IV Redattore Sociale 14-16 novembre 1997

Dire, non dire, dire troppo

Raccontare il disagio. Quale comunicazione per le associazioni impegnate sull'emarginazione sociale

Coordina Stefano Trasatti

 

Stefano Trasatti - segretario C.N.C.A.*

La traccia che seguirò ricalca il capitolo su volontariato e comunicazione di un libro del Cnca che verrà pubblicato dalla Carocci Editore, intitolato "Il welfare futuro - Manuale critico del terzo settore". "Manuale critico" perché contiene delle idee critiche, dei giudizi, delle proposte; non è un libro di studio, non ci sono ricerche o dati particolari.
L'informazione sociale è un concetto che a mio parere non esiste. Se per informazione sociale si intende il parlare degli emarginati o di problemi di disagio sociale, allora queste sono notizie che hanno dignità per essere inserite nella normale cronaca, intesa come la redazione più importante e ampia dei giornali; se invece l'informazione sociale è nel senso in cui noi intendiamo "redattore sociale", cioè un'informazione fatta con un atteggiamento del giornalista più rispettoso, che tenga presenti, oltre quelli imposti dalla macchina della comunicazione, anche i fattori citati ieri sera da don Vinicio, allora anche qui bisogna dire che l'informazione del nostro Paese non è sociale. 
Bisogna anche dire che quello dell'informazione sociale è comunque un fenomeno molto recente. Con informazione sociale, infatti, si intende più comunemente quella delle trasmissioni e delle rubriche dedicate al volontariato, le pagine speciali ecc.; ne abbiamo esempi a non finire, che sorgono, si consolidano o muoiono. 
Proviamo dunque ad analizzare l'atteggiamento del volontariato verso l'informazione (intendo qui per volontariato soprattutto le associazioni che operano nel disagio sociale): fino alla metà degli anni '80 avere rapporti con il mondo dell'informazione per queste associazioni era quasi visto come un peccato. Da una parte il mondo dell'informazione era visto con soggezione, dall'altra si aveva paura dei giornalisti, "perché prendono le storie dei nostri ragazzi e le trattano male" e per altri motivi del genere, spesso ampiamente giustificati. Noi sosteniamo che, da questo modo di intendere il rapporto con l'informazione, le associazioni del volontariato devono passare a considerarlo come un investimento. E' questo il passaggio fondamentale che il volontariato oggi dovrebbe compiere. 
Rispetto all'informazione sociale, intesa come programmi e pagine ad hoc (cito tra tante "Il coraggio di vivere", "Droga, che fare" l'inserto, poi chiuso, del quotidiano "La Repubblica", la redazione-società del Giornale Radio-Rai, ugualmente chiusa, le pagine Società dell'Avvenire ecc.), il volontariato ha commesso degli errori; ne ho individuati cinque.
Il primo errore è che il volontariato, questo "nuovo ambito della società", è stato mostrato come un arcipelago appiattito sulle stesse caratteristiche, come se fare il volontario fosse una vocazione uguale per tutti, quindi con le stesse caratteristiche, la bontà, l'altruismo, l'onestà, l'apoliticità soprattutto: il volontariato è apolitico, della politica al volontario non deve interessare. Non sono state fatte emergere le differenze che esistono in questo ambito; per fare due esempi che conosciamo bene, senza entrare nel giudizio delle due persone, don Ciotti e don Gelmini sono stati rappresentati come facenti parte dello stesso mondo: indubbiamente appartengono genericamente al mondo del volontariato, però i loro approcci, la loro filosofia è completamente diversa.
Il secondo errore, che ho chiamato "le trasmissioni con display", è quello di aver avuto troppa indulgenza nel rappresentarsi come coloro che pensano a risolvere i problemi, sgravando così la coscienza del pubblico che dice: meno male che ci sono loro, non sarei mai capace di fare queste cose, ecc. Conseguenza inevitabile sono appunto le trasmissioni con display, che si sono moltiplicate, da Telethon in poi. Senza negare che dietro queste trasmissioni ci sono problemi e drammi sociali rilevantissimi, va detto però che l'effetto culturale è quello di sgravare le coscienze, mentre raramente si riesce a entrare nel perché dei problemi.
Terzo errore è quello di aver lasciato coltivare il culto del leader, del guru. Sono stati individuati leader che avevano diritto di parola sul loro settore e i cui giudizi venivano presi come insindacabili: era come se il mondo dell'informazione abdicasse, in certi casi, alla sua funzione di essere documentato, di conoscere quanto meno a grandi linee il problema, delegando sia la spiegazione tecnica che il giudizio a questi leader.
Quarto errore è quello di aver favorito l'immagine di un volontariato dall'apoliticità ingenua, per non dire un po' babbea. Cito una definizione, che ha tutto un altro contesto, di Umberto Eco sul libro "Apocalittici e integrati": il volontariato è stato rappresentato come il Superman dei fumetti, che nella definizione di Eco è "un eroe superdotato che usa le sue vertiginose possibilità operative per realizzare un ideale di assoluta passività rinunziando ad ogni progetto, diventando l'esempio di una proba coscienza etica sprovvista di ogni dimensione politica". Volontario-Superman cieco, dunque, che rifiuta l'impegno per definizione.
Il quinto ed ultimo errore, forse quello più grave, è aver creato in molti casi nella grande informazione - non parlo della nostra, dei nostri mensili, dei nostri bollettini - con tutte queste rubriche dei ghetti informativi. E' una vecchia storia, in molti casi le nostre realtà hanno diritto di parola solo in questi spazi che sono all'interno di un palinsesto che va in tutt'altra direzione: cito per tutti la vecchia "Cronaca in diretta" di Cecchi Paone, che per prima aveva inglobato "Il coraggio di vivere": quindi andavano per quattro ore i casi che ha mostrato Nicoletti ieri sera, e in mezzo c'era questo spazio in cui venivano fatte delle belle cose, ma il contesto, il palinsesto le vanificava oppure le rendeva un po' penose per noi.

Che cosa fare? A nostro parere la strategia potrebbe essere su più fronti. La prima è quella di avvicinare il giornalismo lontano. Il giornalismo è lontano, c'è una grande distanza tra il mondo dell'informazione e il mondo degli operatori sociali; questa distanza va colmata, la diffidenza va superata. Perché non è sufficiente avere dei giornalisti amici, come dice don Ciotti, occorre che tutti i giornalisti sviluppino una sensibilità, una conoscenza del nostro mondo, ci vuole più contatto.
In questo contesto due sono le cose da fare. La prima è agire sull'emergenza, cioè cercare di prevenire. E' quello che oggi si pensava di fare riguardo il fatto del bambino ucciso a Napoli, con il comunicato in cui il seminario "Redattore sociale" chiede che di questa notizia si dia un'informazione come noi vorremmo. Poi ho appena visto che al Tg1, alla madre del bambino, che non sapeva ancora con certezza che fosse morto, ed era abbastanza tranquilla, la notizia gliel'ha data il giornalista della Rai e la madre si è accasciata. Al Tg3 questa immagine non è stata mandata, non so se per volontà della direttrice o per problemi di tempo. Beh, fatto questo non c'era più niente da prevenire...e il resto dei servizi ve lo potete immaginare.
Per agire su questo fronte bisognerebbe essere molto vigili, sviluppare un potere, un'azione di interdizione continua, cercare di instaurare con il mondo dell'informazione un rapporto continuo in cui si danno suggerimenti, si protesta, ma si cerca di evitare problemi come quelli che ieri sera descriveva don Dante.
L'altra direzione è quella di formare chi informa, ed è quello che come Cnca tentiamo di fare con questa iniziativa. Ma formare l'informazione non è solo fare "Redattore sociale", incontrare i giornalisti, ma è anche fornire all'informazione strumenti per documentarsi. In questi settori del disagio, dell'emarginazione sociale, ma anche dell'impegno sociale in genere, obiezione, banca etica ecc. manca molta documentazione. La nostra opinione è che il volontariato debba realizzare e fornire al mondo dell'informazione strumenti professionali di documentazione.
Ho notato che negli ultimi anni il mondo del volontariato si è dotato di professionalità nuove: per esempio nelle comunità terapeutiche o per minori ha sviluppato delle figure pedagogiche e psicologiche raffinatissime; dunque ha investito nella formazione, nello studio; in queste strutture non ci sono quasi più i volontari e basta, o gli ex tossicodipendenti, ma c'è una professionalità che cresce. Si è formata anche una professionalità molto alta sulla fiscalità sociale, addirittura ossessiva, direi, in certi casi, sulla rendicontazione per i progetti europei, la contabilità, l'Iva, ecc. Sull'informazione ci sono pochissimi tecnici, pochissime persone che hanno nozioni giornalistiche, che conoscono la comunicazione in modo adeguato per poter trattare da pari a pari, quanto meno per "farsi rispettare" nel mondo dell'informazione. Questo è l'altro grande passaggio da fare: l'investimento.

Quanto agli strumenti, senza entrare nel dettaglio, direi che il primo è quello dell'otticadell'ufficio stampa: non l'ufficio stampa, perché le associazioni locali, come la cooperativa "Punto d'incontro", non hanno la possibilità di attrezzare l'ufficio stampa, di pagare un addetto e di fargli fare solo quello, però dovrebbero avere l'ottica dell'ufficio stampa, cioè essere pronte a dialogare con l'informazione, attrezzarsi per essere presenti in modo gestito sui mass-media locali in cui vogliono apparire. E' un'ottica, un atteggiamento.
L'altro strumento possiamo chiamarlo "farsi fonte": non è un concetto nuovo, però per farsi fonte bisogna fare molta attenzione. Prima di tutto occorre essere irreprensibili, perché se si fornisce un dato che non è adeguatamente controllato da noi e il giornalista scopre che non è vero, noi perdiamo tutta la nostra credibilità; quindi bisogna essere ancora più credibili, per esempio, dell'ufficio stampa della Confindustria o della Confcommercio a cui si perdona qualche "bugia", perché si sa che loro agiscono in una logica di lobby. 
Un'altra attenzione da porre è nella gestione delle storie. Noi abbiamo moltissime storie. Ieri sera ho preso due telefonate dalla trasmissione della Sampò, un'altra l'ha presa don Vinicio. La prima volta hanno chiesto un bambino maltrattato con diverse varianti, ieri sera hanno chiesto una donna maltrattata, o in famiglia o dall'amante o qualcosa del genere, insomma, come al supermercato... Nella gestione delle storie bisogna stare molto attenti: intanto dovrebbe essere instaurato un rapporto fiduciario col giornalista prima di dire alcuni particolari, cioè accertarsi che le cose che uno dice vengano usate dal giornalista per comprendere il contesto, per capire quali termini usare e come rappresentare questa notizia. Altrimenti è molto facile andare sui giornali con una storia, ognuno di noi potrebbe stare 30-40 volte all'anno in apertura su un quotidiano.
Altro strumento, più sofisticato, difficile e costoso, è il monitoraggio. Parlo di monitoraggio qualitativo, che non è quello di Radio Radicale o dell'Osservatorio di Pavia, che dice quanti minuti ha parlato D'Alema e quanti Berlusconi senza specificare in quale contesto, e che si presta a tutte le falsificazioni e mistificazioni che poi vengono usate dai politici. Monitoraggio qualitativo significa inserire dei criteri che valutino ad esempio il tono dell'articolo, il tono del titolo, la qualità, il tipo d'immagine utilizzata, la collocazione ecc. Questo è molto complesso, anche perché in Italia non vedo al momento, al di là del volontariato, un'altra componente sociale che abbia l'interesse a fare una cosa del genere; figuratevi se la Confindustria o il sindacato hanno interesse a fare le pulci al giornalismo. Il volontariato potrebbe avere coraggio, soltanto che non ha i soldi: qui infatti si tratta di mettere in piedi le strutture. In America esistono sei associazioni nazionali che monitorano e pubblicano i dati in mensili abbastanza diffusi, dove operano come consulenti persone del calibro di Chomsky. 
Ultimo punto, l'editoria del sociale. Non esiste, che io sappia, una ricerca che ci dica quali consistenze ha e come delimitarla. Nell'annuario Istat, per reperire i titoli delle testate che interessano ad un'eventuale ricerca, bisogna cercare tra sezioni come assistenza, previdenza, assicurazione, periodici parrocchiali, sociologia, psicologia, astrologia, ecc.: le riviste sociali vengono catalogate in questi ambiti...Anche qui bisognerebbe professionalizzare chi ci lavora, migliorare la grafica e i contenuti; è inutile copiare cose prese da altri giornali, bisognerebbe dare contenuti originali, nostri, è inutile riprendere dai grandi giornali l'opinione del grande personaggio, solo perché la condividiamo, nel mensile della nostra associazione. Noi stiamo lanciando l'idea di un'agenzia del sociale, un'agenzia vera che produca dei notiziari quotidiani, che abbia come fonti tutti i periodici del sociale (che dovrebbero essere gli abbonati di questa agenzia) e che a loro volta ricevono anche i servizi dell'agenzia. Intendo un'agenzia con dei professionisti che ci lavorano tutta la settimana e che producono notiziari sul modello delle altre agenzie nazionali Su questo magari torneremo nella discussione.

Antonio D'Alessandro - Associazione Parsec Roma*

Credo che per noi che lavoriamo nel mondo che Stefano ha definito del volontariato, sia arrivato forse il momento dell'astinenza, o il momento della riorganizzazione; dell'organizzare meglio il protagonismo. Abbiamo alcune responsabilità che continuamente alimentiamo. Quando hanno fatto la nuova edizione di "Domenica in", suppongo che la persona che si sia battuta di più per mantenere il suo posto sia stato don Mazzi: questioni di maggiore visibilità (come per qualche rappresentante dell'istituzione). La visibilità dà anche la possibilità, per noi che abbiamo sempre risorse incerte, di avere una continuità anche nell'operatività. Rispetto all'ipotesi professionale, non lo so se dobbiamo veramente metterci nell'ottica di dire che va bene, che questi sono i livelli, la battaglia da giocare è da questo punto di vista ed è qui che dobbiamo attrezzarci. Difficilmente altrimenti riusciremo a far emergere le nostre tematiche etiche, la nostra impostazione in questo mondo dell'informazione che non ha molte differenze; ci sono dei giornali o delle testate che sono più sensibili, ma le uniche che lo sono sicuramente sono quelle di fascia stretta, diciamo per addetti ai lavori, da Aspe a Partecipazione, a Volontariato, piccoli segmenti, piccolissime nicchie che ci leggiamo fra di noi, ma alla fine...
Da quest'anno abbiamo deciso di non fare più nulla, di non avere nessuna collaborazione coi giornali della nostra città. L'ultimo episodio increscioso è stato su una vicenda di Rebibbia, del carcere dove per fortuna quest'estate è arrivato il metadone e dove fino a poco tempo fa c'erano un sacco di persone che stavano molto male e morivano per overdose e non se ne sapeva niente; noi lo sapevamo perché ci lavoriamo dentro al carcere; è venuto da noi un redattore della cronaca romana di un giornale che aveva collaborato quando stava a Genova con San Benedetto al Porto, abbiamo cominciato a ragionare su un'inchiesta su questo tipo di problemi. Discutiamo, e lui fa un primo articolo di apertura, poi dopo due giorni vediamo un suo articolo, pesantissimo, contro i nomadi. Capite, la stessa persona, gli chiedo: "Ma come?" Dice: " ...il capo redattore m'ha detto che dovevo dare questo tipo di taglio...". Dobbiamo essere in qualche modo complici di una disinformazione? A noi che stiamo a Roma è ancora più facile che ci bersaglino di telefonate, perché la Rai ce l'abbiamo lì, sotto casa; per ora abbiamo scelto di non dare risposte e lo scotto pagato è stato e sarà quello di "sparire". Essere più professionali, fare degli investimenti e delle agenzie, questo è quello che dovremmo fare

Maurizio Di Schino - giornalista, libero professionista*

Perché le associazioni non diventano loro stesse degli uffici stampa; non si rendono conto di essere delle fonti? Sono dei buoni informatori perché magari hanno l'amico che scrive, che collabora; potrebbero essere interpellati sul territorio. E ancora, come mai questo non lo si prevede anche nella formazione dei volontari?

Don Dante Clauser

Farò come al mio solito una grande confusione, sono nato così, ascolto con molto interesse tutti questi discorsi, però come in tutti i convegni che riguardano il mondo dell'emarginazione, sento sempre delle grandi assenze. C'è uno slogan che dice che noi "abbiamo lo scopo di dar voce ha chi non ha voce", e su questo credo siamo tutti d'accordo, purtroppo accade sovente di dare una interpretazione sbagliata a questo, come se dovessimo sostituirci a quelli che non sono capaci di parlare, che non hanno il coraggio di parlare, perché non hanno la preparazione culturale e poi magari parlano meglio di noi. Non dobbiamo sostituirci a queste persone, dobbiamo fare in modo che diventino protagonisti, cittadini a pieno titolo. Tempo fa in televisione ho urlato: che differenza c'è fra il presidente della Repubblica e il barbone che dorme in piazza? Come credente dico: nessuna, perché per Iddio non c'è nessuna differenza, ma lo ribadisco anche come cittadino. Questo è lontanissimo dalla mentalità comune, lo dico anche a loro: ricordati che sei cittadino a pieno titolo. Dobbiamo portarli sul piano della lotta, intesa nel senso vero della parola - sia ben chiaro che se non fossi credente sarei un anarchico col mitra in mano. Dire: "Tu non sai parlare, stai lì che vado io e parlo per te", non è il modo per aiutare la gente a crescere. Una cosa che mi sta tremendamente sulle scatole è quando in convegni come questi non vedo mai, dico mai, una persona direttamente interessata. Dove sono i barboni, dove tutte le altre categorie? Non sono mai presenti, siamo sempre noi i protagonisti e allora non devi meravigliarti se all'improvviso saltano fuori 'i carismatici'. Bisogna arrivare al punto di non avere niente da perdere, fregarsene di quello che dicono di noi, nel bene e nel male, avere questo spirito di lotta. Per questo dobbiamo essere persone libere. Cosa ci manca per aiutarli a riacquistare la dignità di cittadini con tutti i diritti e anche con tutti i doveri; forse la grinta o il coraggio?

Diego Marani - IFG di Bologna*

Ho un'impressione, magari mi sbaglio, che ci siano decine, forse centinaia di pubblicazioni su carta, mensili, settimanali, bimensili, dedicati al rispetto del mondo del volontariato e non del sociale. Questi qua vengono quasi tutti venduti per abbonamento o regalati a persone che comunque già conoscono o simpatizzano per l'attività trattata da questi periodici. Il dubbio che mi viene è che queste decine e centinaia di pubblicazioni siano uno spreco di energie, di persone che scrivono e di carta, nel senso che sono indirizzati fondamentalmente a persone che già conoscono questi argomenti. Avevo in mente tre proposte, tre provocazioni. La prima è che, secondo me, con forme di cooperative di giornalisti, anche di piccole cooperative come quelle previste dalle nuove leggi, ci potrebbero essere per ogni città pubblicazioni che parlino delle varie cooperative, associazioni di volontariato locali. Per fare questo è ovvio che le singole cooperative, i singoli gruppi di volontariato dovrebbero rinunciare a fare il proprio piccolo giornalino e mettere i soldi in comune per finanziare 2-3 giornalisti professionisti che facciano una pubblicazione che si rivolga a tutte le varie associazioni di quel territorio. In alcune città si è provato a farlo, in altre invece è prevalsa purtroppo la divisione all'interno del mondo del volontariato. Il problema soldi esiste, perché i giornalisti costano cari e se non si vuole continuare a fare i giornali da volontari o da persone che lo fanno nei ritagli di tempo, bisogna trovare i soldi per pagarli. L'ultima provocazione è sulla questione dell'ufficio stampa. Credo sia possibile che una rete di cooperative come può essere il Cnca (o come tante altre) abbia un consulente esterno che faccia da ufficio stampa. Bisogna inserire degli elementi di professionalità all'interno del volontariato (un po' il discorso sulla formazione dei volontari). L'ufficio stampa ritengo sia fondamentale per pensare con fiducia a persone che siano "volontari" ma anche giornalisti.

Giusy Colmo - Auser*

La nostra è un'associazione nazionale di volontariato che si occupa di anziani. Ho la sensazione che il mestiere che mi ritrovo a fare, quello appunto dell'ufficio stampa, sia più difficile che non farlo in una struttura, in un'organizzazione profit, anche perché, come forse molti di voi noteranno, è un lavoro di alchimie e di mediazioni, di sfumature, di interrogativi continui: fare o non fare, esporsi o non esporsi, ecc.; un continuo mettersi in discussione. Il problema del protagonismo, dell'esigenza di apparire in molte organizzazioni non c'è, in molte altre sì, l'ho ad esempio riscontrato nella mia a livello di dirigenti. Cosa dire, cosa non dire ai giornalisti; bisogna diventare consapevoli del fatto che abbiamo anche una nostra forza, un nostro potere, possiamo influire, incidere, insegnare al giornalista. Quando uno ci telefona, non basta dire "sì"; alla disponibilità che diamo nel fornirgli notizie e nell'essere fonte bisogna aggiungere una specie di momento formativo. Altro punto è il problema dell'editoria e dei bollettini: nella maggior parte dei casi sono soltanto degli House organice, cioè dei bollettini interni a mo' di circolare, perché evidentemente rispondono a delle esigenze interne ed è giusto che ci siano, ciclostilati, fotocopiati, fatti in un certo modo, anche artigianalmente. Il problema è fare il salto, cioè trasformarli in strumenti di informazione anche con un taglio giornalistico, riflettere sul linguaggio, sui contenuti, ecc. Fare il salto, però, il più delle volte significa anche trovare delle risorse finanziarie e non tutte le organizzazioni del volontariato questo se lo possono permettere.

Silvia Bruni - Fondazione Istituto Andrea Devoto - Firenze*

Mi fa piacere che ci sia in questo momento non tanto il porsi in contrapposizione o il fare un'analisi critica di come la stampa si muove nei confronti delle notizie sul disagio, quanto l'analizzare come chi si occupa di questi temi socio-sanitari, poi lavora dal punto di vista informativo. C'è un'estrema frammentazione delle esperienze, penso all'istituzione dei centri di servizio del volontariato, che dovrebbero essere partiti più o meno in molte regioni italiane e che forse potrebbero essere utilizzati, visto che dispongono di fondi. Potremmo, per esempio, riproporre al Centro di Servizio toscano un seminario di formazione già fatto in collaborazione con una radio locale, un progetto di formazione dei volontari all'utilizzazione dei media, oppure pensare ad una figura di ufficio stampa, utilizzare quella prevista all'interno dei servizi del volontariato. Rispetto al protagonismo, sicuramente è vero che spesso il volontariato parla al posto dei protagonisti; le esperienze in questo senso, dei gruppi di autoaiuto, sono un po' diverse: sto pensando, per esempio, ai giornali di strada dei senza dimora, sono un'esperienza culturale importante. Al di là del taglio che hanno, è significativo che esistano giornali fatti e scritti da persone che si trovano a vivere in situazioni di marginalità. C'è una complessità delle problematiche che ci troviamo ad affrontare e che sempre più dobbiamo tenere presente. Molto spesso il volontariato ha lavorato per settori: il settore tossicodipendenze, quello dei minori, il settore del penitenziario, ecc. È vero che c'è questa iperframmentazione, però è anche vero che c'è una forte identità delle singole esperienze, delle singole associazioni che non deve essere dimenticata, può anzi rappresentare una ricchezza. Visto che tutti ci troviamo di fronte all'esigenza di lavorare sempre più in rete, è possibile forse trovare dei momenti di unificazione, non so poi se questo possa bastare per pensare ad un unico giornale. Si tratta, prima di tutto, di dare valore al materiale, raccoglierlo, è un patrimonio culturale sicuramente importante, anche il singolo opuscolo dell'associazione è una trasmissione di sapere che deve esser diffusa. Bisognerebbe tutti insieme cominciare a pensare a momenti di formazione, non soltanto dei giornalisti, ma anche di chi opera nel terzo settore, pensare ad una pubblicazione annuale con il contributo delle varie esperienze, che sia da una parte un annuario, come già ce ne sono, e dall'altra si ponga anche l'obiettivo specifico dell'informazione; creare dei centri, dei servizi, delle rassegne stampa che poi vengano analizzati, cominciare insomma a lavorare, darsi degli obiettivi semplici che non richiedano molti mezzi può essere sicuramente per noi un'esperienza di crescita e formazione.

Giancarlo Mola - Ifg Urbino*

È un po' di tempo che bazzico intorno all'informazione sociale, ho condiviso negli ultimi anni le esperienze de "La terra vista dalla luna" poi chiusa con grande dispiacere. Quell'esperienza mi ha aiutato a capire una cosa importante: c'è una certa tendenza di chi si occupa di informazione e di informazione sociale soprattutto, più che a raccontare il disagio a raccontare chi lavora sul disagio, a raccontare il volontariato. Raccontare se stessi, cadere nel circolo vizioso dell'autoreferenzialità, in un certo senso ci porta a non cercare più dialogo. Rischi di comprare il giornale solo quando parla di te e solo in quel numero in cui si racconta la tua esperienza, c'è una forma di disinteresse nei confronti di tutto quello che fanno e dicono gli altri. Se vogliamo far emergere le soggettività, restituire consapevolezza, dobbiamo stare attenti a separare queste due cose, fare lo sforzo che è uno sforzo difficile per chi si trova un po' dentro, perché l'informazione sociale ha questo di caratteristico: che la distanza che c'è fra il cronista e il fatto di cronaca nera si accorcia terribilmente. Raccontare il disagio significa anche fare lo sforzo di raccontare quel contesto sociale, economico, politico che fa maturare quel tipo di disagio. Tanti giornali sono sì un sintomo di grande vitalità, ma anche incapacità di comunicare in rete, di farlo solo per parlare di sé. Se dobbiamo rispondere a questa offensiva, che è un'offensiva di destra - per dirla papale papale - che viene da un certo mondo (di cui il "Sole 24 ore" è l'esempio più lampante), forse dobbiamo essere capaci di rispondere ad un livello molto più elevato, pensare ad un luogo che può essere rappresentato da un giornale, un'agenzia, un mensile, un settimanale o una televisione, un sito in Internet (le forme della comunicazione sono infinite). C'è bisogno di raccontare il disagio, di raccontare quello che c'è intorno al disagio, anche di informare. Proviamo a fare un piccolo passo indietro, rallentare magari un poco con le pubblicazioni che circolano fra dieci persone, che probabilmente sanno già quello che c'è scritto, perché sono le stesse che hanno fornito le informazioni e proviamo a sforzarci nel fare qualcosa in più. Occorrono delle risorse, una scelta precisa, un passo che si deve affrontare tutti insieme, che probabilmente deve affrontare Capodarco, il Gruppo Abele e tutti gli altri di seguito. Per rompere questa situazione, che diventa sempre più difficile e che tende a marginalizzare chi da sempre con più sincerità opera nel sociale, è necessario rischiare.

Maria Teresa Rosito - Ufficio stampa Fondazione Italiana per il Volontariato*

Mi sono battuta per dire che la partecipazione di giornalisti, in particolare di persone che si occupano di una redazione sociale, era qui fondamentale. Esistono all'interno delle testate giornalistiche le famose redazioni sociali, il problema è vedere la qualità delle persone che ci lavorano. Cosa accade? Molto del mio tempo in fondazione lo dedico alla formazione, a rispondere ai giornalisti che mi chiamano dal "Corriere", dal "Manifesto", dal "Sole", dal "Gazzettino", per chiedermi quanti sono i volontari in Italia. Questa è la domanda classica (non è mica colpa loro), mi sforzo con molta pazienza di spiegare che non è importante sapere quanti sono, quanto conoscere e spiegare il contesto in cui si collocano. Purtroppo verifico poi che se dico che i volontari in Italia, quelli con il sistema criterio di estrazione (per noi è volontario chi si dedica con continuità) sono 500 mila, siccome 500 mila non è una cifra significativa, scriveranno che i volontari sono 4 milioni e io come posso difendermi? O comincio a scrivere le cose e le mando via fax, oppure non rilascio interviste. Che faccio allora come ufficio stampa? Bisogna formare chi comunica con il giornalista: se vado dal parrucchiere non gli devo dire come mi deve lavare i capelli o come mi deve mettere i bigodini, però mi devo saper spiegare, gli devo dire come li voglio i capelli, perché se poi me li fa ricci e invece li voglio lisci la colpa non è sua, è mia. E' fondamentale imparare a comunicare, capire quando effettivamente lo si deve fare; immaginate che cos'è una redazione, arrivano, credo senza esagerare, 300 comunicati stampa al giorno, di questi 300 la maggior parte sono scritti male, lunghi, arraffati, i titoli sono sbagliati, non c'è professionalità. Esistono i coordinamenti - il volontariato singolo non aiuta nessuno - ma il coordinamento aiuta molto, lo vediamo col Forum del Terzo Settore che addirittura ha un ruolo politico, è riuscito a parlare col presidente del Consiglio e a far passare delle questioni di tipo politico finanziario. Perché allora i coordinamenti, Cnca, Anpas, Misericordie, Movi e quant'altro non fanno loro un corso di formazione agli aderenti? Cercare di fare, dove c'è anche una politica comune, un qualcosa che assimili, una formazione di 5-6 persone che a seconda dell'opportunità del momento, della disponibilità anche fisica, vengano intervistate, si potrebbe così far decadere il discorso del leader, che è molto pericoloso. Serve un'alternativa, dare voce ai sottocoordinamenti, essere un po' umili, ci vuole buon senso nel capire cosa bisogna dire e nel dare disponibilità. Ci sono casi poi - senza fare i nomi perché è un gruppo molto importante - che fanno rimanere allibiti: il Tg2 ha chiesto ad un gruppo di volontariato di essere presente in un Tg delle ore 13 (un'audience altissima) per parlare di una situazione particolare, siccome erano solo 2 minuti, non ci sono andati.

Stefano Trasatti - segretario C.N.C.A.*

Volevo sintetizzare e invitarvi a parlare su punti precisi per arrivare alle conclusioni. Da come si è sviluppata la discussione mi sembra che siano due i grossi ambiti di interesse: l'editoria e la comunicazione, il comunicare con gli altri organi di informazione. Sull'editoria c'è la dimensione dell'house organ che non sminuirei, perché un'associazione, grande o piccola che sia, ha il dovere di tenere informati i propri associati, i propri volontari, le famiglie, ed è auspicabile che lo faccia in modo sistematico e una pubblicazione stampata è la cosa migliore. E' importante professionalizzare i contenuti, la grafica, la tiratura, scegliere la carta giusta, è necessario prima però privilegiare i contenuti giornalistici. Ci sono in Italia delle riviste che leggono magari le notizie nella nostra rete di posta elettronica interna, in cui inseriamo dei takes Asca quotidiani sui vari temi e poi pari pari li ripubblicano, e questi mensili vanno tra l'altro agli stessi utenti del Cnca. Le fonti di agenzia sono preziosissime, andrebbero però personalizzate, interpretate e rielaborate, questo è il difficile. L'altro grosso ambito è la comunicazione di tutti i giorni. Due sono le cose su cui operare: uno è il rapporto quotidiano sui fatti che accadono, sull'emergenza; l'altro è quello di far passare la propria versione del fatto, le proprie idee, le proprie interpretazioni, essere protagonisti politici anche del proprio ambito, soprattutto a livello locale. Questi due ambiti hanno un comune denominatore che è la formazione. Occorre formare all'interno della propria editoria chi si occupa di questi giornali, darsi delle professionalità giornalistiche, occorrono investimenti robusti per formare degli operatori di comunità. Dei soldi andrebbero spesi per creare momenti di formazione. Bisogna sapere, a seconda di ciò che si ha da dire, a chi telefonare, avere una rubrica aggiornata, sono piccole cose che chi fa l'ufficio stampa conosce benissimo. Formazione, appunto, al nostro interno e ai giornalisti. Come Cnca chiediamo a tutte le realtà federate di organizzare momenti come questo a livello locale, sarebbe molto semplice; il Trentino c'è riuscito, l'ha fatto anche Vicenza un anno fa, tutto questo sottende naturalmente il concetto che occorre investire più risorse per capire come funziona e per dare all'informazione la giusta dimensione.

Marco Pataccin - La Collina - Reggio Emilia*

Vivo in una casa-alloggio per malati di aids e non sono un volontario ma un professionista malato di aids; sono qua apposta perché mi hanno detto che era il caso di cominciare a fare un ragionamento serio su come si parla dei nostri problemi. Non so quanti di voi sanno che oggi un invalido civile, una persona che una commissione di medici ha certificato incapace di lavorare, percepisce dallo Stato 380 mila lire. Noi lo sappiamo, molti lo sanno, però la gente fuori non lo sa. Quando nelle assemblee denuncio queste cose dicono: ma è scandaloso. È scandaloso che l'Italia non abbia il minimo vitale, perché intanto contraddice la sua Costituzione, e nella Costituzione voi sapete che chi è definito inabile al lavoro ha diritto al mantenimento. Manca una corretta informazione. Faccio un altro esempio: sapete che tutte le più recenti ricerche confermano il fatto che la diffusione della malattia sta avvenendo sempre di più per via eterosessuale; questo perché è accaduto? Perché per lunghissimo tempo è passata un'informazione scorretta, cioè un'informazione che attribuiva la malattia a determinate categorie. Lasciamo stare da dove abbia avuto origine (credo che prima o poi dovrebbero fare un bel mea culpa), sta di fatto che l'informazione, andata avanti per tanto tempo ed in questi termini, ha fatto sì che chi è giovane e non si sente né tossicodipendente né omosessuale dica: "Col cavolo che uso un arnese scomodo come il profilattico". E la malattia va avanti. Bisogna partire da zero, formarci e formare chi ha il ruolo del giornalista, partire dal presupposto fondamentale che un problema sociale è un problema di tutti, poiché se resta un problema di qualcuno non si risolverà mai. La gente deve conoscere, deve provvedere, deve essere la comunità a farsi carico dei problemi. La discriminazione è tra chi vuole cambiare le cose e chi non vuole. C'è il giornalista che fa la cronaca nera, più nera possibile perché vende più copie, e chi invece la fa perché trae significato da una vicenda, fa denuncia, e se ha un po' di zucca arriva anche a fare delle proposte. Avviene anche per il volontariato, c'è anche qui quello che non vuole cambiare le cose, quello fatto di persone che si attivano per la propria coscienza e la propria identità, perché non ne hanno affatto e pensano di sopperire caricandosi dei problemi degli altri. Abbiamo bisogno di aiutare queste persone, mettere al centro colui che è destinatario delle nostre azioni, la persona in stato di bisogno, tanto i volontari quanto i giornalisti devono essere loro gli strumenti.

Paola Cimarelli - Pubblicista*

Mi sono occupata per sette anni di cronaca a livello locale a Fabriano, la mia città. Da un anno mi occupo più che altro di sindacato e di ricerca sociale. Quando sono arrivata, prima al "Corriere Adriatico" poi al "Carlino", il sociale a livello locale era quello degli sfigati, nel senso che non se ne voleva occupare nessuno; siccome a me interessava, ho cominciato pian piano a prendere i contatti. Ovviamente in una città di 30 mila persone questo è molto facile. A livello nazionale e anche a livello locale non c'era coordinamento, tutti avevano le proprie iniziative ma non si sapevano, perché ognuno pensava al suo orticello, ed è ancora così. C'era proprio una disgregazione fra i diversi gruppi, inoltre il contatto non è mai avvenuto da parte dei gruppi del volontariato nei confronti dell'ufficio di corrispondenza. Ho imparato molto da quello che sono riuscita a carpire, ho scritto anche delle stupidaggini - più di una - e per fortuna loro sono stati molto comprensivi, non mi sono giocata i rapporti. Penso che i giornalisti dovrebbero fare un'autocritica. Se il sociale è una cosa che riguarda tutti, tutte le famiglie, molte famiglie, quello che non ho mai capito è perché non debba vendere. Proprio per il fatto che magari in molte famiglie c'è un problema di alcoolismo, di droga, ci sono gli anziani (ce li abbiamo tutti dentro casa), è opportuno non arrendersi. Anche il volontariato non deve abbattersi: coccolateli questi giornalisti, fateli crescere con voi in qualche maniera e sfruttateli (anche questo fa parte del ruolo): quando serve bisogna utilizzarli. Non voglio essere provocatrice in nessun modo, però a questo punto è necessario creare una lobby del sociale, cercare di avere gli stessi strumenti; è ovvio che non ci sono gli stessi soldi, gli stessi obiettivi e principi, non c'è nessun Agnelli, non c'è Merloni, non c'è questa gente potente dietro. E' un discorso di potere, lo so, ma penso che anche nel sociale ce ne voglia.

Maria Luisa Albera - Associazione A77 - Milano*

Sono giornalista, ma soprattutto lavoro nel sociale, pertanto la mia riflessione viene proprio da queste esperienze. I volontari, è vero, devono formarsi, comunicare, rapportarsi con la società esterna, devono però prima di tutto imparare a riflettere. Tanti problemi, malintesi mantenuti nella loro marginalità, sono dovuti all'incapacità o alla difficoltà del volontariato in generale o comunque degli operatori sociali, pubblici e privati, a fermarsi e a riflettere su un problema. L'aids ne è un esempio lampante. Chi è dentro sa bene quanto la riflessione è praticamente inesistente e questo ha voluto significare a livello sociale una cosa ben precisa: abbiamo perso l'occasione e non la riprenderemo più di cambiare un modello culturale che ha creato l'aids nel senso fisico e nel senso metafisico. Propongo la formazione dei volontari nel campo della comunicazione, ma preceduta da una seria indicazione di riflessione del volontariato sui vari problemi. Ho lavorato come giornalista in redazioni difficili, in anni difficili e mi riferisco agli anni del terrorismo, del sindacato: quegli anni li conosco bene, so quanto sia difficile passare delle cose, so anche che tante cose passano perché non vengono viste. Ne ho fatte passare due o tre, che per un pelo mi denunciano, se ne sono accorti dopo averle stampate. Voglio dire che se uno ci crede veramente poi la strada per portare avanti delle idee la trova, il problema è di avercele, queste idee; anche i giornalisti devono imparare a riflettere. In rapporto all'emarginazione ci si limita troppo nel porre il problema della denuncia. Chi fa il giornalista deve credere nella possibilità di dare un minimo contributo a dei cambiamenti verso una società e un vivere migliori: l'obiettivo dell'uomo è la felicità e l'obiettivo della società è permettere che l'uomo sia felice. Facendo il giornalista e rimanendo dentro l'ambito sociale ci si accorge, soprattutto in questi tempi, di quanto sia fondamentale mettere in atto delle strategie, dei percorsi che permettano di affrontare una volta per tutte il discorso del modello culturale dentro cui oggi ci muoviamo. Due anni fa avevamo affrontato il problema dell'audience. Cos'è cambiato? Niente, credo che le cose siano piuttosto peggiorate. Propongo per i volontari una fase di preparazione nella quale però al volontariato non si chieda di fare il tuttologo, un percorso di formazione rispetto alla comunicazione giornalistica dei volontari; e per i giornalisti un momento importante credo sia quello di fare in modo che il giornalismo non sia solo descrizione obiettiva dei fatti e denuncia, ma anche riflessione.

Giulia Cananzi - Messaggero di S. Antonio*

Volevo riflettere su una cosa detta oggi quando si parlava di ignoranza. Trovo che sia il nostro più grande problema sotto certi punti di vista, perché siamo spesso costretti a passare da un problema molto grande ad un altro e non possiamo sapere tutto. E' a questo punto che il volontariato diventa fondamentale per darci delle informazioni che non siano legate a degli interessi, mi spaventerebbe che questa funzione di partecipazione all'informazione venisse meno. Conosco quello che è venuto fuori dai giornali, ma cosa posso dare io di più? Cosa posso ricercare? L'inchiesta sta morendo; quello che dovrebbe essere il nostro fine ultimo, ossia il ricercare ciò che non si vede, l'interessare le persone su fatti particolari, sta venendo meno, anche perché non c'è tempo, perché le fonti sono troppo frammentarie. Le storie sono importanti, se uno non può confrontare il proprio vissuto con la storia di un altro non può neanche entrare nel problema. Spesso la storia non è solo un modo per fare spettacolo, ma è un modo per fare capire dove si vuole arrivare, quali sono i problemi e l'intervista viene usata come una scappatoia, anche in questo ci vuole una spinta etica; devo trovare il tempo, devo trovare la voglia e devo trovare la capacità di oppormi quando qualcuno mi limita dicendo: "Fai in fretta, non c'è tempo". C'è anche la paura di essere manipolati: "Se intervisto questo siamo sicuri che mi darà un'informazione corretta, non di parte che possa nuocere alle persone?" Non penso che il giornalismo sociale non interessi, alcune ricerche recentemente hanno dimostrato che è vero che la gente insegue il fatto, la cronaca succulenta, però alla fine rimane insoddisfatta poiché non trova in quella la possibilità di superare le difficoltà. Il problema aids come dobbiamo affrontarlo, chi lo sta affrontando in modo corretto, a quali persone ci si può rivolgere, le cure che si fanno sono strumentalizzate o meno dalle case farmaceutiche, quali sono le comunità di accoglienza, come posso aiutare una persona che ha questo problema e quali infine sono le problematiche psicologiche? Ad ogni tema corrispondono più o meno i medesimi quesiti; se non siete voi come volontariato ad aiutarci è chiaro che abbiamo molti più problemi.

Gianluca Biscalchin - Nuovo mondo - Anpas*

Volevo condividere con chi si occupa dei giornali e riviste di associazione un disagio che trovo nel mio lavoro. Riguardo la formazione di chi si occupa delle riviste sarebbe anche auspicabile quella dei dirigenti delle associazioni, spesso manca da parte della dirigenza, soprattutto in organizzazioni grandi e molto articolate come la nostra (dove c'è tutta una serie di piani, livelli e strati burocratici), una sensibilità all'informazione che si trasforma in protagonismo. C'è da una parte la voglia di apparire a tutti i costi sui mezzi di comunicazione, dall'altra l'incapacità di saperli usare e la pretesa - e qui è il mio disagio - dalle persone che stanno in mezzo, di mediare le due cose. Un'ulteriore aggravante è che la nostra rivista venga letta poco perché c'è una difficoltà, per chi si occupa della diffusione di questi organi di stampa all'interno delle associazioni, di trovare un linguaggio, un modo di comunicare che sia comprensibile anche per i volontari. Si vogliono fare delle riviste che volino in alto, che affrontino i grandi temi del volontariato, però allo stesso tempo si rischia la chiusura dentro la scatola delle proprie organizzazioni. Ho l'impressione, sia per la mia rivista (faccio un'autocritica pazzesca) ma anche per altre pubblicazioni, che manchino in qualche modo gli obiettivi di comunicare all'interno con i propri volontari e di collaborare, partecipare ad un dibattito più ampio che riguardi il mondo del volontariato. L'idea di un'agenzia stampa o addirittura di un ufficio stampa che serva a coordinare, ad aiutare le varie realtà mi sembra ottima, voglio sperare pertanto che abbia un seguito.

Marco Damilano - Segnosette*

La comunicazione diventa lo strumento con cui far passare determinati messaggi per incidere sulla realtà sociale, politica, economica di questo Paese, senza ritirarsi in una spirale autoreferenziale; stare a parlare solo delle proprie cose e avere la tentazione di rappresentare la corporazione degli sfigati che spesso è un problema molto più ampio della comunicazione e riguarda il modo di rapportarsi delle organizzazioni del terzo settore con la realtà politica. Mi occupo di politica interna e mi è capitato di seguire tutto l'iter con cui le associazioni di volontariato si sono rapportate al lavoro della Commissione Bicamerale; era una sensazione di disagio pazzesca, forse non tutti sanno che queste associazioni sono state anche ricevute una mattina dalla Commissione Bicamerale, ora uno si aspetterebbe che arrivino da loro richieste di interesse generale e invece ci si limita troppo spesso alle pagliuzze dei propri occhi. Non dovrebbe il nostro mondo essere investito della responsabilità di rappresentare tutti e in particolare quelli che sono meno uguali degli altri? Insieme ad una collega, dovendo lavorare ad un incontro nazionale dell'Azione Cattolica come ufficio stampa, abbiamo vissuto una vicenda fantozziana con il direttore di un giornale di Roma, che ci ha chiamato e ci ha detto: "vogliamo aprire le nostre pagine al mondo dell'associazionismo, al mondo cattolico, alle parrocchie". Sostanzialmente voleva dare una pagina di nicchia, che poi veniva affidata magari ad un giornalista che non sapeva chi è Rita Borsellino o chi è il premio Nobel per la pace. Non serve a niente avere la pagina sull'associazione che si occupa degli immigrati se poi in prima pagina c'è il titolo "L'invasione dei curdi" perché magari ne sono sbarcati 150 (una cifra che il direttore di quel giornale considererebbe fallimento se si presentasse a fare una cosa in pubblico e trovasse il teatro con 150 persone); però dei curdi diventa l'invasione, si rischia di lasciare che le parole d'ordine le facciano sempre gli altri, ed è un pericolo quando sono parole d'ordine come razzismo, secessione, chiusura all'altro, paura, diffidenza. Bisogna incidere sul contesto, essere sempre in grado di inserire anche l'iniziativa più minuscola se merita di essere raccontata: agire localmente, pensare globalmente.

Chiara Calzavara - Ufficio Stampa del Ministro della Solidarietà Sociale*

Nell'ottica degli uffici stampa è importante cercare di dare con la maggior disponibilità possibile l'informazione, anche se il giornalista che se ne occupa è una capra riguardo all'argomento. Può essere un modo di entrare nelle pagine del giornale, fare informazione e magari dare una opportunità, un momento di crescita e conoscenza anche a quel giornalista. La funzione dell'ufficio stampa è anche quella di spiegare, di rendere disponibili queste cose. E' una soddisfazione poi se la notizia che esce è corretta almeno su un giornale.

Don Dante Clauser*

Signori giornalisti, signori operatori e quanti vi occupate di queste cose, vi domando soltanto una cosa estremamente semplice, per la quale combatto da anni senza riuscire a vincere: perché non cominciate con l'abolire le parole inglesi che la nostra gente non capisce? Quando uno dei miei barboni mi dice OK, gli dico: sei diventato stupido? In italiano si dice: va bene. Perché non dire Stato sociale invece che quel "bau, bau", che non so cosa vuol dire? Cominciate col fare queste cose. Certe volte la vita è fatta di stupidaggini, questo lo dico a mo' di esempio, ma per favore smettetela di infarcire i vostri articoli e i vostri discorsi. Parlare in questo modo, alla nostra gente, ai nostri emarginati vuol dire farli voltare e andare da un'altra parte. Dobbiamo adottare un linguaggio più semplice e i giornalisti di linguaggio semplice non ne vogliono sapere, perché vogliono darsi importanza.

Stefano Trasatti - segretario C.N.C.A.*

Non siamo, è vero, i rivoluzionari che cambieranno il mondo in questo settore, siamo però all'anno zero e bisogna cominciare da quel pochissimo che abbiamo e fare le cose sul serio. Continuare a ripeterci: bisogna far venire i direttori, i capi redattori, ecc. Voglio raccontarvi allora come avviene l'organizzazione di "Redattore Sociale". Da quest'anno l'Ordine dei giornalisti ne ha assunto la cotitolarità, è una cosa impegnativa; anche l'Usigrai ha creduto in questa cosa, ogni mattina 1.300 giornalisti rai accendono il loro computer e vedono "Redattore Sociale". L'Ordine dei giornalisti ha mandato una lettera personale nominativa ai direttori di una sessantina delle più grandi testate, io ho mandato con riferimento a quella il programma definitivo, solo due quotidiani hanno chiamato: "La gazzetta del mezzogiorno" che non ha mandato poi nessuno, ma che almeno si è interessata e il "Corriere della sera" che doveva mandare una persona della redazione e poi non è venuta perché obiettivamente ci sono impegni di lavoro e non è facile stare qui tre giorni (pensiamo a tal proposito di esportarlo in loco, magari di farlo a Roma, a Torino e a Milano in un'unica giornata). Questo per dirvi che è difficilissimo far smuovere, non dico i capi redattori, ma i capi servizio, i redattori ordinari, quelli che lavorano lì a tempo pieno. Vincente è stata invece l'idea di coinvolgere le scuole di giornalismo, quelle che faranno i disoccupati del domani (professionisti però!), ci chiamano, partecipano e alla fine escono anche delle cose fatte bene. E' un lavoro sfiancante e per ora va fatto con i mezzi che abbiamo a disposizione; la speranza è che un giorno l'Ordine creda sul serio ad iniziative di questo genere.

Laura Menestrina*

Frequento il corso per diploma di servizio sociale e vorrei fare una tesi sul rapporto tra servizio sociale e mass-media. Sono qui per trovare un po' di spunti e materiale. Quello che mi interessa è capire innanzi tutto se c'è una possibilità di collaborazione con i giornalisti, e che cosa si può fare per migliorare la comunicazione? Ci insegnano a scuola ad agire. L'assistente sociale dovrebbe agire nella comunità, essere quella che la potenzia, ne vede le risorse e fa sì che i problemi sociali vengano affrontati da tutti. Il giornale può essere un mezzo per sensibilizzare, migliorare la comunicazione. Mentre per la cronaca nera ci sono fonti sicure, dove si vanno sempre a prendere notizie dalla polizia ai vigili, ecc., per le notizie sociali è un po' il singolo giornalista a muoversi. Si dovrebbe reciprocamente comprendere, condividere gli obiettivi e collaborare. Evitare che escano articoli che parlino in modo poco chiaro del sociale e di chi ci investe tempo e risorse. Sappiamo bene quanto sia facile influenzare l'opinione della gente, soprattutto di quanti non hanno voglia di indagare, approfondire; c'è il rischio che uno legge e butta giù un giudizio affrettato e in quel modo comincia a pensare, comincia anche ad atteggiarsi nei confronti del problema sociale e nei confronti delle istituzioni.

Stefano Trasatti - segretario C.N.C.A.*

Quando facevo il giornalista locale di cronaca nera ho fatto anch'io dei grossi errori, è difficile sviluppare una sensibilità vera al di là di quella che uno crede di avere. Una delle cose che mi hanno portato a cambiare mestiere è stato il rapporto che avevo con una responsabile di un Ser.T. (servizio tossicodipendenze), con la quale ero già amico da prima e con la quale parlavamo in modo molto confidenziale dei casi singoli, dei casi personali. Mi ha fatto capire il vantaggio che avevo come giornalista rispetto a tutti gli altri che criticavo, mi ha consentito di conoscere dal di dentro le vere storie, il vero contesto. Lì è nata l'idea di lavorare, avvicinare il mondo degli operatori sociali a quello di chi lavora nell'informazione, investire su questa, superare le diffidenze, senza però pretendere uno sviluppo e una sensibilità a comando.

* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.