IV Redattore Sociale 14-16 novembre 1997

Dire, non dire, dire troppo

Prove di giornalismo sociale. Simulazione basata su "lanci" di agenzia

Coordinatore Stefano Ricci

 

Coordinatore Stefano Ricci - Comunità di Capodarco*

Introduzione

Faccio una premessa prima ancora della presentazione. Nei momenti in cui si pensava ad un workshop di questo tipo si aveva la certezza che sarebbe stato un esperimento. Perché? Perché prove di giornalismo sociale, simulazioni basate su lanci di agenzia o altro, sanno troppo di scuola, di imparare a fare, mentre i giornalisti si sa, tendono a rifiutare ogni impostazione scolastica. Non dico sia un atteggiamento di saccenteria, dico soltanto che si pensa di non aver bisogno di imparare a fare un mestiere che apparentemente è di bassa cucina (...). Non c'era da parte nostra l'intenzione di insegnare qualcosa a nessuno, era soltanto l'occasione per riflettere sul fatto che spesso le notizie, riprese, rianalizzate; nel momento in cui ci si torna sopra, dovrebbero esser guardate da un punto di vista particolare, da un buco della serratura, lo chiamo io, che è quello del giornalismo sociale, dell'ottica dell'emarginazione. Potrebbe permettere di far meglio il proprio lavoro. L'obiettivo era questo: offrire occasioni di confronto tra giornalisti per ragionare meglio su come migliorare la qualità delle notizie a partire da un'ottica molto particolare, che è quella appunto delle persone oggetto di notizie. Proveremo a far delle cose, vorrei proporre un esperimento che secondo me è anche abbastanza interessante, poi mi direte voi.

Mi presento: ho 40 anni, sono sociologo, vivo in comunità, ed in parte ci lavoro, mi occupo in questo momento di riabilitazione dopo aver fatto per diversi anni anche altre cose, tra le quali, l'aver dato vita all'agenzia RES, un'associazione di servizi socio-culturali che si è occupata anche di informazione sociale. Nel '90 abbiamo fatto un lavoro insieme ai giornalisti del gruppo di Fiesole: "Il margine e la notizia", un confronto tra operatori della condivisione, operatori della solidarietà, operatori dell'informazione per leggere insieme i quotidiani; l'anno dopo invece abbiamo realizzato un'indagine nazionale sulle fonti sociali per i giornalisti, quindi una ricerca che ha coinvolto circa 300 giornalisti raccolta in un libro che si intitola "Titoli minori"; abbiamo poi collaborato con il Cnca per la realizzazione di "Redattore sociale". Sempre per il Cnca sono curati dalla RES due libri importanti: le due guide per l'informazione sociale; il mio compito è stato sia di coordinare questi due libri, sia  di scrivere qualche capitolo specifico. Da un paio d'anni inoltre faccio parte del Corerat "Comitato radiotelevisivo delle Marche", una struttura periferica del garante, che si occupa di emittenza radiotelevisiva. La struttura fa riferimento al garante per l'editoria anche per quanto riguarda, ad esempio, il monitoraggio durante le campagne elettorali, tra l'altro ha una svariata serie di competenze, è anche una struttura del Consiglio regionale, una struttura consultiva per quanto riguarda tutta l'attività dell'emittenza radiotelevisiva nelle regioni. Adesso c'è la proposta di legge di riordino di tutta la questione per cui sempre più i Corerat - presenti in ogni regione - cambieranno nome, diventeranno i terminali regionali dell'autorità per l'editoria e per l'emittenza radiotelevisiva. Come Comitato Radiotelevisivo delle Marche abbiamo lanciato da poco, in collaborazione col Cnca, un'iniziativa che si intitola "Il pollice radiotelevisivo": l'apertura di un numero verde, dove i cittadini marchigiani possono segnalare le trasmissioni (belle o brutte); i programmi che in qualche modo hanno maltrattato una categoria o una persona; gli appuntamenti non soltanto dell'informazione ma anche del varietà dello sport ecc.; gli spazi che si possono ritenere lesivi dei diritti delle persone; le trasmissioni che in qualche modo risultano positive perché trattano bene un argomento, sono rispettose, favoriscono la consapevolezza dell'utente. Abbiamo stampato un opuscolo con tutte le notizie che riguardano i codici deontologici, le opportunità di legge e lo stiamo diffondendo soprattutto nelle scuole, proprio per favorire la consapevolezza del cittadino. Fra le altre cose insegno anche metodologia della ricerca al diploma per assistenti sociali in Ancona. La cosa simpatica di cui volevo un po' parlare è che da quando mi sono sposato (sono 13 anni), vivo in un gruppo famiglia della comunità, che accoglie in questo momento prevalentemente minori, per ora siamo in 11. Alcune delle storie dei minori accolti possono essere un'occasione di confronto su cui lavorare, per capire un po' come se ne potrebbe o se ne dovrebbe parlare (...).

Presentazione dei partecipanti

Gabriele Mioni

Sono di Bologna, vengo dalla scuola di Bologna, io e i due colleghi, siamo iscritti al secondo anno, lo abbiamo appena iniziato, ho 26 anni. Prima della scuola ho avuto un'esperienza in una radio locale bolognese, mi occupavo di cronaca quotidiana, ho fatto poi uno stage quest'estate di due mesi in un giornale locale, la Gazzetta di Mantova. Sono laureato alla Facoltà di Lettere in Storia Contemporanea. Siamo venuti per ascoltare con la mente chiaramente aperta (quella che deve avere un giornalista), sgombra se è possibile da pregiudizi.

Francesco Allegra

Vengo da Novara, ho 26 anni, sono al secondo anno della scuola di Bologna, sono laureato in Filosofia alla Statale di Milano. Ho lavorato per un po' di anni, di cui 8 in un giornale locale, un bisettimanale. Ho fatto un po' di televisione sempre locale. Sono rimasto abbastanza positivamente impressionato da quello che ho sentito fino ad ora. 

Cesario Picca

Vengo da Lecce, ho 25 anni, sono stato due anni corrispondente alla Gazzetta del Mezzogiorno, due per il quotidiano di Lecce, ho fatto radio e TV locali e adesso sono alla scuola di giornalismo di Bologna. Quest'estate allo stage sono stato al Resto del Carlino, di Ferrara, Modena e Reggio Emilia, sono laureando in Economia e Commercio all'Università di Lecce e cosa farò da grande? Spero il giornalista, altrimenti il babbo ha pronta per me un'azienda agricola che lui gestisce (...).

Simona Cacialli

Ho 24 anni, sto scrivendo su "L'altra città" un giornale che tratta tematiche di una periferia abbastanza degradata di Firenze che si chiama Le Piagge; tutti i giornalisti sono volontari, molto appassionati e sensibili verso le tematiche del degrado e dell'emarginazione a livello locale, pronti comunque ad aprirsi ad altro, verso altre periferie, altre zone. Sono laureanda in Scienze dell'Educazione e sto facendo una tesi proprio su Le Piagge. La mia intenzione è quella di lavorare nell'ambito del sociale, ancora non so bene con quale ruolo, giornalista non lo so, comunque restare nel sociale, questo è quello che mi interessa.

Giulietta Stefani

Ho 24 anni, mi sto laureando in Scienze Politiche a Firenze e collaboro anch'io al giornale "L'altra città", un'esperienza di giornalismo un po' particolare, anche perché, non avendo alcuna formazione, il nostro è stato un tirocinio direttamente sul campo, con l'aiuto iniziale di alcuni giornalisti fiorentini. Siamo approdate a scrivere sul giornale non tanto, almeno inizialmente, con la voglia di diventare giornaliste, bensì spinte da un impegno più generale nel mondo del volontariato e del sociale e mosse poi dall'idea di fare un giornale, poiché c'era bisogno di comunicare su determinati temi; mi piacerebbe proseguire in questo campo soprattutto in quello sociale, l'idea di fare la giornalista di cronaca nera francamente non mi interessa.

Stefano Ricci

Mi riallaccerei, per dire come volevo impostare il lavoro e per cominciare a mettere un po' di carne al fuoco, a quanto affermava Giulietta adesso. Diceva: sì, forse l'orizzonte del giornalismo può essere una strada o comunque un'ipotesi da verificare, però sempre con un taglio sociale. L'idea di "redattore sociale" è infatti un'idea di un giornalista sociale, non di uno specialista, un professionista del sociale, poiché questo riproporrebbe la logica della ghettizzazione di certi argomenti (...).
Io vengo dal mondo del sociale, però mi interesso in qualche modo di giornalismo o comunque di informazione. L'interesse non è tanto fare il giornalista sociale, cioè il redattore sociale, quanto l'aiutare a formare, mettere in mano a tutti i giornalisti gli strumenti necessari per trattare in maniera sociale i diversi argomenti, perché? Perché parlare di minori, parlare di handicap, povertà, emarginazione, malasanità ecc., di fatto non rappresenta solo un argomento, ma la vita quotidiana delle persone; in questo senso il giornalista diventa lo storiografo della vita quotidiana, la persona che deve avere conoscenza di tutto (...). Voi fate anche la Stefani, quindi voglio dire ci lavorate con l'agenzia che stampano loro; ricordo gli anni della guerra in Jugoslavia, quando l'agenzia che faceva la loro scuola praticamente era l'unica agenzia che dava notizie di prima mano sulla guerra grazie a tutta una serie di canali collegati, questo per dire che anche in una scuola è possibile sperimentare un modello di giornalismo sociale senza specificazioni. E' importante avere una serie di strumenti che permettano di conoscere la realtà. I giornalisti, in questo senso, pagano lo scotto che pagano tutti i cittadini di fronte alle questioni sociali, non sono diversi dagli altri e l'esempio che faccio sempre è questo: se noi apriamo un quotidiano qualsiasi, abbiamo delle informazioni molto raffinate, molto precise su, ad esempio, l'andamento della borsa, con tutte le azioni, le variazioni percentuali rispetto al giorno precedente, di quelli che sono i dati economici, dal tasso dell'inflazione ai disoccupati. Di fatto siamo inondati da una serie di notizie, cosa che non accade per il sociale, non sappiamo sostanzialmente quanti sono i morti per droga, ad esempio o quanti sono i minori in istituto, ma non lo sappiamo noi in quanto cittadini,  non lo sanno spesso i giornalisti e purtroppo riguardo i temi sociali spesso e volentieri sanno poco anche le istituzioni. Allora l'impegno di fare giornalismo sociale dovrebbe, da una parte, essere rivolto ad approfondire una serie di questioni tecniche, dall'altra però avere la consapevolezza che il giornalista ha una grossa funzione di mediazione rispetto all'opinione pubblica - in questo senso forse più responsabilità - per cui appare chiaro che ci si aspetta da lui uno sforzo in più, oltre quello di raccontare: deve avere l'obiettivo di conoscere, di acquisire degli strumenti per offrili al pubblico, al lettore, allo spettatore, telespettatore o radioascoltatore, all'opinione pubblica.
Purtroppo da questo punto di vista i giornalisti non sono aiutati, spesso hanno di fronte un'ignoranza generalizzata e la tendenza a fare quadrato attorno alle notizie, sovente si imbattono con i corporativismi delle istituzioni, degli enti locali e dei gruppi di volontariato.
(...) Non c'è un modo di fare giornalismo sociale, c'è una sensibilità individuale che va rispettata, quella stessa soggettività del giornalista che rimane il responsabile primo della notizia che dà e del modo in cui la dà. Rimane indubbio che il giornalismo non è una professione individuale, può sembrare una provocazione, sicuramente lo è. Il giornalismo è, secondo me, il confrontarsi tra giornalisti sul prodotto, la verifica che viene fatta non soltanto del numero di copie vendute dal giornale, dal giudizio più o meno scolastico del direttore, del caposervizio o di chi per loro, ma anche e soprattutto una messa in comune a livello di redazione, una corresponsabilità rispetto al pezzo, nel confrontarsi per dire: "...ma questa situazione come è possibile trattarla nel migliore dei modi?" E' in ultima analisi il non vivere da soli la professione di giornalista (...).

Per il workshop proporrei due momenti, il primo è quello di lavorare sui lanci Ansa, ognuno lavora su un lancio, lo legge e lo rilegge, dà le sue indicazioni su come forse poteva essere altrimenti fatto e poi ne discutiamo insieme, cercando di sintetizzare quelli che sono gli elementi importanti per qualificare il lancio dal punto di vista del giornalismo sociale. La seconda prova, un poco più impegnativa, è la seguente: io vi racconto questa storia, anzi ve la leggo: "Tu non mi comandi, lettera ad un ragazzo che ha vissuto un'esperienza di affido familiare", è un ragazzo che è vissuto 7 anni a casa nostra. L'esperienza raccontata da mia moglie è un'esperienza pesante, cruda, però secondo noi è un modo bello di fare pubblicità all'affidamento familiare. A proposito di affidamento familiare, il 12 e il 13 dicembre si terrà a Reggio Calabria la prima Conferenza Nazionale. Se ne occupa il Ministero della Solidarietà con il Coordinamento "Dalla parte dei bambini" che ha la sede a Lucca, al centro Nazionale del volontariato. Ora facciamo finta che voi siete incaricati in qualche modo non di presentare la conferenza ma di parlare dell'affidamento familiare, a partire da un'esperienza forte, come potrebbe essere questa che sto per raccontarvi, voi provate a fare, chi un pezzo, chi dei lanci d'agenzia ecc. La storia è abbastanza dura, proprio da questo direi che possono venir fuori dei modi diversi di fare giornalismo sociale, che poi confronteremo. Il lavoro può essere fatto, o per sottrazione, cioè togliendo alcune parti che secondo me sembrano non sociali, o per addizione, cioè indicando quei pezzi che mancano, oppure per modifica rispetto a quello che sono le frasi, i contenuti. Pensate anche a ciò che sapete voi rispetto alla privacy, per vedere se è stata rispettata.

Confronto e lettura dei lavori*

Primo intervento

L'articolo a cui faccio riferimento, che riportava tra le altre righe questo piccolo frammento: "...in grado di difendersi mentre l'altro la colpiva e le prime coltellate sono state inferte alla gola" termina dicendo che l'imprenditore, quando è tornato a casa, ha trovato il cadavere della colf riverso sul pavimento tra larghe chiazze di sangue. Non avrei messo né le chiazze di sangue, né che era fisicamente robusta, sono particolari assurdi, anche il fatto che questa è fisicamente robusta, in grado di difendersi...

Secondo intervento

Il mio è: "...madre e figlio in condizioni di povertà tentano suicidio".: si parla di un tentato suicidio di una madre di 62 anni, Assunta D.S. e del figlio Michele di 25 anni, accaduto a Colliano, un paese del salernitano. Il primo dubbio riguarda l'opportunità o meno di dare questa notizia con nome e iniziali del cognome, descrizione dell'appartamento dove vivevano i due, con conseguente facilità di localizzazione precisa, immagino che questo paese sia molto piccolo e che quindi le persone sono facilissimamente individuabili, anzi lo sono già, perché poi, nell'ultimo lancio, ci sono interviste e brevi servizi a vicini di casa. E' evidente che tutto il paese ha saputo la notizia. A parte poi il discorso solito del tentativo di suicidio, qui descritto in maniera dettagliata,nelle modalità in cui è stato tentato (...). Abbiamo la descrizione dettagliata delle modalità, ecc., i nomi facilissimamente rintracciabili, tutte cose che avrei eliminato, anche perché, oltre al discorso del pericolo emulativo, non so che rilevanza possa avere simile notizia, l'unica che posso considerare è che è "la notizia del paese". Nel primo lancio si accenna al discorso delle condizioni di isolamento in cui vivevano queste due persone, del tentativo di nascondere la loro condizione di povertà e nell'ultimo si sottolinea come sembrasse impossibile, a detta di una ragazza che abita nella palazzina di Colliano, che in quella casa non ci fosse nulla da mangiare. Molti preferiscono non parlare di questa storia, cercano invece di sottolineare l'elemento di denuncia, come ha fatto la ragazza ribadendo lo stupore e l'incredibilità del fatto che questi due stessero in una condizione così indigente e nessuno se ne era accorto, prestava soccorso. Questo discorso delle condizioni di indigenza è un'arma a doppio taglio, ho trovato molto poco opportuno descrivere nei particolari che erano costretti a sopravvivere con una pensione di reversibilità di circa 600mila lire, che il frigorifero era vuoto - solo la presenza di una mela e un pezzo di pane raffermo - particolari lesivi della dignità di queste persone. Ora, cosa facciamo? Pubblichiamo il loro tentativo di suicidio per denunciare lo stato di indigenza? Sul fatto che loro si sono suicidati per povertà qui dice: "...oppressi da una condizione di povertà che li costringeva ad una vita di stenti, madre e figlio hanno tentato di comune accordo il suicidio..."; avrei messo un bel "forse" all'inizio, questi sanno perché si sono suicidati?

Coordinatore Stefano Ricci - Comunità di Capodarco*

Questo comunque non è compito del giornalista ma più dello psicologo o dell'assistente sociale. Se comunque il suicidio è un messaggio lanciato, un messaggio in bottiglia lascia qualcosa, poi c'è da vedere chi lo deve raccogliere, chi lo raccoglie e in che senso.

Terzo intervento

In questa storia si parla di un patrigno che avrebbe iniziato a violentare una ragazza da quando lei aveva 9 anni. Abita con la madre della ragazza e con il fratello di lei. Sin dal principio la ragazza dice qualcosa a sua madre e ai suoi parenti che non le credono, solo due zie le credono ma la questione non ha sviluppo, poiché all'epoca (erano passati 3 anni) c'era ancora la vecchia legge e si procedeva per querela di parte...
Della legge si sa perché è stata approvata nel maggio del '96 e poi perché l'Ansa si è data un'autoregolamentazione dicendo che c'è un certo tipo di comportamenti su questi fatti, che qui non vengono assolutamente rispettati. Il primo pezzo va bene, nel secondo, invece, si incomincia a parlare del fidanzato. Si dice "...capelli corti, occhi neri, tutti la ricordano in paese come una bella ragazza, allegra, che amava la vita e soprattutto il suo fidanzato, Francesco...", quel "Francesco" lo eliminerei, il suo fidanzato, punto. E qui è il meno peggio, perché arriviamo all'atto delinquenziale, ad un certo punto arriva il grande inviato che sbatte in prima pagina le seguenti parole: "...è colpa tua, sarai contento perché dopo di me non ti avrà più nessuno, non permetterti di venire al mio funerale...", è il bigliettino che la ragazza lascia sopra la macchina. È terribile l'accusa che Sara Gatti, prima di suicidarsi in una strada di campagna alle porte di Pavia, ha lanciato contro il convivente della madre Pier Alfredo Moroni. Poi il pezzo continua, "...la mamma si chiama Wilma, abita con il fratello Nazzareno..." e poi ancora: "...a quelle accuse avevano creduto due sorelle della madre che vivono a Bereguardo, paese di 200 anime, e che 3 anni fa avevano denunciato una storia di violenze sessuali che la ragazza aveva confidato loro di aver subito dal patrigno da quando ne aveva 9...". Incomincia poi a raccontare l'intera vicenda, parla di un precedente del patrigno, che era stato condannato per furto, che nel '71 un maresciallo l'aveva definito: persona di pessima condotta morale e civile. Continua dicendo che non c'è il guardiapesca Pier Alfredo Moroni al funerale di Sara Gatti...ecc. Non sono d'accordo sul far conoscere i protagonisti di una vicenda, diciamo così, squallida, veramente brutta, raccontare poi i fatti precedenti del Moroni; supponiamo che non sia stato colpevole, intanto che cosa ne facciamo di lui? (...)

Quarto intervento

Il fatto: un litigio molto pesante tra due fidanzati, lei finisce in coma di primo grado perché viene picchiata con bottigliate e una mattonata; si riduce a questo, fondamentalmente. L'autore va a sentire i parenti, addirittura riesce ad avere, non so in che modo, un'agenda su cui i fidanzati si scrivevano le loro frasi d'amore... è allucinante... Sì, gli diranno tutti, sei bravissimo, come hai fatto a beccare quest'agenda? Però, alla fine della fiera, non serve a nulla. Il ragazzo è in fermo di polizia giudiziaria, c'è la solita questione, sta di fatto che lui ha confessato e quindi in quel caso lì ha rischiato forse di far la figura dell'ingenuo secondo i vari sospetti (...). C'è una caduta tremenda di stile quando dice: Massimo Laudenti, 30 anni, detto "Er mongolo" (si poteva evitarlo), e poi ce n'è un'altra dove dice che "la borsa che lui le aveva portato via, per simulare uno scippo, viene ritrovata da una filippina", e qui non è che devi censurarti e non dire "filippina", basta mettere una "signora" filippina, una "ragazza" filippina, già suona meglio. C'è un altro passaggio dove, invece di dire "con precedenti", elenca le date degli stessi, che cosa aveva fatto, il motivo, si sofferma molto su cose successe fino a 4 anni prima. Dell'agenda addirittura riporta delle frasi scritte da Cristina, del tipo: "...ti amo, voglio costruire la mia vita con te ma devi cambiare, alla tua età non è possibile che tu non riesca a diventare più maturo..."; queste sono cose loro, assolutamente loro, discorsi fra innamorati. Non è il giornalista che deve andare ad indagare (...). Non compare il motivo del litigio che, secondo me, è una delle cose fondamentali, uno rischia di morire per un litigio: si vorrebbe almeno sapere il perché. Non scrive cosa i protagonisti fanno nella vita - è meglio non mettere i nomi - ma dire se lavora o no, che tipo di attività svolge, se studia ecc. Insomma, in qualche modo inquadrarlo, identificarlo anche attraverso la professione più che dal nome e cognome può essere in modo per approfondire...

Seconda esperienza - "Tu non mi comandi..." 

E' una storia vera, praticamente figura come una lettera aperta. Sono concentrati 7-8 anni di vita, di un affidamento familiare molto particolare; potete dare il taglio che volete rispetto all'affidamento, alla familiarità, a questa persona, è una storia da raccontare.
"...Il giorno in cui sei arrivato a casa nostra non me lo dimenticherò mai...". Questa è una storia complicata, difficile, dalla quale poi dovete tirar fuori alcuni elementi che vi sembrano importanti (...).

Resoconto della prova*

Primo intervento

Quando era arrivato gli aveva dimostrato tutta la sua diffidenza. "Tu non mi comandi"era stata la prima frase detta da Marco, dieci anni, alla madre affidataria. Ora la chiama tutti i giorni dal reparto psichiatrico in cui è stato ricoverato e ha voluto che andasse a trovarlo, per passare il compleanno insieme ai suoi nuovi amici. Se glielo avessero anticipato solo pochi anni fa, lei non ci avrebbe mai creduto: come si poteva creare un'amicizia con un ragazzo che rifiutava qualsiasi tentativo di dialogo? Eppure qualche segnale lo aveva lanciato, anche se lei, nell'ansia di quei giorni, non aveva avuto il tempo di capirlo. Quando arrivarono gli altri bambini iniziò a giocare con loro e quando lei lo aiutava a nascondere il motorino rubato le era riconoscente, sebbene non lo desse a vedere. È la stessa riconoscenza che hanno mostrato i suoi genitori, che ora sono diventati amici della famiglia affidataria, un altro successo di questa esperienza.

Secondo intervento

Finché si è svolta in casa, questa è una storia di motorini rubati, di ingratitudine, di soldi pescati dalla borsa della mamma. Ma si può chiamare mamma una donna che insieme al marito decide di prendere in affido un bambino? Un bambino di 10 anni che solo un incosciente potrebbe prendere in casa? E quest'incosciente, quando la storia cambia scena e si trasferisce sul letto di un ospedale psichiatrico (di quelli con le cinghie, per intenderci), quest'incosciente piange, dice di provare un senso di colpa per averlo portato tra i matti, eppure proprio tra i matti il ragazzo, che ora di anni ne ha 16, comincia a telefonarle tutti i giorni. A quella stessa donna da lui accusata anni prima di tenerlo solo perché pagata dal Comune, ora lui si rivolge prima di riagganciare con un: "Ciao mamma".

Terzo intervento

La volontà di fare del bene, di aiutare chi ha dei problemi, la voglia di vivere un'esperienza importante non possono essere le uniche fonti generatrici di un affidamento, né tanto meno può essere visto come un mezzo per rafforzare la vita di coppia. Può risultare un'esperienza travagliata, dura, dolorosa, anche se ricca di contenuti. Alla base di questa difficile scelta ci deve essere la volontà forte di dare a chi non ha mai avuto, con la consapevolezza che difficilmente si potrà avere qualcosa in cambio, a parte l'esperienza stessa. Si tratta di dover inglobare nel proprio nucleo familiare bambini più o meno grandi, bambini difficili che hanno alle spalle storie di violenza, di stenti, mancanza di affetto e di garanzie, bambini che non hanno sicurezze, fragili, che diffidano di tutto e tutti, di riportarli alla vita, di farli rinascere, sapendo di non avere molto tempo a disposizione, perché l'affidamento dura solo un breve intervallo. Devi essere consapevole che ti troverai ad affrontare situazioni che ti porteranno a riflettere su chi e cosa te l'ha fatto fare, ma se sai cogliere l'attimo fuggente, il vero senso, il filo rosso che lega tutti gli atti in cui si svolge la storia, allora sì, l'affidamento avrà avuto un significato, un obiettivo e potrai dirti almeno contento.

Quarto intervento

Le coppie affidatarie dovrebbero essere consapevoli delle sofferenze, dei problemi legati alla storia dell'affidato per aiutarlo. In questo senso le famiglie dovrebbero essere tutelate ed appoggiate dalle istituzioni che troppo spesso le lasciano sole.

Quinto intervento

Un'occasione per crescere in apertura e disponibilità, questa l'essenza dell'affido nelle parole di una madre che ha vissuto questa esperienza. Una giovane coppia senza figli si improvvisa nel ruolo di genitori di un bambino di 10 anni. La madre descrive un rapporto complesso, faticoso, a tratti duro e apparentemente ingrato: i ricatti affettivi, i furti in casa, le incomprensioni, gli sbagli, ma anche il grande affetto, l'esclusività del rapporto, la condivisione con la famiglia di origine e poi... vedete voi....

Conclusioni

Coordinatore Stefano Ricci - Comunità di Capodarco*

I lavori sono diversi, abbiamo due storie, abbiamo un commento generale, un altro tipo di commento agganciato ecc.(...).

Intervento

E' venuto fuori proprio quello che forse dovrebbe venir fuori, ovvero la diversità di teste, di approcci, di sensibilità, ognuno poi la sente come vuole (...).

* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.