IX Redattore Sociale 6-8 dicembre 2002

Maschere

Workshop: Minori in carcere, e fuori

Incontro con Ettore Cannavera e Ugo Pastore. Coordina Carla Chiaramoni

Ettore CANNAVERA

Ettore CANNAVERA

Fondatore della Comunità La Collina.

 

Ugo PASTORE

Ugo PASTORE

Procuratore del Tribunale dei Minori di Ancona. 

 

Carla CHIARAMONI

Carla CHIARAMONI

Giornalista. Da marzo 2016 a marzo 2018 è stata direttore responsabile di Redattore sociale, dove lavora fin dalla fondazione, nel 2001

ultimo aggiornamento 25 novembre 2016

Carla Chiaramoni* 

Si è parlato molto di verità, di una verità. Iacona ha detto: la verità c'è, basta avere il coraggio di andarla a trovare. Ghidoni ha detto invece: le verità sono tante, bisogna andare a considerare più punti di vista rispetto a una verità. Quello che oggi ci proponiamo è di capire quali sono le maschere rispetto al problema dei minori e della giustizia, quali sono le rappresentazioni più comuni che nei media, tv, giornali vengono proposte. Erika e Omar potrebbe essere quella più evidente, ma poi ne parleremo. Ci proponiamo, invece, di capire cosa c'è dietro queste rappresentazioni, quali sono le storie reali delle persone, dei ragazzi che arrivano a compiere un delitto a volte efferato, a volte una rapina e capire perché arrivano a quel punto e quale può essere il loro percorso. Con don Ettore Cannavera pensavamo di proporre soprattutto un percorso di dialogo tra noi. Il clima ci aiuta e possiamo approfittare per tracciare in una prima parte i contenuti, capire un po' di più come funziona la giustizia minorile, quali sono le cifre, quali sono le leggi, com'è il percorso legislativo a cui si è arrivati e, nella seconda parte capire invece un po' di più come si può raccontare la verità, come si può, giornalisticamente parlando, parlare senza veli. Don Ettore Cannavera che è con noi ci aiuterà parlando di una realtà importante, che è quella che lui vive tutti i giorni. Don Vinicio già l'ha presentato. Lui 7 anni fa ha iniziato questo percorso nella costruzione di una comunità di accoglienza che si chiama "La Collina" a Cagliari, è una comunità si rivolge ai ragazzi tra i 18 e i 25 anni e li accoglie nel momento in cui dovrebbero passare all'interno di un carcere per adulti. Offre loro un percorso diverso di crescita, tenendo in considerazione che il carcere per adulti può essere il primo trampolino di lancio verso un mondo della criminalità e che se, invece, viene offerto a questi ragazzi un percorso alternativo, c'è la possibilità di costruire una vita diversa. Al momento don Ettore ha accolto nella sua comunità più di 20 persone, 7 delle quali con reati di omicidio. Poi lui ci racconterà un po' la sua esperienza. Quello che preme dire in questo caso è che l'idea che sta sotto a questa comunità, è che il carcere nella sua concezione "assistenzialista", in realtà poi non responsabilizza. Dopo un momento di punizione per quel reato, di consapevolezza che un reato è stato commesso, il carcere non dà più una possibilità di acquisire consapevolezza e crescita. Da qui l'idea di costruire un luogo che proponesse un percorso di consapevolezza e di responsabilità. Con noi stamattina abbiamo anche Ugo Pastore, Procuratore della Repubblica per i minori delle Marche, che ci permetterà di avere un punto di vista dall'interno alla luce della sua esperienza in questo ambito. Prima di tutto vorrei dare la parola a don Ettore, perché ci racconti un po', oltre le cifre. Mi pare che nel 2002, al febbraio del 2002 il ministero parlava di 475 ragazzi in istituto di pena. Il numero delle denunce é diverso, ma comunque al febbraio 2002, 475 ragazzi erano negli istituti di pena. Al di là delle cifre io vorrei che don Ettore ci spiegasse un po' qual è il percorso che porta al reato e perché una volta entrati in comunità lui non parla più di reato, ma di percorsi e di persone.

Ettore Cannavera*

Intanto ringrazio per l'invito. Parlando un po' della mia esperienza e di quello che faccio. Son ben consapevole che qui oltre che il Procuratore ci sono tanti altri che lavorano con i minori e sanno quanto me e più di me. Quindi credo che il discorso debba essere impostato soprattutto come un confronto di esperienze, più che una presentazione di discorsi teorici. Vi parlerò della mia esperienza per metterla a confronto con quella di altri, con chi lavora soprattutto nel settore delle carceri. 20 anni fa ho iniziato con le comunità per minori, con la coop. Kadossene. Facevo parte del Cnca e proprio lavorando con i minori, 14-18 anni, con provvedimenti dell'autorità giudiziaria, ho capito insieme, agli altri educatori, che non è vero che a 18 anni un ragazzo diventa capace di gestire autonomamente la propria vita. Molti dei ragazzi presenti in comunità per minori, nelle carceri minorili li ritroviamo poi nelle carceri per adulti. Avete in cartella delle statistiche che dicono che da un'indagine fatta a S. Vittore risulta che il 47% dei detenuti sono passati prima nelle carceri minorili. Ciò ci ha posto subito un grande interrogativo. A che serve questo dispendio di forze, di risorse finanziarie, quando la metà dei ragazzi vanno poi a finire nel carcere per adulti? Ciò vuol dire che a 18 anni i ragazzi non sono ancora capaci di gestirsi. Per questo abbiamo pensato alla comunità per gli ultra diciottenni, per i ragazzi che al compimento del 21° anno dovrebbero passare nel carcere per gli adulti. I ragazzi che hanno commesso il reato nella minore età al 21° anno passano nel carcere per gli adulti. Questo vale soprattutto per chi ha pene molto lunghe, come i ragazzi che hanno commesso omicidio. Nel passare al carcere per adulti tutto quello che si è fatto di positivo, di recupero nel carcere minorile, viene vanificato. Oppure ragazzi che, usciti dalla comunità per minori al 18° anno, trovandosi fuori in altri contesti altrettanto criminogeni, tornano a commettere reati e andare nel carcere per adulti. Ecco perché è nata l'idea, all'interno della nostra associazione di volontariato, per una comunità di ultra diciottenni. Si è pensato ad un limite del 25° anno, anche perché per il reato commesso nella minore età la competenza resta al tribunale dei minorenni fino al compimento del 25° anno. Chiaramente si parla di reati gravi che hanno una pena lunga, che arriva al 25° anno e può anche superarlo. Al 25° anno, invece, si passa alla magistratura di sorveglianza degli adulti. Alla luce del fatto che molti ragazzi si perdevano, abbiamo voluto iniziare questa nuova esperienza come volontari per ragazzi 18-25. Sappiamo che la nostra legislazione copre le spese, anche se purtroppo oggi è messo in discussione anche questo. Ci sono le leggi che possono finanziare fino al 18° anno per i ragazzi che sono sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria. Superato il 18° anno per avere una copertura delle spese devono appartenere in linea di massima a una di tre precise categorie: tossicodipendenti, disabili, persone con problemi psichici o psichiatrici. I ragazzi di cui noi ci occupiamo hanno commesso un reato, alcuni anche un omicidio, ma non sono tossicodipendenti, quindi non possono avere un affidamento come tossicodipendenti, non hanno problemi di carattere psichico o psichiatrico, non sono disabili. Per loro resta il carcere, o l'affidamento in famiglia, cosa che però è molto difficile per questi ragazzi, per chi ha commesso omicidio. Io ho avuto in comunità un ragazzo che ha ucciso l'uccisore del padre quando aveva 16 anni dietro indicazione della madre. Nonostante un ottimo comportamento dentro il carcere e con una possibilità di reinserimento fuori dal carcere, non poteva essere mandato nel suo paese, nel suo contesto, perché avrebbe innescato, quello che da noi in Sardegna è abbastanza diffuso: le faide, le lotte tra famiglie. Il magistrato di sorveglianza l'ha affidato alla nostra comunità che è ben distante dal suo paese d'origine. L'esperienza è positiva perché abbiamo visto che nessuno di questi ragazzi ha commesso nuovamente il reato e nessuno è rientrato in carcere, ad eccezione di uno che abbiamo fatto rientrare noi in carcere, di cui potrò spiegarvi il perché successivamente. Da questa esperienza dei ragazzi che rientrano in carcere e che si perdono dopo il 18° anno è nata l'idea della comunità per giovani adulti. Tutto questo per dire chi sono e cosa faccio. 

Toccare con mano le dinamiche interne del carcere

Tra l'altro sette anni fa quando ho iniziato con questa comunità ho voluto fare l'esperienza della condivisione della vita del detenuto. Per un anno ho vissuto dentro il carcere minorile, non avevo una cella perché non potevo averla, ma avevo un'altra stanza vicino alla cappella dove potevo stare anche a dormire la notte e questo mi è servito per capire le dinamiche. Quello che dirò poi del carcere non è solo per sentito dire, ma per averlo vissuto dall'interno. Ho toccato con mano le dinamiche soprattutto nella notte, quando i ragazzi restano soli con gli agenti di polizia penitenziaria, di quello che capita durante la notte nel carcere. Questo mi è servito per capire che dentro il carcere, effettivamente, al di là della buona volontà e della competenza degli operatori, per come il carcere è strutturato, parlare di recupero, parlare di educazione. Sembra oggi una banalità, un paradosso. Ma partiamo da una panoramica della problematica dei minori in carcere. 

Il reato comunica il disagio

Il titolo dato alla mattinata è "Il male e il suo racconto". Io parto da una riflessione che ho fatto leggendo e rileggendo questo titolo. "Il male". Nel nostro incontro per "male" intendiamo il ragazzo che commette il reato, io invece sono convinto che non è quello il male. Il male è l'adulto, gli adulti che hanno abbandonato il ragazzo che ha commesso il reato. Ecco perché sembra molto importante questa visione, perché noi possiamo parlare di ragazzi che commettono reato, puntare il dito su questi ragazzi, mettere in evidenza il ragazzo cattivo, dimenticando che è il frutto, molto spesso, del fallimento di un sistema educativo. È il fallimento di una crescita che non è avvenuta, di una crescita che si è interrotta, di un bisogno che il ragazzo esprime per mezzo di questo comportamento deviante di far presente a noi adulti e alla società le difficoltà esistenziali che sta vivendo. Il reato, insomma, nell'adolescente non ha un effetto strumentale come può essere per un adulto - io rubo per avere quest'oggetto - ma un effetto comunicativo. Il reato non è altro che comunicare un disagio che il ragazzo sta attraversando e con quel comportamento vuole attirare l'attenzione degli adulti, in modo che si facciano carico del disagio che sta vivendo. Il male che deve essere raccontato, dunque, non è il ragazzo che commette il reato, ma il ragazzo che è stato abbandonato, o il ragazzo che non ha avuto la possibilità di maturare, di avere una crescita sana, armoniosa, di essere capace di gestire in positivo la propria esistenza. Vorrei prendere come immagine il fenomeno e il numero di Kant - qualcuno ricorda gli studi filosofici? - il fenomeno di cui noi adesso parleremo nasconde il numero che Kant dice anche "inconoscibile", che però con un'intuizione intellettiva si può cogliere. Quello di cui noi ci occupiamo, il fatto che noi vediamo nasconde qualcosa di molto più profondo, di molto più reale. La realtà oggettiva è il fatto, il compimento del reato - tutti questi numeri che adesso vedremo - ma il problema che noi dobbiamo affrontare è che cosa c'è dietro, dobbiamo chiederci qual è il vero problema. 
Il compimento del reato è come la punta dell'iceberg. Ciò che dobbiamo fare affinché l'intervento sia efficace e adeguato, deve partire da un'analisi della problematica che il ragazzo esprime nel compimento del reato. Io credo, invece, che oggi in molti settori della giustizia minorile non si tiene conto di tutto ciò e si vada subito ad intervenire. Anche di questo potremmo discutere. Con la nuova proposta di legge, già passata al consiglio dei ministri, dove c'è un'accentuazione della repressione, dell'intervento sul ragazzo, si è ancora convinti che intervenendo, sul singolo ragazzo che commette reato, lo si possa far venir fuori da quel circuito penale. Al contrario, è ben altro che dobbiamo fare. E' la qualità dell'intervento che può far venir fuori il ragazzo da quella problematica che sta attraversando. 

Alcuni numeri

Nell'IPM che sono 17 in tutta Italia - perché oggi non si parla più di carcere ma di Istituto Penale Minorile, quello che un tempo era Istituto Penale Minorile - l'altro giorno si contavano 463 minori. Questi sono dati che mi sono fatto dare l'altro giorno tramite il direttore del mio carcere dal Dipartimento della Giustizia Minorile. Si tratta di una cifra che oscilla, che chiaramente cambia ogni giorno. Anche nel mio carcere l'altro ieri erano 16, ieri ne sono entrati altri 2 son 18, oggi ne uscivano altri 2, quindi la cifra oscilla tra un minimo di 400 e un massimo di 580. Siamo arrivati ad essere 580 nel 1999, poi la cifra è stata sempre in calo. Ma veniamo ai dati importanti. Intanto la prevalenza è dei maschi: di questi 463 presenti erano 427 maschi e 36 ragazze. Ma il dato che colpisce, credo che tutti conosciate, è la presenza degli stranieri. Di 427, 227 erano italiani e 200 stranieri. Ormai siamo quasi al 50%, distribuiti in modo diverso tra nord e sud. Delle ragazze, invece, le straniere sono addirittura il doppio: delle 36 ragazze presenti, 25 sono straniere e 11 italiane. Se qualcuno è interessato a sapere della propria zona, della propria regione, posso darvi delle cifre dettagliate. Il carcere più affollato, il Beccaria di Milano, contava l'altro giorno 62 detenuti che per oltre il 50% sono stranieri. Scendendo giù in Sicilia, arriviamo a Catania, che occupa il secondo posto per numero di presenze: qui sono presenti 50 detenuti, di cui 48 italiani, tutti maschi e solo 2 stranieri. Vedete la differenza tra il nord e il sud? Il problema degli stranieri è nel nord. A Torino ci sono 36 maschi e 7 femmine stranieri, 17 maschi e 2 femmine italiani. L'altro carcere abbastanza affollato è Torino: su 42, 31 stranieri (26 maschi e 5 femmine) e gli italiani sono 11 (6 femmine e 5 maschi). Poi posso riferire di Roma, Casal di Marmo: i detenuti sono 43 di cui sono 32 gli stranieri tutti maschi, mentre gli italiani sono 11. Poi il nostro carcere. Quartuccio. Il giorno che ho preso questi dati erano 17, oscilla 16-17-18. Il carcere meno affollato è quello di Potenza dove sono appena 6. A Napoli, il femminile 7, il maschile 37. Nel sud ci sono solo italiani. Nel nostro carcere di Quartuccio, per esempio, non c'è neanche un ragazzo arrestato in Sardegna, ma di 17 ragazzi 7 sono stranieri, tutti per trasferimento da Milano, da Torino, dal resto delle altre carceri del nord per "sovraffollamento". In realtà, poi, non è un vero sovraffollamento a motivare il trasferimento ma soprattutto una punizione. In Sardegna si viene per punizione oppure, a detta dei nostri operatori, perché è un carcere più tranquillo e i ragazzi si tranquillizzano. In effetti si può dire che il nostro carcere di Quartuccio sia un carcere abbastanza tranquillo. Palermo su 27 presenze, 23 tutti maschi, stranieri 4. Questo è il quadro delle presenze in carcere. Di queste giustamente mi si chiedeva quanti minorenni e quanti ultra diciottenni. Bene, ci si attesta sul 50%, di 460, 230 sono minorenni e altri 230 sono ultra diciottenni che, quindi, possono rimanere nell'IPM fino al compimento del 21° anno. Nel giorno del compleanno vengono trasferiti nel carcere per gli adulti. Posso dare l'altro dato delle denunce. come mai son così poche? Come mai son così pochi in carcere? Questo è l'effetto della nostra procedura penale minorile. Il carcere, nella legge 448 del 1988, è rimasto residuale. Ci sono molti servizi, collocamento in comunità. Quanto ai dati delle denunce mi risulta che oscillano tra 40 mila, 50 mila. Secondo gli ultimi dati, quelli riportati dal rapporto Antigone, sono 43 mila nel 2001. Dal 1950 al 90 in quei 40 anni, le denunce sono aumentate di 6 volte. Dopo il 1990 sono calate e siamo in un trend di diminuzione. Questo è un dato importante, che riprenderemo quando parleremo della proposta Castelli. Dunque negli ultimi 10 anni c'è stato un decremento dei detenuti in carcere e anche delle denunce a carico dei minori. C'è stato invece un aumento, e questo è un dato importante che potremmo esaminare, dei ragazzi non imputabili infraquattordicenni. Quanto ai reati per i quali sono state sporte la quasi 40 mila denunce possiamo anche dire che un quarto circa sono reati contro la persona, invece tre quarti, all'incirca gli altri 30 mila sono reati contro il patrimonio, dove il reato più diffuso è il borseggio, legato all'uso e allo spaccio di sostanze stupefacenti.

Carla Chiaramoni

Ecco io su questo chiederei un intervento del procuratore: qual è la realtà al momento, cosa succede quando un ragazzo delinque e quali sono gli strumenti della giustizia per avviarle il giovane che delinque a un percorso di rieducazione?

Ugo Pastore*

Innanzi tutto bisogna chiarire, forse lo avrebbe fatto don Ettore nel proseguo, che questi dati dal punto di vista numerico non possono essere letti in sé, perché per quanto riguarda le denunce per essere denunce a carico di minorenni, bisogna che l'autore del reato sia identificato. Visto che la competenza si radica solamente nei confronti del soggetto minore d'età, è evidente che tutte le denunce che riceve la Procura per i minorenni, sono al 99% sporte nei confronti di minori, di soggetti identificati, laddove l'insieme delle denunce che riguarda le procure ordinarie, comprende anche un dato che non è scarso, che è quello degli ignoti. Tutti gli ignoti vanno alle procure ordinarie, non vengono alle procure per i minorenni e quindi nel dato complessivo questo va considerato. Tutte le denunce sono, quasi totalmente, procedimenti che si aprono e che quindi vanno avanti. Stessa cosa per il dato della popolazione carceraria. Per quanto riguarda i minori, se noi prendessimo in considerazione il fatto che possono essere collocati in IPM, in sede cautelare, media soggetti che hanno commesso reati gravi, oppure che hanno reiterato una serie di reati sempre di una certa gravità - in genere puniti con pena non inferiore nel massimo a 9 anni di reclusione (stiamo parlando dalla rapina in su) - e andiamo a raffrontare ciò col dato degli adulti, vediamo che per questa fascia di reati la percentuale è notevole, nel senso che si avvicina la percentuale degli adulti di molto a quella dei minori, se consideriamo solo la fascia di reati per i quali i minori vengono inseriti nell'istituto penale minorile. È vero che i dati complessivi sono in decremento e questo è dovuto a una maggiore attenzione, anche se non sufficiente a mio avviso, alla prevenzione. Si tratta dei cosiddetti interventi civili sul disagio, il più possibile anticipati e che evitano in molti casi che il minore finisca nel circuito penale. Se raffrontiamo il dato delle iscrizioni penali con il dato dei procedimenti civili, ci rendiamo conto che mentre il numero di procedimenti penali rimane più o meno standard, o diminuisce addirittura, il dato dei procedimenti civili aumenta. Si tratta di quelli per i quali il giudice interviene a tutela del minore, in presenza di situazioni di disagio che sono attribuibili alla famiglia, che sono attribuibili all'abbandono, che sono attribuibili a difficoltà d'inserimento sociale, a difficoltà di rapporti e che quindi poi spesso sfociano anche in manifestazioni di rigetto nei famosi atti di vandalismo, nelle reazioni violente, nelle reazioni incontrollate. L'incremento di questi interventi fa capire come i due dati siano da leggere in parallelo. 

Interventi di prevenzione "civile"

Io ho preso servizio l'anno scorso il 16 di luglio, nelle Marche, ma provengo da un'esperienza di 11 anni e mezzo a Napoli. Sono napoletano e ho vissuto realtà molto simili a quelle di don Ettore. Anche noi avevamo ogni settimana 35 convalide di arresto. Moltissimi ragazzi che venivano commettevano omicidi, anche molto efferati.. Nelle Marche, per un anno, praticamente mi sono dedicato esclusivamente al civile, delegando al collega sostituto il penale. Bene, di fronte a un incremento del 130% circa dei procedimenti civili, io ho potuto verificare un decremento, soprattutto per quanto riguarda i minori extracomunitari, dei procedimenti penali che arriva circa al 27%. Siccome qui il problema grosso è quello degli extracomunitari, nel momento in cui il dato extracomunitari denunciati diminuisce del 27% vuol dire che quegli interventi di prevenzione in sede civile, che hanno come oggetto spesso proprio gli extracomunitari, hanno evitato che questi ragazzi si ritrovassero nel circuito penale. L'intervento è stato anticipato e abbiamo potuto evitare il trauma del coinvolgimento del procedimento penale, con tutte le conseguenze che questo ha. Vorrei parlare velocemente del processo minorile. Nel nostro ordinamento è stata una delle punte più avanzate di tutto un processo di approfondimento dei temi della criminalità minorile, sfruttando anche le esperienze che c'erano state negli Stati Uniti, in Inghilterra, quindi nei paesi anglosassoni. Abbiamo inserito nel nostro ordinamento alcuni istituti rivoluzionari come quello della messa alla prova, come quello dell'irrilevanza del fatto, abbiamo ampliato quello dell'incapacità, e non mi riferisco all'incapacità patologica, ma a quella di rendersi conto del disvalore sociale dell'atto. Ciò può, ovviamente, non essere rilevante ad esempio per il reato contro il patrimonio normale, come il furto e il reato con violenza, ma si tratta di istituti molto importanti per altre tipologie di reati che teoricamente possono essere commessi anche dai minori, ma del cui disvalore sociale i minori non si rendono proprio conto. Ad esempio il falso.
E' difficile che un minore si renda conto del disvalore sociale del falso, oppure la ricettazione solitamente del ciclomotore. Quando un ragazzo in certe città è abituato che il ciclomotore si vende e si compra per la strada dal primo che te lo dà e lo prendi così, certamente sotto il profilo del rendersi conto di commettere un reato, di quanto questo reato possa essere grave, la situazione è diversa da quella che può verificarsi per un adulto. Sono istituti importanti perché consentono non solo di non arrivare alla punizione, ma addirittura di elidere completamente il reato senza che il minore abbia più conseguenze nella sua vita. Così il precedente da minorenne della denuncia e del procedimento penale, non può essere conosciuto se non in futuro da lui e dall'autorità giudiziaria. Quando un certo percorso di recupero va a buon fine il reato viene dichiarato estinto, e non ha nessuna conseguenza: questo oggi è consentito per ogni tipo di reato, quindi in teoria anche per l'omicidio. 

Maggior recupero per chi ha commesso reati gravi

Da quello che diceva don Ettore mi è sembrato di capire che spesso la gravità del reato non è indice della maggiore pericolosità del soggetto. E anche nella mia esperienza io ho potuto verificare che i ragazzi per i quali si riusciva a ottenere un maggior recupero erano quelli che avevano commesso i reati più gravi, quelli di sangue, ma che avevano potuto per questo beneficiare di un percorso detentivo, para detentivo, con un programma di recupero e d'inserimento. Grazie a questo successivamente avevano superato le ragioni che li avevano portati al reato ed erano riusciti a trovare una loro strada. Quelli che, invece, difficilmente recuperavano erano quei ragazzi che entravano e uscivano continuamente per piccoli reati, per i quali non c'era nessun programma di recupero: alla fine erano destinati a proseguire da adulti la stessa identica carriera. Noi abbiamo avuto a Napoli il caso di Pippotto, un ragazzo che ha cominciato a commettere furti, estorsioni, rapine di tutti i tipi dall'età di 10 anni e mezzo e praticamente noi, intendo noi della Procura, l'abbiamo inseguito dall'età di 10 anni e mezzo. Gli strumenti che avevamo erano pochissimi: erano soprattutto strumenti che contavano sui servizi territoriali, sugli interventi sulla famiglia, sulle prescrizioni e sulle limitazione della potestà alla famiglia, ma in un contesto degradato come quello il ragazzo era addirittura incentivato dalla famiglia a certi comportamenti. E lui sapeva che il giorno in cui avesse compiuto 14 anni gli sarebbe stato presentato il conto. 
Lo sapeva e lo diceva. Questo ragazzo a 15 anni è morto. Lo hanno trovato morto in un fosso, chissà, lo spacciatore a cui non aveva fatto un buon servizio. Queste sono quelle cose che, per chi segue queste situazioni, che segnano sempre, soprattutto con questi ragazzi che vedi crescere e non sono mai uguali a loro stessi. Tornando a noi possiamo dire che oggi come oggi il sistema ha dimostrato, a mio avviso, di funzionare abbastanza. Lì dove noi pensiamo che non abbia funzionato è perché non abbiamo investito risorse adeguate. E' la nostra incapacità che rende questi strumenti apparentemente non efficaci, perché tutti i dati che abbiamo, letti poi in parallelo con quello di altri paesi, ci dicono che in Italia dall'89 in poi, dall'entrata in vigore delle nuove disposizioni la criminalità minorile è assolutamente sotto controllo e addirittura in diminuzione. Siamo uno dei pochissimi paesi occidentali in cui si registra questo dato, malgrado ciò che se ne dica e si legga sui giornali. Abbiamo, invece, fenomeni molto più allarmanti in altri paesi considerati storicamente più sicuri, come la Germania, l'Inghilterra, gli Stati Uniti.. Cosa sta succedendo adesso? Sia i numeri che i dati oggettivi ci dicono che nel nostro paese non esiste un allarme minori. Si, è vero, ci sono casi come Erika e Omar, ma queste sono cose che sono sempre accadute. 10-15 anni fa forse andavano su giornali per due o tre giorni poi tutto finiva lì, nessuno apriva dibattiti pubblici, trasmissioni televisive. Paradossalmente quando non c'era neanche la carta di Treviso i minori, da questo punto di vista, si tutelavano di più, adesso invece con tutta la carta di Treviso, i minori con tutto il codice deontologico, sono oggetto di dibattito. Poi in maniera palesemente ipocrita si mette un tagliettino scuro sugli occhi per non far vedere la faccia. Si dicono i nomi, gli indirizzi, i nomi dei genitori, i luoghi che frequentano. Scusate ma più di questo che cosa c'è da dire? A questo punto togliamoci il velo dell'ipocrisia e diciamo le cose come stanno, la verità è che anche la morbosità della gente alimenta questo tipo di informazione. Non esiste un dato assolutamente allarmante per quanto riguarda la criminalità minorile, però viene così fatto apparire. Allora da una parte non investiamo abbastanza, dall'altro si crea questa enfatizzazione del fenomeno. Poi si innesca il meccanismo punitivo, per esorcizzare il problema. Questi ragazzi vanno puniti anche in modo esemplare, trattiamoli come gli adulti, buttiamoli dentro e scordiamoci della chiave, così abbiamo protetto la società. Assolutamente no! Noi vogliamo soltanto esorcizzare, perché attraverso i ragazzi noi vediamo tutte le nostre responsabilità. La società, in questo modo, vuole solo esorcizzare le proprie paure. Siamo noi, tutti noi che vogliamo esorcizzare le nostre incapacità, punendo chi non si può difendere, perché l'adulto in qualche modo alla fine si difende anche commettendo il reato, sfidando la società, contrapponendosi ad essa. Nel minore è difficile che il reato sia il mezzo per arrivare a qualcosa, solitamente il reato è una richiesta di attenzione, anzi credo proprio di poter dire che sia sempre una richiesta di attenzione. Basta vedere cosa fanno i ragazzi, ciò che rubano, come bruciano con immediatezza ciò di cui si sono impossessati, per farvi capire come non è l'avere i soldi, o l'avere l'oggetto il loro fine. Il fine è quello di farsi sentire e quindi chiaramente è il punto di arrivo di un mancato ascolto che va avanti da chissà quanto tempo. Un'ultima cosa. Nel processo minorile un'altra cosa molto importante è che il processo si fa alla persona. Il processo normalmente giudica, tende a giudicare il fatto e il rapporto causale tra la condotta di una persona e il fatto che è considerato dalla legge come reato. Il processo minorile individualizza questo tipo di percorso dicendo: c'è un fatto che ha una sua gravità oggettiva, c'è però una persona che lo ha commesso e noi dobbiamo stabilire non tanto e non solo la responsabilità, ma soprattutto la risposta da dare in termini di pena o di recupero. Si deve conoscere bene chi ha commesso il reato. E questa diciamo è una grossa peculiarità del processo per i minori che dovrebbe essere valorizzata anche nel processo per adulti. Non ci si può limitare dire: "tu hai ucciso". Non ci si può limitare ad applicare una pena. Non è solo un problema di quantificazione. Se non si riesce a capire che persona c'è dietro a quel reato si perde l'occasione di un intervento che possa, in prospettiva, prevenire ulteriori condotte delittuose. Si deve capire chi è che ha commesso quel reato - e non basta, per questo, conoscere le generalità anagrafiche - come è arrivato a commetterlo. A volte da questa analisi risulta proprio che il reato più grave viene commesso dal soggetto meno pericoloso. A volte l'omicidio, che è un reato gravissimo, può diventare veramente condotta unica e occasionale nella vita di un individuo, laddove magari ci sono individui che improntano la loro intera vita a commettere una serie enorme di reati. E parlo di reati che hanno anche delle ripercussioni dal punto di vista collettivo molto più gravi. Pensate per esempio alle grosse lottizzazioni abusive. Per il nostro ordinamento sono diventate cose minime, che oramai si prescrivono. Pensate alle grosse speculazioni. Noi le vediamo soltanto come legate a qualcuno che s'è voluto arricchire, che ha fatto il furbo. Siamo molto indulgenti su queste cose. Considerate, però, la vita di una collettività come cambia in prospettiva, per anni, per generazioni, in conseguenza di questi comportamenti. Ma pensate ai ragazzi che finiscono nel circuito penale che vengono dai quartieri baraccati, dai quartieri dove non ci sono i servizi, dove non si può crescere, dove non si può avere una scuola. Non vedete tutto questo collegato, in qualche modo, a chi su queste cose ha speculato e ha creato certe situazioni? Allora dobbiamo intenderci anche sulla gravità dei reati. Noi in questo paesi non siamo abituati a ragionare così. Siamo abituati a inseguire la banale apparenza, la banale emergenza e reagiamo sopra le righe in modo non ponderato, neanche produttivo ma in modo quasi isterico. Noi risolviamo tutto con un tratto di penna, cancelliamo tutto quello che è stato fatto, cancelliamo 30 anni di esperienza minorile, che è costata tanto, ai magistrati che se ne sono occupati, ma è costata tanto a chi ha lavorato nelle comunità seriamente, a chi ci ha investito risorse notevoli quando nessuno ci credeva. Oggi che noi abbiamo una legislazione che ha recepito tutto questo, abbiamo dei risultati che possiamo far vedere, oggi con un tratto di penna si dice: a 18 anni passi al carcere per adulti, ampliamo le ipotesi di custodia cautelare e le restrizioni. Alla luce di ciò avremo assolutamente un incremento di reati, perché tutto ciò significherà contemporaneamente abbandonare la prevenzione. Al nord tale incremento si avrà soprattutto per gli extracomunitari e al sud per i nostri ragazzi italiani, perché aumenteranno ancora le situazioni di disagio e di lontananza rispetto a chi dovrebbe dare un aiuto.

Carla Chiaramoni 

Il reato più grave è spesso commesso dalla persona meno pericolosa. Alla luce della riforma Castelli che cosa comporterà questo dal punto di vista della sofferenza, dei ragazzi e delle verità che lei ha incontrato, rispetto a questo?

Ettore Cannavera*

Di questa proposta parleremo dopo. A mio avviso c'è una cultura diversa, una visione diversa che si vuole portare avanti in questa riforma della giustizia minorile. Vorrei rifarmi a quanto si diceva dei ragazzi che si appropriano di qualcosa e poi la buttano via. Nella mia comunità per minorenni c'è un quindicenne che una sera in uno scippo ha rubato 1 milione. Bene, l'ha speso tutto nel giro della sera! L'ultima cosa che ha comprato sono stati dei pannolini che si è portato in comunità. Poi lo psicologo ci ha detto che la repressione infantile i pannolini non li aveva mai conosciuti.. Anch'io son d'accordo circa il fatto che il problema di fondo sia cambiare mentalità, cambiare ottica, non guardare solo al reato, ma guardare soprattutto la persona che ha commesso il reato. E' la cultura che deve cambiare. Importante è la funzione dei mass media, dell'opinione pubblica che è quella che poi arriva a chi deve prendere decisioni importanti come un ministro della giustizia. Prendiamo un il ragazzo che commette un reato grave, efferato, qual è l'omicidio. Perché si può fare di più con lui? Proprio perché non guardiamo quello che ha fatto, ma guardiamo la persona che l'ha commesso. Diceva Carla che da noi su 18 ragazzi presenti che hanno finito di espiare la pena, 6 di questi, condannati per omicidio, sono stati i ragazzi che nella comunità hanno fatto il percorso "migliore", nel senso di un'assunzione di responsabilità maggiore. Uno di questi ragazzi poi è morto. Un ragazzo che aveva commesso un omicidio ed era entrato nel carcere minorile a 6 anni. Quando è nata la nostra idea della comunità per giovani adulti, siamo riusciti a farlo affidare a noi un mese prima che compisse il suo 21° anno, un mese prima di essere trasferito nel carcere per gli adulti. Doveva scontare 7 anni di detenzione, ne aveva scontati appena 3. Abbiamo attivato velocemente la comunità, per cui il magistrato di sorveglianza lo ha affidato a noi. La liberazione condizionale che si trasforma in libertà vigilata, ha ripreso gli studi, si è diplomato in ragioneria, si è inserito nel mondo del lavoro, faceva il ragioniere in un'impresa edile, fidanzato, si è cominciato a costruire la sua casetta. Il giorno prima che morisse dovevamo andare insieme, io, lui e il suo datore di lavoro, alla trasmissione di Costanzo. In quel momento si stava discutendo delle proposte di Castelli: dovevamo raccontare proprio la sua esperienza. La notte è morto d'infarto. Abbiamo scritto un libro che abbiamo portato, poi Carla ve lo farà vedere, dove lui ha scritto, ha partecipato a dei convegni, ha preparato delle mediazioni. Un ragazzo che ha commesso un omicidio che l'opinione pubblica avrebbe detto "tenetelo in carcere e basta", invece ha fatto un recupero così positivo di responsabilizzazione, che ci ha indotto a intitolare il libro "La responsabilità come scelta". Lui aveva chiesto di uscire fuori dal carcere, di riprendere gli studi. L'unico lavoro che può fare il carcere, a mio avviso, è quello di rendere la persona consapevole di quello che ha fatto. Una volta che il ragazzo raggiunge tale consapevolezza il carcere non serve più. 

Senza libertà non c'è recupero

Bisogna dare l'opportunità di un riscatto, bisogna dare l'opportunità di un recupero, di una ripresa della sua vita e questo non può avvenire dentro un carcere, dove non c'è la libertà. Senza libertà non c'è educazione, non c'è sviluppo, non c'è crescita. Allora questi ragazzi che sono stati affidati alla nostra comunità hanno tutti ripreso un cammino finendo tutti di scontare in modo positivo. Oggi sono quelli che, in un certo senso, sono di modello e gestiscono la comunità. La nostra comunità, l'accenno brevemente, poi nel caso lo dirò in modo più approfondito, è una comunità autogestita. Come ho detto prima per gli ultradiciottenni se non appartengono a quelle categorie di cui vi parlavo prima, non c'è niente, non ci sono leggi che possono finanziare alcun servizio. Il nostro consiglio regionale, il consiglio regionale sardo, nella finanziaria ha dato un contributo per coprire le spese degli operatori della nostra comunità, e per questo devo dargli merito. Sono 5 educatori professionali, che noi chiamiamo "operatori di condivisione", un po' nell'ottica Cnca, Capodarco, che vivono con i ragazzi con dei turni. La comunità, però, è portata avanti dai ragazzi. Tutti i ragazzi lavorano fuori dalla comunità tranne due. Abbiamo anche un'azienda agricola e loro hanno uno stipendio, una parte del quale va nella cassa comune, che un ragazzo stesso gestisce. I ragazzi che hanno commesso un omicidio devono pensare loro alle spese alimentari, alle bollette luce, enel, gas e telefono, ecc. La comunità è completamente portata avanti da loro per quanto riguarda le pulizie, tutta l'organizzazione, i pasti. L'operatore è uno che sta lì, che convive con loro. Dando ai ragazzi la possibilità di assumersi delle responsabilità, di avere i compiti da svolgere, c'è veramente un grande recupero della dignità, del sentirsi utile. I ragazzi possono sperimentare che sono capaci di portare avanti una casa, di gestire delle cose, di farsi carico dell'ultimo arrivato che ha bisogno di aiuto. Ecco, tutto questo nel carcere non può essere vissuto, non può essere sperimentato, sapete bene come funziona il carcere. Un ragazzo decide solamente di andare in bagno perché ce l'ha lì in cella , ma tutto l'altro lo decidono altri: a che ora deve uscire dalla cella, se deve uscire, a che ora deve mangiare, che cosa deve fare o non fare. La responsabilizzazione passa attraverso l'affidamento di compiti, quando il ragazzo sperimenta le sue capacità, le sue competenze, perché le competenze che il ragazzo ha avuto nel compiere il reato possono essere "sfruttate" in altri ambiti, in altri compiti. Noi non possiamo pensare che un ragazzo che ha commesso un reato sia incapace. Le capacità che ha vanno orientate in compiti di responsabilità all'interno della comunità, di una vita in cui il ragazzo assume tutte le sue responsabilità. Questa mentalità così diffusa per la quale i ragazzi che hanno commesso omicidio debbano essere messi fuori gioco, espulsi, allontanati dalla società è dovuta al fatto che si ha paura di loro. Non è così che ci si può comportare. Una volta che si sono resi consapevoli del reato commesso bisogna dare a questi ragazzi un'opportunità, qui sta il recupero. Io credo che sia addirittura un problema di sicurezza. Sicurezza vuol dire prevenire che si formino dei veri delinquenti. Noi abbiamo avuto, tanto per portare un esempio, il caso di un ragazzo che aveva commesso un delitto efferato e gli erano stati dati 19 anni da scontare. Ecco, se questo ragazzo sta 19 anni in carcere cosa viene fuori? Un delinquente, addirittura formato a spese nostre, della collettività, perché il carcere lo paghiamo noi. Ecco il paradosso a cui arriviamo. Se riuscissimo a dare a questo ragazzo, che ha già scontato 4 anni, la libertà condizionale, dei compiti. Non è che il ragazzo sia libero di fare tutto quello che vuole. La libertà vigilata ha delle prescrizioni ben precise, ha dei limiti di movimento, limiti di orari, impegni di lavoro, se non li porta avanti è la revoca, torna anche dentro. E' necessario maturare una concezione nuova nell'affrontare il problema fuori dal carcere. L'aumento della repressione, della sicurezza della pena, non sono le soluzioni. Il problema è la qualità dell'intervento. Son pienamente d'accordo che quello che manca sono opportunità fuori dal carcere perché i ragazzi possano riprendere in mano la loro vita e recuperare quella dignità che gli è stata tolta. Si è fatto tanto, devo ammetterlo, ma non basta.

Carla Chiaramoni

Ecco mi premeva un attimo tornare sul concetto di sicurezza, perché in realtà questo è anche un concetto forte all'interno delle modifiche che si chiedono, perché come ha anche ricordato il ministro Castelli ultimamente a Collodi, siccome le cronache ci dicono che i minori delinquono e delinquono prima, allora occorre operare prima. Allora che rapporto c'è fra questo concetto di sicurezza e la realtà dei ragazzi in carcere? 

Ugo Pastore

Il concetto da cui parte l'impostazione attuale del legislatore è che la sicurezza si ottiene eliminando le persone dal contesto sociale per il maggior tempo possibile e quindi attraverso la punizione. Un ruolo importante, in questo contesto, hanno i mass media. La notizia, al di là del fatto di cronaca in quanto tale e delle relative responsabilità, può diventare l'occasione per conoscere una realtà che al di là dei nomi e cognomi diventa emblematica e indicativa di percorsi di tante persone in certi contesti. La notizia può diventare occasione di dibattito culturale e sociale. Così ci si può avvicinare alla verità. E' evidente, gli aspetti di una verità sono tanti, sono tante le facce. Ma bisogna fare il possibile per cercarne il più possibile di queste facce, in modo da avvicinarsi alla verità. Ci sono un sacco di luoghi comuni. Prendiamo il caso di Erika e Omar, ma potrei portare anche un esempio di un ragazzo di Cupramontana che, all'improvviso, diventano capaci di gesti efferati. Ragazzi normali, famiglie normali, vite normali. Allora, che succede all'improvviso? Sono diventati improvvisamente pazzi? Il fatto è che siamo tutti assolutamente disattenti, incapaci di ascoltare, di cogliere il disagio. I ragazzi fanno capire in mille modi che stanno vivendo una situazione difficile e noi ci disinteressiamo totalmente! E lo fanno non solo mandando segnali alla famiglia, ma anche a scuola. Purtroppo, però, quei segnali cadono lì, o al massimo vengono gestiti come il problema del ragazzo. Il risultato è che il ragazzo, quando si sente identificato con un problema, automaticamente regredisce perché si vede etichettato. Questo è esattamente tutto ciò che dobbiamo evitare. Io credo che innanzitutto le realtà "tranquille" nascondono situazioni che comunque meritano attenzione. Il fenomeno viene quotidianamente dipinto come allarme, soprattutto in zone d'Italia che non sono abituate a fare i conti con situazioni difficili. Oggi come oggi l'informazione è fondamentale, è importante, nei limiti del possibile. Mi rendo conto che anche l'informazione non può essere completamente libera perché deve rispondere a logiche di mercato, a logiche d'investimento, a logiche di potere. A volte, però, nei limiti del possibile, se si riesce a superare questo modo di affrontare la notizia termini esclusivamente allarmistici forse si potrebbe riuscire a dare meno alibi a chi poi cerca soluzioni così disbrigative. Se si parte dalla storia si banalizza tutto. Il discorso ha bisogno di tempi, di modi anche nuovi, per essere affrontato. Se vogliamo partire dalla storia, la storia deve essere veramente un flash, perché poi bisogna dare importanza e peso a tutto ciò che c'è dietro, ad analizzare i motivi che hanno indotto al compimento di quel fatto. Noi vediamo che c'è una catena di omissioni, di disattenzioni gravissime, che sono - quelle si emblematiche - di una realtà che riguarda tantissimi giovani e che dà veramente la chiave di lettura e la spiegazione di perché poi si assiste a fatti come quelli che hanno avuto per protagonisti Erika, Omar. Questi ragazzi non sono pazzi. Io direi che non sono neanche pericolosi, a meno che non li fanno diventare pericolosi adesso. Ora è necessario capire il perché quel gesto, cosa ha significato quel gesto di rimozione violenta, di annullamento, di distruzione. E' fondamentale sia per loro, sia per tanti altri ragazzi che sono considerati tranquilli, di buona famiglia dove tutto va bene, ecc., e che potenzialmente domani mattina si possono trovare nella stessa situazione.

Carla Chiaramoni 

Gli elementi che noi abbiamo sono in grado di aiutarci a capire?

Ugo Pastore 

Bisognerebbe investire molto di più in quegli strumenti, perché purtroppo tutta la politica dei servizi sociali è una politica di tipo bassamente assistenziale. L'approccio è poco professionale, a volte manca il coordinamento di rete, per cui quello che sa uno non lo sa l'altro, ci sono resistenze enormi nell'aprirsi da parte, ad esempio, di contesti come la scuola. Ci sono diffidenze reciproche. L'assistente sociale non fa sapere al giudice, la scuola non fa sapere all'assistente sociale. Ognuno diffida dell'altro soggetto istituzionale, non si vuole lavorare insieme, ognuno si gestisce e poi scoppiano i problemi. Pensiamo poi, quand'è che la scuola avvisa il giudice? Quando ormai il ragazzo ha spaccato tutto e gli dà fastidio, quindi lo deve mandare via. Quand'è che l'assistente sociale segnala la situazione al giudice? Quando non la può proprio contenere in nessun modo. Però quando magari vedeva che il ragazzino stava lì trascurato, abbandonato, anche fisicamente maltrattato, rimproverava il genitore, ma non faceva magari la segnalazione al giudice, perché altrimenti il giudice lo avrebbe tolto alla famiglia. Siamo a una mentalità assurda, che però ancora c'è. Allora se non si supera tutto questo e se non s'investe anche in questo... Adesso, per esempio, ci sono tutte le comunità che stanno diventando un business in queste cose. Siccome c'è una richiesta enorme di luoghi dove collocare i ragazzi che nessuno vuole, è diventata un'industria. Chiunque ha spazi adeguati apre una comunità, fa due contratti a termine con due o tre ragazzini più o meno freschi diplomati, con poca esperienza, che poco sanno, li mette dentro e fa la comunità. È chiaro: mica le comunità sono tutte come questa. Non pensate. Guardate che le comunità sono anche dei casali sperduti dove trovi ragazzi che hanno problemi seri, che dovrebbero seguire dei percorsi molto qualificati. Quando un ragazzino ha un problema, bisogna seguire il provvedimento del giudice, non si sa dove portarli: il problema dell'ente locale, dell'assistente sociale, è solo quello di trovare un fesso che se li prenda, chiunque sia e a qualsiasi prezzo, dopo di che lo molla lì ed è finito. Questa è la realtà. E allora, ecco dicevo, le norme ci sono, gli istituti sono previsti, bisogna investire per renderli efficienti, credibili e superare queste difficoltà. 

Ettore Cannavera 

Vorrei soffermarmi sul problema della qualità delle comunità. E' vero che stanno improvvisando tante persone. Però volevo anche allargare lo sguardo. Abbiamo scritto: minori-carcere. Ho già detto che in carcere ci sono 500 ragazzi. Emerge il problema del disagio, della sofferenza, della fatica che fanno i minori e parlo soprattutto dell'adolescenza, ma si va ben oltre. Le cifre registrate, a detta degli studiosi, quello che arriva sul tavolo del procuratore è il 10%. Di fronte a 10 denunce ce ne sono altre 90 che non si fanno. E le altre problematiche dei minori? I suicidi che invece sono in aumento degli adolescenti? L'anoressia, la bulimia, la tossicodipendenza, le depressioni, i problemi psichici e psichiatrici? Sono problemi questi che stiamo vivendo anche noi nelle nostre carceri. Ci sono ragazzi con forti problematiche psichico-psichiatriche. Nel carcere minorile sta cominciando a entrare l'uso dello psicofarmaco. Ciò è un brutto segno. Il problema dei minori, come diceva il procuratore, ed io sono d'accordo, è un problema del nostro sistema educativo, della la famiglia, della scuola, che sono le due colonne portanti. Poi c'è tutto l'altro mondo delle associazioni, gli enti locali, i servizi sociali. Qui si inserisce la mancanza di lavoro in rete. E allora cosa vogliamo dai nostri ragazzi? Quando anch'io avevo chiamato a scuola i genitori che mi ponevano problemi mi venivano da dire: ma fino a adesso cosa avete fatto? Perché purtroppo si ha un'ottica d'intervento occasionale e di carattere riparativo. Ci occupiamo dei ragazzi quando rompono le scatole ma non lo facciamo quando mandano segnali. Non c'è un'ottica preventiva, educativa, d'intervento serio nel problema educativo, c'è solo l'intervento del momento, del risolvere il problema quando ormai è diventato già tale, già grave e di difficile soluzione. E' questo che bisogna cambiare nella mentalità e nella cultura. Il problema è di carattere educativo, è del sistema che è sempre più fallimentare nell'aiutare i ragazzi a diventare persone. Come da una parte ci preoccupiamo dell'aborto - o per lo meno dovremmo occuparcene - dovremmo farlo rispetto a molte persone che nascono come individui, ma non diventano mai persone, capaci di agire con libertà, con responsabilità, con moralità. Questo è un grosso fallimento. Alcuni arrivano in carcere e altri finiscono male prima, fuori dal carcere. Il problema dei minori si pone anche fuori, perché il problema grosso è anche fuori dal carcere. Mi soffermo, se posso, sulla legge. Sul problema della legge volevo far vedere come è cambiata innanzi tutto la cultura in una certa direzione e come stanno cambiando le proposte legislative, le leggi, in un'altra. 

La cultura sul problema dell'adolescenza sta cambiando. Intanto iniziamo dal 1934 quando è stato istituito il tribunale per i minorenni. Si è capito che c'è una specificità in questa fase della vita e si è detto: non posso guardare chi commette il reato allo stesso modo di un 30enne o un 40enne, con un 15enne, un 16enne. Si è detto che dai 14 ai 18 anni c'è una procedura penale diversa. Si è giunti a ciò solamente nel 34, pensate. E prima? Non avevamo ancora capito che l'adolescenza è un'età particolare, diversa, dove intervenire in modo diverso. Posso fare riferimento, schematicamente, a 3 modelli d'intervento della giustizia minorile. Il primo che è stato quello più repressivo, punitivo: tu commetti reato, quindi ti condanno, vai in carcere, sconti la pena. E' di tipo punitivo e in qualche modo anche vendicativo. Nel 75 si è passati, col nuovo ordinamento penitenziario, a una visione più rieducativa-trattamentale, con l'ingresso degli educatori nelle carceri, la predisposizione di un progetto educativo. In questi ultimi anni si sta passando ad un terzo modello che è quello riparativo, riconciliativo, responsabilizzante. Si è pensato a riparare la rottura sociale che è avvenuta. Non interessa più punire ma che ci sia una riconciliazione possibilmente tra te e la vittima del reato. Tra autore e vittima del reato l'incontro, che è difficile con i minorenni, è possibile. Anch'io ho delle storie di cui potrei parlarvi di mediazione avvenuta dai nostri ragazzi, quindi di responsabilizzazione, di recupero del rapporto con la società. Questa è la cultura verso cui si sta camminando e questo cammino è legato anche al fatto che l'adolescenza è sempre più prolungata, si contrappone all'ottica che, invece, è sotto la proposta Castelli. Non è vero che a 18 anni un ragazzo ha completato la sua adolescenza, quindi è capace di autonomia e di responsabilità. Io ho ragazzi di 22 e 24 anni che hanno magari una maggiore maturità forse cognitiva, intellettiva, ma non emotiva. I nostri ragazzi son più fragili, più insicuri di un tempo, forse di quando eravamo noi adolescenti, anche se hanno 20-22 anni. Allora cosa è avvenuto d'altra parte, nella legge? Si è avuta l'istituzione del tribunale dei minorenni, che riconosce questa specificità. Finalmente in Italia questa legge - credo che il procuratore sia d'accordo - la 448, la procedura penale minorile dell'88, ha messo in evidenza più la persona che non il reato. Successivamente è stata presentato in parlamento, esattamente nella camera dei deputati nel 1997, una proposta di legge per la modifica della procedura penale concernente i giovani in età compresa tra i 18 e i 21 anni. Ciò per prevedere che tutto quello che si applica ai minorenni 14-18, possa essere esteso fino al 21° anno. Ebbene, questa proposta di legge non è mai andata avanti. Qualche cosa è arrivato però. Da una parte c'è il cambiamento culturale, dall'altra invece quello legislativo dei nostri politici, che risentono dell'opinione pubblica che è formata più dai mass media. Si arriva alla proposta di legge depositata il 10 ottobre del 2001. E' cambiato anche il governo: nel 2001 c'è un altro disegno di legge ed il primo articolo dice: "il limite di età per l'imputabilità del minore è portato da 14 a 12 anni". Le tappe vengono segnate dai casi di cronaca. Basta un altro caso "Erika" e il disegno di legge viene ripreso subito, oppure un ragazzo 12enne che commette qualche reato grave e questa legge qui viene portata avanti. Volete sapere da chi è presentato questo disegno di legge? Dai senatori del centro destra, dell'attuale governo del centro destra. Il 1° marzo del 2002 altre due proposte di legge sono state già approvate nel consiglio dei ministri, e si ha paura che da un giorno all'altro vengano portate in parlamento. Se sono approvate dal consiglio dei ministri è facile che passino. Una riguarda la competenza la tribunale, una è relativa al diritto di famiglia dei minori, una sul tribunale penale. Quella relativa al diritto di famiglia e dei minori - "misure urgenti e delega al governo in materia di diritto di famiglia e dei minori" - vuole proporre la sezione specializzata per i minori presso i tribunali ordinari. Immaginate un tribunale ordinario che si occupa di minori e non solo per il numero delle cause... Il tribunale dei minori ha tutta un'altra ottica, la specializzazione che era dei giudici minorili, le competenze anche di carattere psicologico, pedagogico. Mi pare di vedere che si fa un passo indietro, perché non sempre riformare vuol dire andare avanti, ci sono riforme che invece fanno un passo indietro. La proposta già approvata dal consiglio dei ministri - "modifiche per le competenze del tribunale penale" - propone misure cautelari più ristrette, messa alla prova più ristretta, prevede che non la si può più dare, ad esempio, a chi ha commesso un omicidio. Ma la cosa ancora più grave è che c'è un aumento di pena per i ragazzi dai 16 ai 18 anni. Mentre per i minorenni c'è una diminuzione di un terzo, dai 16 a 18 nella proposta ne è prevista una di un quarto. Ciò vuol dire un aumento di pena. Un'altra cosa grave è che al 18° anno non si sta più nel carcere minorile, ma si va agli adulti. I carceri minorili in linea di massima funzionano, anche perché son pochi ragazzi e c'è una presenza abbastanza significativa di educatori. Al carcere per gli adulti gli educatori dove sono? Ce ne può parlare Patrizia De Antigono, dove sono gli educatori? Su 450 c'è un educatore, al minorile su 16 ragazzi ci sono 5 educatori. La motivazione che poi porta Castelli è che questi ragazzi ultra 18enni sarebbero modello negativo per i minorenni. Ma per loro il carcere per adulti non è modello negativo? Sono costretti a stare con tutti i 30enni, 40enni che sono i veri malavitosi. Questo cos'è, non è forse un modello negativo per loro? Che facciamo, i giorno prima del 18° compleanno questi ragazzi li vogliamo salvaguardare ma il giorno dopo no? Non c'interessa più niente di loro? Questa è un'ipocrisia. Mando via gli ultra 18enni perché sono modello negativo. E questi li mandiamo a lezione di delinquenza? Come dicono i ragazzi, se il minorile è il liceo, l'università che ti dà la laurea alla delinquenza è il carcere per adulti! Bhe' io vi posso portare, come esempio, testimonianze dei ragazzi, con tutte le cose che hanno imparato in carcere. Entrati per fesserie sono usciti capaci di fare rapine. Dove l'apprendono? Il carcere è una scuola di delinquenza. Non so se il procuratore è d'accordo. Io ci ho vissuto dentro e li sento i discorsi.

Per concludere, una domanda

Come fa un ministro a portare avanti una proposta di legge senza consultare il dipartimento di giustizia minorile dove sono tutti gli operatori che lavorano nel settore per vedere quello che si è fatto, quello che dicono gli studiosi di questi argomenti, di criminologia minorile? Se da una parte la cultura, la scienza, vanno in una direzione, le proposte in corso vanno in un'altra direzione.

Ugo Pastore

La grossa difficoltà nel processo a carico di imputati minorenni, che poi è la grossa peculiarità recepita nella riforma dell'88, è che non basta soltanto dare un giudice specializzato a un soggetto perché minorenne, ma bisogna dargli anche un suo processo. Si tratta di un processo con delle regole peculiari, in parte diverse da quelle del processo penale normale. Nella riforma dell'88, in più passaggi, sin dal momento dell'acquisizione della notizia di reato e addirittura dell'intervento della polizia giudiziaria nella flagranza di reato, si vede come ognuno dei soggetti che interagisce col minore, deve avere una preoccupazione davanti a tutto. Fin da subito si è consapevoli del fatto che il suo intervento non debba essere esclusivamente repressivo, ma un intervento che abbia comunque un'utilità e una valenza sul piano educativo. Per i minori non esiste l'arresto obbligatorio in flagranza di reato per cui anche un minore colto in flagrante omicidio può non essere arrestato, perché non esiste per nessun reato l'arresto obbligatorio. Perché? Perché prevedere un arresto obbligatorio significa un automatismo che è incompatibile con questa ricerca, comunque con questa possibilità, che in teoria ci può essere anche di fronte a un reato gravissimo. L'intervento repressivo può addirittura essere controproducente per il minore, controproducente in relazione a quello che può essere lo svolgimento ulteriore del processo. Capite che l'approccio è del tutto peculiare. Anche nel momento in cui il ragazzo viene a contatto per la prima volta col giudice noi avvertiamo questa difficoltà di conciliare quelle che sono le garanzie processuali ordinarie previste per qualsiasi imputato, con quelle che invece sono le esigenze specifiche del ragazzo. Vi faccio un esempio concreto. Nel momento in cui io rispetto tutte le forme previste dall'ordinamento nei confronti di un imputato, minorenne o maggiorenne, automaticamente non riesco, io giudice, a stabilire un rapporto personale col ragazzo. Tutto si concentra sul fatto, sul reato e ciò non consente un approccio che dia la possibilità di conoscere il ragazzo, che poi è la cosa fondamentale al fine di stabilire il percorso rieducativo. In questo dovrebbero aiutare i servizi da una parte e anche gli avvocati specializzati, che pure erano stati previsti. Era stato previsto che si facessero dei corsi, che si creasse una sorta di elenchi di avvocati specializzati, ma sono state proposte estemporanee, mai portate avanti. Perché un avvocato specializzato? Perché al di là di quelle che sono le garanzie formali del processo di un imputato, noi non dobbiamo trascurare che abbiamo un ragazzo. Più lo conosciamo, più la risposta può essere adeguata, visto che il processo minorile ci dà possibilità che il processo per gli adulti non ci dà. Se conosco il ragazzo, capisco le motivazioni che lo hanno portato a delinquere e posso addirittura evitargli una pena, accorciargli il processo ai limiti minimi, limitare al massimo la traumaticità dell'esperienza penale. Se non conosco il ragazzo, o non mi viene data l'opportunità di conoscerlo, io sono costretto ad applicare le regole generali, quelle che applicherei a un adulto. Ciò non avveniva prima della riforma. Allora ero pubblico ministero, ricordo che sentivo il ragazzo e spesso e volentieri, visto che non aveva l'avvocato, con lui si stabiliva un certo rapporto. A volte c'erano momenti di alterazione, momenti di reazione, piangeva, reagiva. 
Dal rapporto che si creava uscivano fuori delle storie che mi facevano capire che cosa aveva portato il ragazzo al reato e quindi a poter dosare gli interventi, sia quello retributivo sanzionatorio, sia quello di prevenzione, in modo tale da dare una risposta il più possibile adeguata. Questo adesso è molto, molto più difficile. 

In aumento i reati di minori della media-alta borghesia

Ultimamente noi stiamo avendo un aumento di reati nelle fasce medio alte: non abbiamo più reati commessi da minori in situazioni di malessere materiale o di famiglia disgregata, ma stiamo avendo un aumento di reati commessi da minorenni che appartengono alla media-alta borghesia. Attenzione, questo è un segnale importante. Sono loro i più indifesi, perché sono quelli nei quali la famiglia interviene in termini diseducativi, soltanto protettivi, di rifiuto e di difesa. Sono famiglie che rifiutano gli interventi sociali a sostegno ed indirizzo, perché hanno la presunzione di non averne bisogno e si vergognano se intervengono i servizi sociali sulle loro realtà. Molti di questi ragazzi non risolvono i loro problemi: o continuano a delinquere oppure manifestano la loro sofferenza in altro modo. Mi sono capitati ragazzi che facevano da basisti dei furti in casa propria. A scuola organizzavano i furti nelle proprie abitazioni. Il furto veniva denunciato e noi facevamo le indagini di rito: da una serie di elementi usciva fuori che era il ragazzo, il figlio dei derubati. Messo alle strette il ragazzo ammetteva che si era messo d'accordo con i suoi amici e avevano fatto il furto. Non aveva problema di soldi, ne' altri problemi che potessero indurlo a mettere in atto un furto. Era, quella, una forte richiesta di attenzione. Questo è solo un esempio. Il ragazzo che si misura per trovare l'emozione con la rapina, magari va a cercarsi il compagno un po' più emarginato per poter vivere l'esperienza forte del coinvolgimento in un atto di violenza. Per esempio le violenze sessuali sono quasi sempre di gruppo, perché al minore che commette violenza sessuale, interessa non il fatto sessuale in sé, ma è il gruppo. In tutti questi casi sarebbe molto importante che tutti gli operatori potessero avere un approccio il più possibile autentico col ragazzo, proprio perché l'ottica non è quella di arrivare a punire in modo esemplare, ma è quella di consentire una risposta adeguata. Se conosco il ragazzo posso anche arrivare a non fargli avere la punizione, evitargli la traumaticità del processo, ma se non lo conosco questo non lo posso fare. Purtroppo in questo si sta un po' tornando indietro, nel senso che sempre più i ragazzi si trincerano dietro un avvocato che, chiaramente, fa la sua parte senza magari nemmeno essere specializzato. L'esperienza penale non viene colta come occasione per intervenire su un disagio. Per quanto si possa punire un ragazzo dai 14 ai 18 anni, con 10 anni, 11 anni, 20 anni, uscirà sempre un uomo giovane dal carcere, ecco perché non ha senso nei confronti di soggetti così giovani la risposta di tipo repressivo, perché avrai che alla fine di una qualsiasi pena, per quanto dura, questo signore sarà ancora abbastanza giovane per entrare in società e chiaramente metterla di nuovo in pericolo, in modo ancora più motivato e ancora più forte di come poteva fare in precedenza. La punizione fine a se stessa non ha senso dal punto di vista della prevenzione sociale. Allungare le pene o abbassare l'età imputabile non ha senso. Il ragazzo uscirà sempre abbastanza giovane per potersi confermare nella scelta deviante. 

Ettore Cannavera

I punti critici dell'informazione

Quando leggo qualcosa sui giornali, di ragazzi che conosco, con i quali interagisco dentro il carcere, per me sono momenti di sofferenza. Ultimamente ho partecipato nella nostra televisione locale ad un dibattito sulla violenza. Il giornalista per ricordare episodi gravi di violenza ha fatto rivedere in faccia quel ragazzo che ha commesso quell'omicidio grave che gli è costato una condanna a 19 anni. Io ho sbottato durante la trasmissione contro il giornalista, dicendo che quello non era il modo di trattare i nostri ragazzi. Il giornalista col quale mi sono scontrato lo conosco, è una persona molto onesta, molto corretta, ma l'ottica del giornalista è quella di dare la notizia con alcuni elementi anche di carattere emotivo, sensazionale, senza porsi l'interrogativo delle ripercussioni che ha questa notizia sul ragazzo, sui servizi, sulla stessa giustizia minorile, compresi i magistrati, sull'opinione pubblica. La notizia va data, è evidente, ma non si può dimenticare che come c'è il diritto all'informazione c'è anche quello del minore di essere tutelato. C'è una prevalenza di uno dei due diritti? Bisogna trovare un compromesso? La convenzione uno parla chiaro. Anche secondo me c'è una prevalenza del diritto del minore, il che vuol dire che bisogna essere attenti a capire, a prevenire la ripercussione che il modo con cui si da la notizia ha sullo stesso minore. Il minore è in un momento di formazione della sua identità. Vive l'adolescenza ed è già per questo in una fase delicata della sua vita, spesso negativa. A ciò si somma il fatto di aver commesso un reato, di essere addirittura in carcere, oppure imputato. Situazione cento volte più pesante. Poi arriva la stampa che accresce questa identità negativa! Capite cosa voglio dire? La mia difficoltà, il mio punto critico è capire il contesto in cui è maturato questo reato, il contesto familiare, ambientale, del quartiere, della zona, capire il contesto per capire che tipo di ragazzo ho davanti. Mi sono preparato alcune tipologie di ragazzi che commettono reati. Chi sono i ragazzi più esposti al compimento del reato? Innanzi tutto parliamo dei ragazzi che provengono da famiglie e da contesti socialmente e culturalmente depravati. La prima domanda che mi pongo è quella con cui cerco di capire se il ragazzo appartiene a questo contesto. Da dove viene? Dove è cresciuto? Dove è maturato? Pensiamo ai nomadi, esclusi dal benessere, ragazzi che addirittura non hanno opportunità d'integrazione sociale. Abbiamo anche noi alcuni nomadi che finiscono in carcere. Oppure agli extracomunitari, ragazzi che non riescono a inserirsi, che hanno difficoltà di capire qual è la legalità nel nostro paese, ragazzi vittime della subcultura criminale, il problema della mafia, quelli a cui accennava il procuratore, pienamente integrati, ma educati alla logica del tutto e subito, ad un esasperato individualismo, che provengono da una famiglia perbene, dove hanno avuto tutto, non hanno bisogno di soldi, eppure commettono reati. Questi ragazzi figli di professionisti che hanno commesso reati entrando in una gioielleria, non avevano certo bisogno di soldi. In carcere, nel momento in cui li si incontra e si parla con loro, dicono "adesso mio padre capirà, deve venire qui se mi vuol parlare". Sono messaggi ben precisi. Oppure pensiamo a ragazzi con problemi di dipendenza da sostanze psicoattive. Sono ragazzi sempre più giovani di età iniziano quelli che iniziano la conoscenza e l'approccio alle sostanze psicoattive. Ragazzi con disagio psichico, psichiatrico. Vedete, i casi sono diversi. Stiamo parlando del minore che devia, ma ci sono categorie molto diverse. 

Il bisogno di attenzione

Il primo problema che dobbiamo porci è, nel dare l'informazione, cercare di capire da dove proviene, qual è il contesto in cui è maturato quel giovane. Di tutto ciò ha bisogno anche il giudice per capire. Ecco, dunque, l'indagine che si deve fare attraverso i servizi, per risalire alla sua famiglia, alla sua personalità. Per poter intervenire in modo adeguato nel rispetto di quello che dice l'art. 1 della procedura penale "nel rispetto del processo educativo del ragazzo e della sua personalità". Il momento del reato è un momento da sfruttare per aiutarlo a crescere, è un'opportunità, perché il ragazzo commette il reato perché ha bisogno di attenzione. La funzione dell'informazione, della notizia è quella di aiuto allo stesso ragazzo a maturare. Questo non vuol dire - un altro equivoco spesso che riscontro - deresponsabilizzare il ragazzo: la colpa è della società, dei tuoi genitori che ti hanno abbandonato. Attenti a questo pericolo! Non ci si può limitare a dire, superficialmente, questo. Bisogna riconoscere che il ragazzo è responsabile, attore che ha tutta la capacità e la consapevolezza nel commettere il reato, ma ci si deve sforzare di capire il perché è arrivato al compimento del reato, il contesto dove è maturato, i servizi che devono intervenire, o che non sono intervenuti prima. Questa potrebbe essere una modalità per dare la notizia, che possa dare all'opinione pubblica una maggior conoscenza della problematica dei ragazzi. Non solo additare il ragazzo come unico responsabile del reato, marcare di capire tutto il contesto dove questo reato è stato compiuto, è stato maturato e perché è avvenuto. 
Questo credo che sia il nodo cruciale che noi operatori dobbiamo capire: attraverso la notizia l'opinione pubblica può capire meglio il problema dei ragazzi che commettono un reato.

Educatori efficaci

Un libro di Tomas M. dice "Genitori efficaci = figli responsabili", io direi "educatori efficaci". Vogliamo misurare la nostra efficacia? Vediamo se i ragazzi sono responsabili, questo è l'obiettivo di fondo. Come far maturare la responsabilità? Allora questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano. Il fatto è che da piccoli non si è chiesto conto ai ragazzi per evitare la sofferenza, la frustrazione dei figli, degli alunni.  
Qui i ragazzi devono rendere conto delle proprie azioni, a noi innanzi tutto, quando non basta a noi, al giudice. Se un ragazzo non rientra la sera e ha la prescrizione di rientrare, l'indomani mattina va dal giudice a cui deve render conto. Io ho visto che funziona.  
Quando invece non hanno un adulto come punto di riferimento a cui devono rendere conto della loro vita è chiaro che non matura il senso morale, la regola. Il problema di fondo dei nostri ragazzi, lo dicevo con qualcuno fuori, non è un problema del ministero della giustizia, del ministero dell'interno è un problema del ministero dell'educazione, la chiamiamo ancora istruzione. Il problema è educativo, non è né repressivo, né di giustizia. Il problema è a monte. Se questi ragazzi arrivano qui è perché abbiamo fallito prima.  

Intervento 

Io credo che debba esserci anche una responsabilità a monte. A Collodi ad esempio, dove c'era la conferenza nazionale sull'infanzia, per due giorni a tutti i giornalisti presenti sono stati letteralmente "venduti" i bambini di S. Giuliano di Puglia.

Mi chiedo: non era anche un problema istituzionale, a monte, quello di decidere di non portare questi bambini? Poi il giornalista si trova lì e deve fare il suo lavoro.

Ugo Pastore   

Volevo dire soltanto una cosa. Don Ettore fa un lavoro che comunque lo porta a contatto coi mass media, però siccome non dice cose "comode", mette sempre il dito sulle responsabilità degli adulti, probabilmente difficilmente farà grandi passerelle, o sarà ricevuto dal Presidente del Consiglio. Perché dico queste cose? È che questo è sintomatico di quello che sta diventando in questo paese il discorso dei servizi. Lo stato si vuole disimpegnare, c'è un privato, qualsiasi esso sia e dice: "non ti preoccupare te lo faccio io, però le condizioni le detto io". E' quello che è successo a Collodi. Lei ha toccato un punto delicato, quello della responsabilità. Ma vi rendete conto che nessuno in questo paese, nessuno che svolge una funzione assume delle responsabilità? Ma vi chiedete perché qualsiasi cosa si fa in questo paese deve passare per un giudice? È una follia. Cioè non c'è una cosa, una decisione che viene presa sotto la responsabilità di chi dovrebbe assumersela e che poi non debba passare al vaglio di un giudice. Si chiede tutto a un giudice. Il cambio di un cognome.. cosa c'entra il giudice? Il giudice è l'unico dietro il quale tutti quanti si trincerano. Allora ti chiedono anche pareri impropri. Ci sono organi massimi dello stato che hanno delle responsabilità istituzionali fortissime che quando non se le vogliono assumere, rimandano a un giudice chiedendo un parere. Lo stesso stato tante volte manda al Consiglio di Stato per chiedere come la pensa. Ma stiamo parlando di vertici istituzionali, stiamo parlando di soggetti che hanno responsabilità notevoli. Il principio di responsabilità, purtroppo, in questo paese non è mai passato. Ecco perché chiaramente abbiamo un giustizia sovraffollata di mille adempimenti che niente hanno a che vedere col diritto, col giudice, con la necessità di superare un conflitto.  
Dall'altra parte abbiamo una sacca enorme di irresponsabilità da parte anche di persone che hanno compiti istituzionali molto forti. Quindi il discorso della responsabilità è importante. In questa materia poi, nel parlare dei minori, non ne parliamo proprio.  

Il minore: un soggetto non in grado di autotutelarsi 

Dovrebbe tutelarlo l'adulto, la famiglia, la scuola, le istituzioni. Siccome, davanti a casi di ragazzi che chiedevano aiuto e che non sono stati compresi, si tratta di un fallimento di questi adulti, nessuno si vuole assumere queste responsabilità. Ecco che le cose non escono fuori, ognuno si trincera dietro il suo settore, si crea quell'incomunicabilità di cui parlavamo prima. Purtroppo questo modo di fare si sta facendo strada anche nelle comunità. Considerate che in Italia comunità pubbliche non se ne sono fatte, viene tutto delegato alle private e a volte l'intervento è subordinato al fatto che si trovi un posto dove mettere il ragazzo. Si applica una misura di collocamento in comunità a un minore di area penale, il collocamento in comunità significa che non può tornare a casa, perché deve essere seguito da persone esperte in un contesto protetto. Bene, in genere passano giorni, a volte settimane prima che questa misura venga eseguita. E allora le cose sono due. O quel ragazzo rimane in parcheggio nell'area dove è stato arrestato, oppure viene mandato a casa. Intanto bisogna trovare un posto e allora si comincia ad elemosinare in tutte le comunità d'Italia e si inizia a chiedere: chi se lo prende? Indipendentemente dalla qualità della comunità, dalla capacità di portare avanti un percorso di recupero. la cosa importante è chi se lo prende. Questa è logica che va avanti. Nelle Marche non c'è un istituto penale minorile. Sapete i ragazzi che hanno la misura cautelare dove vanno? Al Ferrante Aporti di Torino. Ma che rapporto posso avere io giudice con un ragazzo che sta al Ferrante Aporti di Torino. Per sentirlo devo chiedere al collega di Torino per piacere sentimelo. Quando viene per l'udienza deve venire dal Ferrante Aporti qui, poi deve tornare su, spesso non c'è neanche la possibilità di farlo mangiare. Vi rendete conto? Andiamo avanti in questo modo. E allora quando l'istituzione, che dovrebbe anche dare delle risposte, si rapporta al ragazzo così, il ragazzo dice: "a casa non mi stanno a sentire, nella società non mi stanno a sentire, a scuola non mi stanno a sentire, neanche quando mi fanno il processo mi stanno a sentire." 
Mi ricordo un fatto emblematico, di cui ho parlato più volte. Un ragazzo aveva commesso una serie di reati e a 14 anni finalmente viene arrestato. Va davanti al giudice, si fa il suo bravo processo, io ero pubblico ministero e chiesi una pena, motivando che aveva un curriculum da non imputabile ma chiaramente aveva bisogno di un periodo di riflessione. Il tribunale gli diede il perdono giudiziario.  
Il commento di questo ragazzo, 14 anni e pochi giorni, fu: "nun so bbuono neanche pa' galera!". Capite? Lui voleva una risposta e non aver avuto questa risposta, aver trovato il giudice che diceva ti perdono, era stata l'ennesima delusione, abbandonato da tutti. Il suo commento fu "non sono buono neanche per andare in galera!  Allora a questo punto che devo fare per essere ascoltato, per essere sentito, per avere una risposta?". E' questo purtroppo la realtà.  

Un linguaggio condiviso  

C'è un linguaggio comune a tutti i soggetti che interagiscono e, ripeto, non possono essere soltanto gli esperti.  
Le problematiche minorili sono trasversali, quando le si vuole delegare in un ghetto dando un settore, una competenza, si fallisce. Lei pensi che in alcune situazioni i servizi sociali, l'assistente sociale ha difficoltà anche a procurarsi il certificato anagrafico della famiglia, perché deve andare all'ufficio anagrafe dove deve fare la richiesta e magari c'è l'impiegato dell'ufficio anagrafe che ci mette 2 giorni. Magari lei deve sapere subito dove sta il ragazzo, in che famiglia vive... Consideri poi che il giudice minorile, a differenza degli altri giudici, innanzi tutto non deve essere un giudice imparziale, deve essere un giudice naturalmente parziale, perché sta dalla parte di un soggetto che non è nel processo. Soprattutto negli interventi civili. E' il soggetto da tutelare, che non avendo tutela autonoma, è quello che va tutelato, che l'ordinamento ritiene meritevole di essere tutelato.  
Il nostro soggetto di riferimento per gli interventi civili sono i servizi sociali del territorio. Dal '77, da quando sono stati passati i poteri dallo Stato alle Regioni, la situazione è peggiorata. Spesso devono eseguire i nostri provvedimenti soggetti che non esistono, quelli che esistono sono persone più o meno qualificate, che non hanno neanche un minimo di capacità, a volte vanno avanti col buon senso. Saranno delle buone madri di famiglia, ma certamente molte volte non sono delle professioniste del settore, sono ricattate dalla loro amministrazione che non avendo i mezzi, gli impediscono di dire al giudice che c'è bisogno di certi interventi.  
Quindi noi abbiamo informazioni inquinate, condizionate, soggetti che devono eseguire che non sanno eseguire o non possono eseguire perché le loro amministrazioni non gli danno il supporto adeguato. La difficoltà è proprio questa. Nel caso di 11 anni, bastava fare un programma d'intervento fin da subito di tipo civile. Il ragazzo veniva tolto da un certo contesto, veniva inserito in un contesto protetto dove gli venivano proposti non solo dei programmi, ma soprattutto veniva messo in contatto con figure adulte significative. Il ragazzo nel suo percorso di vita deve avere delle figure adulte significative. Adulti che, più che essere bravi, buoni, accondiscendenti, devono essere autorevoli, credibili e coerenti. Quello che vedono i ragazzi ed è poi quello che noi tutti i giorni gli sottoponiamo in modo diseducativo, è l'incoerenza e le nostre contraddizioni.  
Noi predichiamo e poi facciamo in un altro modo. E questo i ragazzi lo vedono a scuola, lo vedono a casa, lo vedono ovunque. Allora noi possiamo fare tutte le campagne informative che vogliamo ma nel momento in cui il nostro comportamento è l'opposto, il ragazzo non recepisce il messaggio.  
Il ragazzo, giustamente, vuole vedere intorno a sé coloro che gli dicono cosa fare e automaticamente siano i primi a farlo. Ma in un contesto in cui tutti sono intolleranti delle regole, nessuna autorità viene riconosciuta, nessuna autorità viene legittimata, ognuno di noi di fronte a una ogni cosa, magari anche alla contravvenzione giusta pensiamo: cosa faccio? Faccio ricorso? Impugno? Cioè la nostra società è andata avanti così. Allora oggi non c'è più nessuno che possa porre una regola o affermare una regola. Allora il giudice ha deciso? Non serve a niente, si va in secondo grado, poi decide un altro giudice e poi decide un altro giudice. Praticamente la regola non esiste più, perché poi alla fine il sistema attraverso le lungaggini, attraverso gli ingolfamenti dà la sensazione che se io non mi rassegno, alla fine ho ragione, una prescrizione non si nega a nessuno.  
È chiaro? E purtroppo questo è il sistema delle prescrizioni, dei condoni.  

Le regole non esistono più?  

I ragazzi questo percepiscono, e allora quando qualcuno si pone di fronte a loro e gli vuol imporre una regola chiaramente loro dicono: "tu sei il primo che le regole non le rispetta, perché dovrei rispettarle io?". I famosi punti di riferimento. A volte i ragazzi si attaccano moltissimo a soggetti che sono fuori della famiglia, ma che per loro sono degli esempi, perché sono autorevoli, sono credibili ai loro occhi, sono coerenti.  
Questo sia in negativo che in positivo, perché ci sono anche gli esempi coerenti in negativo ovviamente. - (parla qualcuno) - Io non approvo la retorica della famiglia, è chiaro? Per me la famiglia si deve legittimare di per sé.  
Quanto tempo deve aspettare un bambino perché i suoi genitori crescano? Quanto tempo io devo tenere un ragazzino chiuso in un istituto, una comunità per tossicodipendenti aspettando che i suoi genitori guariscano.  
Perché si parte dal presupposto che comunque lui sta meglio coi suoi genitori. Non si può crescere in una comunità. Allora questo è un problema.  
Il legislatore ovviamente si guarda bene dal mettere dei paletti. Spesso, purtroppo, siamo costretti a sperimentare - anche quando pensiamo che ci sia poco da sperimentare - dei percorsi di recupero perché i genitori impugnano, in ogni modo si oppongono, tendono a mettere ostacoli, senza rendersi conto del danno che compiono per il proprio figlio. Spesso troviamo ragazzini che a 10-11 anni, quando ormai nessuno li prende più, perché non sono più adottabili, restano dove restano in parcheggio fino a quando non diventano maggiorenni. Considerate però che la legge 149 del 2001 ha detto che nel 2006 spariscono tutte le comunità e le case famiglia, gli istituti.
Le case famiglia si trasformeranno, quindi praticamente spariranno, perché come sono adesso non ci saranno più.  
Ci saranno delle case famiglia che faranno l'alternativa di affido, quindi si trasformerà in una forma di affido.  
Ma in Italia una politica dell'affido non è stata mai fatta. Ancora adesso le persone per fare l'affido vengono prese di volta in volta a caso, non esistono dei programmi stabili per la formazione delle coppie per l'affido.  

Ettore Cannavera  

Io credo che sia un problema. Ieri si parlava della libertà dell'autonomia del giornalista nel dire le cose, nel dare le notizie. Credo sia anche un problema nostro di operatori assistenti sociali, insegnanti, della paura che abbiamo di esporci, perché magari siamo dipendenti dall'amministrazione. Io l'ho sperimentato sulla mia pelle. Lo accennava il procuratore, di aver detto certe cose, di esser stato richiamato dal politico dicendomi che mi toglieva il contributo per la comunità, perché ho detto che non ero d'accordo sulla proposta Castelli, oppure perché ho detto che il problema di quel ragazzo era da analizzare all'interno di quel contesto, di quella scuola che l'aveva buttato fuori. E' vero. Anche da parte nostra, di operatori, c'è questa difficoltà, perché possiamo essere richiamati e possiamo avere qualche ripercussione negativa all'interno dell'amministrazione.  
Parlare del carcere qualcuno mi ha detto: perché non ci dici cosa succede in carcere di notte? Io lo posso dire, perché tanto non possono far niente, sono cappellano, la polizia ha già tentato tante volte di buttarmi fuori, ma non ci sono riusciti. Invece un poliziotto non può parlare, un educatore non può parlare, il direttore tanto meno, deve chiedere il permesso.  
Anche nel nostro mondo bisogna trovare quelle persone che hanno maggior coraggio, come dovete avere voi giornalisti - lo si diceva ieri - nel dire le cose che sono nascoste dietro al velo dei fatti e questo coraggio lo dobbiamo avere tutti.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.