IV Redattore Sociale 14-16 novembre 1997

Dire, non dire, dire troppo

La privacy dei N.I.P. "...con precedenti penali..."

Incontro con Franco Maisto

 

Franco Maisto - magistrato Procura Generale di Milano*

Tra diritto di cronaca e rispetto della persona

Mi stavo chiedendo per quale strano motivo hanno chiesto a me di parlare dell'aspetto dei precedenti penali giudicati. Visto che, e lo confesso apertamente, non sono un esperto della legge sulla privacy, non sono un esperto di comunicazione, cioè non ho una specializzazione particolare in questo settore, ho cercato una giustificazione a questo mio intervento nel fatto che effettivamente la mia attività professionale si è caratterizzata per una sorta di distorsione, che mi ha dato la grande fortuna di aver svolto prima l'attività di pubblico ministero alla Procura per i minorenni di Milano - dal 1974 in poi - poi di magistrato di sorveglianza a San Vittore per dieci anni. Mi sono mosso sempre accanto a situazioni di persone deboli, o di marginalità. Dal marzo di quest'anno, mi trovo a svolgere la funzione di sostituto procuratore presso la procura generale di Milano e qui ho la possibilità di verificare, anche se in sede di Appello, una certa quantità di processi a carico di giornalisti, direttori di quotidiani, o comunque di periodici, per diffamazione a mezzo stampa; in qualche modo ho un quadro abbastanza ampio di quello che ho potuto verificare nel corso di questi anni, e cioè una distorsione ma, perché no, anche le evoluzioni che ci sono state nell'elaborazione del diritto di cronaca.
Devo dire che agli inizi della mia carriera, proprio negli anni '70, probabilmente il primo col quale facemmo un discorso molto chiaro su questo problema dei nomi e foto dei ragazzini sulle pagine dei giornali, ed allora era soltanto un cronista giudiziario piuttosto giovane, fu Franco Abruzzo. Poco dopo l'approvazione della legge Reale - proprio per quanto riguarda la parte relativa alla cosiddetta legge anticasco - i minorenni avevano un trattamento molto particolare anche per quanto riguarda le armi. Si pensò, nei casi in cui non c'era la necessità di procedere all'osservazione della personalità, di non tenerli necessariamente in carcere, di fare dei processi per direttissima e venne ad intervistarmi Franco Abruzzo, con il quale ci mettemmo d'accordo in questo senso, cioè di non indicare i nomi dei ragazzi, e il punto era di estremo interesse perché, a seguito di alcune indagini, all'epoca avevamo individuato i casolari attorno a Milano in cui i giovani rampanti della "mala" milanese riuscivano a procurarsi nelle cascine una certa quantità di armi per le rapine. Procedendo in questa ricerca, nel corso degli anni, vennero fuori una gran quantità di nomi e situazioni familiari. Ad esempio, ricordo i primi casi di portatori di Aids quando l'amministrazione penitenziaria negava che esistesse o potesse esistere il problema dell'Aids. Eravamo proprio all'inizio del 1980 - 1981. Ho portato pezzi di giornale che risalgono all'inizio della mia carriera di magistrato di sorveglianza, cioè dal 1980 a San Vittore, e che indicano, almeno dal mio punto di vista, nomi e cognomi di persone, che non c'era per niente la necessità di indicare.
Per esempio l'improvvida notizia con nome, cognome e fotografia, dei due ragazzi giovani bruciati nel carcere di Monza, pubblicata prima ancora che la mamma sapesse che i due figli erano morti perché arrostiti in una cella del carcere, e siamo al 1985. Questo per un'incuria dell'amministrazione penitenziaria, perché all'epoca non aveva garantito condizioni di sicurezza degli edifici e quindi addirittura ci fu l'impossibilità di accesso dei Vigili del fuoco all'interno della struttura e naturalmente non funzionavano le bocche antincendio. Ma perché vi riferisco il particolare? Perché posso farvi immaginare quale situazione si sia determinata in relazione alla pubblicazione delle foto e dei nomi dei ragazzi nel carcere di Monza, prima ancora che la mamma ne fosse a conoscenza. Continuando nel corso del tempo mi chiedo, per esempio, dove fosse la necessità di pubblicare, scandagliando - perché interviste non ce ne erano state, non c'era stato alcun consenso - nei sentimenti più intimi delle famiglie delle vittime per fatti di lotta armata di terrorismo. Dov'era la necessità di indicare quali fossero i sentimenti? Devo dire che su questo sono stato pesantemente, in un modo bruciante, colpito quando abbiamo dovuto decidere, nel tribunale di sorveglianza di Milano, circa l'ammissione di misure alternative di quelli che furono gli omicidi dell'amico Guido Galli. Eppure, il riportare in pezzi di stampa quale fosse l'opinione della famiglia, della vedova e delle figlie è un fatto che veramente mi lasciò interdetto. Mi chiedevo dove effettivamente esista questo diritto di cronaca e dove invece si vada ben al di là di ciò che costituisce diritto di cronaca, e se tutto ciò non sia un qualche colore negativo, devastante nell'economia del diritto di cronaca. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare per i malati di mente, i transessuali, i tossicodipendenti, e così via.
Per queste poche cose che ho visto e sentito nel corso di questi anni, dal '74 ad oggi, cioè in questi anni di lavoro in magistratura, devo dire molto chiaramente che ho avvertito sempre una grande tensione, quasi una contraddizione, tra il rispetto della persona umana e i valori della democrazia. Credo effettivamente che la democrazia cresca nella misura in cui cresce il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, però vi devo dire che ho colto dentro di me più di una volta la tensione fra questi due valori fondamentali.

Privacy e giornalismo: le novità introdotte dalla legge

Per questo ho detto benvenuta alla legge sulla privacy. Voi sapete che nelle declamazioni preliminari alla legge sulla privacy, più volte si è parlato non di una privacy come un diritto "unifunzionale", ma come diritto "polifunzionale" e molti commentatori hanno aggiunto che lo scopo della legge non è soltanto difendere il diritto individualistico borghese anglosassone, ma anche evitare vecchie e nuove forme di discriminazione. Si è anche aggiunto che il diritto alla privacy comprende anche una posizione al riparo da ogni forma di stigmatizzazione. Mi sono chiesto - nella preparazione di questo intervento e soprattutto parlando con i vostri colleghi, in particolare con i cronisti giudiziari di Milano, tanto per intenderci le firme rampanti da tangentopoli in poi - se effettivamente la legge avesse o no, e in che senso, una qualche relazione con la vostra attività professionale. Ho ricevuto una risposta che mi ha lasciato molto perplesso. Che in fondo, per quanto concerne i "nip", non c'è alcuna violazione della legge sulla privacy, perché in fondo chi può temere - perché interessa e perché è un boccone ghiotto - la violazione della legge sulla privacy sono i "vip" e non i "nip". Eppure ho trovato delle autorevoli dichiarazioni contrastanti. Per esempio, l'altro membro dell'ufficio del Garante, il professor Ugo De Siervo, in un'intervista su Italia Oggi del 2 settembre 1997 diceva, rispondendo ad una precisa domanda: "In alcuni casi l'autorità garante ha già segnalato l'esasperazione dell'informazione, a volte anche pseudo-informativa, che troppo spesso colpisce i più deboli". Qui allora il problema è: dalle violazioni, dalle distorsioni vengono colpiti soltanto i vip, oppure possono essere e sono colpiti di fatto soltanto i "nip"? Cercherò di arrivare ad una qualche conclusione verso la fine del mio discorso. E allora direi, senza voler esser troppo tecnici, partiamo da un punto: diamo per scontato che molta della vostra attività rientra nel concetto di diffusione o meno del concetto di trattamento di cui alla legge sulla privacy, intendendo per diffusione il dare conoscenza dei dati a soggetti indeterminati. Dentro la divulgazione dei quotidiani, le trasmissioni dei notiziari, dei programmi delle radio e delle reti televisive, siano esse pubbliche o private, c'è uno spettro molto ampio di comunicazione. Credo che comunque un punto debba essere messo a fuoco, cioè che in tre zone centrali della legge sulla privacy viene in considerazione il diritto di cronaca.
Se prendete l'articolo 12, la lettera "E", laddove si parla dei "casi di esclusione del consenso" si dice che "Il consenso non è richiesto quando il trattamento - qui si parla di trattamento, non di diffusione - è effettuato nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, nel rispetto del codice deontologico di cui all'articolo 25". Ed ancora, ma in relazione ad altro aspetto della comunicazione - e cioè in relazione ai requisiti per la comunicazione, qui siamo alla diffusione dei dati personali - si dice che "La comunicazione e la diffusione dei dati personali da parte dei privati sono ammesse - art. 20, lettera D - nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità nei limiti del diritto di cronaca poste a tutela della riservatezza ed in particolare dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico e nel rispetto del codice deontologico di cui all'art.25". Si continua poi con l'articolo 25, dove specificamente si parla del trattamento di dati particolari nell'esercizio della professione di giornalista e si dice che "Salvo che per i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, il consenso dell'interessato non è richiesto quando il trattamento dei dati di cui all'articolo 22 è effettuato nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, nei limiti del diritto di cronaca e in particolare dell'essenzialità dell'informazione". C'è una formula che si ripete, cioè in relazione al diritto di cronaca e sulla essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Viene dunque in considerazione, in tutti e tre gli articoli, sempre la stessa formula che rimanda ad una vecchia ed annosa questione, che non è quella che giustamente vi diceva don Vinicio Albanesi nella sua introduzione, cioè la scusa del diritto di cronaca, ma è quella dei limiti del diritto di cronaca. Quel diritto di cronaca che più volte viene invocato nelle aule di giustizia, quale discriminante dell'attività professionale. Su questo punto credo di non essere l'unico a ritenere che la legge sulla privacy non abbia introdotto un'innovazione sostanziale in quello che a voi, nelle scuole di giornalismo, è stato insegnato come il cosiddetto decalogo del giornalista. Ciò non significa che non restino ancora oggi - e per quanto riguarda specificamente la materia del processo penale minorile, ma il problema può essere riproposto per il processo penale per gli adulti - delle ampie zone grigie, di cui c'è una necessità, in sede di formulazione del codice deontologico - che non è una tagliola come ha sostenuto qualche autorevole rappresentante dei giornalisti - di occuparsi.

Tre criteri per scrivere una notizia

Per il momento rimandiamo il problema relativo ai limiti del diritto di cronaca. Dicevo poco fa che ho avvertito in questi anni un'estrema tensione tra i valori della democrazia e il diritto di cronaca. E ritorniamo allora a fare un po', come dire, lo stato dell'arte, se per voi non è utile, ma forse è utile per me. E' un principio unanimemente riconosciuto che il diritto di cronaca giornalistico costituisce un aspetto essenziale del diritto di libera manifestazione del pensiero, sancito dall'articolo 21 della Costituzione. Diritto che si manifesta nel potere-dovere conferito al giornalista, di portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti e notizie interessanti alla collettività. L'esercizio di siffatto diritto, in quanto può recare pregiudizio ad altri diritti di rango costituzionale, quale l'onore e la reputazione, deve necessariamente sottostare a determinati limiti che consentano un bilanciamento tra i contrapposti interessi all'informazione e alla tutela dell'onorabilità altrui. Nonostante l'illusorietà della pretesa di tracciare i limiti di demarcazione di geometrica precisione, la giurisprudenza ha cercato di canonizzare i limiti entro i quali l'attività giornalistica, se pur lesiva dell'altrui reputazione, è discriminata ai sensi dell'articolo 51 del Codice penale, oltrepassati i quali si integrano gli estremi della diffamazione a mezzo stampa.
In particolare una storica pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione del 1984, rielaborando e recependo precedenti decisioni, enunciò una serie di criteri ai quali uniformarsi. L'esercizio del diritto di cronaca assurge a causa di giustificazioni del delitto di diffamazione a mezzo stampa a condizione che: primo la notizia pubblicata sia vera, secondo che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti in relazione alla loro rilevanza sociale, terzo che l'informazione venga mantenuta nei limiti dell'obiettività . È dunque con riferimento a tali limiti - che fungono da presupposto dell'esistenza stessa del diritto di cronaca, oltre che al suo legittimo esercizio - che si dovrà accertare la portata diffamatoria di un articolo. Dunque ci sono tre criteri. Per quanto concerne il secondo enunciato - e cioè la sussistenza dell'interesse sociale della notizia riportata - credo che non ci siano problemi. Per quanto riguarda il terzo, che enunciavo poco fa - quello che più risale a una morale ecclesiastica che potremmo chiamare continenza del linguaggio - l'articolo, la comunicazione deve essere priva di qualunque gratuita sottolineatura. Nell'introduzione di don Vinicio si legge una riformulazione di questo concetto giurisprudenziale di continenza del linguaggio. Egli diceva - secondo me con parole belle - "Vi chiediamo stile e parole adeguate, utilizzerete alcune espressioni invece di altre, e continenza del linguaggio". L'altro problema, l'altro requisito che forse presenta più problemi, è quello relativo alla verità della notizia. Non nascondo che fino ad ora, tutti credo, abbiano detto verità della notizia. A me è capitato più volte in questi processi d'appello a carico di giornalisti condannati in primo grado, di vedere invece che proprio il requisito della verità della notizia va ulteriormente approfondito. I problemi sono dovuti principalmente, da una parte, al fatto che i limiti all'esercizio del diritto di cronaca non sono stabiliti da una norma generale ed astratta adattabile al caso concreto, ma sono il frutto di un'elaborazione giurisprudenziale sollecitata sulla base di un caso concreto, e dall'altra al fatto che - se in giurisprudenza si riscontra un'elaborazione unitaria dei requisiti concernente l'interesse pubblico e la continenza del linguaggio - riguardo al significato di verità della notizia si sono confrontate due linee interpretative. Secondo l'indirizzo più rigido solo la verità oggettiva, ossia la rigorosa corrispondenza del fatto alla notizia permetterebbe di invocare la discriminante di cui all'articolo 51 del Codice penale, ed è quella che fino ad ora è stata utilizzata in questo seminario. Al contrario, l'orientamento che devo dire a me sembra più corretto e più sensibile alle esigenze e ai più concreti problemi dell'attività giornalistica, attenua il rigoroso riferimento alla verità oggettiva, riconoscendo rilevanza discriminante alla verosimiglianza o alla verità scrupolosamente accertata e verificata. Se il cronista dovesse procedere ogni volta ad indagini e a controlli fino ad accertare che quanto ha appreso rappresenta la verità obiettiva, le esigenze di rapidità e attualità dell'informazione e più in generale l'esercizio del diritto di cronaca, verrebbero meno e ne risulterebbe paralizzata l'efficienza stessa del servizio d'informazione. Ed è appunto questo rilievo che ha indotto la dottrina dominante ad interpretare il parametro della verità e della notizia non in senso rigoroso e assoluto, ma con quella elasticità che è più consona alle peculiari caratteristiche dell'attività giornalistica. Verità della notizia, dunque, come verosimiglianza o uso legittimo delle fonti di informazione, o verità quali quelle apprese dal giornalista, o ancora obiettività come scrupolo dell'informazione. A ciò si deve aggiungere che, rispetto a numerose notizie di grande interesse sociale - pensate per esempio alla lotta tra cosche - difetta in radice la possibilità di riscontro obiettivo. Il che si verifica purtroppo anche al di fuori dell'attività giornalistica: quanti casi irrisolti, quanti proscioglimenti ci sono che nel vecchio codice erano "per insufficienza di prove", adesso non più, ai sensi del secondo comma del 530 del codice di procedura penale? Ma allora? Caso per caso, quando la notizia è verosimile, quando le fonti sono attendibili, quando il giornalista si è mostrato diligente e scrupoloso, mi sembra che la discriminante del diritto di cronaca vada riconosciuta ancorché la notizia non sia rigorosamente veritiera, ma solo legittimamente ritenuta tale dal cronista. Credo che in sede di preparazione, di elaborazione del nuovo codice deontologico, si debba andare ad affrontare ulteriormente la questione.

Due interventi del Garante

A voi è noto più che a me, anche perché voi l'avete pubblicato, che fino ad ora ci sono stati due interessanti interventi dell'ufficio del Garante per la protezione dei dati personali, uno in data 2 luglio 1997 e l'altro in data 21 agosto 1997. Quello del 2 luglio 1997 riguarda - e c'è una segnalazione come atto sanzionatorio diciamo prodromico, preliminare, più lieve da parte dell'ufficio del Garante - la diffusione attraverso i mezzi d'informazione della notizia di un invito a comparire davanti all'autorità giudiziaria penale nei confronti del dottor Cesare Romiti e del dottor Francesco Paolo Mattioli, prima che di tale invito avessero effettiva conoscenza gli interessati, e ciò costituisce una violazione delle norme di tutela della riservatezza. Viene indicato un principio molto preciso - che naturalmente non vale soltanto per i vip, ma vale anche per i "nip", e che riguarda, è una conseguenza dell'applicazione dell'articolo 9, primo comma, lettera A, della legge sulla privacy, che prevede che i dati vengano trattati in modo lecito e secondo correttezza. Dice la segnalazione dell'ufficio del Garante che, nonostante ci sia stata questa decisione, quello dell'esercito del diritto di cronaca è uno dei primi temi che dovranno essere affrontati dal codice deontologico previsto dall'articolo 25 della legge 675/'96, per il quale, come sapete, è già stata avviata la procedura.
L'altra segnalazione, che voi ben conoscete, ha avuto causa da due parti non molto simili nelle circostanze, ma ugualmente divenuti comuni per il fatto che si era verificata una violazione del principio di rispetto della dignità della persona umana. E cioè la pubblicazione di foto di persone fermate dall'autorità di polizia, mentre vengono presentate in manette: è il caso delle persone che vennero fermate a piazza Navona per il danneggiamento della fontana di Bernini. L'altro è il caso del cittadino extracomunitario che venne presentato nudo attraverso delle fotografie. Qui, accomunando le due situazioni, e ritenendo in tutti e due i casi una comune violazione dei principi della dignità della persona umana, il Garante ha stigmatizzato la diffusione della notizia, segnalando inoltre che, per quanto riguarda il problema delle fotografie in manette, c'è una precisa norma che è stata violata, ed è quella dell'articolo aggiunto all'art. 42 dell'ordinamento penitenziario nel 1992, su iniziale decreto dell'allora ministro Conso. Perché vi segnalavo questi fatti? Perché da questi casi credo che venga in considerazione il problema centrale mosso dalla collega Del Conte, che vale non soltanto per i minorenni ma anche per gli adulti, cioè la necessità di un ulteriore approfondimento, che non è dato ancora dalla legge in sé, di ciò che può costituire diffusione dell'informazione rispetto a fatti, atti o azioni, come nel caso delle manette, già coperti da segreto investigativo. Tenendo conto di una complessiva linea di tendenza dell'ordinamento e dei provvedimenti che sono in discussione in Parlamento, e che sono volti a tutelare maggiormente il diritto alla riservatezza con riferimento in particolare alla divulgazione delle trascrizioni, delle intercettazioni di comunicazione e di conversazioni telefoniche.

Il problema dei precedenti penali

Un problema molto importante in relazione al titolo che mi è stato assegnato è quello che può essere formulato con questa domanda: ma insomma, le informazioni riguardanti i precedenti penali possono essere liberamente raccolte e trattate? Qui non parlo di diffusione, ma di raccolta e trattamento, che sono concetti a parte, cioè sono precedenti e non del tutto correlati con quello della diffusione. A giustificazione del trattamento di questi dati, voi sapete che la legge richiede che si persegua un rilevante interesse pubblico. Il perseguimento del rilevante interesse pubblico costituisce quindi la condizione essenziale per il trattamento dei dati personali inerenti i precedenti penali dell'interessato. Una volta accertata la sussistenza di questo requisito, o prerequisito che dir si voglia, il legislatore impone che le stesse finalità di tipi di dati trattati e le precise operazioni autorizzate siano dettagliatamente specificate. Questa specificazione, con la relativa autorizzazione, potrà essere contenuta alternativamente in un'espressa disposizione di legge, oppure in un provvedimento del Garante, in entrambi i casi il provvedimento autorizzato deve essere preventivo al trattamento che ne forma oggetto. Vi segnalo ora quattro situazioni, sulle quali credo che sia necessario che non soltanto il codice deontologico, ma un'ulteriore riflessione del Garante oppure del legislatore, dovrebbero cercare di fare più chiarezza.
Il primo problema è quello del trattamento e della diffusione dei dati dell'amministrazione penitenziaria, ed in particolare i dati delle carceri relative ai detenuti perché, in relazione al trattamento di questi dati, noi abbiamo un'indicazione nell'articolo 4, lettera D, della legge, che dice che "La legge non si applica al trattamento dei dati effettuati in attuazione dell'art.371 bis terzo comma del codice di procedura penale ... nell'ambito di uffici giudiziari del consiglio superiore della Magistratura ... e del ministero di Grazia e giustizia". Essendo la direzione delle carceri un'articolazione del ministero di Grazia e giustizia, questo aspetto quindi dovrebbe essere del tutto escluso dalla legge. Ma c'è però la considerazione da fare che qui parliamo di trattamento, ma non parliamo di diffusione dei dati dell'amministrazione penitenziaria.
L'altro problema è quello relativo al trattamento e alla diffusione dei dati che sono negli archivi dei "Centri di servizio sociale adulti" del ministero di Grazia e giustizia. Anche qui si potrebbe fare analogo discorso per quanto concerne il trattamento, che quindi rientra sicuramente nell'art. 4 lettera D, ma avrei qualche perplessità per quanto concerne la diffusione. Bisogna aggiungere, tenuto conto della sede in cui stiamo lavorando, la questione relativa ad una maggiore chiarificazione normativa dei dati raccolti dalle associazioni di volontariato e da ultimo c'è un problema, che prima o poi si presenterà, se in qualche cronaca locale non si è già presentato, e che potrebbe essere posto in termini interrogativi: è possibile, è ammissibile la diffusione di dati sensibili di un tossicodipendente con Aids, che ha minacciato il contagio attraverso siringhe infette? Qui credo che una prima risposta ce la dia l'articolo 23, quarto comma, della stessa legge sulla privacy che dice: la diffusione dei dati che pone a rivelare lo stato di salute è vietata, salvo nel caso in cui sia necessaria per finalità di prevenzione, accertamento o repressione di reati con l'osservanza delle norme che regolano la materia. Questo mi dà la possibilità di arrivare alla conclusione, cioè che la necessità di tutela della privacy avviene in un contesto comunitario. Su questo bisogna aprire una parentesi, che però credo sia stata ampiamente fatta dalla Del Conte: quando scrivete sugli indagati pensate che hanno dei figli. Ci sono certi articoli che fanno saltare i polsi. Non è un'esibizione, ma per farvi capire, o meglio per spiegarmi, vi racconto che nove mesi fa ebbi una notizia, per puro caso, che ero iscritto nel registro degli indagati della procura della repubblica di Brescia per associazione a delinquere di stampo mafioso, per aver dato dei permessi, nella mia attività di magistrato di sorveglianza, ad appartenenti ad una cosca mafiosa, i quali poi avevano fatto degli eccidi nei confronti di un'altra cosca. La mia preoccupazione non era per me, la mia preoccupazione era: vuoi che mio figlio, che ha nove anni, a scuola sappia da qualche altro bambino che suo padre ha potuto commettere un fatto di questo tipo, che io sapevo nella mia coscienza, nella mia serenità, pur con le storture della giustizia italiana, non sussistere. Naturalmente era tutta una balla, nel senso che era stato un collaboratore poco accreditato nella maggioranza delle sedi giudiziarie, e molto accreditato in una sola sede giudiziaria, che aveva dato questa notizia, screditato oltre che dalla maggioranza degli altri collaboratori, anche dal fatto che poi in concreto, a queste persone, io non avevo mai avevo dato permessi, per il semplice fatto non che avessi deciso di non darglieli, ma per il fatto che io non mi dovevo proprio occupare di quelle persone, perché avevamo un'assegnazione dei lavori, in ufficio, per ordine alfabetico e quindi delle persone che avevano quei nomi io non me ne ero mai occupato. Questo per dire che ogni volta che penso agli indagati, penso a chi c'è dietro, e penso ai bambini; ho dovuto necessariamente pensare a come mi tremava il cervello quando pensavo, all'epoca, a mio figlio. Naturalmente ci fu un ampio proscioglimento di fatto, non di diritto. E allora vengo alla conclusione. Vi dicevo dell'art. 23, lettera D: se noi interpretassimo la legge sulla privacy alla maniera anglosassone - e cioè come il diritto ad essere lasciati in pace - questo comma dell'art. 23 per noi sarebbe una contraddizione perché, posto che non è possibile, è vietata la diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute, la legge specifica "salvo nel caso in cui sia necessario per finalità di prevenzione, accertamento o repressione del reato, con l'osservanza delle norme che regolano la materia. Quindi non siamo in linea con i valori costituzionali, perché i nostri valori costituzionali non sono quelli di esser lasciati soli, non sono quelli dell'esser lasciati in pace. Non vorrei essere frainteso: sicuramente bisogna evitare le intrusioni nella vita privata, ma i nostri valori costituzionali sono qualcosa in più, sono nella linea del rispetto della dignità della persona umana. Si citano varie norme, in questo periodo, sulla Costituzione soprattutto in relazione alla giustizia, forse si cita poco l'articolo 2 della Costituzione, relativo agli obblighi di solidarietà sociale, che non valgono soltanto per gli addetti al volontariato sociale, ma per tutti i cittadini. Insomma, credo che in questa legge vada specificato un principio fondamentale: che il diritto in fondo è un modo per dirci come possiamo vivere insieme, pur essendo diversi tra noi.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.