VIII Redattore Sociale 30 novembre 1-2 dicembre 2001

Nebbia

Resoconto dei workshop tematici

Ivano Liberati, Sivia Montecchi, Vinicio Albanesi

 

Ivano Liberati, giornalista del Giornale Radio Rai*

Abbiamo affrontato molti argomenti in merito alla Cooperazione Internazionale. Da qualcuno è arrivata anche una richiesta: potevate forse parlare un po' di più di come si dovrebbe fare comunicazione sociale! Una richiesta assolutamente legittima, anche se forse non era il titolo specifico di questo workshop. Di come fare comunicazione sociale abbiamo parlato qui almeno per otto anni. Questo è l'ottavo anno che vengo, probabilmente questo argomento meritava un approfondimento e magari mi prendo io la responsabilità di non averlo sviluppato abbastanza. Siamo partiti facendo una riflessione nata dopo la marcia Perugia-Assisi. Io ho detto che secondo me quel giorno era morto il pacifismo cattolico per una serie di motivi, perché quella domenica mattina del 14 ottobre nessuno ha fatto riferimento a quello che stava accadendo, né il Papa durante il Santa Messa, né l'Osservatore Romano che ha completamente censurato l'argomento, neanche al Vinile che lo ha fatto solo per ospitare l'intervista ad uno storico cattolico che si chiedeva: ma che stiamo facendo? Sventolare bandierine quando ci sono migliaia di vittime, anzi milioni di vite? Però oltre ad essere passata sotto silenzio questa cosa, che ovviamente è una considerazione del tutto personale, sono passate sotto silenzio una serie di altre cose molto importanti, perché in quei giorni sono stati approvati dei documenti molto importanti, con delle proposte molto concrete. Una di queste proposte, approvata proprio dalla tavola della pace, era di portare allo 0,7% la quota del Pil che i paesi ricchi destinano a quelli poveri, quindi superare la logica dell'emergenza e fare in modo di aumentare, di dare più fondi alla cooperazione internazionale. Qualcuno si era anche proposto un obiettivo ambizioso dicendo: forse la cooperazione internazionale può essere uno strumento per prevenire e risolvere i conflitti internazionali. Forse, se si vuole parlare di un'alternativa valida, seria, efficace alla guerra, quando ci sono da risolvere le crisi internazionali, probabilmente la cooperazione internazionale può essere vista come uno strumento serio e efficace che al di là degli slogan può servire... Ovviamente alla fine c'è un punto di domanda. Abbiamo messo in evidenza la differenza tra cooperazione internazionale fatta dalle grandi e ricche agenzie delle Nazioni Unite, come l'Unicef, come l'UNHCR, il programma alimentare mondiale e la cooperazione portata avanti invece dalle cooperazioni non governative, che almeno in Italia sono circa 200. Lei ha detto che non c'è una grande differenza, perché poi in realtà chi conta sono le persone, sono gli uomini. Secondo alcuni, invece, non è così, perché c'è proprio una differenza di obiettivi e anche soprattutto di strutture. Certo, le Ong per quanto grandi, non possono permettersi i mezzi che hanno le grandi agenzie delle Nazioni Unite. Detto questo siamo passati ad analizzare una serie di cose. Io, un po' provocatoriamente, ho letto alcune pagine del libro di Silvia Montevecchi "Il sogno ostinato", dove si fa una dura requisitoria, un atto di accusa verso alcuni comportamenti degeneranti di chi lavora nelle Ong, nella cooperazione e questo ha scatenato un po' di dibattito. In realtà non si voleva dire che il mondo della cooperazione è un mondo che fa schifo, dove c'è gente che spende i soldi dei progetti per andare con le prostitute. Era solamente una provocazione, un modo di alimentare il dibattito, perché noi affrontiamo l'argomento in modo laico, non stiamo qui a santificare il lavoro di chi fa cooperazione internazionale, però probabilmente, come tutte le cose della vita, c'è chi lo fa seriamente e chi lo fa meno seriamente. Anche per questo io le ho detto: se tu hai conosciuto alcuni di questi casi perché non li hai denunciati? Perché se tu hai conosciuto qualcuno che si è preso i soldi di un progetto per andare con prostitute, quello è un reato. Poi abbiamo affrontato un argomento che forse per me è il più importante, parlo ovviamente anche qui a titolo puramente personale e si tratta della differenza che c'è tra l'emergenza e la cooperazione allo sviluppo, o meglio tra cooperazione straordinaria e quella ordinaria. La cooperazione diciamo straordinaria, la cooperazione per l'emergenza è un tipo di cooperazione tutto sommato che fa notizia, è un tipo di cooperazione che riesce ad andare sui grandi mezzi di comunicazione di massa. Chi non conosce Emergency? Certo, con la guerra in Afghanistan, con Gino Strada che è il primo operatore umanitario che riesce ad arrivare a Kabul, Emergency non ha difficoltà ad andare in televisione e sui giornali, non ha neanche difficoltà a procurarsi i soldi, infatti fa campagne ricchissime su tutti i mezzi d'informazione. Una cosa giusta, ci mancherebbe altro, però l'emergenza è emergenza, serve a mettere delle toppe, a otturare delle falle, poi il problema resta. Chi invece si occupa di cooperazione allo sviluppo, cioè la cooperazione ordinaria, cooperazione fatta di progetti di lungo periodo, ha difficoltà a trovare soldi, ha difficoltà a farsi conoscere, perché sono cose che, se danno risultati, ciò avviene dopo molto tempo. In questo caso è difficile far passare il messaggio e credo che ci sia qualche responsabilità nostra, come giornalisti, che non riusciamo a cogliere quella che è la sostanza delle cose. Forse c'è anche responsabilità da parte degli uffici stampa quando ci sono, di Ong o agenzie delle Nazioni Unite, che forse non riescono a far arrivare nel modo giusto i messaggi. Non è un caso che la maggior parte dei fax che mi arrivano, nella redazione "cronaca" del giornale radio, spesso finiscono appallottolati dentro il cestino. Parlo di fax ovviamente che arrivano dalle varie associazioni no profit e così via, perché evidentemente i comunicati sono scritti male. Forse sarebbe opportuno fare un corso di comunicazione per chi opera nelle organizzazioni del terzo settore, nel mondo più variegato del volontariato e della cooperazione. Forse il modo per attrarre l'attenzione deve essere un altro. Evidentemente c'è pigrizia da parte nostra, c'è anche una carenza, ci sono delle tare da parte di chi fa questo mestiere, non riesce a prendere da questo grande lago di notizie, che pure arrivano, quello che poi può essere utile far conoscere alla gente. Da qui io avevo colto lo spunto per fare a Silvia una domanda finale, che poi non era, non voleva ovviamente essere una sua testimonianza di carattere personale, semplicemente voleva essere un modo per approfondire un argomento che a mio avviso è ancora più importante. Lei ha lavorato in molti paesi dell'Africa, lo ripeto per chi non ha partecipato al seminario, due anni in Burundi, ha lavorato sia con organizzazioni non governative, sia con l'Unicef, quindi un'agenzia dell'Onu. E ha lavorato forse in uno dei settori meno appetibili sul piano della comunicazione, che è quello dell'educazione dei bambini e della formazione degli insegnanti. Lo dico perché all'interno della cooperazione allo sviluppo, quando si costruisce un pozzo, dopo 1 mese o 2 mesi si vede. Se si lavora a...che so io... a dei corsi, magari per formare dei contadini poveri, dopo un po' i risultati si possono vedere, perché i raccolti ci sono, crescono. Nel caso di progetti di educazione e formazione per gli insegnanti con un approccio puramente pedagogico, i risultati si vedono dopo molti anni, quando magari chi ha avviato questi progetti è già tornato a casa. Io avevo chiuso questo a Silvia: sei tornata a casa dopo questi due anni in Burundi, frustrata oppure contenta? Se riuscissimo a concludere con la risposta a questa domanda.

Silvia Montevecchi, pedagogista*

Sì, perché poi non c'era stato tempo. La risposta è variegata visto che penso che più o meno come in ogni cosa, ci sono gli aspetti per cui si è contenti e quelli per cui lo si è meno. Stamattina non abbiamo avuto il tempo di parlare di un tipo di cooperazione educativa e culturale di cui ci sarebbe bisogno. E' una delle considerazioni che mi hanno forse fatto tornare a casa meno contenta: se vuoi verificare che si spende così poco in questo tipo di progetti, che dovrebbero essere invece quelli che potrebbero cambiare le cose. Bisognerebbe indagare, pungolare, cioè capire perché tra i tanti progetti che si fanno nel mondo di cooperazione e di aiuto umanitario, ce ne sono così pochi, viene spesa una percentuale così minima in quello che è l'aiuto educativo, per non parlare di quello che è poi l'aiuto culturale. Io ho trovato solo piccolissime situazioni di aiuti in ambito culturale. Per esempio non vengono spesi soldi per fare pubblicazioni nelle lingue locali, questo è un problema enorme, già c'è il problema delle scuole, che nei paesi poveri sono poche, gli insegnanti non ci sono perché sono pagati solo poche ore alla settimana. Le scuole sono poche, in Africa, in tanti paesi poveri esiste il grande problema dell'analfabetismo di ritorno, perché non c'è niente da leggere, perché le persone poi anche se imparano a leggere e scrivere, non hanno nulla da leggere e quasi lo dimenticano. Di questo non si parla, non c'è nessuno che investe in queste cose. Io lavoro in campo educativo e su queste cose mi ci scontro e ci sto anche male devo dire. Continuano a spendere in salute, in pozzi per l'acqua, nell'emergenza, però comunque per far cambiare strutturalmente le cose ancora si spende poco. Sarebbero questi gli argomenti su cui pungolare anche attraverso l'informazione, perché secondo me non è un caso se non s'investe in questi aspetti. Qualcuno stamattina sosteneva che in qualche modo esistono delle non volontà di cambiamento e credo che ciò sia davvero fondato.

Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco*

Silvia ha dato la testimonianza che non bisogna investire solo in emergenza, ma anche in educazione allo sviluppo. Non avete trattato molto il tema che riguarda come si comunica a questi mondi. Avete accennato che parte della responsabilità è degli strumenti di comunicazione e parte di chi non sa comunicare. Ho riassunto bene? Passo la parola a Lucia Nencioni per "Adolescenti in famiglia". C'è in sala la presidente del tribunale per i minorenni di Ancona la dott.ssa Luisanna Del Conte. Non la sottovalutate perché un presidente di un tribunale per i minorenni conta! Ci ha detto che è venuta ad ascoltare, poi, si può permettere anche di intervenire...

Resoconto workshop*

Adolescenti e famiglia: incomunicabilità o conflitto?

Lucia Nencioni 

Noi abbiamo parlato di adolescenti e famiglia. C'è un grande problema educativo, c'è un disagio, un malessere diffuso tra gli adolescenti che sono oggetto di forte pressione sociale, fra modelli devianti e alienanti vari, mondi virtuali, ecc. C'è smarrimento, mancanza di motivazione. Questa è una serie di problematiche che sono venute fuori dai vari contributi. Per dire come poi si è collocato lo scambio cito due titoli di libri che per me sono stati utili ad entrare nel merito dell'argomento. Uno è "La famiglia in bilico", è un libro di Di Stefano che è appena uscito, ci sono delle belle storie interessanti di famiglie italiane, fotografa alcune famiglie italiane. L'altro è "I bambini inventati", di Roberto Volpi, ovvero la drammatizzazione dell'infanzia nell'Italia di oggi. Fra questi due titoli si è svolto un po' lo scambio di stamani e vedo una serie di riferimenti su cui è importante riflettere, perché in mezzo ci sta molto il ruolo della comunicazione. La famiglia è sicuramente in bilico, perché appunto non sa più come educare, i genitori che non sanno assumere il ruolo educativo, non sanno gestire i conflitti, non sanno educare ai sentimenti, quindi problemi reali, oggettivi, insomma, di un'incapacità di trasmettere valori. Però è anche una famiglia molto sovraccarica di ansie, di colpe, di un senso di allarme, di pericolo che, credetemi, in Italia, per i bambini italiani io non vedo, che per lo meno non emerge dalla quantificazione dei fenomeni misurati con numeri reali. Ci sono confronti, statistiche, analisi e numeri che vengono da fonti ufficiali. Non sono qui per portare una posizione governativa, però dall'osservatorio che noi portiamo avanti dal '97, come centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza a Firenze, che è appunto un'emanazione del dipartimento affari sociali, il quadro dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia non è così drammatico. Ci sono i problemi, ma l'enfasi di allarme è alimentato in gran parte da come i media parlano di bambini e ragazzi in Italia. Questo allarme eccessivo fa molta confusione, crea smarrimento nelle famiglie e non aiuta a mettere a fuoco quelli che sono poi i problemi reali e quindi anche eventuali interventi, atteggiamenti. Questa drammatizzazione ha avuto degli episodi clamorosi, che sono stati citati anche ieri. Redattore Sociale è stata l'unica agenzia che ha ripreso una nota improvvisata, se volete, che abbiamo fatto sull'onda anche di una frase "non ne possiamo più", dopo che è uscito il rappoto Eurispes ultimo. Un volumone così, dove non metto in dubbio la buona volontà di chi l'ha messo insieme, però non solo non c'è nessuna informazione sulla validità scientifica del campionamento da cui son stati presi i dati, ma anche urla ed enfatizza dei dati che se poi li guardi da un'altra parte non sono affatto da urlare. I giornali sono usciti con "due minori abusati al giorno in Italia". Bene. Andiamo a misurare quanti sono, ammesso che lo siano, a parte sono 1,4.sono lo 0,0061% del totale dei bambini italiani di quella fascia d'età, quindi sono valori che non giustificano un'allarme. Su questo tema su cui io sto lavorando da oltre un anno, devo dire che finalmente dei colleghi bravi, perché nel mio giornale ci sono molti colleghi bravi, non sono tutti cialtroni, tutti superficiali, o tutti semplicemente occupati a curare la propria carriera ma dei colleghi attenti, in realtà stanno cercando una misura di lettura del fenomeno un pochino più attinente alla realtà. In questa immagine drammatizzata, enfatizzata, di pericolo, di dramma, insomma, che incombe perennemente sul bambino, che poi induce la famiglia a comportamenti iperprotettivi che vanno assolutamente contro prospettive educative di autonomia dei ragazzi e quindi sono assolutamente controproducenti, in tutto questo un contributo importante è venuto dall'esperienza di Rimini di questo laboratorio per l'educazione ai mass media. Lo ha messo su la provincia di Rimini e parla di come fanno, da anni, un lavoro per far osservare ai ragazzi l'immagine che i media danno di loro. Viene fuori che nessun ragazzo ci si riconosce. Né nei bambini che loro han chiamato urlati, bambini e ragazzi, né nei bambini patinati: c'è una normalità, c'è una via di mezzo dove non mancano i problemi ma non sono quelli che emergono dai giornali. A proposito di problemi, uno importante che veniva fuori, per esempio, era una grande carenza nell'ambito dell'educazione ai sentimenti, educazione alle emozioni. È un terreno esplosivo in cui i genitori non sanno più cosa dire, perché magari non maneggiano le proprie di emozioni, non sanno come rapportarsi alla propria sessualità, alla propria capacità di sentimenti e quindi fanno fatica a rapportarsi coi figli. Tendono a delegare, magari allo psicologo o all'educatore, all'insegnante quando l'insegnante c'è ed è in grado, ha la struttura umana, culturale, morale sufficiente per reggere un rapporto significativo con i suoi allievi. Questa educazione ai sentimenti è una cosa citata in più parti e che rimanda anche a un problema importante, per dare una giusta misura ai ragazzi, altrimenti hanno come sistema di riferimento la moda, i modelli di un certo tipo, magari le fiction... In questo terreno di rapporti fra adolescenti e famiglia, la comunicazione può avere un ruolo molto importante. Può far sì che dall'immagine mediatica esca qualcosa di positivo per queste famiglie e per questi ragazzi, quindi non solo storie negative. Se è possibile, quando c'è spazio nei giornali, nelle televisioni o radio, raccontiamo storie positive, raccontiamo di una normalità dove tanti lavorano, quindi operatori, servizi, i servizi che funzionano, famiglie che funzionano e per far questo ovviamente la responsabilità non può gravare solo sulle spalle già molto oberate di chi lavora dentro i media. Anche qui si torna alla problematica di far diventare fonte di notizie chi è più capace di conoscere meglio i fenomeni e le condizioni di vita degli adolescenti, quindi creare canali di comunicazione, far arrivare notizie più esatte e meno allarmistiche. Tutto questo potrà dare una mano alle famiglie, a educare un pochino più serenamente... e potrà riportare i problemi in una loro dimensione più reale, perché poi i bambini stanno male in altri mondi. Nei nostri stanno male per altri motivi, ma allora andiamo a vedere quali sono quelli veri.

Vinicio Albanesi - Sacerdote, presidente Comunità Capodarco*

Umberto di Maria - Giornalista, tra i fondatori del mensile "Terre di Mezzo"*

Marilisa Monaco - Capoufficio stampa Nidil Cigl*

Abbiamo presentato una scaletta condotta soprattutto da Marilisa Monaco di cui sottolineo l'importanza della presenza. E' la persona che segue la comunicazione per il CGIL Nidil. La scaletta si è aperta affrontando i luoghi comuni sui lavoratori flessibili: se davvero la flessibilità ha creato occupazione, se davvero sono ricchi o se davvero sono poveri, se è giusto chiamarli precari. Abbiamo poi puntualizzato, secondo i dati le ricerche del Nidil presentati da Marilisa, di che cosa esattamente parliamo, quando parliamo di nuove flessibilità di lavoro... Lei è stata bravissima a sintetizzare dati di ricerche che troverete disponibili nella corposa e dispendiosissima dispensa che è disponibile presso la segreteria. È un tomo, credo unico, nella raccolta di questi dati e inviterei il Cnca a farne tesoro. Abbiamo fatto il punto sull'attualità del problema delle nuove flessibilità, vale a dire che cosa manca. Abbiamo parlato del libro bianco di Maroni, abbiamo parlato delle iniziative che si stanno svolgendo proprio a proposito delle nuove flessibilità. Sono state molte le domande. Alla fine abbiamo utilizzato un po' di provocazioni e fatto il punto. Abbiamo detto che sono necessari nuovi linguaggi per parlare, per fare informazione sulle nuove flessibilità del lavoro, perché molto spesso il giornalista si delega a frasi fatte, o a slogan tipo "no global", piuttosto che "il popolo del 10%", una serie di impliciti che richiederebbero uno sforzo di comprensione e di competenza davvero arduo. Parlare di nuove flessibilità di lavoro vuol dire entrare all'interno delle organizzazioni che stanno cambiando e che sono refrattarie di per sé all'informazione. Vuol dire scardinare i luoghi chiusi, però vuol dire anche capire che sono cambiati i modi del lavoro, sono cambiati i luoghi del lavoro e sono aumentati i soggetti del lavoro. Parlare di nuove flessibilità e fare informazione sulle nuove flessibilità vuole dire avere la pazienza di ripercorrere i fili rossi che alle volte davvero sono scoperti e nessuno ce li può spiegare se non rare persone come Marilisa e pochi altri. Ci sono una serie di provocazioni che ho lanciato, ad esempio il fatto che, a mio parere, se davvero il lavoro è inteso come qualsiasi forma di utilità economica, vanno indagati dal punto di vista dell'informazione, tutti i lavoratori di cambiamento sociale, come ad esempio le banche del tempo. Vuol dire che il tempo, come unità di misura, viene scambiato. E' una forma di lavoro che viene scambiata. Un'altra cosa importante che è stata sottolineata è la crisi della rappresentanza sindacale. Le nuove forme di lavoro scardinano stereotipi antichi, forti della rappresentanza sindacale in Italia, da un lato perché cambiano i luoghi della rappresentanza, da un lato perché cambiano i rappresentanti. Abbiamo portato gli esempi dei nuovi delegati sindacali dei lavoratori interinali. Abbiamo parlato delle loro difficoltà, abbiamo soprattutto sottolineato che esistono, abbiamo detto che anche la flessibilità è uno slogan che non appartiene a tutte le categorie del lavoro, che ad esempio è un dato di fatto che un certo tipo di sedimentazione della competenza dei lavoratori, soprattutto degli operai, mal si concilia con le forme di flessibilità che vedono presenti per pochi giorni operai nei luoghi di lavoro. C'è un pezzo del lavoro duro, del lavoro in fabbrica che non si concilia con la flessibilità e di cui non ne fa parte. Un altro aspetto importante era l'avere identificato che grazie alle esterizzazioni e alle nuove forme di lavoro si sono creati sul mercato del lavoro altri soggetti rispetto alla domanda e all'offerta cui normalmente siamo abituati. Con la presenza di società del lavoro interinale si è creato un terzo soggetto che, di fatto, ha introdotto la vendita della forza lavoro. Da un punto di vista dell'informazione sul lavoro, è sicuramente un aspetto importante su cui formarsi, su cui avere competenze. Vorrei approfittare di queste conclusioni per avanzare una proposta di cui ho parlato con qualcuno poco fa: l'avvio di un osservatorio sul mercato del lavoro nel terzo settore. Bisognerebbe trovare i soldi, che ci mancano.

Vinicio Albanesi

Io sono stato contattato dalla ADECCO, che qualcuno di voi conosce, chiedono un progetto nazionale sull'inserimento dei disabili, probabilmente hanno loro stessi in base alla legge 68 problemi di copertura di questa parte. Potrei chiedere a loro.

Umberto Di Maria

Parliamone seriamente. Penso che al di là dell'Adecco, comunque, avrebbe il suo interesse fare un osservatorio di questo tipo. Credo che ci siano qui, nate proprio in Redattore Sociale, le sensibilità, ma anche le competenze per avviare un osservatorio sul mercato del lavoro nel terzo settore.

Vinicio Albanesi

L'obiezione che mi fanno è che quando fai una ricerca, prima di partire prendono la lente, il questionario, se è affidabile, se è attendibile. Non è uno scherzo fare una ricerca ex novo, perché poi deve essere efficiente, che se la pubblichi dopo 4 anni non è più vera. 

Elisa Soncini*

Allora con l'osservatorio della comunicazione sociale dell'università di Bologna, che fa capo al dipartimento di comunicazione (un gruppo di ricerca che si occupa di vedere quali sono i rapporti tra il mondo dell'informazione e tutto il settore del no profit) abbiamo realizzato, una ricerca su Redattore Sociale, per vedere come riusciva a trovare una sorta di conciliazione, di equilibrio tra questi due mondi che solitamente si percepiscono come reciprocamente ostili. Abbiamo fatto delle interviste a quelli che sono i giornalisti e collaboratori dell'agenzia, abbiamo realizzato un monitoraggio sui lanci che venivano proposti dall'agenzia, per verificare sia quali erano in primo luogo i propositi, gli obiettivi dei giornalisti che lavorano a questo scopo, sia per verificare qual'è il risultato. Abbiamo voluto vedere come venivano messe in pratica queste cose. Abbiamo anche realizzato un monitoraggio di confronto con la sezione sociale dell'Ansa, che è una realtà molto più piccola, più marginale rispetto a Redattore Sociale e in questo senso la nostra idea non è stata quella di fare una comparazione a livello organizzativo e strutturale, ma di concentrarci unicamente su quello che era lo scopo della ricerca, volevamo capire che cos'è una notizia sociale, come un evento può diventare una notizia, quali sono i criteri che portano a dire che un evento è rilevante, è degno di attenzione e deve entrare all'interno del mondo dell'informazione. Abbiamo articolato questa domanda in varie ipotesi. Sociale cos'è? Sono i contenuti? Nel sito ci sono le 11 categorie che definiscono alcune aree, alcune tematiche del sociale. E' il contenuto in se? O forse è la fonte che fornisce le informazioni? Qual'è quella sensibilità aggiunta che ci porta a dire: ecco lo tratto in questa maniera questo evento e diventa una notizia sociale? Per fare questo ci siamo confrontati anche con quelli che sono i criteri classici del giornalismo. Si diceva anche stamattina ed un po' è emerso da più parti che di solito fa notizia la disgrazia, ciò che è brutto, però ci sono anche una serie di cose positive che possono e devono diventare notizia. Allora abbiamo guardato un po' come fa Redattore Sociale in questo senso. Come crea la notizia, come la tratta, guardando poi anche com'è la tipologia della notizia e come il contesto professionale giornalistico influisce sul prodotto finale. Molti dei giornalisti, dei collaboratori di Redattore Sociale hanno un'esperienza diretta di volontariato, di partecipazione attiva, di coinvolgimento nel sociale. Come questo può influire rispetto magari ad altri giornalisti che non hanno un'esperienza personale, di formazione in quest'area, qual'è la differenza? Come i contesti influenzano il giornalista su quest'area? Diciamo che noi siamo arrivati a stabilire delle vere definizioni, a definire cos'è una notizia sociale. Abbiamo cercato soprattutto di circoscrivere il problema e di delineare una serie di criteri, di linee guida. Ovviamente sociale, in un certo senso, potrebbe essere tutto, se si pensa a sociale come derivazione di società non si trova più confine. All'interno di questa problematica abbiamo cercato appunto di circoscrivere, di sollevare alcuni punti di riflessione. Questa ricerca è in fase di pubblicazione, se a qualcuno interessa leggerla integralmente può segnalarlo e gli verrà spedita.

Vinicio Albanesi*

Adesso se qualcuno tra voi che ha partecipato ai workshop ha qualcosa d'interessante e non di ovvio, da dire, può farlo. Attenzione che siete sotto esame!

Daniela Ducoli*  

A conclusione del nostro workshop Francesca, che lavora per l'OIM, l'organizzazione internazionale per l'immigrazione, diceva che loro hanno molte difficoltà a passare le buone notizie. Per esempio diceva che ha promosso per molte settimane, mesi, delle mostre d'arte a Roma di artisti immigrati e questa notizia non è passata. Si chiedeva il perché. Io di fax ne ricevo pure tanti, occupandomi di sociale in redazione, alcuni sono scritti male. Devo dire che molto spesso sono scritti molto bene, sono anche tra virgolette, in senso buono, "furbi", perché molti hanno capito che cosa può interessare, ci son dei bei titoli, addirittura ci danno già quasi il piatto pronto e pure finiscono nel cestino semplicemente perché non c'è un interesse, punto. Non c'è da colpevolizzare chi scrive male o con errori, o senza appeal per usare un termine, che nel sociale non è bello, però è la verità, si cerca sempre dell'appeal. Le notizie buone infatti spesso non fanno notizia, come diceva Francesca, è più facile additare il solito immigrato che ha investito qualcuno per strada, piuttosto che viceversa, quando all'immigrato capita di essere investito dal pirata della strada italiano, se ne parla un po' meno. La buona notizia fa fatica a saltare fuori. Non ho nessun tipo di ricetta, dico solo che a me, in genere, colpisce la notizia quando mi arriva, a prescindere da come è scritta. Se è scritta bene mi facilita anche il lavoro, ma anche se è scritta male, e mi sembra una notizia, si approfondisce. Poi volevo dire alla ragazza che ha concluso il nostro lavoro, che era una ragazza della scuola, mi sembra, di giornalismo e che si era molto arrabbiata dicendo: in realtà a Redattore Sociale pensavo che m'insegnassero, mi spiegassero a comunicare il sociale, invece me ne vado senza saperlo e a me delle beghine tra le Ong non me ne può fregar di meno, né di tutte queste considerazioni che si sono fatte. Bhè, è uscito un po' di tutto, in effetti è stato anche un dibattito a volte un po' acceso, sono uscite delle riflessioni secondo me anche interessanti, qualcosa magari non è uscito, però volevo dire a questa ragazza che sicuramente non c'è niente che tu possa dire "me ne può fregar di meno", nel senso che come comunicare certe notizie, ci arriverai anche per deduzione, per intuito, per sensibilità personali, per esperienze. Delle beghine delle Ong invece a me stamattina è fregato molto, perché ci hanno fatto capire comunque il meccanismo, che anche lì c'è magari il mangia mangia, facendo tutti i distinguo del caso. Abbiamo approfondito e capito alcune problematiche. Si è discusso molto tra la differenza tra Ong e agenzie internazionali. Silvia giustamente, la nostra relatrice, diceva che dipende molto dalle persone, dipende anche da queste strutture enormi che hanno le agenzie, che hanno dei costi pazzeschi, mentre per le Ong spesso è diverso, cioè arriva molto di più. Dipende dalle persone, dipende anche dalla struttura, è un po' come fare la differenza tra Rai e privati: quando ci si muove spesso noi usciamo con il nostro personale telefonino e ci basta solo quello. Siamo sul posto e si racconta. La Rai si deve muovere con più lentezza, con la troupe, ecc., però va detto che certe cose le può fare solo la Rai appunto perché ne ha la forza. E allo stesso modo, per stessa ammissione delle Ong, alcune cose le possono fare solo l'Unicef e l'ACHNUR, tipo vaccinazioni su larga scala, cose di questo tipo. Servono le une e le altre, poi i buoni e i cattivi ci sono di qua e di là. Magari nell'Ong c'è più gente che si accontenta di un milione al mese, dell'esperienza e di condividere certe cose, a più alti livelli.

Vinicio Albanesi*

Io ho partecipato a un pezzo di questo dibattito. E' stato chiesto ad Ivano quanto guadagna un cooperante. Noi diamo 4 milioni e mezzo al mese lordi, con ricevuta d'acconto, il che significa che quasi la metà se ne va in tasse, senza il pagamento delle spese. Se poi ci metti uno o due viaggi di ritorno e qualche telefonata, a questo ragazzo, o ragazza che sta all'estero rimane non più di un milione, un milione e mezzo al mese. Se poi noi li abbiamo utilizzati in Albania, li abbiamo utilizzati in Kosovo, in Ecuador, se fai un viaggio di più, ti salta. Per andare in Albania da Bologna, ci voglio 800 mila lire in aereo, 50 minuti di volo. Certo, poi ci stanno i funzionari Onu che prendono 12 milioni, ma 15-18 milioni li prendono i soldati, i marinai che sono partiti per l'Afghanistan. E in tutto questo il quadro è chiaro: l'Onu sta intorno ai 12 milioni se è un paese normale, quando ci sono le indennità di rischio arriva a 15 milioni e il soldato volontario ne prende 18... naturalmente pagati in dollari. Noi paghiamo in lire, adesso è vero che tra euro e dollaro c'è meno fluttualità, però questi sono i costi. Poi ci stanno i volontari puri, che si accontentano di 500-600 mila lire con vitto e alloggio pagato, ma quelli fanno parte diciamo di quelle missioni di ragazzi quasi non dico religiosi, o ragazze religiose, ma giù di lì. Questo è il quadro poi, certo, quando stai in una terra, vicino ad un popolo. Ad esempio ci ha scritto un ragazzo dal Pakistan, che sta in un campo profughi, i problemi sono tanti, perché poi queste macchine sono lente. Per esempio le grandi organizzazioni francesi, inglesi e tedesche sono organizzazioni para governative, cioè il governo non interviene direttamente, ma interviene con queste grandi Ong ma in realtà sono la longa manus dei governi. Quindi è chiaro che hanno altre strutture, però sostanzialmente la cooperazione internazionale italiana è abbastanza pulita sostanzialmente.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.