VIII Redattore Sociale 30 novembre 1-2 dicembre 2001

Nebbia

Nuove preoccupazioni, nuove priorità, nuovi soggetti; cosa sale e cosa scende nell’informazione delle società occidentali del benessere; quale accesso ai mass media per la realtà del terzo settore

Interventi di Marino Niola e Massimo Vergnano

 

Marino Niola - antropologo*

Tra i tantissimi temi, il compito che mi è stato assegnato dagli amici di Capodarco è da far tremare le vene ai polsi, perché si tratta di scegliere tra i tantissimi temi che oggi il mondo dell'informazione, dei media e in generale i paesaggi dell'immaginario ci offrono. Fare una selezione è sempre un'operazione fortemente arbitraria, perché si è costretti a sacrificare delle cose e l'unico motivo spesso è il format. Ho scelto, ovviamente, dei temi che a me sembra che abbiano un'esposizione fortemente simbolica nella realtà, nella cultura, nell'immaginario contemporanei e non a caso sono temi che hanno affollato fittamente l'informazione, almeno da qualche anno a questa parte. Ho deciso di evitare di parlare di quello che è successo dopo l'11 settembre, perché mi pare perfino ovvio che sia diventato un vero e proprio plotner. Ci sarebbe da aprire un'interessante parentesi: tutto quello che riguarda questa guerra è povero di iconizzazione, ma è ricchissimo di comunicazione.
Comunque, ho raggruppato in tre grosse categorie i temi che vorrei trattare oggi. Tutto quello che riguarda la sicurezza (la sicurezza e l'insicurezza, naturalmente), tutto ciò che riguarda il corpo, il benessere e la cura di sé, e tutto quello che riguarda l'identità, la tradizione e le appartenenze. Sono temi che, come sapete, occupano uno spazio larghissimo nell'immaginario degli ultimi anni. E si tratta di temi fortemente interconnessi tra di loro. 

La sicurezza

Parto proprio dalla sicurezza, e vorrei iniziare dalle parole che poco tempo fa tutti i giornali hanno riportato, pronunciate dal nostro Ministro degli interni Scajola. Se vi ricordate ha detto: "Avremo meno libertà e più controllo". E l'ha detto a proposito dell'allarme batteriologico, invitando anche i cittadini a segnalare persone e comportamenti sospetti, quindi a tenere alta la guardia. Ed è quello che più o meno stanno facendo in tutti i paesi dell'Occidente, quell'Occidente che bruscamente, improvvisamente, si è risentito e si è avvertito minacciato e vulnerabile. Vulnerabile lo è sempre stato: tutte le società complesse sono vulnerabili, ma in certi momenti c'è una particolare trasparenza e consapevolezza di questa vulnerabilità, basti pensare alla rapidità con cui il congresso ha approvato la così detta legge patriottica, che è un pacchetto legislativo che di fatto riduce le libertà individuali e aumenta i poteri di controllo.
Diciamo, quindi, che oggi ci si ripresenta con forza uno scenario che di fatto è uno scenario che già dagli inizi del '900 comincia ad occupare il pensiero, la cultura e l'immaginario dell'Europa. Il primo a porre con fortissima evidenza la questione della sicurezza e della libertà è Freud, nel "Disagio della civiltà", quando dice che la civiltà comporta che ciascuno debba rinunciare a una parte, a una quota di libertà. Oggi, rispetto al problema posto da Freud in quei termini, la situazione è rovesciata. Perché? Perché il nuovo ordine mondiale, quello che segue la caduta del muro, la circolazione sempre più rapida delle merci, la delegilation degli scambi e in generale la caduta delle frontiere e dei controlli, hanno contribuito a ribaltare questo rapporto fra libertà e sicurezza. Lo sapete, la parola d'ordine della globalizzazione è proprio "libertà". Libertà dei soggetti privati rispetto a quelli pubblici e dell'economia rispetto alla politica. L'economia è veramente globale, è fluida, veloce e senza confini, mentre la politica non è globale; le politiche non sono globali, sono ancora irrimediabilmente prigioniere dei confini, il che finisce per rendere di fatto, se non di diritto, extraterritoriali e incontrollabili le decisioni del mercato, gli effetti di queste decisioni sulle nostre vite. Da questo nasce un'insicurezza crescente, che non è solo insicurezza fisica, ma è incertezza. Incertezza che viene proprio dalla totale imprevedibilità di una realtà senza frontiere, questo nel bene, come nel male. Non sono un apocalittico e non penso assolutamente che nella globalizzazione sia tutto male, intendiamoci. Però bisogna essere consapevoli di un fatto: oggi un male che viaggia nel cono d'ombra della globalizzazione, cioè viaggia con la stessa velocità e spesso negli stessi circuiti delle merci e delle informazioni e proprio in questo flusso si confonde, diventa invisibile, imprendibile, come mostra in parte anche l'attentato alle torri. Da questo punto di vista l'insicurezza diventa una sorta di pensiero dominante e il tarlo che rode le certezze del villaggio globale. E' l'insicurezza, a mio avviso, il vero baco del millennio. 
Vorrei aprire una brevissima parentesi: il baco del millennio di cui si è tanto parlato non è una nostra invenzione, non è un pensiero di oggi, è un tema barocco. Nella poesia barocca c'era questo tema del baco, del verme che rode, che mangia le certezze. Non è un caso che il Barocco, il '600, è l'inizio della modernità.
Noi possiamo certe volte ipotizzare che sempre di più le politiche si ridurranno, di questo passo, a uno scambio e a un'offerta di sicurezza, quindi ad una sorta di rituale esorcistico contro i fantasmi reali o presunti che attentano alla nostra incolumità, alla nostra salute, al nostro patrimonio. Quindi contro un'ansia tormentosa, contro un'ansia a 360°, che alimenta la tendenza a cercare volta per volta un così detto male, un nemico del momento, a dare un volto del momento a quest'ansia e per farne volta per volta il volto, il simbolo della nostra vulnerabilità.
Pensavo, poco tempo fa, a certe campagne elettorali americane. Molto spesso, quando ci sono le elezioni per il governatorato, i due contendenti si affrontano portando nello studio televisivo, per esempio, le foto delle persone fatte giustiziare. Questa è proprio una medicina, diventa una sorta di medicina contro l'insicurezza, l'esibizione di un potere forte in grado di snidare e combattere e uccidere i nemici. Un sociologo polacco naturalizzato americano, anzi inglese, Bauman, giustamente dice che, in questi casi, quasi sempre vince il candidato conservatore. Perché fra un forcaiolo vero e uno che si adegua all'altro dicendo "anch'io sono un forcaiolo", è ovvio che si scelga il primo, perché lo sa fare veramente. 
Quindi dopo l'11 settembre sembra ancora una volta che la libertà debba cedere il posto alla sicurezza. Questa è l'impressione che hanno avuto molti, come era già avvenuto anche nel nostro paese, per esempio, durante gli anni di piombo. Alcuni si sono chiesti se questo sarà un freno alla globalizzazione. E' presto per dirlo e, a mio avviso, non è neanche augurabile che ciò avvenga. Comunque vadano le cose, forse c'è una riflessione che noi potremmo avanzare su questo plot che riguarda la sicurezza: è che il cammino del mondo non procede in maniera lineare. All'idea del progresso lineare non ci crede più nessuno da un pezzo. Il movimento del mondo assomiglia sempre di più al movimento di un pendolo. Anche il movimento del nostro mondo, perché non è vero che su tutto quello che è acquisito non si torna più indietro; c'è invece una specie di movimento pendolare, fatto di oscillazioni, ma soprattutto di contrazioni e di dilatazioni di questa relazione fra sicurezza e libertà, come movimento di sistole e di diastole. In questo momento ciò mi sembra, almeno facendo un inventario rapido di tutti i temi che passano nell'informazione, quello che ci suggerisce le riflessioni che si possono fare sul tema "sicurezza-insicurezza". 

Il benessere e la cura di sé

C'è un altro tema che mi sta molto a cuore: è quello del corpo, delle cure di sé e della rappresentazione di sé. Intanto mi ha colpito che negli ultimi mesi, su moltissimi quotidiani e settimanali anche femminili, c'è un'idea che si diffonde: che il grasso sia una specie di nemico che miete vittime, che si insinua lentamente nei corpi e nelle anime. Come se ci fosse un aumento prodigioso e a dismisura. Vi è una stigmatizzazione di tutto quello che riguarda il grasso e la linea. 
Ci sono dei veri e propri drop out della "ciccia", assatanati della doppia porzione e di coatti dei grassi saturi, un po' come nei ghetti americani, e nello stesso tempo si gonfiano le schiere degli infedeli alla linea. Apparentemente, ogni tanto, lo stesso "star system" sembra cedere a questa curva dell'abbondanza e apre improvvisamente alle taglie forti. Negli ultimi anni infatti ci sono, in assoluta controtendenza, delle belle, delle dive, delle attrici, che sicuramente non sono della linea sottile tradizionale. Basti pensate a Kate Winslet, che non a caso è diventata in certi paesi più famosa per i suoi chili che per la sua interpretazione di film come Titanic. Oppure pensate ad alcune belle del momento, che sono ancora più suntuose di Kate Winslet: Amber Smith, Sofie Marceau e altre ancora, a parte ever green anche di casa nostra, come Valeria Marini per esempio, che rimane intramontabile... 
Ecco, i nuovi "ciccioni" (chiamiamoli così) sono guardati a vista da tutti, sia dal popolo del politically e del nutritionally correct, come dai responsabili del sistema sanitario. Un po' alla stregua dei fumatori: i fumatori in certi paesi, soprattutto anglosassoni, sono proprio colpiti da uno stigma molto forte. Una mia amica che vive e insegna a Stoccolma, appena si stabilì là (lei è napoletana) mentre camminava per le strade di Stoccolma, per il centro antico della città fumandosi una sigaretta, incontrò un ragazzino che poteva avere, mi raccontava lei, 15-16 anni. Il ragazzino le ha sputato in faccia. Allora, che cosa c'è dietro? O l'emergenza ciccia nasconde, dietro l'apparente ragionevolezza del decalogo Weight Watchers, ragioni più oscure? O c'è anche qualche altra cosa che possiamo leggere? A questo punto possiamo cercare di interpretare perché in fondo l'allarme grasso, al di là delle giuste esigenze di una sana educazione alimentare, in parte è figlio proprio degli eccessi di slim fast, del culto eccessivo della magrezza, che nell'insieme fa sicuramente più vittime dell'obesità. 
Qualche tempo fa una giornalista del Guardian molto brava, che si chiama Decca Aitkenhead, ha fatto una lunghissima inchiesta sui gruppi Weight Watchers inglesi e americani. Questi gruppi sono delle associazioni di grassi "pentiti", numerosissimi in quei paesi. Lei li ha seguiti, ha descritto i loro rituali fondati su veri e propri esami di coscienza collettivi, su pubbliche confessioni di peccati di gola, quindi su penitenze del corpo e dell'anima, su un'idea della vita come lotta non tra il bene e il male, ma tra il magro e il grasso, che è la stessa cosa. Quindi un Purgatorio in terra.
La cosa interessante è che, secondo la Aitkenhead, solo pochi di questi pasdaran della dieta in realtà sono davvero in sovrappeso. Tutt'al più di qualche chilo. Però tutti si rappresentano come obesi e si rovinano la vita pur di arrivare a pesare qualche chilo in meno. E allora la prima idea che viene ad un antropologo è che qui ci troviamo proprio di fronte, nel contesto dell'insicurezza di cui parlavamo prima, dell'incertezza, di una sorta di esercizio del pensiero magico.
Il pensiero magico è una cosa che funziona sulla costruzione di modelli. 
Quando io devo colpire una persona cosa faccio? Pensate all'esempio più classico, costruisco un simulacro, una bambolina ed infilo degli spilli in questa bambolina. Idea analogica è che, colpendo il modello, colpisco il referente, la persona a cui il modello si riferisce e che quindi infilando gli spilli dentro la bambolina io farò morire o colpirò o farò star male questa persona. E qui c'è qualcosa che è molto e oscuramente vicino al pensiero magico, perché in fondo il tormentarsi per qualche chilo in più o per qualche centimetro in più significa ancora una volta, come dicevamo prima, dare volto e sostanza ai nostri timori, renderli riconoscibili in qualche modo, significa controllare, avere l'impressione di poter controllare il nostro smarrimento attraverso una serie di atti pratici, come fare una dieta. Quindi in un certo senso significa prendere le misure alla nostra insicurezza dandole una taglia. Per cui il grasso diventa effettivamente la maschera delle nostre ansie, l'altro che è dentro di noi.
Qui vengo all'altro tema che mi interessa molto. Il grasso è un estraneo, un ultra-corpo, letteralmente, che si infila dentro di noi, un replicante che turba la leggerezza, l'integrità e l'identità del nostro corpo. Cioè, letteralmente, ci altera, ci fa altri; che è un riflesso in un certo senso di quello stesso timore che ci fa vivere l'altro, quello che viene da fuori, l'estraneo, lo straniero, come un peso, come una presenza estranea ed inquietante che si infiltra nel nostro corpo sociale, mettendone in pericolo la salute, l'integrità, l'identità. Cioè alterandolo, come se il grasso sfigurasse l'io e gli altri sfigurassero il noi. Sono ansie egualmente infondate, per certi versi. Il problema è come fare a guarirne. Non è un caso, però, che l'ossessione fobica per la dieta e quella per la sicurezza siano figlie dello stesso tempo, figlie dello stesso smarrimento, figlie della stessa paura senza volto. O meglio con troppi volti per poterli riconoscere tutti insieme.
Non è un caso che la così detta Dismorfofobia, cioè la sindrome della bruttezza immaginaria di cui pare che soffrano sempre più persone, e il sicuritarismo sono due vie complementari attraverso le quali passa il controllo sociale, diventato ormai controllo di un corpo sull'altro e di ogni corpo su se stesso. Questo stringendo fino al corto circuito, auto ed eterovigilanza. Si attua quello che Michel Foucault chiamava la microfisica del potere. Il potere passa attraverso di noi, cioè siamo noi che gli diamo vita, non è soltanto ed esclusivamente repressione o eterovigilanza, o controllo dall'esterno.

La crisi della famiglia

Questo è un altro tema che è strettamente legato agli altri e che nell'ultimo anno ha occupato moltissimo le cronache. E' quello della crisi delle istituzioni di base, la crisi della famiglia, l'implosione della famiglia, anche in seguito a fatti come quelli di Novi Ligure. Sta di fatto che le cronache negli ultimi anni raccontano con frequenza sempre maggiore di figli che in un modo o nell'altro levano la mano contro i genitori, in certi casi appunto fino all'omicidio. Ripeto, è come se ci fosse un'implosione della famiglia. In parte tutto questo è stato spiegato e lo hanno fatto proprio alcuni psicologi, soprattutto a proposito dei fatti di Novi Ligure. Ma lo fecero anche, se vi ricordate, a proposito dei lanci dei sassi dal cavalcavia con l'effetto imitativo. Io non ho mai creduto molto all'effetto imitativo puro e semplice; in questi casi forse più che di un'imitazione si tratta di un effetto di modellizzazione, nel senso che gesti come quelli di Erika diventano come gesti di mero negativo, che possono contribuire a dare una particolare forma ad un caos di sentimenti, di emozioni, o di rabbia, o rancori. Noi non sappiamo, quindi, cosa c'è in queste storie. C'è comunque una parziale inspiegabilità della quale noi dobbiamo prendere atto. Non sempre tutto può essere spiegato e il male non sempre è spiegabile. E soprattutto non sempre è una malattia, come si tende a fare oggi. Il male è tragicamente anche l'effetto di una scelta e di un'oscurità, che noi non siamo in grado di penetrare del tutto. In queste storie, secondo me, c'è proprio una parte enigmatica. Ma proprio nel senso arcaico, antico, tragico greco dell'enigma, di qualcosa che non si può sciogliere, perché se lo si scioglie è ancora peggio. C'è quindi un'enigmatica, e solo in parte inspiegabile, tragicità, che fa precipitare un malessere tutto figlio del nostro tempo in sequenze da dramma antico, da tragedia greca. Da questo confronto, molto spesso, le ragioni dei sentimenti e degli affetti escono schiantate. Di questa sconfitta la famiglia è al tempo stesso vittima e responsabile. Si tratta, secondo me, di una responsabilità oggettiva, che deriva in parte dalla stessa centralità della famiglia nella vita di noi tutti e dal peso eccessivo che oggi deve sopportare in questa fase di grande trasformazione. Mi spiego meglio: io credo che oggi la famiglia sia investita in pieno da quel vuoto pedagogico che attraversa l'intera società, senza risparmiare nessuna delle tradizionali agenzie formative. E' un vuoto in cui ci aggiriamo un po' tutti, ugualmente smarriti: ragazzini che sembrano già grandi e cinquantenni adolescenti. Questo vuoto è coperto da una facile sentimentalizzazione delle relazioni, da un illusorio cameratismo, da una pericolosa complicità fra genitori e figli. Per cui nessuno insegna più niente, nessuno è più responsabile di niente. Questa sorta d'inganno, di equivoco sentimentalistico è una delle ragioni, poi, del blocco della crisi dei sentimenti, che invece sono sempre frutto di una lunga, lenta, però anche severa e faticosa costruzione, che come tutte le buone semine, dà i suoi raccolti, dà i suoi frutti nel tempo.
Circa un anno fa, se vi ricordate, il Papa disse una frase che fu interpretata in una maniera abbastanza controversa. Ma io sono molto d'accordo. Lui diceva: i genitori non devono essere amici dei figli. Cosa voleva dire con questa frase? Oggi sembra molto spesso che gli adulti non abbiano quasi niente da trasmettere, finendo in molti casi per annullare o vanificare la distanza fra le generazioni. Una distanza che in realtà non è distacco, ma è distanza piena di senso, perché proprio nello sforzo per colmare questa distanza, in quel cammino per crescere i ragazzi imparano tradizionalmente a costruirsi, ad essere meno fragili e vulnerabili. Imparano a distinguere il bene dal male, il lecito dall'illecito, mentre in questa sorta di mediatezza falsa, in questa simultaneità, in questa spettacolarizzazione del sentimento (che è semplicemente una sovra esposizione semplicemente) tutto diventa apparentemente possibile. In fondo, molto spesso si ha l'impressione che i più giovani rivolgano proprio contro gli adulti questa leggerezza insostenibile. Quindi, paradossalmente, è proprio la mancanza di una distanza a provocare il distacco tra i genitori e i figli. D'altra parte, fare dei genitori gli unici responsabili di questo scenario sarebbe assolutamente ingeneroso. Secondo me la maggior parte delle famiglie fa quello che può e quello che sa, combattendo spesso, lo sappiamo tutti, una battaglia impari. Perché in realtà nessuno ha ricette. Il fatto è che oggi, appunto, navighiamo tutti a vista, alle prese con un mondo che ci chiede di essere efficienti, competitivi, produttivi, mobili, flessibili, veloci, desideranti e desiderati (o almeno desiderabili), perfetti, belli, eternamente giovani (però non del tutto), buoni, buonisti (perdonare sempre). Ci chiede di essere entusiasti, ma anche disincantati, pronti a vendere e comprare indulgenze, proprio come nel purgatorio, però anche grintosi, e cinici.
Quindi è come se improvvisamente la flessibilità e la mobilità fossero diventati la nota dominante della nostra vita, dal lavoro ai sentimenti. In realtà, sappiamo tutti che è molto difficile essere freneticamente rapidi e veloci, e al tempo stesso lucidi e saggi; muoversi con l'accelerazione presente insieme con i tempi lenti della tradizione del passato. E' come se oggi si chiedesse ai genitori di impersonare sia la modernità che la tradizione: la modernità nelle ore di lavoro e la tradizione la sera a casa o i giorni di festa, tra le mura domestiche. E molto spesso queste tragedie diventano dei riflessi simbolici molto forti, perché rivelano in forma estrema e radicale il carattere schizoide di una società che vuole essere insieme moderna e antica e non concede ai figli il tempo per crescere e spesso paradossalmente (tragicamente) toglie agli adulti perfino quello per morire.

La tradizione

E vengo all'ultimo tema, che è quello della tradizione. Uno di quelli di cui si parla di più, costantemente: di questo recupero della tradizione, del ritorno della tradizione. Sta di fatto che mai nessun mondo come questo scenario globalizzato è stato caratterizzato, nell'ultimo cinquantennio, da etnicismi, localismi e tradizionalismi. Quindi bisogna stare attenti quando parliamo di tradizioni, dobbiamo capire se si tratta di tradizioni o di neo-tradizionalismi.
A parte il fatto che le tradizioni non sono mai uguali a sé stesse: non esiste tradizione che sia immobile, una tradizione non è il passato, ma è semplicemente trasmissione, come dice il termine stesso. Molto spesso, quando inizio il mio corso con i concetti base, devo spiegare agli studenti il concetto di tradizione. E faccio fare a loro un gioco che voi tutti conoscete, che è il gioco del passaparola: ciascuno deve sussurrare una parola all'orecchio, quello che arriva alla fine non è mai quello che si è detto all'inizio. 
La tradizione funziona esattamente in questo modo. Quindi forse è più giusto, anziché parlare di tradizione o di ritorno delle tradizioni, di parlare di "invenzione" di tradizioni. Oggi si inventano moltissime tradizioni e comunque la tradizione torna ad essere un tema forte, trascinante. E per certi versi vediamo un nuovo revival folk come quello degli anni '70, diverso però da quello degli anni '70.
C'è una cosa che mi colpisce e mi fa pensare molto: alcune televisioni commerciali mandano in prima serata trasmissioni dedicate alle feste popolari, alle tradizioni popolari italiane. Questo fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile. Proprio un paio di mesi fa è andata in onda una di queste trasmissioni, anche molto lunga, in due parti, credo un'ora e mezza di durata. Me la sono guardata tutta, proprio per vedere come venivano trattati certi temi. Ed erano temi tosti: quindi, non solamente la sacra del ciauscolo o cose di questo tipo, perché quella tradizione tutto sommato ci sta bene a tutti. No, si trattava dei riti dei flagellanti di Nocera Terinese, cioè di questi che si battono a sangue il venerdì Santo, o dei battenti dell'Assunta di Guardiasanframondi, ogni 7 anni si battono il petto a sangue per molte ore e così via. Quindi i riti di umiliazione, i riti penitenziali.
Ha avuto uno share molto alto questa trasmissione, e il fatto stesso che una televisione commerciale la mandi in prima serata è un segno. E poi è di drammatica attualità. Lo sapete meglio di me: è il caso delle tradizioni religiose, che forniscono spesso i simboli e il linguaggio a conflitti che in realtà hanno diversa e più complessa natura. E sulle guerre di religione ci sarebbe da parlare a lungo.

Qualcuno si ostina a dire che le guerre sono guerre di religione; un editorialista importante di un grandissimo quotidiano italiano ha scritto: "Si, certo che è una guerra di religione. Perché? Perché loro dicono che lo è". Ora, noi agli studenti di primo anno, quando gli insegniamo l'antropologia, gli insegniamo che quando si fa un'inchiesta, l'informazione che si raccoglie va vagliata. Quello a cui noi dobbiamo arrivare, cioè, deve essere la mediazione tra due istanze: da una parte la rappresentazione indigena, in questo caso la guerra di religione, dall'altra parte il significato che noi siamo in grado di dare a quel dato, a quel segno. Chiudo comunque questa parentesi.
Ma l'invenzione delle tradizioni ha anche risvolti, fra l'altro, più positivi, anche nel ripensamento dell'identità locale. Ha perfino risvolti economici molto importanti. Pensate, per esempio, a tutte le costruzioni dei marchi di autenticità, dei loghi a denominazione di origine controllata. Pensate a tutte le culture alimentari, ai così detti beni culturali immateriali, come le feste che diventano poi collettori e vettori importantissimi di flussi economici. In tutti questi casi ci troviamo proprio di fronte ad una trasformazione delle antiche tradizioni in moderne tipicità, quindi in beni culturali materiali o immateriali. Sta di fatto che oggi le dinamiche identitarie si definiscono (e questo è quello che volevo proporre, l'ultimo punto che voglio proporre alla vostra attenzione) per lo più su base etnica tradizionale, oppure su una ricerca dell'origine del come eravamo, da dove veniamo e non più sul dove andiamo. Quindi non più sul futuro, sul progetto, ma sul passato.

Oggi, generalmente, un mito politico è sempre un mito politico che ha a che fare con la fondazione, con il passato e non con quello che ci aspetta all'orizzonte. Quindi è l'origine e non il telos, è la memoria e non il progetto. Mentre una volta era la terra promessa dell'anima o del corpo, che fosse il paradiso o che fosse il sol dell'avvenire a identificarci, o a identificare i gruppi sociali, a reclutare i gruppi sociali in un'immagine che era tutto sommato utopica. Però luminosa, non solo illuminista, ma radiosa comunque di un'umanità o di gruppi che marciavano, che camminavano. Oggi molti gruppi si reclutano, invece, in una maniera proprio inversa, cioè all'ombra arcaica dell'origine: cerchiamo gli ancoraggi nella mitologia inclusiva-esclusiva dell'etnicità. Noi sappiamo benissimo quanto sia falso questo concetto, quanto molte delle così dette guerre etniche siano in realtà il risultato di un'etnicizzazione di certi conflitti che è, in buona parte, recentissima e non tradizionale. O ci rifugiamo nella continuità senza scosse della tradizione, cioè nell'esasperazione delle tensioni identitarie, degli stereotipi o anche nel ribaltamento degli stereotipi. Gli stereotipi, che una volta venivano rifiutati, oggi addirittura vengono spesso utilmente rivendicati.
Mi divertivo ieri a guardare questa pubblicità della Lufthansa, che dice: siamo sempre i soliti crucchi. Diteci che siamo quadrati, rigidi, metodici, pignoli e diteci che sono proprio questi le motivazioni che hanno spinto un numero sempre maggiore di passeggeri nel mondo a scegliere di volare Lufthansa. E così via (però sto usando, impropriamente e interpretando dall'esterno, un tema che sicuramente un esperto di pubblicità saprà leggere meglio di me). Tutto questo, secondo me, è il tentativo di creare anticorpi in un mondo dove di fatto le tradizioni si perdono, vanno verso l'obsolescenza, dove le identità sono in costante ridefinizione. Ci troviamo invece di fronte a un altro fenomeno: quello che noi chiamiamo ritorno della tradizione è in realtà la comparsa sulla scena della storia di nuovi fattori di produzione delle tradizioni. Soprattutto, come dice un antropologo indiano, di produzione di località. Tutto quello che gli uomini fanno di solito è cercare fattori per produrre località in qualche modo; il luogo non è semplicemente un contenitore territoriale definito da un confine, da un dentro e da un fuori. La località è un processo costante che si riproduce continuamente su nuove basi e oggi noi siamo in un momento di passaggio, in un guado dai vecchi sistemi. I vecchi modelli e i vecchi dispositivi di produzione di località non funzionano più, dobbiamo cercare, stiamo cercando di elaborarne di nuovi. Per il momento però, navighiamo al buio, perché non sappiamo cosa costruiremo.

Massimo Vergnano, pubblicitario, presidente dell'agenzia Sulder & Hennesey Europa*

Sono un pubblicitario. Mi occupo di pubblicità in un'agenzia e sono anche consigliere di AssoComunicazione, che è l'associazione delle imprese, delle agenzie che si occupano di comunicazione d'impresa. Noi ci occupiamo di salute, facciamo parte di un grosso gruppo internazionale e mi ha dato da pensare l'essere invitato a questo convegno. Sono andato a vedermi qual è la definizione di "salute" data dall'organizzazione mondiale della sanità e della salute, che la definisce non soltanto come lo stato di benessere in assenza di malattia o d'infermità, ma appunto uno stato fisico e mentale e sociale di completo benessere. Un nostro creativo ha visto questa definizione e ha detto: "Non è la definizione di salute, ma è la definizione di felicità". E quindi in qualche modo mi sono sentito più legittimato nell'essere qui oggi. Ho cercato di trovare anch'io una bussola nella nebbia. Devo dire che ho interpellato vari amici, conoscenti, tutti quanti in un primo momento quando hanno sentito il titolo, mi hanno fatto le condoglianze, perché hanno detto che era una cosa estremamente complicata. Allora sono andato da una persona che si occupa in una famosa università di no profit, dal collega presidente di Asso Comunicazione, da un famoso ricercatore sociologo e alla fine ho deciso di seguire alcuni consigli e di procedere anche un po' con la mia testa. Così ho preso e riletto la vostra introduzione nell'invito e ho tirato fuori alcune parole chiave. Difficoltà interpretative, surplus informativo, mutamenti di priorità, il fatto che le notizie vadano al traino, che ci sia sovrabbondanza di notizie, però ci sia penuria di accadimenti. Nella mia libera traduzione, ho menzionato un cambiamento accelerato dalla società, nuovi temi, visibilità dell'impegno sociale, coraggio interpretativo. Ho seguito queste parole chiave cercando di raggrupparle insieme alle risposte in due sezioni della presentazione. La prima è "Cosa sale e cosa scende nell'informazione delle società occidentali del benessere". Devo dire che sono stato anche confortato dalla relazione precedente, perché vedrete che alcune cose che sono citate, sono state anche menzionate precedentemente. Nell'ambito di tale prima sezione ho individuato altre parole chiave: "cambiamento accelerato", "sovrabbondanza di notizie", "penuria di notizie", "nuovi temi" e "mutamenti di priorità" . Sono andato a vedere un libro editato nel 1999 da due signori che fanno o facevano parte del nostro gruppo, fortunatamente per loro avevano il solo compito di fare esplorare le tendenze, ovviamente dal punto di vista di chi lavora nella comunicazione d'impresa. Dovevano andare a vedere quelli che sono i consumi e quindi le opportunità nell'ambito della vendita e del consumo. Loro dicono che il cambiamento è comunque una delle costanti su cui ci si troverà a confrontarsi e che quindi è un dato di fatto, è un dato che chiaramente genera apprensione e questa apprensione è dovuta anche a come vediamo il futuro. Lo vediamo come discontinuità o lo vediamo come evoluzione? Magari un'evoluzione rapida del presente. Il secondo punto che ho trovato anche in questa introduzione è il tema della sovrabbondanza delle notizie e ho trovato una cosa molto bella che faceva riferimento ad una soap opera americana che non è ancora arrivata sui nostri schermi e dove pare non succeda assolutamente nulla. E commentavano questi due autori: "La creatività del nulla è forse una reazione al sovraccarico delle informazioni. Dettagli futili, relativi a questioni attuali evolvono in grandi storie che si mescolano a piccole storie, il tutto con uno sfondo di commento analitico bilanciato alle così dette notizie reali". L'ho trovato abbastanza in linea con il vostro invito e se c'è questa tendenza di chiudersi, di accontentarsi del nulla è perché magari la vita, al di là dello schermo televisivo cambia troppo in fretta. Sostanzialmente loro hanno identificato quelli che sono le grosse tendenze del futuro. Una di queste è legata al discorso di un nuovo entusiasmo verso le tematiche religiose. E' citato, nella ricerca, per esempio, nell'ambito dei segmenti di popolazione analizzata che questa tendenza ai valori della religione è particolarmente marcata nei gruppi chiamati degli opinion leader, cosa che è molto importante, perché vuol dire che poi ci può essere un traino e un aggancio futuro anche negli strati che seguono. Altro tema è il discorso della giovinezza legato a quello del benessere in un mondo che invecchia. Ed ancora, per elencazione, si tende ad accentuare un forte individualismo di massa, si ha sempre più bisogno di rassicurazioni a fronte di una crescente sfiducia nelle istituzioni. Queste erano le tematiche derivanti da questo libro. E invece qui vi presento altri 4 temi che ho chiamato "Nuovi temi, nuove contraddizioni". Circa 4 settimane fa c'è stato il secondo congresso della pubblicità italiana e come speaker designato c'è stato il presidente Clinton che ha fatto un intervento di 40 minuti: eccezionale dal punto di vista delle modalità di presentazione. Credo che sarebbe una cosa da insegnare alle università o comunque a chi si occupa di comunicazione, me per primo, anche dal punto di vista della capacità e della lucidità di analisi. Ho chiesto la registrazione della cassetta, perché appunto pensavo che fosse una cosa eccezionale, poi non ho fatto mente locale che era in diretta sul secondo canale, ed era anche tradotta. Se ho tempo vi faccio sentire 4 minuti di questa cosa, purtroppo il traduttore è una traduttrice. Le solite Rai, quindi, potete immaginare l'enfasi e il tono, per cui ne esce abbastanza massacrato il contenuto! Lui faceva riferimento ancora una volta ai famigerati fatti di settembre e diceva: se uno pensasse, vi chiedesse quali sono oggi le tematiche più importanti che esistono nel nostro mondo. Diceva che se sei un ottimista e sei uno studioso di economia, oggi quello che è più importante di tutti è la globalizzazione dell'economia. Citava il fatto che durante la sua presidenza, per la prima volta nella storia il 50% degli stati erano retti da governi eletti democraticamente e il tema della diversità in cui citava per esempio che a New York convivono 150 diverse etnie e nazionalità. Poi presentava invece gli altri 4 aspetti importanti in senso negativo: la povertà, la crisi ambientale, la crisi sanitaria e il discorso del terrorismo e dell'integralismo. Credo che Clinton sia una fonte molto autorevole, molto precisa, credo che identifichi molto bene quello che può salire e quello che può scendere nell'informazione. Fra l'altro devo dire che avendo rivisto il giorno dopo il reporting di questo intervento, questa parte è stata quella meno commentata. La cosa più importante era l'aspetto sociale e di immagine: queste sono sicuramente le tematiche su cui ci si troverà a confrontarsi. La seconda parte è il discorso dell'accesso ai mass media per la realtà del terzo settore. Qui devo dire, onestamente, sono andato abbastanza a tentoni. Non conosco bene questa realtà e soprattutto quali erano gli obiettivi da raggiungere con questo incontro. Le parole chiave qui erano: "reattività verso proattività", trovare il coraggio interpretativo, realizzare pubblicità, comunicazione e marketing sociale ed ancora modificare gli atteggiamenti. Qui volevo fare anch'io delle domande, cioè capire di che cosa si stava parlando. Se si stava parlando di pubblicità sociale, di comunicazione sociale o di marketing sociale, che sono 3 cose diverse. Mi ha chiarito il punto all'inizio Trasatti, dicendo che gli obiettivi erano far sapere che oltre che "fare" il terzo settore è capace anche di "dire". Mi chiedo se questo sia un obiettivo sufficientemente ambizioso, sembrerebbe quasi che dal punto di vista del fare si è arrivati e adesso dobbiamo essere in grado anche di comunicare. Qui si tratta di comunicare anche per quali obiettivi. La pubblicità è una cosa molto semplice. Cerca di attirare attenzione, cerca di modificare atteggiamenti e serve anche a produrre cambiamenti di comportamento, che penso siano esattamente gli obiettivi che chi lavora nel sociale si pone nel momento in cui affronta anche il problema del significato, del valore della comunicazione. Credo che si debba andare al di là di creare solo un'efficace rete di giornalisti, di redattori. Nell'ambito della comunicazione d'impresa, le imprese non comunicano solo con l'ufficio stampa, hanno gli uffici studio, gli uffici marketing, utilizzano molto bene tutte le tecniche della comunicazione, del marketing e anche nell'ambito del sociale si può parlare di comunicazione in quanto uso non soltanto di un mezzo, ma di una serie di mezzi, chiamato volgarmente il mix di marketing. In sostanza si tende ad utilizzare tutti i canali possibili in modo strategico. Mi è sembrato utile ricordare che il marketing sociale non è stato inventato adesso, è stato inventato circa 30 anni fa e anche in questo caso c'è una definizione molto chiara: è marketing sociale come progettazione, realizzazione e controllo dei programmi finalizzati ad aumentare l'accettabilità di una causa. Quando parliamo di comunicazione, qual è l'obiettivo? Creare notorietà a un problema, far cambiare atteggiamento, far cambiare comportamenti, sono cose estremamente diverse che, comunque, possono essere compatibili. Leggendo alcune pagine del Redattore Sociale sotto la voce comunicazione vedevo ancora una certa timidezza, imbarazzo, o comunque non desiderio di organizzarsi sulla falsariga di esperienze analoghe relative non al sociale ma "all'impresa". Questo può essere molto rispettabile, ma credo possa comportare dei rischi di efficacia. Per esempio, parlando del terzo settore, credo che una cosa fondamentale sia anche l'accreditamento dei servizi sia nei confronti delle amministrazioni che della domanda sociale. Questo non può essere fatto unicamente fornendo informazioni, occorre avere una strategia, che adesso penso che arriverà una brutta parola, chiamiamola pure parolaccia: "la marca". La marca è un'insieme di promesse differenzianti che mettono in comunicazione il prodotto e il suo utilizzatore o un'istituzione e isuoi componenti. Vi chiedo se questo problema di pensare a se stessi, in quanto anche produttori di servizio, in termini di costruire se stessi come marca, non sia qualcosa su cui riflettere. La pubblicità insegna che l'identificazione non arriva immediatamente ma attraverso una serie di stadi che sono la differenziazione e la rilevanza, cioè far si che i gruppi a cui vogliamo connetterci colgano l'importanza di quello che facciamo nei loro confronti. Può sembrare un ragionamento abbastanza astratto, ma non è così. Lo dicevo 2 anni fa a un convegno dove si parlava, per esempio, dell'Asl, il marketing dell'Asl. Si faceva un ragionamento banale, ma che ha colpito molto: un conto è se uno va all'ospedale a Milano tal dei tali, un conto è se va a farsi ricoverare all'Humanitas. All'Humanitas si aspetta un trattamento di un certo tipo e, probabilmente, chi gestisce quella realtà dovrebbe far si che al nome poi corrisponda un comportamento. Ritengo che anche nel vostro settore ci siano marche, quindi singole personalità che siano più conosciute, meno conosciute, più rilevanti, meno rilevanti, ecc. Credo che sia importante questo, perché anche all'interno del terzo settore si compete in termini di accreditamento verso l'istituzione, o di accreditamento verso la domanda sociale. Probabilmente dobbiamo dare delle risposte di affidabilità, di legittimazione, anche attraverso la costruzione di noi stessi come marche. La comunicazione sociale, il marketing sociale sono necessari per una corretta offerta sociale. Preparandomi per questo incontro mi è venuta un'idea, probabilmente un'idea stupida, che però mi ha intrigato abbastanza: i temi del disagio e dell'emarginazione hanno anche loro un ciclo di vita come i prodotti? Chi lavora in questo settore come si pone da questo punto di vista? Parliamo di una questione che ha avuto una certa eco: ho fatto fare una ricerca di lanci Ansa, dicevo prima, noi ci lavoriamo soprattutto nella parte della salute e vedete che gennaio è stato dominato dall'argomento mucca pazza, che poi è sparito sostanzialmente dall'orizzonte, poi ci sono dei picchi riguardanti la clonazione, ovviamente, le biotecnologie, il volontariato aveva una citazione sola nell'ambito dei lanci Ansa della salute, quindi questo magari può far riflettere. Poi siamo arrivati ad agosto con il caso Lipobay. Quindi è vero che si va al traino, oppure che cosa succede dopo? Adesso dice 200 lanci sulla mucca pazza. Dopo i primi due mesi che cosa è rimasto dal punto di vista della sicurezza alimentare? Di quello che sono i problemi di produzione? Se non si ha un atteggiamento di tipo strategico, poi si corre dietro alle notizie che poi spariscono nella nebbia lasciando pochissimo. Mi sarebbe piaciuto parlare dell'ultima cosa, ma mi è stato caldamente raccomandato di non farlo per rispetto alle indagini in corso, ma mi sarebbe piaciuto chiedere ad ognuno di voi quanti sono i morti in Italia per il Lipobay, facendo 4 o 5 classificazioni: più di 50, meno di 50, più di 10, meno di 10, e poi magari essere in grado di darvi la risposta. Alla fine, cioè il discorso dei mutamenti di priorità, vorrei dire soltanto questo, poi magari possiamo parlarne in sede di dibattito se la cosa interessa. Ho letto in vacanza, perché è l'unico momento in cui i pubblicitari leggono, un libretto molto bello di Edgar Morin, che penso sia un sociologo piuttosto noto, che dice: "coi suoi 7 saperi è necessaria l'educazione del futuro". E li elencava dando poi una giustificazione a ciascuno di questi. Nell'ambito di quel convegno di pubblicitari che vi ho detto prima, qualcuno ha ripreso quello scritto di Calvino sulle lezioni americane: fra i temi per il prossimo millennio, per poter uscire anche dalla nebbia (e lo metto non come provocazione ma come momento di riflessione) credo che probabilmente dovremmo riuscire a mettere insieme il cosa ed il come in una specie di matrice della comunicazione sociale, perché alla fine credo che la priorità sia quella veramente di ritornare al cosa. Se vogliamo ai miei tempi, all'educazione civica. 


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.