiati in un modello causale e di come attribuiamo il valore di causa ad una serie di elementi che invece partecipano di un processo che rimane sempre però in proprietà delle persone - una grave, gravissima, storica alterazione delle relazioni familiari. In ogni caso di schizofrenia c'è una relazione familiare che non funziona già da anni, e quindi non si può per esempio "parteggiare" per una parte o un'altra, né leggere la persona schizofrenica come una vittima della famiglia, né descriverlo come se fosse un persecutore della famiglia. Uno degli elementi, ripeto, che fanno parte di questo concetto, di questa esperienza di stress, è appunto il discorso della conflittualità, che è una conflittualità precisa, che assume delle tinte violente, tant'è vero poi che la violenza si esprime come ultimo atto in alcune polarità, in alcuni poli assolutamente estremi, privi di origine. Quindi serve un'attenzione particolare nel tener presente il contesto e a non farsi coinvolgere da dinamiche che rischiano di rimandare alla persona queste immagini di ulteriore violenza. La follia, la malattia mentale va vista come l'aggregazione non libera, ma estremamente coercitiva, di elementi di vario livello. Credo che la comunicazione sociale - sulla base di una cultura molto più attenta, molto più articolata, che deve essere necessariamente utile perché moltissime sono le cose che non sappiamo al di là di quello che i presunti maestri televisivi dicono - possa non contribuire all'aggregazione di tutti gli elementi in alcune maschere che vengono gettate addosso alle persone. Questo discorso vale naturalmente anche per la persona sieropositiva, in cui la maschera evidentemente può essere fatta da vari elementi che già di per sé, come diceva giustamente Franco Grillini, sono il frutto di una lettura parziale e sicuramente emarginante (l'omosessuale sieropositivo, il tossicomane, e chi più ne ha più ne metta...).


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.