IX Redattore Sociale 6-8 dicembre 2002

Maschere

L'altra informazione ci salverà? Linguaggio, attendibilità, potenzialità dei media "non allineati"

Dibattito con Franco Bomprezzi, Carlo Gubitosa, Jason Nardi (Direttore www.unimondo.it)*, Matteo Pasquinelli (Curatore progetto Rekombinant)*. Coordina Stefano Trasatti

Franco BOMPREZZI

Franco BOMPREZZI

Giornalista, collabora con Corriere.it e il settimanale Vita, portavoce della Ledha.

ultimo aggiornamento 28 aprile 2011

Carlo GUBITOSA

Carlo GUBITOSA

Ingegnere delle telecomunicazioni, giornalista freelance e saggista. Dal 1995 collabora con i principali periodici italiani di informazione indipendente. Nel 2009 ha fondato Mamma! (www.mamma.am), la prima rivista italiana di giornalismo a fumetti. Nel 2012 inaugura il primo laboratorio di Graphic Journalism e Microeditoria in ambito universitario, all’interno della laurea triennale in Scienze della Comunicazione dell’Università di Bologna. Twitter: @carlogubi.

ultimo aggiornamento 30 novembre 2013

Stefano TRASATTI

Stefano TRASATTI

Responsabile comunicazione di CSVnet, ha fondato e diretto Redattore sociale da febbraio 2001 a marzo 2016 ed ha organizzato dal 1994 al 2016 gli omonimi seminari di formazione per i giornalisti. Ha coordinato i progetti “Parlare civile” (2013) e “Questione d’immagine” (2015), rispettivamente sul linguaggio e le immagini utilizzate dal giornalismo nel racconto dei temi sociali più a rischio di discriminazione.

 

Stefano Trasatti *

Un punto interrogativo che nasconde una criticità. Noi facciamo "l'altra informazione": ci vantiamo, per questo, di fare un'informazione indipendente, ma visto che ci piace macerarci, allora ci poniamo queste criticità. Non voglio enfatizzare il pessimismo, perché ne abbiamo avuto molto ieri, quindi parleremo di futuro. Parto dall'analisi che è stata fatta per spezzoni più volte in questi giorni. Si è parlato di un giornalismo in crisi, non solo della Rai, di un giornalismo sempre più debole nel rispondere alle pressioni economiche e politiche, sempre più dipendente dall'informazione pre-confezionata, di concentrazione editoriale, di una professione giornalistica sempre più frustrata perché non riesce a lavorare con tempi adeguati, con la dovuta indipendenza, con una stabilità. C'è sempre più precarietà, perché freelance è bello, però.  

Siamo davanti ad un'illusione o è la verità quella che avvertiamo?  

I nuovi mezzi d'informazione hanno intaccato quella che era l'esclusività della professione giornalistica. L'opinione pubblica avverte tutto questo? Avverte questa crisi? Qui ci sono opinioni contrastanti e, ieri sera, sono venuti fuori diversi punti di vista. E' emerso, comunque, che ci sono embrioni di forme di protesta e di boicottaggio anche visibili. Si avverte un calo di stima rispetto alla professione giornalistica. Oggi me ne è arrivata una: Milano, venerdì 13, grande festa per lo sciopero dei telespettatori. Dalle 21 alle 23 in tutte le vetture della linea tranviaria 30 di Milano ci sarà minibar e minidj, poi si andrà in un posto a Ponte delle Gabelle dove si mangia, si ascolta musica, ecc. Questo è solo un esempio, ma ce ne sono altri. Il motivo di speranza più forte, avvertito da molti, è che la crisi dell'informazione, dell'informazione generalista, apra dei varchi, degli interstizi, delle crepe, dove possa passare con più efficacia, qualche messaggio alternativo. Qui abbiamo 4 persone che. una ne fanno e cento ne pensano. sono persone che hanno molte idee, che hanno esperienza. Sono 4 dei tanti che su questi argomenti, su queste pratiche, si esercitano e fanno delle cose da anni. Chiedo: visto che la "contro" o "altra" informazione - poi ci metteremo d'accordo sulla sua terminologia - ha superato in Italia la fase della prima infanzia, forse ed è nell'adolescenza, o nella pre-adolescenza, ecco. tutti gli errori commessi, tutte le esperienze fatte, a che grado di maturazione ci hanno portato? E poi ancora. Formulo diverse domande poi ognuno svilupperà ciò che crede, secondo una scaletta precedentemente consegnata. Ha ancora un senso, oggi, parlare d'informazione alternativa? E veniamo alla terminologia: è meglio usare "indipendente"? Indipendente ma da cosa, da chi? Poi sull'efficacia. Se facciamo informazione, la facciamo perché raggiunga qualche obiettivo, perché sia efficace, perché faccia qualcosa. Dobbiamo essere soltanto fonte per contaminare l'informazione generale, la grande informazione, o dobbiamo più puntare a diventare un mezzo d'informazione primaria alternativo agli altri? O, magari, tutti e due? Qui ogni esperienza è diversa. Noi puntiamo al primo obiettivo, perché siamo nati come agenzia indirizzata ai giornalisti. E poi, come si può consolidare l'affidabilità informativa? Anche questa è una questione importante, perché si può fare informazione, ma se poi non sei affidabile, se non sei credibile, come fai?  

Mezzi d'informazione "altri"  

Mi viene in mente la rete che è quello meno costoso ed è il primo che si è sviluppato . E' anche grazie alla rete che si è sviluppata gran parte di questo tipo d'informazione. Ma possono esserci anche altri mezzi di diffusione oltre la rete? Altra questione sull'affidabilità, sulla credibilità: come si può conciliare la militanza - che un po' c'è per tutti - con la credibilità informativa? Come salvaguardare la ricchezza, la spontaneità delle forme informative non convenzionali? Io faccio sempre un particolare esempio. Negli ultimi tempi in Palestina e adesso anche in Iraq ci sono stati sempre di più esperimenti di invio di volontari che vanno lì, fanno interposizione umanitaria e poi mandano le loro testimonianze alle loro testate. Noi non le abbiamo mai pubblicate queste testimonianze se prima non erano concordate con noi, perché crediamo che ci sia una serie di regole giornalistiche che vanno rispettate. Poi una domanda a Franco: il titolo del suo intervento "fare un'informazione sociale oggi?". Quale senso ha? Questa è una domanda che potremo sviluppare a partire da quello che ci ha detto Vitale. Nel suo intervento mi ha dato speranza, nonostante il quadro molto crudo. L'informazione sociale è destinata ad essere o rimanere soltanto un'informazione di nicchia? Se economicamente è destinata a una perenne precarietà o, nei casi peggiori, al fallimento. Quale futuro per questo tipo di informazione? Noi siamo durati quasi 2 anni, chissà se dureremo. Non so. Ma ci sono esperienze molto belle che nascono e muoiono nel giro di 3-4 anni, anche di meno. Non voglio tirare iella, è proprio una precarietà che tutti viviamo. Anche Franco, che sembra il più forte perché lavora su un portale che è finanziato dall'Inail, se l'Inail un giorno decide di chiudere il portale il suo lavoro sparisce. In questo tipo di informazione si può attrarre pubblicità? E poi passiamo ad un altro campo. Ma con quale etica? Noi ci facciamo vanto del fatto che Redattore Sociale non ha pubblicità. Ce ne facciamo un punto d'onore, ma se la pubblicità ce la dessero noi ce la metteremmo, ve lo confesso! Poi anche noi faremo le nostre considerazioni. Questo per dire se può esserci una sostenibilità economica alternativa?  

Chiudo con alcuni pericoli, tanto per finire con le criticità

Ci sono alcuni pericoli che io vedo in tutte queste forme, nelle più conosciute e soprattutto nelle meno conosciute, nelle più "libere". Pericoli sulla qualità, pericoli che potrebbero minare il futuro di questa informazione, che forse potrebbe salvarci: il primo è l'autoreferenzialità nel linguaggio, nei presunti destinatari. Il secondo è l'indefinitezza a volte della platea a cui ci si rivolge. Ci si rivolge o all'opinione pubblica in generale, o al mondo dell'informazione, o della politica, o dell'associazionismo: sono comunque interlocutori difficili. Poi ci sono altri aspetti oltre a quello, già accennato, del controllo delle fonti e penso all'individuabilità di chi scrive, l'anonimato, la scansione dei messaggi, la lunghezza, la brevità, la gradevolezza, l'ideologismo a volte e anche un po' di narcisismo. Ecco io vorrei che, iniziando da Franco Bomprezzi, queste 4 persone cominciassero a dirci qualcosa su questi temi, provando a rispondere a queste domande. Poi vorrei coinvolgere tutti i partecipanti. Ci sono già Angelo Agostini e Antonio Ramenghi, c'è Roberto Morrione che insieme a loro sarà protagonista della tavola rotonda di domani mattinata. Morrione è direttore di una rete Rai, quindi ha a che fare con l'informazione istituzionale per eccellenza, ma ha provato a fare un tipo d'informazione diversa, l'informazione alternativa, che rientra nel discorso che abbiamo fatto stasera.  

Franco Bomprezzi* 

Il senso di un'informazione "sociale oggi"  

Questa scaletta me la sono riletta più volte prima di venire qua. Bhè, trovo che qui ci sia veramente il senso della nostra vita, di quello che abbiamo fatto, di quello che facciamo, di quello che vorremmo fare, di quello che magari chi si affaccia a questo mestiere da poco pensa che sia la sua missione o, per lo meno, un buon motivo per fare il giornalista. Un altro dei nostri problemi, aggiungo io, è il tempo. Intanto voglio dirvi che prima avete visto Stefano Trasatti che è stato un ottimo portatore di handicap. Lui si. Perché lui mi ha portato su e mi ha spinto, quindi era lui il vero portatore di handicap. Questo tanto per togliere una delle maschere, uno dei luoghi comuni sbagliati. Non smetterò mai di dirlo: per favore toglietevi alcune parole dalla testa, buttatele via nel cestino e ricominciamo da capo. E passo al tema sollecitato, ai temi sollecitati. Ho continuato a rileggere il titolo "Maschere. I fatti sono un velo dietro il quale la verità si nasconde". Ho detto. Maschere, maschere, maschere... maschere-persone.. persona voleva dire maschera, o no? Si. Allora dico, noi ci battiamo da sempre - io almeno lo faccio come giornalista che si occupa adesso di disabilità - per i diritti delle persone con disabilità e ci teniamo moltissimo a sottolineare la parola "persona". Con questo riteniamo di sviluppare il diritto a occuparsi di individui della cui esistenza siamo certi e dei cui diritti siamo altrettanto sicuri. E poi, vedendo questa parola "maschere" mi è ritornata in mente l'etimologia di "persona". Mi è venuto qualche dubbio. Mi è venuto il dubbio che, comunque, anche quando vogliamo occuparci di persone, in realtà vogliamo occuparci dell'immagine che quella persona trasmette, cioè abbiamo comunque deciso di affidare ad un gruppo una classificazione.  
Ecco che, quindi, tutti i temi dei quali il giornalismo sociale si occupa, hanno un'identità di persona, hanno un maschera ed è estremamente difficile per chi non è al dentro al codice di quel settore specifico capire cosa c'è dietro quella maschera, quali sono i fatti, quali sono le realtà, le esistenze.  

Assetati di risposte veloci  

Uno dei primi difetti che vedo in questa fase del giornalismo sociale è che non è più tanto trasversale, non si contamina più tanto, siamo diventati bravissimi, abbastanza bravi, insomma. Bravini, ognuno nel proprio campo. Tu fai un'opera quotidiana di sintesi, di mediazione culturale di formazione con un'agenzia "scommessa", chiamiamola così, come Redattore Sociale e, giustamente, hai detto adesso una cosa importantissima: non è detto che duri. Scaramanticamente facciamo tutti il tifo che duri in eterno. Una sensazione che ho io è che tutti vivano le realtà che esistono nel campo dell'informazione come date assodate. Non è così. Sono conquiste quotidiane, sono la conquista di un lavoro che si autolegittima nel momento in cui produce, non bisogna mai dare per scontato il fatto di esistere... Io credo che uno dei problemi attuali dell'informazione sociale sia proprio questo. Era necessario arrivare a essere molto competenti, era necessario che ognuno si prendesse un pezzetto e lo sviluppasse andando a fondo. Probabilmente le nuove tecnologie e la rete hanno ulteriormente alimentato questo meccanismo, perché ogni buon costruttore di contenuti di un sito web, prima di tutto, lavora sull'albero di navigazione, lavora sui concetti e lavora sulla classificazione di quelli che sono i temi che gli stanno a cuore, quelli che devono assolutamente essere sviluppati e trattati in quel sito. Nello stesso momento in cui fa questa scelta ha escluso gli altri ma noi questa operazione la percepiamo solo dopo. Quand'è che ce ne accorgiamo? Quando ci arriva una notizia che non sta in nessuna parte o che si presenta come notizia trasversale.  
Per esempio disabilità e immigrazione. Be', con Giovanni Merlo, responsabile del canale Tempo Libero, abbiamo inventato "Rotta a Sud", non sapevamo più che fare. Abbiamo inventato una sezione che si chiama in questo modo per parlare dell'altra disabilità, quella dei paesi in via di sviluppo, quella dei paesi che hanno disabilità derivanti dalla povertà, quelle nelle quali, ancora adesso, la poliomielite è una delle malattie più diffuse. E allora noi, disabili occidentali - molto evoluti, molto colti, molto pronti a fare diecimila battaglie per riconoscere le associazioni storiche - non siamo capaci di valutare esattamente la differenza tra la nostra situazione e quella degli altri paesi.  
Allora non esiste una cultura della disabilità riferita alle questioni delle quali voi tutti vi occupate. Voglio dire che in chi si occupa d'altro non c'è la percezione che anche la disabilità sia un tema forte. L'ho notato con l'ambientalismo. Negli ultimi anni ho fatto grande fatica a spiegare ad amici e colleghi che si occupano di riviste dedicate all'ambiente, o a pubblicazioni dedicate all'ambiente, che esiste un problema di accessibilità per tutte le persone disabili - non solo quelle che sono in sedia a rotelle, ma anche non vedenti, ipovedenti, disabili cognitivi e relazionali - che hanno diritto di fruire dell'ambiente. Nel sentirmi parlare di queste cose mi sono trovato davanti gente che, all'improvviso, ha iniziato a sgranare di occhi e dire, incredula: "ma davvero?  Ma è vero, non ci avevamo pensato!". Allora qual è il vero problema? Non si è mai parlato oggi, se devo dire, non l'ho mai sentita una parola: "curiosità". Quando io ho cominciato a fare il giornalista una regoletta che mi avevano insegnato era la curiosità. Tu devi essere curioso, devi chiederti e chiedere perché? Devi continuare ogni giorno a chiedere perché.
Invece noi siamo assetati, per brevità, scarsezza di tempo, per la necessità di confezionare comunque un prodotto. La mancanza di curiosità professionale è una cosa che volevo mettere sul piatto. Io vedo questa cosa come una delle grandi malattie di questi ultimi anni. Si ha a che fare con giornalisti, non dico pigri, perché poi lavorano tante ore, lavoriamo tantissimo. Però si ha a che fare con giornalisti che non hanno più quella voglia di saperne di più, quel tantino di più che rende il tuo servizio diverso rispetto a quello di un tuo collega anche a parità di agenzia d'informazione dalla quale sei partito.  

Siamo tutti "disabili"?  

L'altra cosa di cui, allora si va in caccia, sono i dati. Dammi i numeri! Ci chiedono i numeri... ma porca di una miseria... se non ce li ho i numeri! E se i numeri sono sbagliati? E se i numeri li ha dati il governo? E se i numeri li ha dati un'associazione che in quel momento aveva tutto l'interesse a gonfiarli, quei numeri? I disabili in Italia sono 5 milioni. No. Sono 8 milioni. No sono 12 milioni... ma insomma, ma quanti sono? Non lo so. Lo sai tu quanti sono i disabili in Italia?  
No, non lo so. Perché? Perché non sappiamo chi sono le persone disabili, non ci siamo messi d'accordo su questo. Perché allora uno comincia a dire: sono disabili solo quelli in sedia a rotelle, o ciechi, oppure con disabilità intellettiva? No, sono quelli anziani che sono anche immobili. Sono quelli che hanno il diabete, ipertesi. Sono quelli obesi. Poi c'è qualcuno che ce le mette tutte insieme. E allora siamo tutti disabili ed ecco che arriviamo al paradosso, per cui abbiamo dato i numeri, tutti i numeri possibili e abbiamo scannato completamente l'informazione. Io diffido delle tabelle, diffido dei telegiornali nei quali mi viene sempre detto quanti siamo. Ma come fanno a contarci?  
Accidenti... io dico basta! Proviamo a tornare indietro, fermarci, perché c'è una ridondanza di notizie, di informazioni non verificate, che poi si autoalimentano, perché uno pubblica una tabella, l'altro il giorno dopo la riprende e poi ci aggiunge qualcosina. Nel giro di un mese quella tabella è diventata un'altra cosa, la ritrovi su un mensile, cresce un blob. E' pazzesco ed è questa specie di situazione che sta facendo si che poi perdiamo di vista alcune battaglie fondamentali, quelle sulle quali dovremmo essere tutti d'accordo. Se non ci fosse Redattore Sociale, diciamo la verità, in quali luoghi in Italia si riempie una sala così di persone a ragionare su che cavolo stiamo facendo? Che, peraltro, mi sembra una domanda fondamentale. Nn buon motivo per stare insieme, oltre al piacere di essere qua. Eppure è fondamentale.  

Disabile uguale sfigato  

Credo che l'esperimento che sto facendo adesso - lo dico proprio in due secondi - è quello di dare dignità di notizia a un mondo che non ne ha mai avuta.  
Non ne ha mai avuta per il semplice buon motivo che appunto i disabili, le persone disabili, sono da sempre considerate gli sfigati. Insomma la pubblicità non si può fare con l'handicap perché porta male e non fa vendere, quindi, pubblicità via. Informazione, almeno quella. No, perché quella diventa ghetto, allora si dice no. Volete fare un programma in TV sulla disabilità?  
Ma quello è un ghetto! Va be' ho capito, ma da qualche parte dovremo parlarne. No, ma andate nei talk show... ma cosa ci andate a fare nei talk show... quella è Tv del dolore! Va bhe', allora. Da qualche parte dovremmo raccontare questo mondo in qualche modo, o no? Dovremmo pur riuscirci! Allora io credo che vero professionismo nell'informazione sociale sia contaminarsi un po' di più. Avere il coraggio di "sporcarsi un po' le mani". Il concetto è che io debba parlare con un giornalista del Corriere della Sera, devo spiegar qualcosa, o a Famiglia Cristiana, o a Sorrisi & Canzoni... perché semmai si occuperà di disabilità non scriva, possibilmente, delle cose indegne. Dovrò essere io a dargli degli spunti che poi lui tratterà a modo suo. Ma questa cosa io la devo fare. E credo che questo sia il compito dell'informazione sociale. Concludo dandoti di nuovo - tanto tu l'hai già pubblicato - un esempio di battaglia invisibile. Fermate il ponte di Calatrava. Può alzare la mano chi sa cos'è il Ponte di Calatrava? Quanti 5? Ragazzi siete i miei migliori amici, cioè. I giornalisti del sociale. Voi non sapete che in questo momento a Venezia si sta progettando il quarto ponte sul Canal Grande, opera di un grande architetto, Santiago Calatrava, il più grande progettista di ponti. Inaccessibile. Va bene? Ma lo hanno detto loro, cioè lo ha detto il comune di Venezia. Vi diamo i vaporetti. Cosa volete anche attraversare il ponte? Ma siete scemi? Scusate, ma purtroppo non c'è da ridere, perché questa cosa l'ha tirata fuori Gianantonio Stella sul Corriere della Sera, al buon Gianantonio Stella del quale sono anche amico.  
Dopo avergli fornito documentazione tecnica successiva, fatta da tecnici, adesso stanno arrivando appelli da tutto il mondo: fermatelo!! Da tutto il mondo.  
Li abbiamo pubblicati su Superabile.it, l'abbiamo dati ai giornali veneziani, ma non è successo niente. Ho chiesto a Gianantonio Stella: ci fai un altro articolo? Io non torno mai sul luogo del delitto. Be', però non è detto, ne hai parlato 3 mesi. Allora c'è qualcosa che non funziona. Anche notizie che sono notiziabili, che sono veramente notiziabili, non passano, ma forse se voi avete alzato la mano in 5 qualche problemino ce l'abbiamo anche fra di noi.  
Ognuno, secondo me, legge il suo sito web, si guarda il suo bollettino, guarda la sua rivista e proprio in via del tutto eccezionale, va a guardarsi Corriere.it, Repubblica.it e Redattore Sociale.  

Carlo Gubitosa*   

L'informazione alternativa e la società civile 

Io sono Carlo Gubitosa e collaboro con un sito che si chiama peacelink.it. Vi chiedo scusa se il mio intervento sarà un po' slegato e disorganico, però devo ancora riprendermi da un trauma che ho avuto pochi minuti fa. Immaginate un seminarista tutto infervorato, convinto della sua scelta di vita, che va in udienza dal Papa e il Papa gli dice: in fin dei conti questi sexy shop danno lavoro. Tolgono la gente, la clientela dalla prostituzione. Rispondono a necessità fisiologiche dell'uomo, ma si... in fin dei conti non fanno male a nessuno. Ecco, arrivare qui con una tessera di giornalista, molto, molto fresca e sentire una persona che è un riferimento per il mio ordine professionale dire: "questa freepress in fin dei conti serve per l'alfabetizzazione degli immigrati, non fa male a nessuno, fa leggere più giornali" è un trauma dal quale ancora devo riprendermi. Ed è un trauma, però, che mi fa agganciare al senso di quello che sto per dire.  
E' vero - per fare un paragone gastronomico - che i Mc Donalds sono ristoranti economici dove un immigrato ci fa mangiare tutta la famiglia..  
Dove si può cenare a prezzi ragionevoli e che in fin dei conti non fanno male a nessuno. Si, ma per favore non li chiamiamo ristoranti. C'è una differenza tra il fast-food e la ristorazione, così come c'è una differenza tra il giornalismo e la freepress. Ora, questa cosa non è così sottile ed è proprio qui che (...)  strumenti per capire la differenza tra un'inchiesta e un'Ansa ricucinata, tra un servizio che per farlo ci vogliono 3 settimane sul posto e una giusta posizione di notizie di agenzia fatta su un desk. Perché non c'è il monopolio del Mc Donalds nella ristorazione?  
Perché abbiamo una cultura, a livello di nazione, di paese, abbiamo una cultura gastronomica che ci fa distinguere il cibo buono dall'immondizia, ci fa distinguere l'olio spremuto a freddo col frantoio di pietra, dalla spremitura a caldo con i solventi delle bucce di oliva cadute per terra.  
Questo dal punto di vista dell'informazione non c'è. Non c'è un equivalente consumo critico, un'equivalente consapevolezza gastronomica, non ci sono dei gourmet dell'informazione, non c'è una cultura dell'informazione che ci fa distinguere il giornale fatto con professionalità, dalla freepress, l'inchiesta dall'Ansa ricucinata, la foto del giornalista che va sul posto, dalla foto d'agenzia che trovi uguale su tutti i quotidiani lo stesso giorno. Allora, il punto critico dell'informazione sociale sta forse proprio qui.  

Comunicazione, bidirezionalità e creatività  

Io, più che informazione sociale la chiamo comunicazione sociale, dando un significato più ampio. Vi consiglio la lettura di un bellissimo libro di Danilo Dolci, che è un non violento italiano molto poco conosciuto, che ha scritto un libro che si chiama "Dal trasmettere al comunicare", in cui spiega che quelli che noi chiamiamo mezzi di comunicazione di massa, in realtà non sono altro che dei mezzi di trasmissione di massa, perché lui definisce comunicazione qualcosa che ha delle caratteristiche: reciproco adattamento creativo, questa è la definizione di comunicazione secondo Daniele Dolci, reciproco adattamento creativo. Reciproco perché impone una bidirezionalità, un mettersi in discussione anche da parte di chi produce informazione. Adattamento perché nel momento in cui tu fai comunicazione ti lasci interpellare, cambiare dalle cose che incontri, dalle realtà che vivi, dai problemi che racconti. Creativo perché la comunicazione non è qualcosa di fine a sé stesso, è qualcosa che ha in sé la generatività, il cambiamento della realtà che la circonda. Per cui, dicevo, il ruolo della comunicazione sociale contro, d'altra parte, l'informazione commerciale, è proprio quello di svelare che il re è nudo, di far capire alla gente così come se andiamo per strada e troviamo una bancarella del pesce che regala il pesce, qualsiasi donna di casa storcerebbe il naso pensando mah.. è pesce andato a male? È pesce radioattivo? L'hanno portato da Cernobyl? Chissà cosa mi succede mangiando questo pesce. Così di fronte alla freepress e ad altri fenomeni molto sbilanciati sul settore commerciale, il settore della comunicazione sociale dà degli strumenti per capire che forse c'è qualcosa che non va. Che sono degli ottimi strumenti di alfabetizzazione.  
Ma per favore non chiamiamoli giornali... soprattutto perché qui ci sarebbe un capitolo ampio da aprire, perché chi ci lavora dentro non è trattato come un giornalista, ma come un ingranaggio di una catena di montaggio. Chiudo il capitolo sulla freepress.  

Alla ricerca di un senso critico  

Il problema non è avere su un piatto della bilancia l'informazione commerciale e dall'altro la comunicazione sociale, perché questa questione sta portando dibattiti e nodi su temi quali "ma ci vuole un bollino blu per i siti d'informazione che garantisca il lettore".. "ma il sito deve essere registrato con un direttore responsabile". Non è questo il problema.  
Io ho fatto per anni lo scout, nessuno mi ha chiesto la laurea in pedagogia, nessuno mi ha chiesto competenze particolari per trattare con i bambini, ho avuto nel mio gruppo scouts anche bambini disabili, nessuno mi ha chiesto particolari certificati.  
Allo stesso modo c'è una società civile che ha come interlocutore la politica: alla società civile non si chiede di fare i politici di professione, alle associazioni di consumatori non si chiede di fare i ristoratori, o i macellai, ma hanno il diritto di esprimersi sulla qualità dei cibi. All'informazione sociale si chiede non di fare l'altro piatto della bilancia, ma di pungolare dal basso il settore dell'informazione commerciale e di dare, a chi fa informazione di mestiere, degli strumenti nuovi per capire che non si può fare tutto solo ed esclusivamente perché c'è un padrone che lo chiede.  
Il punto è che serve senso critico, la capacità di dire: ok, faccio quello che mi chiedi, ma i criteri da adottare e il modo da usare lo decido io.  
Il punto è che una nuova generazione di operatori dell'informazione sta crescendo in redazioni virtuali, dove ci sono 3 persone che fanno desk e tutti gli altri fuori, collaboratori esterni. Sta crescendo senza la consapevolezza del grandissimo potere che ciascuna persona ha, con un semplice computer collegato a internet, che rende il tuo messaggio uguale a quello di tutti gli altri e che ha permesso a me a un gruppo di altre 9 persone di far chiudere una sezione dello stabilimento siderurgico Ilva semplicemente pubblicando delle foto in rete. Anche il ruolo della comunicazione sociale è quello di aiutare a far scrollare da dosso il senso di sudditanza e capire che, anche se ho 25 anni, anche se sono l'ultimo arrivato in una redazione, anche se non ho un contratto di lavoro, sono una persona con una dignità, delle idee e un potenziale informativo che nella storia dell'umanità non ha precedenti, grazie alle nuove tecnologie.  
E allora questa informazione sociale deve tentare non di conquistare l'audience ad ogni costo. Non è quello di trascinare altrove tutto il pubblico della carta stampata, o della televisione, perché in questo modo sostituiamo semplicemente le sciocchezze che dice Bruno Vespa, alle sciocchezze che diciamo noi.  
Il punto è dare degli strumenti culturali e cognitivi, che non vengono forniti dall'informazione commerciale che ha tutto l'interesse ad attirare audience sulla pubblicità. Dare degli strumenti culturali e cognitivi affinché la gente, in autonomia e libertà, possa capire quando io, Bruno Vespa, o chiunque altro dice delle cavolate. Ed è una prospettiva molto diversa.  

Il consumo critico d'informazione  

Spesso questi gruppi d'informazione alternativa vengono presentati come delle lobbies che vogliono fare breccia nel muro del potere, dell'impero dei media, mentre invece sono, in realtà, delle persone che vogliono semplicemente fare un'azione di servizio, affinché il settore dell'informazione professionale sia profondamente messo in discussione e affinché, visto che prima si parlava di ricerca della verità, la gente si chieda: che verità c'è nella recensione di un libro Fabbri o Sansoni, pubblicata sul Corriere della Sera?  
Che verità c'è nelle recensioni di un libro Fabbri fatta dal Corriere, quando la Fabbri e il Corriere appartengono allo stesso gruppo editoriale ed è come se il marito facesse la recensione della moglie? Ma quanti in Italia sanno che la Fabbri e la Sansoni fanno parte dello stesso grande gruppo editoriale? Quelli che bazzicano i circuiti della comunicazione sociale... Allora, il punto è quello di sensibilizzare, con il nostro aiuto, ma senza presunzione, con l'aiuto delle cose che voi vorrete leggere, con l'aiuto del percorso professionale che farete - e che purtroppo è abbandonato solo alla vostra buona volontà seppur con l'aiuto di tanti strumenti - non solo chi fa queste cose di professione, ma tutti quanti. Una categoria che io chiamo "consumo critico d'informazione".  
Quando compriamo le banane Chiquita, o il latte Nestlè, ormai abbiamo imparato a chiederci: ma questi qua chi li produce? Da dove vengono? Vengono utilizzati con lo sfruttamento dei lavoratori? Il consumo critico d'informazione è invece qualcosa che uno mette in atto quando va nel supermercato e compra il libro dei miti Mondadori con il cellophan a 3000 lire. Magari i contenuti sono stupendi, magari è il Vangelo stampato nei miti Mondadori nello scaffale del supermercato, però il consumo critico dell'informazione è chiedersi: che modello di editoria io sviluppo comprando i libri negli autogrill e nei supermercati? Comprando il libro di uno che può guadagnare un centesimo a copia sto facendo un killeraggio mediatico dei piccoli editori che non possono avere margini così bassi? Sto inconsapevolmente buttando con un piede nella fossa i piccoli produttori indipendenti di libri che non possono arrivare fino negli autogrill e nei supermercati?  
Ed è questo quello che si cerca di fare. E' proprio per questo che il settore della comunicazione sociale viene visto sempre come un antagonista, come qualcosa che cerca di fare il giornalista meglio dei giornalisti senza le competenze, senza le professionalità e senza gli strumenti, mentre invece è tutt'altro.  
E' qualcosa che chiama i giornalisti a rispondere del loro operato proprio in base ai loro stessi canoni professionali, in base alla carta di Treviso che tutela il rispetto dei minori e che sembra che ormai sia carta straccia.  

Stampa: settore di servizio o settore commerciale?  

La suggestione con cui vi lascio è quella di capire che esiste anche un settore della comunicazione, non dell'informazione, che si è reso conto di un dato di fatto: che dal '98 la stampa quotidiana non è più un settore di servizio, ma è un settore commerciale, perché è dal 1998 che i ricavi del venduto sono stati superati dai ricavi della pubblicità. Dal 1998 un giornale può permettersi di perdere un lettore o anche 1000 lettori, ma non un inserzionista pubblicitario. Di fronte a questa situazione c'è chi sta proponendo un altro modello d'informazione che metta in crisi 3 paradigmi: il paradigma dell'audience, il paradigma della velocità e il paradigma della sostenibilità economica.  
Il primo paradigma, quello dell'audience, è messo in discussione perché c'è quel detto: mangiate cacca perché milioni di mosche non possono sbagliarsi. Ciò dà l'idea di come il rivolgersi, il fare una rete di tanti soggetti fortemente competenti, come diceva prima giustamente Bomprezzi, che si rivolgono ad un pubblico limitato, non è necessariamente una cosa che ti sminuisce. Anzi, spesso la ricerca dell'audience è una cosa che t'impoverisce. Vi faccio un esempio per tutti, per dare proprio un modello di scelte professionali. C'è una ragazza che si chiama Ilaria Cavo ed è la direttrice delle news di una emittente genovese che si chiama Primo Canale. Io al suo posto sarei stato la persona più felice della terra perché avevo libertà, avevo possibilità di esprimere la mia creatività, la mia professionalità. Questa ragazza ha censurato un filmato in cui si vedeva una bustina con due molotov in mano ai più alti funzionari delle forze dell'ordine, dicendo che era un'informazione soggetta a interpretazioni. Io vorrei vedere quale informazione non è soggetta ad interpretazioni: cosa è andata a fare di mestiere? A tenere il microfono a Bruno Vespa. Ma la colpa no è sua, è colpa di chi le ha messo in testa che la maggiore realizzazione professionale è quella di farsi vedere da milioni di persone, anziché essere persona autonoma, produttiva e creativa in un ambiente limitato.  

Cooperative informative  

La seconda cosa da mettere in discussione è la velocità. Ma perché devo essere informato su quello che è successo 3 secondi fa? Perché non devo saper distinguere dal punto di vista dell'informazione tra il pecorino di fossa o il parmigiano stagionato 12 anni e il formaggino Mio, fatto con le sostanze chimiche? Perché non devo essere messo in grado di giudicare un approfondimento serio, fatto da un lavoro d'inchiesta, dalla notizia d'agenzia battuta col tempo che tutti conosciamo e con la possibilità di verifica che tutti conosciamo.  
E il terzo paradigma, che è quello più difficile da scalfire, è quello della sostenibilità economica. Ci sono un sacco di realtà culturali, gastronomiche, artistiche agricole che si gestiscono con il principio della cooperazione, della solidarietà.  
Ci sono cooperative agricole, cooperative edilizie, ma perché non ci possono essere anche delle cooperative informative in cui 100 persone invece di cambiarsi il telefonino mettono un po' di soldi e producono dell'informazione che in quel modo si autosostiene? Io ho fatto l'esperienza dei volantini a offerta libera, fatela anche voi. Andate in un'associazione e fate delle fotocopie e distribuitele a offerta libera.  
Guardate che avrete più soldi di quelli che avete speso per le fotocopie e la volta dopo fate il doppio delle fotocopie. E' un meccanismo virtuoso, per cui anche il principio che una realtà che produce informazione debba per forza avere dietro delle gambe solide con le saccocce molto piene, è anche questo un prodotto culturale distorto di quella moralità del mercato di cui si parlava prima. E se il mercato fosse veramente morale, ci sarebbe Bruno Vespa disoccupato e un giornale come Libero che non venderebbe neanche una copia perché si sa qualitativamente in che modo e con che canoni culturali viene prodotto.

Jason Nardi*

Mettere in rete sulla rete

Sono Jason Nardi e dirigo il portale unimondo.org, che è un progetto - speriamo - duraturo. Questa è l'intenzione. Fa parte, a sua volta, di un altro progetto più grande, la cui grandezza è misurata non nei numeri ma nei luoghi. E' oneworld, che è un po' la traduzione inglese. E' un network basato su internet, su una comunicazione che cerca di mettere in rete tante realtà della società civile internazionale e, soprattutto, anche cercare di coinvolgere non solo le realtà di volontariato, di organizzazioni non governative, sindacati, ecc., del nord del mondo, ma piano, piano anche quelle più emarginate dai media tradizionali del sud del mondo, delle periferie del mondo. Se e come questo è un progetto di informazione? Be', vorrei rispondere alla tua prima domanda, se un'altra informazione ci salverà? La risposta è assolutamente no. Non è quello lo scopo. Un'altra comunicazione, invece, forse si, perché c'è una bella differenza tra l'essere un punto di ritrasmissione, di trasmissione di un'ideologia, di un determinato bacino di informazioni e notizie e l'essere invece un punto di aggregazione e di messa insieme di rete tra organizzazione e realtà che agiscono sul territorio. Allora il fine dell'informazione non è il dare la notizia con una consequenzialità e passare poi all'altra, una fotografia di quello che sta succedendo nel mondo, ma di fare in modo che questa informazione che si passa, che il messaggio che si passa da una parte all'altra abbia poi una conseguenza, che sia utilizzata sia per fare accrescere lo spirito critico delle persone, dare degli strumenti per valutare quello che sta succedendo intorno, sia per avere un punto di riferimento sul quale agire, sul quale fare. 

L'indipendenza economica  

I modelli e le possibilità ci sono. Ci vuole molto coraggio, molta forza, perseveranza e soprattutto bisogna cercare di fare un progetto che non dipenda da una o due fonti economiche, ma che abbia un ventaglio differenziato, in maniera che se venga a cadere una, si può sempre sorreggersi e ricominciare dalle altre. Ecco, dunque, progetti che si basino su fondi pubblici, privati, ma anche su servizi, ma anche sull'adesione popolare. E' importante, da questo punto di vista, richiedere che se utilizzi un mezzo d'informazione in qualche modo lo devi sostenere. Mi viene in mente in Italia "radio popolare", ma sicuramente gli esempi degli Stati Uniti sono ancora più forti, perché lì le piccole radio comunitarie, o televisioni locali, veramente riescono a raccogliere intorno a sé l'adesione degli utenti, che non sono semplicemente consumatori o clienti, ma diventano parte, in qualche modo ci credono e quindi lo sostengono direttamente. Ieri sera sono arrivato tardi perché c'era un blocco dei treni nella stazione di Napoli e non si capiva perché, c'era semplicemente il tabellone con i numeri che aumentavano via via un'ora, un'ora e mezza, poi perdo la coincidenza, ecc. Ho chiesto un po' in giro e qualcuno mi ha detto che avevano occupato la stazione di Napoli. Non si sapeva chi, come, quando esattamente, però quella era la causa. La sera sono arrivato, ho acceso la televisione e non ho visto un'informazione riguardo a ciò, però ho visto un'informazione riguardo alla crisi della Fiat e mentre, da una parte, c'era una serie di persone al tavolo governativo, la concertazione, tutti uomini naturalmente.. E la notizia di perché, come, cosa fosse successo alla stazione di Napoli, non l'ho presa da lì. Il linguaggio che ho sentito mi ha fatto riflettere, perché devo dire che quel tipo di comunicazione, anzi d'informazione in questo caso, da me viene letto in un certo modo - perché lo guardo forse anche troppo analiticamente - ma da altre persone viene incamerato come un modo normale di vedere il mondo.  

Il tempo dell'informazione  

Qualcuno prima ha accennato al fatto della velocità, perché dobbiamo sapere dell'ultima cosa. Be' su questo si può discutere. Se abbiamo i mezzi per poter trasmettere e comunicare velocemente cosa sta succedendo, secondo me, non è una cosa negativa. E' la contestualizzazione della notizia che per me è molto importante e se ci sono solo 30 secondi per poter dare una notizia, bene. Allora si può essere bravissimi, si può utilizzare un linguaggio visivo molto evocativo, però quella notizia non sarà mai completa e il perché e le conseguenze di quello che si sta vedendo non verranno mai fuori in quel momento. Se siamo legati a questo tipo di linguaggio non credo che potremo andare molto avanti, cercando di imitare il linguaggio giornalistico, o televisivo. E non solo perché, poi, questo ha influenzato anche i giornali, la radio. Ma il tempo è diventato fondamentale anche per chi vuole fare comunicazione, non solo informazione, perché non c'è più il tempo di recepire, di ascoltare, le nostre vite sono totalmente riempite, prese, che anche il tempo di fruire dell'informazione, di contestualizzarla, di poter avere il tempo critico di rielaborarle, è infinitamente più basso. Se vogliamo cercare di uscire da questo problema di cultura collettiva penso che si debba puntare su un paio di cose.  
Da una parte, se il mondo sta andando in direzione di deregolamentazione generale per - secondo me - un errato senso di che cosa significa libertà, in realtà questa deregolamentazione sta portando una deresponsabilizzazione e una delega successiva a chi deve rendere conto di quello che succede. Il mercato è la macchina motrice, però va deregolamentato.  
Anche il giornalismo, prima lo diceva proprio il presidente dell'ordine, non ha lo scopo di essere responsabile verso le conseguenze di quello che fa. Non sono d'accordo. Secondo me deve esserci una responsabilità sociale di quello che si dice, che è basata, in questo caso, sul fare la propria professione in maniera corretta avendo come riferimento le conseguenze di quello che si fa. Questo ovviamente in maniera altrettanto responsabile. Non sto parlando di fare delle regole censorie, al contrario, sto parlando del fatto che chi fa giornalismo e non fa freepress o non fa semplice aggregazione di contenuti, deve avere un ritorno, deve capire che cosa sta facendo. In questo caso noi siamo i primi ad essere consumatori critici dell'informazione. Ci sono gli strumenti per farlo.  
E qui torno al lavoro che facciamo noi e che potenzialmente potremmo fare tutti insieme come rete di persone e di organizzazioni. Il mezzo internet è formidabile perché dà la possibilità non solo di dare notizie, comunicare, contestualizzare, rimandare in tempo reale e a costi estremamente bassi, ma dà la possibilità anche di fornire, di rispondere, d'interagire con tutto il mondo dell'informazione e di avere un ritorno rispetto a quello che si sta trasmettendo e comunicando.  
Utilizzare internet come meta media, cioè come mezzo che non serve solamente per mandare l'e-mail piuttosto che per navigare o cercare informazioni, ma anche per scambiarsi informazioni.. per esempio, soprattutto per i paesi in cui internet non è il mezzo principale, pensiamo a paesi come gli stessi Balcani, o in Africa dove la radio è lo strumento principale, ecco che internet più diventare un mezzo attraverso il quale i contenuti d'interviste di soundbeat, d'informazioni che viaggiano sull'etere possono essere trasportati a costo zero, in temi infinitesimi e possono essere ritrasmessi e scambiati, facendo effettivamente una rete di comunicazione globale.  

Matteo Pasquinelli*  

Il "mediattivismo" e il pericolo dell'autoreferenzialità  

Sono il curatore di Rekombinant che è un sito, un laboratorio di idee. Non è un sito d'informazione: ci eravamo stancati di fare informazione, ci eravamo resi conto anche dell'entropia della dispersione e dei problemi di quella che viene definita informazione alternativa, informazione sociale, quindi è nato anche per esigenza di chiarirci le idee e mettere a fuoco i problemi. Da una sorta di decantamento di qualche anno è poi venuto fuori un progetto collettivo che è un libro "media activism", che trovate anche in segreteria. Non è un libro che ho fatto io, ma è un libro collettivo che cerca di mettere a fuoco il problema. Il sottotitolo è "strategie pratiche dell'informazione, della comunicazione indipendente". Però io non vorrei parlare di comunicazione indipendente, o comunicazione sociale, vorrei fare un passo indietro e lanciare solo una parola chiave che, secondo me manca nel dibattito italiano, che si ricollega da vicino allo statuto del terzo settore, allo statuto politico-etico di una società impegnata e partecipata.  
Noi percepiamo i nostri progetti come informazione alternativa, che è un termine molto reattivo, anche molto debole, perché chiaramente veniamo da un mondo che era dominato da un paradigma industriale. Era il mondo degli anni '60, con delle classi sociali abbastanza definite, con una struttura economica fordista industriale ben chiara. Tutto questo sta spaventosamente cambiando, si è passati da una società post-industriale, dove non abbiamo più un'identità come tessuto sociale, non abbiamo più identità politiche, a una società in cui c'è un fortissimo primato della società e non abbiamo più alcuna identità delle classi. Dico questo perché, secondo me, dobbiamo capire le energie che stanno dietro la comunicazione sociale e l'unica parola chiave che vorrei introdurre è quella di dominio pubblico, che secondo me serve anche nelle battaglie che portiamo avanti riguardo all'informazione. Voi in questi giorni sentite questo scontro tra un'idea di servizio pubblico radiotelevisivo e di televisione commerciale.  
Dominio pubblico significa una sfera della comunicazione che non è né dello stato, né del mercato, ma è una sfera che appartiene alla società. E' una parola di origine anglosassone e attorno alla quale c'è un nutrito dibattito nei paesi anglosassoni che, in Italia, non abbiamo mai coltivato. Dominio pubblico è un superamento dell'idea che abbiamo del diritto di comunicazione, che è un termine per cui noi chiediamo a quelli che sono i moloc, i giganti commerciali, o statuali che detengono tutte le frequenze dell'etere di avere una piccola percentuale, un'oasi che magari comunque riusciamo a tenere, anche ad esempio il servizio pubblico della Rai. Significa appunto dominio pubblico, avere la possibilità di accedere alle risorse che permettono di fare comunicazione e di produrre una forma di comunicazione autonoma. Ricollego ciò a un'evoluzione della società: in questa trasformazione di questi 30 anni, 50 anni, forse anche più breve, abbiamo perso l'identità, abbiamo perso i nostri ruoli sociali. Oggi siamo di fronte a una società in cui, secondo me, il legame comunitario ha una centralità sempre maggiore. Qui non vorrei fare la retorica della comunità, ma i bacini sociali sono oggi l'ultimo elemento che sta tenendo assieme la società perché sta saltando tutto. Tutti i modelli, tutte le strutture che erano del fordismo, tutte le strutture economiche come la Fiat, così anche lo stato. Noi abbiamo uno stato che è in crisi in tutte le sue forme istituzionali. Sono istituzioni vuote, siamo di fronte a dei residui post-statuali e quindi le comunità rimangono l'unica forma di legame sociale.  
E questa secondo me è una ricchezza da un punto di vista anche politico, una ricchezza da cui ripensare le nostre comunicazioni indipendenti perché c'è, in quest'idea della comunicazione indipendente, un'accezione molto libera, molto anglosassone.  Io sono abbastanza fiducioso, noto una crisi anche dell'informazione e penso che, come si rivendica uno statuto del terzo settore, uno statuto del volontariato all'interno del dibattito politico, delle questioni anche politiche ed etiche, bisogna pensare ad uno statuto, ad un dominio pubblico della comunicazione e lavorare su questo insomma, io finisco su questa proposta.  

Dibattito e repliche*  

Intervento

Sono grata a tutti voi perché ho usato tutti i siti che voi avete fatto, sono stati preziosi nello scrivere molti articoli. Il problema è che i vostri siti li trova chi li cerca, chi automaticamente mette certe parole nei motori di ricerca. Per quanto mi riguarda io ho scritto, scrivo ancora per il giornale di Berlusconi e lunedì ho un colloquio per Libero, perché secondo me certe cose non vanno scritte sui giornali che ci leggiamo noi e ci scriviamo noi sui siti internet, perché ci scriviamo e ci leggiamo tra di noi. Bisogna arrivare a coloro che di certi argomenti non hanno mai sentito parlare. Che l'immigrazione può essere qualche volta una risorsa io sono riuscita a scriverlo una volta sul giornale di Berlusconi. Secondo me è molto più rilevante dircelo qua che, voglio dire, più o meno tutti ci arriviamo.  

Intervento

Se facessi la domanda che ha fatto prima lui sul ponte di Calatrava e chiedessi quanti conoscono questo foglio... non ho il coraggio di farla. Perché poi uno è imbarazzato, poi ci rimani male.. questa è un'agenzia di stampa che sta su carta e su internet. Esiste da 15 anni, ha tutte le caratteristiche double face delle cose che abbiamo detto, cioè un mercato di nicchia, una sostenibilità economica sul filo del rasoio basata in larga misura sul lavoro gratuito, gratificante, pagando poi i lavori diciamo "servili" non so come definirli, cioè quelli che non possono essere compressi ulteriormente, che devono servire a questa roba per uscire. Allora prendete carta e penna. Si chiama il Foglio del paese delle donne, sta su internet su un sito che si chiama www.womenews.net.  

Gioia Feliziani 

Per ora sono una lettrice, perché sono laureanda in scienze della comunicazione e ancora non sono una giornalista. Sono una lettrice anche della freepress, ho letto anche Metro. Quando andavo in ufficio compravo il Corriere della Sera e me lo mettevo in borsa, quello me lo leggevo la sera con calma, mi leggevo gli approfondimenti, le inchieste, ecc., però in metro ero stanca, avevo i problemi dell'ufficio e mi leggevo Metro. Il problema dell'autoreferenzialità dell'informazione è che i media generalisti si rivolgono al lettore medio. Chi è il lettore medio? Io non sono una lettrice media, perché per ogni argomento ho un diverso livello di cultura e quindi non sono una lettrice media. Per esempio. In Inghilterra ci sono diversi livelli d'informazione. C'è l'informazione quella del popolo The Sun, oppure c'è il Times, quello con un livello di approfondimento diverso. Poi ci sono i quotidiani del mattino, poi i quotidiani per la sera. Quando abitavo in Inghilterra magari il mattino quando andavo in ufficio mi leggevo Sun. E la sera mi compravo il giornale con le notizie aggiornate della sera. Con questo voglio dire che, secondo me, l'informazione per essere accessibile deve svilupparsi su diversi gradi. Ritengo giusto che ci sia anche la freepress, anche Metro e se in Italia vogliamo vendere più giornali bisogna capire che non esiste il lettore medio, ci sono diversi tipi di lettore, con diversi tipi di cultura, con diversi tipi di esigenze.  

Franco Bomprezzi  

Uso i vostri siti e ho trovato cose belle, però bisogna che questi contenuti vadano ovunque, anche e soprattutto nei media, che siano di carta o televisivi, che sono poi visti o letti dalla grande quantità della gente. Bhe' non posso che confermare ciò. Il problema è: come fare? Io ho fatto, lo confesso, due settimane fa un servizio per Verissimo. Sorpresa! Non l'avete visto, voi non siete dei telespettatori medi, ma questo si sapeva, però 4 milioni e mezzo di italiani hanno visto che io giravo per i marciapiedi di Milano incontrando quelle stesse difficoltà che poi, in pratica, descrivevo nel sito e raccontavo una serie di situazioni con un certo garbo ovviamente. Il tono e il taglio ho cercato di fare in modo che, nel servizio, corrispondesse ad un'impostazione culturale non becera, ma al tempo stesso capace d'illustrare le effettive difficoltà, le luci e le ombre di un sistema di trasporti di una metropoli come Milano, che comunque non risolve i miei problemi di mobilità. Nessun problema di andare a farlo con Verissimo, era una giornalista brava, Alice Verbloschi, ha un nome e un cognome, è venuta, è stata un giorno a fare questo lavoro con un operatore, che ha lavorato cercando di capire bene che inquadrature fare e poi come tagliare il servizio. Buoni professionisti e buon mestiere secondo me, credo che nessuno di noi lo neghi, c'è e ci deve essere dappertutto.  

Ogni volta che viene offerta un'opportunità reale di comunicare su numeri grandi, guai a perderla... Il problema, ovviamente, è il contesto nel quale questo servizio va a finire. Mi è andata bene perché era una puntata decente, se poi fosse stata una puntata nella quale c'erano solo miss mondo e dintorni, andava peggio. La seconda questione è il tempo di cui parlava prima Jason Nardi, la velocità nella quale ho dato le informazioni sulla questione del ponte di Calatrava non mi ha consentito, ma non era neanche il contesto, di dire che cosa intendevo per accessibilità. Il ponte non accessibile alle persone disabili, accessibile a tutti, è una cosa molto diversa. Un ponte è un simbolo. Un ponte nuovo oltre a dover rispettare delle leggi - e stiamo parlando di leggi di questo stato - non di un altro stato, è un fortissimo simbolo di comunicazione, proprio la parola stessa "ponte". Mette in comune due rive. Ora, progettare e realizzare un ponte che è una barriera, è uno schiaffo dato a tutti coloro che si battono per rendere accessibile anche l'altra parte di Venezia. Allora, se dei ponti sono stati costruiti nel 400, nel 500, nel 600, nel 700, non esisteva questo tipo di cultura e neanche la tecnologia, e neanche la ricerca in grado di risolvere questo problema. Oggi è diverso, oggi si può fare. Io non pretendo che Venezia sia tutta il paese delle meraviglie per chi è disabile. Anche se, devo dire, Venezia in larga misura, conoscendola bene, è visitabile e lo è sempre di più grazie a una serie di battaglie che sono state fatte, delle quali nessuno ha dato notizia, ma che sono state fatte e che sono state anche vinte. Palazzo Grassi, sempre per rimanere in tema Fiat, un palazzo che è stato progettato in maniera che sia accessibile a tutti, ci si arriva in vaporetto, però ci si arriva. Concludo solo per dire che ho capito davvero quanto difficile è comunicare un messaggio di civiltà e che quando si parla di accessibilità per tutti, non è chiaro non è chiaro nemmeno fra di noi di che cosa si stia parlando. L'utenza ampliata è un concetto dell'universal designer che tutti i designer più avanzati e i progettisti più avanzati nel mondo, sanno che è alla base del confort urbano e della qualità della vita di tutti, è nato, pensato all'interno del mondo delle persone disabili, dal quale è uscito ed è diventato ormai uno dei canoni di riferimento per la progettazione esattamente come la questione ambientale. Sono due temi che si sposano e che si incrociano poco, poi, nella comunicazione. Spero di averti risposto. La provocazione è giusta, il problema è perché questa battaglia non è scattata? Probabilmente perché c'era quel tipo di risposta che hai dato te. Ma perché mai fare un ponte accessibile a Venezia? A che serve? Serve, serve di sicuro.  

Carlo Gubitosa*  

Sicuramente nell'affermazione "i vostri siti li trova chi li cerca, c'è bisogno di raggiungere le persone lontane", c'è una grossa verità. A volte si ha a che fare con la mancanza di umiltà, di pazienza, di tempo necessari per avvicinarsi all'opinione dei lontani. Il fatto che tu stia per lavorare per Libero, per il Giornale, non toglie nulla a te come persona, io personalmente ho come amico fraterno una persona che per vari casi della vita è andata a buttare le bombe in Jugoslavia. Il punto è un altro. E' quello di non condannare mai le persone avendo l'onestà di mettere in discussione alcune loro idee o alcuni loro atteggiamenti. Allora è sicuramente vero che un certo tipo d'informazione si avvicina a un pubblico di nicchia. Quello su cui non ho gli elementi per esprimermi è quale sia questa nicchia, perché di fatto noi. Ti parlo come peacelink. Abbiamo 20 mila contatti al mese in home page che è una nicchia rispetto al milione di contatti al giorno di repubblica.it ai tempi d'oro. E' una nicchia dalla quale ci scrive il poliziotto che dice ho fatto una cosa sul bracconaggio, me la pubblicate? Ok. E c'è una lista di nostri pezzi - e questo è un fatto realmente accaduto - che sono stati pubblicati il giorno X da Linea, che è un quotidiano di partito del movimento sociale fiamma tricolore, e il giorno Y da Rinascita, che è il quotidiano di partito dei comunisti italiani. Stesso sommario, stesso titolo, ho conservate a casa le copie dei giornali. Allora il punto è chiedersi qual è questa nicchia e fare in modo che questa nicchia sia il più trasversale possibile. La cosa su cui non sono d'accordo è la necessità o il bisogno, o il dovere, di sentirsi obbligati a estendere questa nicchia. Ciò nasce da un presupposto che tutti i siti che fanno informazione indipendente hanno una concezione implicita - che nessuno avrà mai il coraggio di ammettere - e cioè che le nostre idee sono migliori, più vere, più buone di quelle degli altri, quindi dobbiamo fare proselitismo affinché ciò che diciamo noi sia la cosa che raggiunge il maggior numero di persone. Su questo principio io non sono d'accordo.  

Quello che non riesco a trasmettere forse è un concetto di ecologia dell'informazione. Io ho un gruppo di persone a cui sostituiamo la verificabilità delle fonti con le relazioni, per cui se la mia fonte non è un'agenzia impersonale, ma è una persona che magari ho anche incontrato e che so esperta di uranio impoverito, poi alla fine è lui la mia garanzia. Allora quello che stiamo cercando di maturare è un'ecologia dell'informazione, per cui certe cose fatte in modo serio, pur rimanendo a beneficio di una minoranza, che si spera una minoranza illuminata, è una rete solida di rapporti tra persone e non una rete estesa di trasmissioni da pochi soggetti attivi a molti soggetti passivi. So che è strano, che sconvolge tutto il modo in cui abbiamo ragionato finora, però a volte c'è anche il gusto di scrivere una cosa al computer, stamparla e farla leggere magari solo al tuo compagno o alla tua compagna. Non è che, per questo, ciò che hai scritto perde valore. E' un modo diverso, una diversa modalità che non dico migliore, ma deve avere la stessa dignità del grande broadcasting. Rispetto alla freepress.. tutti abbiamo il diritto di comprare le banane Chiquita, tutti abbiamo il dovere di sapere che cosa succede nelle piantagioni Chiquita in sud America, tutti abbiamo il diritto di accedere alla freepress. Io lo trovo un grande strumento, ma non un grande giornale, sono dei grandi strumenti, ma se si afferma quel modello, solo quel modello, allora che tipo di modello si afferma? Un modello in cui non c'è più un rapporto di fiducia economica del lettore con il giornalista, per cui ti paga solo il tuo inserzionista. E' importante che ci sia questo rapporto, perché ogni volta l'acquisto è un voto, ti premio se mi riconosco in te, ti punisco se tu non crei un ambiente culturale nel quale io mi sento a mio agio. Di fatto la freepress è qualcosa che con contenuti più o meno accattivanti, con attualità, ha come obiettivo di soddisfare le esigenze di visibilità dell'inserzionista che se vende di più la prossima volta ti fa esistere, se vende di meno non ti fa più la pubblicità. E allora io non sto demonizzando la freepress, è importante però fare un consumo critico di freepress e sapendo che tu prendendo Leggo, anziché Metro, stai alimentando un sistema editoriale di un certo signor Caltagirone. È importante sapere chi è. Per chi viene dalle scuole di giornalismo è importante chiedersi - perché non c'è solo Berlusconi, ci sono anche tanti berluschini - chi è il signor Caltagirone? Chi è il signor Ciancio che controlla tutta la stampa della Sicilia e se esce una fotocopia di un'associazione che non è d'accordo con lui ferma la tipografia che fa stampare quel fogliettino? Io sono d'accordo sul fatto che la gente prenda la freepress, però con la consapevolezza, con la conoscenza di chi è Ciancio, di chi è Caltagirone e di chi sono tutti quei giochi e incroci economici che stanno poi dietro la freepress, poi uno può fare anche i patti col diavolo, basta che sappia ciò che stafacendo.

Jason Nardi*  

Volevo rifarmi alla domanda che faceva Elena. Lo scopo di un sito che cerca di mettere in comunicazione più siti, quindi di dare referenze, di contestualizzare. Lo scopo principale non è quello di raggiungere milioni di lettori ma di attivare delle persone che stanno cercando quell'informazione e non arrivano lì per caso. Se poi l'utilizzo di queste informazioni va a contaminare altri mezzi che invece riescono a raggiungere quei lettori più lontani, diciamo da una fruizione attiva dell'informazione, allora questo secondo scopo si va ad aggiungere al primo. Noi non siamo passivi anche nel fare questo, solo che secondo me si deve fare un passo alla volta. Non siamo ancora maturi per arrivare al grande pubblico. Faccio un esempio: agendo su internet noi andiamo a riportare i nostri contenuti verso dei portali commerciali, Italia on line, Yahoo, anche Microsoft network, ecc. e lo facciamo come conseguenza del fatto che abbiamo questi contenuti, abbiamo la possibilità di diffonderli, ben consapevoli del fatto che però vengono confezionati in un contenitore ben diverso dal nostro e che la fruizione di quei contenuti può avere effetti differenti. Visto che il nostro non è giornalismo, ma è content aggregation, cioè mettiamo insieme più contenuti che sono prodotti da altri, il nostro scopo è quello di dare visibilità a questi altri, di riportare quella certa cosa alle persone che sono interessate . Il nostro scopo non è tanto quello di dire: ok, quella fonte è sicuramente affidabile. Il nostro scopo è di dire: ci sono questa fonte, questa e quest'altra. Mettetele insieme, guardatele, considerate, questi sono gli strumenti per cui voi potete giudicare se una opinione, notizia è valida o meno. L'ultima cosa rispetto ai giornali. La nostra modalità di affrontare l'informazione non è la stessa del New York Times. Il modello è un altro ma dobbiamo andare a piccoli passi, dobbiamo costruirci la maturità sufficiente per saper comunicare con efficacia e non è solo internet lo strumento che può essere utilizzato.  

Matteo Pasquinelli*  

Volevo distruggere il luogo comune che l'informazione sociale indipendente sia per forza basata su internet. C'è un'evoluzione, la rete è stata la palestra in questi anni. Oggi stiamo imparando a ibridarla con gli altri media, a usarlo come network col quale condividere le proprie risorse d'informazione, ma anche le proprie conoscenze. Recombinant, per esempio, non è un sito d'informazione, ma come dicevo prima un laboratorio di idee, adesso si sta occupando come tante altre aree del movimento italiano della TV, perché ci siamo autoeducati, abbiamo raggiunto anche una certa capacità di controllo. Il social forum di Firenze è stato un primo tentativo di utilizzare un canale satellitare. Il 10 dicembre Emergency farà Not war Tv. Ancora non l'ho letto però sapevo di questa iniziativa. E' triste un mondo dove siamo costretti ad andare a spiegare, a infiltrarci nella stampa del re, nella stampa del monarca e a ritagliarci un piccolo francobollo per poter contaminare il "campo avversario", quando appunto questo stesso re non si fa problemi di fare il contrario.  

Vinicio Albanesi*  

Posso comunicare ufficialmente che sia il direttore di Rai News 24, sia il vicedirettore dell'Espresso, devono assumere rispettivamente 5 ragazzi giornalisti... Sono molto attenti, vi stanno osservando, perché da come vi comportate, da quali domande fate e da come siete attenti capiscono se siete dei ragazzi che hanno un futuro. Non sottovalutate, perché chi ha i capelli bianchi guarda anche se non parla, guarda molto. In attesa di questo esame che avverrà domani mattina, c'è la Santa Messa alle 9, perché con la Santa Messa faremo una preghiera all'Immacolata, perché la Madonna approvi e benedica chi tra queste persone, saranno assunte. 


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.