X Redattore Sociale 28-30 novembre 2003

Volo Radente

Workshop: Giornalismo e... periferie

Incontro con Gino Rigoldi. Conduce Massimo Rebotti. Interviene Ugo Pastore

Gino RIGOLDI

Gino RIGOLDI

Sacerdote, fondatore di Comunità Nuova a Milano.

ultimo aggiornamento 23 aprile 2009

Massimo REBOTTI

Massimo REBOTTI

Giornalista, direttore di Radio Popolare. 

ultimo aggiornamento 29 settembre 2006

Massimo Rebotti*

Non so se Radio Popolare sia stata scelta in quanto realtà periferica, però forse un ragionamento sulla radio come mezzo, non come luogo, in rapporto alle realtà periferiche si può fare, è stato anche fatto in alcuni libri. I giornalisti, il giornalismo in generale, le periferie le conosce molto poco, probabilmente non le conosce del tutto. Partiamo da affermazioni anche drastiche per poi vedere se si possono confutare o articolare maggiormente.
Il giornalismo non conosce le periferie del mondo e non conosce le periferie urbane, diciamo le periferie sia dal punto di vista geografico, che da un punto di vista scomposto, nel senso che magari andremo ad analizzare. C'era un bellissimo articolo di Kapuscinski appena dopo l'11 settembre che raccontava - almeno a me ha stupito forse per ragioni anagrafiche - come le grandi catene informative televisive, ma anche radiofoniche e la carta stampata, avessero nel mondo molti più corrispondenti negli anni '60 piuttosto che oggi, 40 anni dopo. Questo serviva a Kapuscinski - anche con dei dati di progressiva smobilitazione drammatica dal punto di vista giornalistico e dal punto di vista della conoscenza del mondo - per sviluppare un ragionamento sul giornalismo e su come, paradossalmente per certi aspetti molti luoghi del mondo erano sconosciuti, completamente sconosciuti.
Quando si parla di smobilitazione dal punto di vista giornalistico si intende smobilitazione della catena dei corrispondenti, degli uffici di corrispondenza del mondo, per esempio delle catene televisive americane, che era andata di pari passo con una progressiva non conoscenza del mondo. Ovviamente il luogo che progressivamente è diventato più sguarnito era l'Africa, con i dati IBS, CBS, ecc., ma proprio capitali coperte, poi l'Asia, poi il vicino Oriente. La cosa diventava ancor più di bruciante importanza all'indomani di un evento epocale come l'11 settembre quando, attraverso un tremendo atto terroristico, una parte del mondo che si pensava conosciuta, in realtà si dimostrava assolutamente sconosciuta, al di là ovviamente della fattura dell'attentato.

Nella città di Milano, in rapporto agli anni '70-'80, la stampa di zona, la stampa di quartiere, i piccoli tentativi radiofonico-televisivi, sono tutti caduti, più o meno, per ragioni sostanzialmente economiche. Così come c'è stata dalle periferie una ritirata da parte del mondo del giornalismo e quando parlo di periferie intendo in questo caso i territori. Il tema di quest'anno è il volo radente, cioè l'incapacità o la difficoltà del giornalismo di confrontarsi su un piano e con modelli differenti rispetto a quello del tambur battente, della superficialità per certi aspetti, che è o dovrebbe essere lo spauracchio del giornalismo, la pressione con la quale confrontarsi quotidianamente per fare i conti. Io lavoro in una radio. Al pari di chi lavora in televisione - anche se radio e tv sono cose diverse - so che con una certa pressione dobbiamo fare i conti perfino di più di quanto non debba fare chi lavora nella carta stampata. Ciò per la semplice ragione che i tempi sono ancora più compressi, la mole di notizie è ancora più serrata, la possibilità di sistematizzazione e sintesi è ancora più ridotta. Queste tre condizioni, insieme, fanno si che quel volo radente rischi di diventare rasoterra per certi aspetti.

Il mezzo, dal mio punto di vista - la radio - è periferico. E rientro brevemente sull'argomento del nostro incontro. Essendo il mezzo periferico è anche, secondo me, strutturalmente più adatto a raccontare meglio - forse - le periferie.
È un mezzo periferico per ragioni eminentemente economiche, nel senso che la radio - e su questo ci sono anche delle ricerche molto recenti - vive una stagione di eterna giovinezza. Non subisce - parlo di macronumeri intendendo per tali sia i numeri italiani che i numeri mondiali dell'ascolto radiofonico - non ha subito e continua a non subire, in maniera per certi aspetti anche sorprendente la concorrenza per gli ascolti della TV che è il mezzo più potente, più invasivo, della carta stampata e nemmeno della rete.
E' un dato sorprendente soprattutto se si pensa che il funerale della radio è stato recitato, celebrato alcune volte, poi non si è mai verificato. Anzi, in numeri assoluti, la realtà della radio cresce dal punto di vista degli ascolti. C'è un paradosso che è stato definito il paradosso della marginalità della radio, la radio marginale, periferica in questo caso. A fronte di ascolti che sono sostanzialmente analoghi a quelli televisivi, l'investimento pubblicitario è straordinariamente inferiore per una tradizionale "sfiducia". Gli investimenti ci sono, non è che non ci siano, ma resta un profondo senso di sfiducia dei pubblicitari nei confronti del mezzo. Tutto ciò è stato, per certi aspetti, la polizza sulla vita della radio. E non tanto della radio in quanto mezzo, ma delle radio in quanto pluralità di mezzi. Le concentrazioni radiofoniche sono di gran lunga inferiori rispetto alle concentrazioni televisive. Negli Stati Uniti, a fronte di alcune concentrazioni radiofoniche resistono, sopravvivono, sperano anche, una pluralità di radio diffuse sul territorio. E ritorno al tema periferie e giornalismo. Questa pluralità - insieme ad un aspetto specifico del mezzo su cui arrivo subito dopo - consente di combattere con armi leggermente più strutturate, lo spauracchio, lo specchio del volo radente anche in rapporto alle periferie. La ritirata dal territorio, in rapporto alle concentrazioni delle radio, è sicuramente inferiore. C'è stata, ma è stata sicuramente inferiore rispetto a quella della carta stampata e della televisione. Proprio per questo disinteresse pubblicitario, questo "disinteresse" di partenza, garantisce una pluralità democratica e una presenza sul territorio che può essere più strutturata per raccontare i territori.

L'altro elemento, e qui vengo ad alcuni casi specifici, è legato esclusivamente al mezzo. La radio ha la voce e non ha le immagini. Le voci, per quanto riguarda il racconto di alcune storie che giornalisticamente stanno scomparendo proprio per la pressione di cui sopra. Non è che sono sparite del tutto, però sono progressivamente diminuite le storie, perché sono lunghe, sono complicate, sono difficili da ridurre a semplificazione. Questo problema di ridurre a semplificare ce l'ha anche la radio, ma la possibilità vocale - specifica di quel mezzo - a livello teorico la si può usare bene o male. Consente il racconto di storie periferiche o marginali, dopodiché si apre un capitolo complicato, che è quello di come il giornalismo affronta le periferie e le marginalità. Io vengo da Milano. Quest'estate c'è stato un fatto molto grave a Rozzano, molto importante, immagino che ve lo ricordiate anche voi. Rozzano è una città perché ci sono quasi 40 mila abitanti nell'interland milanese. Nasce come paese di 3 mila abitanti all'inizio degli anni '60, ma poi cresce in maniera caotica nella cintura cittadina. Rozzano si trova a sud di Milano. E' uno di quei luoghi costruiti in grandissima fretta per gli operai delle fabbriche che stavano tutte al nord della città, ma il nord era già completamente pieno zeppo di case, di fabbriche, e quindi si è cominciato a costruire al sud. Questo posto è diventato rapidissimamente qualcos'altro, il problema è che non si è mai capito cosa fosse diventato.
E' capitato un fatto: un abitante di Rozzano scende in strada, uccide due suoi conoscenti con i quali aveva delle questioni di droga leggera in ballo e poi nella sparatoria muoiono anche un passante, un pensionato di 60 anni e una bambina di 2. Giorgio Bocca ha scritto in quei giorni una frase che io ritengo assolutamente azzeccata, "Ci sono borghi - li ha chiamati - nell'interland di Milano - e non c'è niente di più lontano dal borgo di Rozzano - che esistono solo quando una fiammata di violenza dice che esistono". Le cose che sono state scritte in quei giorni su Rozzano hanno scatenato anche un sentimento di orgoglio nei confronti delle persone che vi abitano.
Ci hanno tempestato di telefonate, abbiamo fatto delle dirette con loro e sono arrivati dei racconti straordinariamente vitali della loro realtà, non edulcorati ma straordinariamente vitali. Ora ci siamo accorti pure noi che stavamo esercitando un'esemplificazione facile, soprattutto per un mezzo come il nostro, che ha difficoltà a rapportarti con la cronaca nera. Gli abitanti di Rozzano, rivendicando il buon nome del loro luogo, non sapevano nemmeno come chiamarlo se città, paese. Noi facilmente, così come facilmente altri giornali insistevano invece sugli aspetti più drammatici o truci della vicenda, ci infilavamo in una rappresentazione più corretta, più politicamente corretta, ma forse nemmeno così utile per la comprensione, che era quella: "Non è vero che siamo tutti così".
Nei giorni di Rozzano sono state scritte delle cose anche sbagliate giornalisticamente. Vi dicevo di 37 mila abitanti. Si è scritto su alcuni giornali che i pregiudicati di Rozzano erano dai 15 ai 18 mila.. era un errore numerico. La questione dei numeri nel giornalismo è una questione fondamentale, perché coi numeri si costruiscono le politiche e anche le emergenze.
Allora era sacrosanto "politicamente corretto" che noi affrontassimo questa vicenda di Rozzano dal nostro punto di vista. Noi che siamo una radio d'informazione politica che ha difficoltà a rapportarsi con la cronaca, che pur cercando di destrutturarla, spesso abbiamo una visione politico-sociale delle cose prima ancora di conoscenza reale dei fatti. Questo vale per tutti i giornalismi e vale anche per una radio che si chiama popolare. Ci siamo resi conto che operavamo anche noi una semplificazione. Sacrosanto consentire agli abitanti di Rozzano di dire: "Non siamo tutti pregiudicati, anzi parlate della biblioteca che abbiamo aperto, parlate del lavoro del sindaco, parlate della Rozzano che c'è, perché quella che stanno raccontando è differente, non è così". Comunque, l'elemento della periferia non passava né da noi né dagli altri media. Perché? Non passa dal punto di vista della conoscenza, passa solo quando la fiammata di violenza di Bocca, rende esistente la cosa che altrimenti non c'è. Quelli per il giornalismo sono non luoghi, per buona parte del giornalismo sono non luoghi.. per buona parte del giornalismo quelli che vivono e abitano lì sono non persone.. non personaggi, più che non persone. Vedete, nessuno si può arrogare il diritto di dire che altri considerano alcuni non persone. Sono non personaggi che diventano tali solo quando vengono attraversati da tragedie.

In realtà, all'interno delle periferie, sia delle periferie urbane, che delle periferie scomposte delle città, ci sono straordinarie occasioni giornalistiche.
Farò due esempi che tra l'altro don Gino conosce perfettamente ed è più in grado di me di descriverli. Ci sono straordinarie occasioni giornalistiche perdute per certi aspetti - proprio perché la ritirata dal territorio in virtù di qualcos'altro che poi se volete affronteremo - rese progressivamente marginali, non si capisce nemmeno più bene in virtù di che cosa. Intendo vere occasioni giornalistiche di racconto, non scoop veri e propri. Faccio un esempio purtroppo partito sempre da un fatto di cronaca tragico, avvenuto a Milano recentemente. Come in tutte le grandi città ci sono luoghi di prostituzione maschile a Milano, ci sono sempre stati, comunque in crescita perché arrivano ragazzi immigrati che si prostituiscono.
Recentemente un manager milanese era andato a casa sua con un ragazzo, hanno rotto, hanno litigato e l'ha ucciso. Ovviamente anche in questo caso la notizia si è accesa e bruciata nel giro di un paio di giorni, attraverso un tentativo di una nuova emergenza. "Spietati, belli e pericolosi" titolava quotidiano, che è un titolo anche accattivante sotto certi aspetti, e raccontava di questo nuovo aspetto della marginalità e della periferia scomposta in realtà nella città.
Poi, magari, questi ragazzi vivono in case diroccate, per il lavoro che fanno frequentano invece i locali più alla moda della città, dove cercano, s'incontrano con i loro clienti.
Questo fatto di cronaca ha aperto un elemento di conoscenza cittadino molto forte: la presenza di gruppi consistenti di giovani ragazzi, per la maggior parte rumeni, che si prostituiscono, che fanno gruppo e che hanno visto questo stranissimo intreccio con un'altra città che è una città di locali, di locali gay - ma non solo - una città fatta di uomini benestanti che li cercano, s'incontrano. Quest'incontro, seppur mercenario, è un incontro di mondi che è, per certi aspetti, una grande occasione giornalistica perduta se il giornalismo continuerà a ragionare solo sulla base dell'emergenza. Guardate, a Milano come emergenze siamo maestri!
C'è l'emergenza delle Cancellate, quando si devono mettere le cancellate ai parchi, l'emergenza delle Babygangs, quando per 2 settimane di fila qualche banda periferica arriva e ruba qualche giubbotto.
Questo procedere da emergenze lascia trasparire un intreccio assolutamente insano tra la politica - sia cittadina che politica nazionale - e il giornalismo. Non si capisce mai se l'emergenza parte da un'esigenza dell'agenda politica o da un'esigenza giornalistica di conoscenza delle emergenze sul proprio territorio. Non è chiaro - e questo è un grave problema per il giornalismo - se le emergenze sono indotte dall'agenda politica. La cancellata da mettere al parco piuttosto che l'immigrazione o i furti nelle ville. Sono filoni. Furti nelle ville al nord.. oppure se da una reale conoscenza del territorio. Ritengo purtroppo che l'ipotesi sai la prima.

Spesso i giornali si fanno anch'essi - soprattutto i giornali più autorevoli, che hanno la possibilità d'interlocuzione con le autorità politiche - si fanno anch'essi portatori di emergenze sulle quali poi rapportare il loro peso cittadino in rapporto ai risultati che riescono ad ottenere.
Adesso, per esempio, a Milano è in corso una grande emergenza sulle droghe leggere. Non si capisce se è reale o indotta: i dati dicono che i giovani fumano esattamente come 10 anni fa ma in questa fase gli articoli su quanto fumino i giovani minorenni nelle scuole milanesi sono drasticamente aumentati, così come sono drasticamente aumentate le visite, le perquisizioni delle forze di polizia all'interno delle scuole.
Cosa determina cosa non si sa. Nasce prima l'uovo o la gallina? Dal punto di vista del giornalismo e dell'emergenza (...)

Ci sono tanti problemi legati al giornalismo e alle periferie. C'è un problema legato a quanto il giornalismo è diventato tanto poco attento, in generale, alle periferie e alle marginalità, quanto è diventato invasivo nel raccontare fatti drammatici. La cronaca, diciamo così. Io non ho l'età e quindi non mi arrogo alcun diritto di fare dei paragoni con il passato. Abbiamo solo fatto in radio, una volta che grazie a Dio avevamo un po' di tempo, un lavoro sui fatti di cronaca. Non era tantissimo tempo fa, tra il 70 e l'80.
Attualmente è innegabile un aumento esponenziale dell'aggettivazione dal punto di vista non solo della carta stampata. L'aumento dei particolari, dei dettagli. Sorvolo sul fatto di Cogne che è stato il tripudio da quel punto di vista. Torno al fatto di Rozzano per chiudere.
Io non mi occupo di cronaca ma ho parlato con i miei colleghi che se ne occupano: una regola non scritta della cronaca, almeno così mi hanno detto, è che comunque coi particolari si può anche andar giù con la "mano pesante" ma non sulle vittime. Lo si può fare su chi compie il fatto. Giusta o sbagliata che sia diciamo che è una regola autoprodotta dai cronistacci di cronaca.
Non è più così. Se anche fosse stato così, non è più così. Le vittime diventano materia di particolari e di particolari anche inutili. Torno al fatto di Rozzano. Lo sparatore è stato rapidamente incasellato, due delle vittime che comunque avevano degli affari di droga con lui sono state rapidamente incasellate, le altre due vittime quelle casuali, di cui una era una bambina di 2 anni, erano meno classificabili quindi maggiormente definibili con i particolari.
Ora vi dico una roba che potrebbe risultare. Me lo son chiesto se è un po' ideologica oppure no. Io penso di no. La pongo qua: la mamma della bambina di Rozzano è stata descritta molto. È stato descritto il fatto che fosse obesa e il fatto che avesse avuto 3 figli da 2 uomini diversi. Utile? Non utile? Non mi interessa fare del moralismo in questa sede. Quanto è utile sapere che la mamma della bambina uccisa è obesa?
Quanto è utile sapere che i vicini dicono che son dovuti venire i volontari della Croce Rossa per farla uscire una volta dalla vasca da bagno perché era troppo grossa? Quanto è utile sapere che ha avuto 3 figli da 2 uomini diversi? Perché ho detto ideologica? Perché a Milano (...)

C'è stato un altro fatto ancora dal punto di vista della conoscenza del territorio rispetto a quello di Rozzano che potrebbe essere derubricato pur tragico a sparatoria con "danni collaterali". Non mi ricordo se prima o dopo, comunque in una zona più centrale e benestante della città, un ragazzo, 31 anni, si è messo a sparare dalla finestra. Stati Uniti puri. Si chiamava - si è suicidato - Andrea Calderoni, ha ucciso la sua compagna e poi ha sparato, ha ucciso un passante, ne ha feriti 2, una persona è rimasta immobilizzata, ecc. Fatto tremendo ma straordinario dal punto di vista anche della comprensione. Credo che non sia mai successo in questi termini in città, e credo che fosse una spia di qualcosa di molto significativo.
Ci sono alcuni eventi di cronaca che, anche nella loro tragicità, diventano spie, elementi di comprensione di fenomeni. Il delitto di Pietro Maso dei suoi genitori fu un elemento di grandissima conoscenza, non che per conoscere le cose ci debbano essere i morti per carità, però un elemento di grandissima conoscenza di una mentalità. Quel fatto è stato molto meno raccontato. Quelle vittime sono state molto meno scandagliate. Non so se è ideologico. Non posso non notare, però, che i due episodi sono avvenuti l'uno in periferia e l'altro al centro. Uno è stato originato da balordi di quartiere, l'altro da un ragazzo benestante con gravissimi problemi psichici. Una persona malata a cui, però, le autorità preposte avevano concesso un porto d'armi. E qui vorrei fare un riflessione. I controlli dal punto di vista della rete per le persone che non stanno bene avevano fallito in larga parte, c'era un elemento di conformismo tipicamente milanese.
E quando dico tipicamente milanese dico tipicamente cittadino dal punto di vista della non conoscenza di chi ti sta a fianco. Tutti sapevano che quel ragazzo fosse "andato" per certi aspetti. Ma il fatto che fosse benestante, che avesse dei genitori che attraverso il denaro mettevano a tacere i vari casini che combinava il ragazzo, insomma, è una riflessione che potete fare anche voi. Ripeto, non voglio fare ideologie di alcun tipo tra le periferie e il centro, ne abbiamo già avute abbastanza! Lo lancio come interrogativo.

Don Gino Rigoldi*

Io risiedo a Rozzano, detto anche Rozzangeles.. È una bella cittadina dove c'è qualche pregiudicato, è vero. Del resto quando il comune di Milano ha dovuto liberarsi di tutta la quantità di famiglie che non erano proprio il fior fiore ha costruito mezza Rozzano, circa 15 mila appartamenti per circa 15000 persone e le ha ficcate tutte a Rozzano. Metà della città di Rozzano è costituita da case popolari con una popolazione iniziale che era quella di cui Milano voleva liberarsi. Ci sono dei problemi, è vero, ma ci sono anche tante risorse. Io ho un problema ora, nel parlare a voi. Siccome io in periferia ci vivo, ci sono nato, la spesa nei negozi del quartiere, vado a pranzo al bar Sport e poi vado in giro a parlare molte volte di queste cose, non vorrei ripetere delle banalità. Mentre chi è più lontano può essere incuriosito, può essere nuovo per lui ascoltare certe cose, per chi c'è dentro finisce per essere una quotidianità e mi preoccupo di non banalizzare ciò che dico. Cercherò di andare avanti per titoli, in modo che poi dopo le conoscenze si arricchiscano eventualmente attraverso le vostre domande.

Riguardo alle periferie, intanto quello che io vedo è che, siccome le città tendono a gonfiarsi continuamente e presentano tante aree dimesse, certe periferie sono ormai degli arcipelaghi: ci sono le case popolari, o comunque le case in cui c'è gente poco abbiente, case vecchie, magari anche un po' fatiscenti e a fianco si ha il palazzo dove il costo per acquistar la casa è di 6 milioni al metro quadro. Credo che nella realtà il discorso della periferia diventi anche una faccenda molto mista. Anche in questa situazione di arcipelago, un po' più lontano dalla città, ci sono dei blocchi di case popolari, che sono dei blocchi, delle enclave qualche volta decisamente impegnative. Io penso a un posto come Calvairate che è quasi in centro ormai: c'era un Cps, un centro sociale che desiderava lì vicino i suoi pazienti.
Ecco che in quel quartiere lì c'è tutto un blocco di situazioni particolari: ci staranno circa 20-25 mila persone, con alcune centinaia di casi psichiatrici. Poi, visto che vicino agli psichiatrici ci stanno bene anche i malati di Aids, allora ci sono pure quelli. Poi gli alcoolisti e così via discorrendo. Tutto questo per dire che è diventato un quartiere quello in cui, per il discorso della vicinanza ai servizi, si sono concentrate questo tipo di malattie. Il comune di Milano, come tanti altri comuni, molto intelligentemente ha deciso che fosse il caso di mettere a posto quelle case: case fatiscenti, muri scrostati, ascensori mancanti. Adesso esternamente queste case sono a posto ma siccome non c'è stato nessun altro tipo di ristrutturazione sociale - che non voleva dire cacciar via quelli malati di mente, quelli con l'Aids ma, magari, potenziare dei servizi, mettere delle presenze di presidio un po' più significative - quel posto con i muri belli e con l'ascensore è rimasto quel che è rimasto.

Altri posti di periferia sono delle enclave impegnative. Io ho in mente 2 quartieri, sempre di Milano, un po' anche fuori Milano: via Fleming, poi via Scanini vicino via Baggio. Scusate se cito questi nomi ma sono proprio ai confini, confini difficili. E' impossibile affrontare in maniera seria questo tipo di problemi, perché sono delle enclave per entrare nelle quali ci vuole il pass... Chiunque andasse in Via Fleming oppure via Baggio di sera, alle 7,30-8,00 o dopo le 8,00, trova un gruppo di ragazzi o qualcuno che gli dice: "Te chi cavolo sei? Che cavolo vuoi qui?". Per continuare a star lì bisogna avere la risposta pronta altrimenti bisogna andarsene di volata. A me è capitato la settimana scorsa. Ci sono stato ed ho trovato un gruppo di ragazzi traccagnotti, tamarri. Mio hanno chiesto: "Cosa cavolo fai tu qui?". Li ho guardati in faccia e gli ho detto: "Deficiente, che cavolo vuoi prima di tutto lo dici a tua sorella primo punto, secondo punto guardami in faccia". Ma perché?
Il mio vantaggio non è che son più bravo di altri, ma il fatto è che metà dei ragazzi che sono lì, io li ho conosciuti al Beccaria, per cui siamo imparentati. Essendoci questo tipo di legame quando rispondo loro in quel modo tirano fuori le birre, beviamo insieme e la faccenda va così.
E' certo che questo tipo di quartieri sono delle enclave dove c'è una regola di vita sociale tutta particolare da rispettare e anche da valorizzare devo dire. Proprio in quel posto in cui ci sono quei ragazzini, dopo esser stati lì 2-3-4 anni a fare educativa, a stare nei cortili, dopo aver ricavato dei locali per far delle attività per i bambini o le bambine, gli adolescenti e così via.

Il comune, almeno 10 volte, ha cercato di mettere a posto un campo per il pallone, di metterci le porte, di fare qualcosa, quelle porte resistevano dalle 2 alle 4 ore, e questo campo diventava continuamente una discarica.
Allora abbiamo detto: "Qui ci mettiamo insieme sabato e domenica, padri, madri e figli, puliamo il campo e facciamo il nostro campo di pallone".
Questo campo di pallone adesso ha 10 anni, ancora con le sue porte, con le sue reti e i ragazzi ci giocano a pallone. Si è davanti a questa situazione che negativa e positiva, comunque ha delle parti. Noi abbiamo aperto un grosso centro giovanile, un centro sociale alla Barona, che è un altro quartiere di periferia prevalentemente di case popolari, dove ci sono tante attività; dalle 8 di sera in poi nel raggio di 5 km., in città di Milano, noi siamo l'unico spazio aperto e peraltro con prezzi decenti.
Gli anziani sono blindati ancora prima delle 21 ed hanno anche con un po' di ragione: con tanta mistificazione hanno l'idea di viver in un quartiere in cui se si esce si verrà sicuramente aggrediti. In realtà non è vero, ma c'è questo tipo di situazione. Alle 8 di sera, 9 di sera non c'è nessuno in giro. Bisogna prendere la metropolitana o il tram per andare verso il centro, nel centro c'è qualcosa, ci sono diversi locali, teatro, cultura, quello che volete ma a pagamento. In quei posti la regola è pagare, consumare, andare, non stare.
E questo è, indubbiamente, un grosso limite delle nostre periferie.

I luoghi che avrebbero potuto, o potrebbero essere luoghi di aggregazione un po' più serena, un po' meno di consumo, un po' più di relazione, che potrebbero essere per esempio le scuole, le parrocchie, le società sportive e altri gruppi di questo genere, alcune volte sono luoghi di aggregazione, il più delle volte sono luoghi di servizio. A Rozzangeles lo stiamo facendo nelle scuole: oltre formare gli operatori sportivi perché diventino anche educatori - non soltanto quelli che fan vincere la squadra - facciamo le squadre di scuola, magari non soltanto di calcio . L'obiettivo è quello di cercare di creare occasioni di appartenenza, seppur labile, come può essere quella sportiva magari con le squadre della scuola. Tutto ciò contribuisce a creare una situazione di minore anonimato e di maggiore appartenenza.
E' uno strumento se volete modesto, però nel momento in cui funziona è efficace.

Purtroppo nelle periferie, la regola è un grande individualismo - il ciascuno per sé - poi ci sono posti o gruppi molto identificati, anche dal punto di vista ideologico, molto forti, e quindi lì c'è l'appartenenza, ma c'è un'appartenenza che rende però certi gruppi piuttosto chiusi e poco valicabili insomma. Nei quartieri, comunque, ciò che domina è l'individualismo. Nella fascia periferica delle grandi città abita di solito gente che non ha mezzi, lavora, va e viene, poi se si tratta di un adulto si rinchiude in casa, se è un giovane va anche un po' in giro, ma neanche tantissimo. Quando noi abbiamo aperto il centro della Barona, che è molto grande, l'illusione era quella di creare un gruppo di gente del quartiere che pian piano gestisse in sostituzione dei nostri operatori, soprattutto gruppi di giovani. Siamo riusciti a dare in gestione la sala multimediale, la sala prove, col bar non ci siamo riusciti e comunque ci accorgiamo che la tendenza della gente dei quartieri è quella di venir lì consumare e andarsene. Possono stare di più, i prezzi sono politici, poi c'è musica dal vivo, poi c'è anche un collega che è il nostro direttore Di Bella che ogni tanto è intervenuto anche a suonare e cantare, è simpatico. Però riuscire a creare una certa partecipazione, aggregazione è difficile. Ci sono dei gruppi di persone che lo fanno, che hanno voglia di farlo, ci sono soprattutto donne nelle scuole, ma sono quei servizi sono quelli minimi indispensabili, e non sono la parte brillante, la parte riconosciuta, il luogo dove capitano degli eventi nella città.

Certo è che, però, dal punto di vista giornalistico un posto di vita come questo non può essere imparato, conosciuto attraverso internet, non può essere conosciuto neanche attraverso i casi di emergenza.
Bisogna stare lì, perché poi ci sono degli episodi che secondo me sono delle vicende di umanità, anche se non sono di grande emergenza. Se uno di voi andasse in certi quartieri e si mettesse d'estate nel cortile a guardare i bambini e gli adolescenti, le mamme in quei posti in cui si alternano esperienze difficili, di periferia. Io credo che i giornalisti dovrebbero riacquistare il gusto delle umanità, degli affetti, della fantasia, delle piccole relazioni, della creatività industriosa che nasce quando ci sono pochi mezzi per fare cose grandiose.. le meraviglie della relazione e degli affetti, per esempio, anche quando non c'è nulla di sensazionalistico da raccontare ma quando c'è tanto di speciale in ogni ordinario momento di vita.

Spesso i ragazzi delle periferie respirano un'aria un po' depressiva e devi stare lì a far capire loro che valgono qualcosa, che hanno un bel potenziale. C'è questo clima molto depressivo. Io lo capisco anche, perché nelle orecchie di questi ragazzi viene soffiata l'idea che se si è femmine bisogna essere veline, se si è maschi invece bisogna fare quelli che fanno i calendari. Lì al Ciambellano, dove vado a comprare il giornale, tante volte c'è una fila. ci sono almeno 6 o 7 calendari con le tette al vento, 4 o 5 con i bicipiti belli muscolosi e purtroppo è quello il mondo che conta. c'è anche questa frustrazione in rapporto ai modelli che arrivano. Bisogna far capire ai ragazzi che possono valere di più. bisogna dire loro che è ora di tirare fuori gli attributi e farsi valere!

Dentro le periferie bisogna tener conto anche della presenza di aree dimesse, di case vuote e fatiscenti. Bisognerebbe pensare anche al dramma della casa nelle periferie. Una delle cose che a me fa impazzire è che da 10 anni, non soltanto io ma molte altre persone, continuiamo a dire: "Il problema di Milano, il problema di Brescia, il problema di Torino, il problema è la casa".
Se uno non ha casa non ha identità, non ha realtà, non ha consistenza, non ha niente.
Nelle periferie la mancanza di case vuol dire superaffollamento, vuol dire porte sfondate per entrare e per campare, vuol dire conflitto con i vicini. E se parliamo di occupazione bisogna pure tener presente che per occupare bisogna sentire i padroni delle case occupate, coi quali io ogni tanto entro in conflitto anche molto duro, perché voi sapete che per occupare molti quartieri di Milano bisogna esser d'accordo con il padrone. non è che uno va lì e occupa. Calma. Lì deve chiedere e pagare per far l'occupazione. Tutte cose che se anche la stampa ci fosse un po' più vicina potrebbero essere un po' più monitorate e viste.

Poi c'è questa umanità che vi dicevo prima. o depressiva, oppure fantasiosa, oppure capace anche di reagire al qualunquismo e all'individualismo che c'è, che andrebbe anche vista e raccontata. A noi succede di incontrare anche dei venticinque-trentenni-trentacinquenni, magari di buona famiglia coi mezzi che si siedono lì sulla mia sedia - e dicono: "Non so più cosa farmene delle mie ossa". La cosa impressionante non è il fatto che ne sia arrivato uno, la cosa impressionante è che ne arrivano in un anno 50.. diplomati, laureati, con soldi.. che non sanno più cosa fare delle loro ossa. Questa è una cosa che però fa parte di un altro ragionamento.
Se si tengono presenti 2 o 3 esigenze fondamentali dei giovani - come l'immagine di sé, il potersi dare un nome, il sapere un po' chi sono, cosa so fare e quali sono le mie debolezze insieme con le mie risorse, le relazioni compresa quella che si instaura con un partner e quindi la sessualità e poi l'idea di futuro, ma anche con l'idea di futuro le idealità da coltivare in qualche maniera, da conseguire - vi accorgete subito che i giovani in generale sono in periferia.

In periferia credo - adesso vado giù un po' pesante - vada considerata anche la famiglia. Penso alla famiglia urbana, super stressata, che ha un tempo limitato anche per il proprio figlio, per i propri figli. Famiglia che è certamente il luogo degli affetti. Se pensiamo poi che sia il luogo dell'educazione allora siamo nei guai. Se è vero che l'educazione è a specchio - con i figli che sono lo specchio dei genitori - allora a guardare alla vita degli adulti, a guardare al tempo che danno al lavoro e quindi all'economia invece che alle relazioni, guardare alla qualità delle relazioni, a guardare alla qualità delle idealità che coltivano, del senso che danno alle cose che fanno saremmo rovinati sul piano degli affetti. Direi che se si dovessero definire i milanesi, oppure i torinesi, oppure i bresciani, oppure i bergamaschi, si direbbe che sono uomini e donne del fare. Riguardo al senso del fare, certo, mani e spazio nel mondo. Il lavoro è importante, è ovvio, ma figuriamoci se penso che non siano necessari i soldi, ci mancherebbe anche quello, o che sia inutile lavorare, o che sia un male voler far carriera nella vita, assolutamente questo va da sé. E' questione di misure, di quanto la tua umanità viene valorizzata o comunque impegnata in maniera positiva, oppure di quanto la tua umanità venga consumata.
Una volta ho presentato un libro che si chiamava "Ragazzi sregolati", nel quale si diceva quali erano le regole in famiglia, estrapolate da 700 padri e 700 madri, 700 insegnati più 700 come gruppo di confronto, 700 ragazzi e ragazze. L'ideale perseguito dalle famiglie nel rapporto coi figli era che ci fosse buona armonia e che i ragazzi fossero ben educati, che andassero bene a scuola se andavano a scuola, o bene al lavoro, se andavano al lavoro, che non frequentassero cattive compagnie, non avessero comportamenti strampalati. Quello che appariva assolutamente assente erano i riferimenti della socialità, relazionali, riferimenti etici, riferimenti religiosi. Quello che i ragazzi e le ragazze segnalavano erano le banalità dei rapporti familiari, era l'impegno sulla buona educazione. Poi capite che essere ben educati ad essere educati lì ce ne passa, lì c'è di mezzo il mare.

Le canne, le pastiglie, la coca sono droghe prestazionali. Sono quelle per le quali si dice: "non c'è dietro nessun problema, c'è soltanto il consumismo". Sarà anche vero, però non è neanche un caso che l'eroina serviva per dormire, queste altre servono per dar prestazione, per essere relazionali, per essere protagonisti, per essere fantasiosi, per essere brillanti, che non è un segnale da niente. Voi capite bene che questo è un tipo di recupero che non porta molto lontano. Nelle comunità per tossicodipendenti abbiamo la fila. L'altro giorno abbiamo preso una ragazza, una donna di 52 anni ed ora stiamo ragionando, costruendo pian piano l'ipotesi di futuro. Stiamo parlando di progetto educativo per una eroinomane di 52 anni, voi capite che diventa un po' complicata la faccenda.

L'ultima cosa che volevo dirvi è in merito ai ragazzi stranieri. Noi facciamo educativa di strada con i ragazzi stranieri e la facciamo quasi tutta a spese nostre, perché il comune di Milano - ma anche la regione Lombardia - non mette quasi a bilancio gli interventi per gli stranieri, continuano a pensare che siano un'emergenza.
Ormai è 10 anni che sono qui, ci sono già le seconde generazioni, adesso fra un po' ci saranno le terze generazioni. Noi abbiamo la Lega in casa. Cosa volete.. ci meritiamo, come dice Vinicio.. avete prodotto Berlusconi, Formigoni, Bossi, Maroni, Castelli.. quindi tutto il male che vi arriva ve lo siete voluto, ve lo siete meritato, ve lo tenete, non c'è scampo.. Bhe' io a quel punto ammutolisco. Che devo fare? Io, poi, proprio sono nato a Milano, anche se devo dire che sono andato in una scuola ed ho sparato a zero contro La lega, manco a farlo apposta era la scuola dove ci sono i figli di Bossi e lì c'era la moglie di Bossi presente! Io l'ho saputo dopo.. ho visto le suore un po' tutte preoccupate.

Ci sono due filoni di arrivo a Milano di ragazzi stranieri. Nord Africa da due o tre paesi, zone del Marocco e per la gran parte hanno già il posto dove andare, dai 9 anni in su. Noi abbiamo dei ragazzini con i quali facciamo educativa di strada dai 9 anni in su: arrivano qui per spacciare, hanno il loro posto, in cambio qualche lira in tasca, qualche capo firmato comprese le scarpe con le zeppe, così diventano più alti di quello che sono, telefonino, roba del genere. Si beccano anche un sacco di schiaffoni, dormono nelle baracchette degli orti. non sono contenti di quel che fanno. C'è il contratto con la famiglia che deve avere una certa cifra - perché alla famiglia ci tengono molto quindi mandano quasi tutti i soldi che hanno in più - ma anche l'organizzazione li manda alla famiglia che li ha inviati poi in Italia. Non è per tutti così, ma un bel gruppo va così. Un gruppo viene qui autonomamente perché cerca miglior vita che non in nord Africa.. Cerchiamo di lavorare con loro per avviarli veramente al distacco da quell'ambiente per portarli verso la scuola, verso il lavoro, la formazione professionale e così via. Per fortuna abbiamo alcuni oratori che ci ospitano. Ci sono un paio di bravi preti che non soltanto ci fanno giocare a pallone durante la settimana, ma hanno messo lì anche le lavatrici per la biancheria - perché altrimenti chi dorme nelle baracchette quando ha l'abito sporco lo deve buttar via perché non può lavarlo - delle docce un po' a parte, perché siccome molti di questi ragazzini hanno la scabbia, per evitare che la squadra della parrocchia si becchi la scabbia. Insomma si lavano un po' in disparte. Me la sono beccata anch'io un paio di volte la scabbia perché basta stringer la mano a qualcuno che ce l'ha.

Quelli che chiedono di andare in comunità si mettono in lista di attesa, anche se hanno 10 anni, anche se la legge della carta dei diritti del fanciullo. Legge non buon cuore, la legge chiede che i minori siano tutelati.. non sono affatto tutelati, si mettono in lista di attesa. Gli si dice di tornare la settimana prossima.. fra 15 giorni, fra 20 giorni e alla fine non tornano più.. Noi pian piano li sistemiamo dove riusciamo a sistemarli, però capite che 80, 100% da gestire, da collocare, diventa un po' un casino. Noi abbiamo una trentina di posti gratuiti naturalmente. La cosa simpatica, intanto, è che questi ragazzini sono speciali. Quelli nord africani, in particolare, sono un po' speciali. Vanno un po' sedotti, nel senso affettivo, si capisce. Bisogna far capire loro che sono importanti per te, non è che si possa trattare ogni ragazzo di qualunque nazionalità come se fosse un ragazzo italiano o milanese. bisogna avere un po' di competenza nei linguaggi. Poi riescono anche a venir fuori, ed è possibile che emergano come persone se adeguatamente stimolati, proponendo loro di fare ciò che facevamo noi da ragazzini. Proponiamo una gita in montagna? Ma che sarà la gita in montagna? Andiamo a Courmayeur.
Riempiamo un pullman di questi disgraziati, figure che non vi dico. Becchiamo una giornata di sole, val Ferré davanti al Monte Bianco: sono rimasti lì mezza giornata a guardare, così, assolutamente affascinati, poi il pallone e tutto il resto. però per la città non esistono, neanche per chi per legge dovrebbe occuparsene.

Quando abbiamo cominciato a lavorare in Romania c'erano circa 60 mila ragazzi e ragazze dentro gli istituti. Lo stato romeno ha urgenza di svuotare gli istituti per entrare nella UE, allora li svuota molto rapidamente: svuotati rapidamente vuol dire collocati in maniera molto veloce, molto veloce vuol dire molto precaria, molto precaria vuol dire che se ne vanno in giro. Voi tenete presente che chi è nato e vissuto abbandonato, non orfano, ma abbandonato in questi istituti, non sa neanche cucinarsi un uovo sodo.
Le comunità che noi abbiamo in Romania sono soprattutto dedicate all'autonomizzazione, poi escono da noi quando hanno casa e lavoro in Romania. Arrivano qui con altri indirizzi, gli indirizzi dei locali gay di Milano, e molti finiscono nella prostituzione. Abituati come sono a sopravvivere con la violenza, la violenza la praticano spesso. Vi posso dire, comunque, che questi ragazzi, se accolti in comunità o da umanità normale, sono altre persone.. I ragazzi albanesi e i ragazzi romeni sono dei ragazzi coi quali è assolutamente più facile lavorare che non con quelli italiani. Io non farò mai più una comunità dove ci saranno 8-9 ragazzi italiani adolescenti perché ti fanno morire! Se metto 5 italiani e 5 albanesi la comunità funziona, si equilibra, assume delle regole, riesce ad andare avanti, perché mentre i primi sono assolutamente destrutturati - parlo degli italiani - da vicende affettive, qualche volta di violenza, di emarginazione, così via, quegli altri invece sono abbastanza compensati: cercavano un mondo migliore, l'hanno trovato e quindi riescono a interagire diversamente.

C'è un qualcosa che secondo me è criminale, periferico e criminale. Milano e provincia ha circa 25 mila bambini e bambine stranieri di seconda generazione che sono nati qui, che frequentano le nostre scuole. Tutti i mediatori linguistici, culturali, i progetti di supporto, gli insegnanti di sostegno sono stati cancellati. In questo modo abbiamo il rischio reale di avere, fra 10 anni, invece che 20-30 mila operai, impiegati, professionisti o tutto quello che voi volete, 10-20-30 mila emarginati, deculturati, analfabeti, emarginati anche dal punto di vista della sicurezza, perché poi quello dell'essere ai margini è uno scivolo che può portare anche verso una certa scelta di vita. Anche se se ne parla in giro, se si insiste su questi temi, mi pare che le periferie restano pur sempre periferie. Bisognerebbe esserci, che si andasse nelle scuole a vedere cosa succede, a leggere le difficoltà che hanno.
La scuola pubblica da questo punto di vista è quella di gran lunga la più sensibile. Ieri ero in un prestigioso istituto a fare un'assemblea studentesca, non c'era un ragazzo straniero lì dentro, neanche uno. Perché nella scuola accanto nelle classi hanno più del 50% di stranieri e in quella religiosa non ce n'è neanche uno? Come mai? Mi piacerebbe saperlo. Però qui siamo proprio nella periferia delle periferie. Va da sé che questo essere in periferia, per quel che mi riguarda, spero che riguardi anche voi in merito agli stranieri, dovrebbe essere un'incazzatura, ma anche una sollecitazione a esserci più che mai, a far andare più che mai la fantasia e la fantasia crea anche delle risorse. Le risorse, alla fine, ci sono anche: stiamo cominciando a metter su anche qualche cosa proprio su questo discorso dei bambini stranieri che potrebbe funzionare, forse potrebbe rilanciare un po' più di sensibilità, anche di capacità di relazioni in questi adulti e ragazzi italiani che invece sono un po' meno periferici. C'è il rischio, è vero, che essi stessi siano o diventino periferici, perché se è vero che le periferie possono sembrare quelle brutte, io credo che un trentenne, un trentacinquenne laureato, con una casa di 250 mq., che si è rincoglionito, nel senso che lavora soltanto, che ha soltanto quel figlio lì, che ha soltanto in mente di andare in vacanza al mare a Rimini o dintorni, che è talmente ingessato nella testa, quello è in una periferia mentale che per certi versi è più inguaribile delle altre periferie.

Ugo Pastore*

E' già la seconda volta che vengo a questi incontri che trovo particolarmente stimolanti visto che i confronti sono sempre non paludati e le cose vengono affrontate con chiarezza valorizzando molto gli aspetti dell'esperienza professionale. Il tema di quest'anno, quello delle periferie, credo che potesse addirittura diventare un tema unico per questo incontro, perché in questo tema possiamo effettivamente farci entrare tutte le problematiche anche relative al mondo dell'informazione, al raccontare le situazioni di marginalità che coinvolgono gli adulti prima di tutto e poi, ovviamente, di riflesso anche i minori. Io mi occuperò soprattutto nel mio intervento di quale ricaduta le periferie, intendendo per tali non solo le periferie delle città o del territorio, ma anche quelle che prima venivano definite periferie mentali.
Credo che tale termine sia condivisibile. Periferie, queste, che condizionano pesantemente qualsiasi approccio con le problematiche dei minori.
In realtà, oggi, nonostante tanta enfatizzazione, tante persone si occupano dei temi della famiglia e dei minori tuttavia chi lavora sul campo registra, da un lato, una spropositata quantità di progetti e di voci che discutono di questi temi, dall'altra parte, in termini concreti, pochissime ricadute. Se si andassero a monitorare tanti progetti, soprattutto quelli più eclatanti e quelli nei quali è stato investito di più in termini di mezzi, vedremmo fino a che punto non hanno avuto alcun successo o che, magari, possono essere stati funzionali più a coloro che li hanno predisposti che non a coloro che avrebbero dovuto essere i destinatari. Prima sentivate il discorso della raccolta fondi per la Romani: a un certo punto tutto si è bloccato perché quei fondi non arrivavano più ai destinatari. Bene, per quanto riguarda i minori questo è un problema annoso.
A fronte di una giustizia minorile, di una legislazione minorile che è una delle più avanzate a livello non soltanto europeo - perché ha avuto il coraggio di inserire il percorso del recupero come assolutamente prioritario rispetto a ogni altra esigenza e perché tanti operatori si sono formati in questa ottica - si ha una realtà concreta, operativa degli enti locali, della pubblica amministrazione che anziché realizzare obiettivi importanti attua un continuo sottrarsi, per non dire opporsi, non vedendo assolutamente le problematiche dei minori e della famiglia come prioritarie. La mia esperienza come magistrato minorile non è limitata all'attività che ora svolgo nelle Marche ma è partita da una realtà molto più difficile almeno in apparenza, poi vi dirò perché, come quella della Campania, perché io sono napoletano e per dieci anni ho fatto il giudice minorile a Napoli. Bene, nel sentire i racconti di Milano posso dirvi che ora a Milano ci sono cose che noi a Napoli conosciamo da quando siamo nati e non perché c'era l'immigrazione, non perché c'erano gli extracomunitari.
Si tratta di problemi sempre esistiti e che si sono sempre vissuti. Il discorso dei quartieri, delle strade, sono tutte argomentazioni che io conosco bene perché, nella mia zona, il 90% dei ragazzi erano tutti nel circuito penale, come in via Ghisleri che è una delle periferie della zona nord di Napoli, verso Afragola, era anche l' una zona dove si trovava una percentuale di devianza enorme.
La differenza fra quella realtà napoletana e quella milanese, probabilmente, è in un aspetto importante. In quella realtà permanevano ancora delle identità a livello di gruppi o di famiglie, nel senso che quella perdita totale d'identità dovuta alla creazione di questi palazzoni o da altre realizzazioni simili, in effetti, era in parte mitigata dalle radici, da un certo modo di vivere o di essere del napoletano. Anche il palazzone e anche i ballatoi del palazzone diventavano dei vicoli e quindi si venivano a creare dei ruoli e si riproducevano delle figure. Il ragazzo napoletano non si poneva il problema a 15-16-17 anni di andare a lavorare perché per lui il concetto di lavorare andava dal vendere le sigarette di contrabbando all'angolo della strada fino all'andare a portare il caffè. Voglio dire, c'era quella subcultura che era già propria del vicolo che però aiutava tutti quanti, in qualche modo, a metabolizzare i problemi dell'esistenza quotidiana. Anche la coesione del gruppo familiare era superiore che non altrove perché si assisteva ad una maggiore solidarietà, si condividevano una serie di difficoltà, si condivideva una serie di espedienti per farvi fronte. Paradossalmente si aveva a che fare con una realtà più svantaggiata che, però, aveva trovato gli anticorpi per sopravvivere.
Realtà che questi problemi non li hanno conosciuti da sempre, ma li hanno conosciuti negli ultimi anni, si trovano praticamente adesso in una fase di empasse, devono dare un'identità a queste nuove realtà che non conoscono .. L''ultimo rapporto dell'Eurispes del 2003 indica le Marche come la regione in cima alle statistiche per quanto riguarda la depressione. Il 90% dei soggetti depressi sono donne. Questo dato è preso non soltanto da interviste, ma anche attraverso una verifica del consumo dei farmaci antidepressivi. L'avreste mai detto? Nessuno l'avrebbe mai detto. Si è sempre pensato che questo tipo di problemi riguardasse le grandi megalopoli stressate ma evidentemente non è così. Nelle realtà tranquille tale tranquillità significa anche scarsa capacità di reagire rispetto alle problematiche che purtroppo ormai non possono essere delegate solamente nei contesti stressanti, ma vengono ad emergere anche nei luoghi tradizionalmente più tranquilli.
Si tratta soprattutto di problemi di relazione. I dati che riguardano la situazione dei giovani in questo tipo di periferie destano più allarme per questo, perché non ci sono, o comunque non vengono proposte delle alternative. I ragazzi cominciano a pensare soltanto in termini di adattamento, adattamento forzato che poi, in prospettiva, sarà comunque pagato - se non altro - in termini di contrasto con se stesso, con la mancata realizzazione di una vera identità autonoma, o in termini di forte reattività, spesso con comportamenti autodistruttivi, che possono andare dall'abuso di alcool, all'uso di sostanze stupefacenti e anche all'utilizzo irresponsabile dei mezzi che hanno a disposizione come automobili, motociclette.
Abbiamo un grandissimo numero di incidenti mortali che coinvolgono i giovani perché il mezzo non è usato per raggiungere dei posti ma come occasione di sfida e di svago fine a sé stessa. Un comportamento, questo, che provoca un enorme aumento del rischio.
Si verifica anche l'esponenziale aumento degli episodi e degli atti vandalici nelle scuole, come il consumo di stupefacenti: sono dei fenomeni che si stanno affermando in questa regione e mi risulta anche in regioni che hanno caratteristiche simili, come può essere l'Umbria, il Trentino Alto Adige o altre regioni che più o meno come dimensione e come tipo di situazione dal punto di vista sociale, dal punto di vista economico hanno caratteristiche comuni. I ragazzi, per esempio, hanno scelto da tempo la scuola come luogo privilegiato per lo spaccio e il consumo di stupefacenti. Se si chiede loro come mai hanno scelto proprio l'interno della scuola rispondono perché la scuola è il luogo più sicuro: il più sicuro per assumerla ed il più sicuro per cederne, perché nella scuola nessuno va a cercare lo spacciatore e i controlli restano limitati al massimo all'ambito disciplinare interno, ma oltre ciò non vanno.
C'è una grande sottovalutazione anche delle conseguenze che può avere il consumo di alcool e l'uso di droghe sintetiche in occasione dei fine settimana e nelle discoteche. Si ha l'impressione che tali comportamenti rientrano doverosamente in stili di vita condivisi, dei quali spesso si rendono partecipi le stesse famiglie. Si, proprio le famiglie perché gli stessi genitori spesso banalizzano l'uso di alcool e di stupefacenti da parte dei figli, ritenendolo un normale fenomeno generazionale, ritenendolo un modo per entrare nei normali stili di vita. Lo stesso discorso può essere fatto per il rientro a casa a tarda notte, così come fare le corse in auto. La realtà è che nelle stesse famiglie non c'è disapprovazione di questi comportamenti.
Anzi, tali comportamenti vengono assecondati o comunque tollerati visto che vengono ritenuti come parte del gap generazionale e vanno accettati come tali. La verità è che c'è un totale disimpegno rispetto a soluzioni a problemi che, invece, andrebbero discussi e affrontati. D'altra parte, se pensiamo agli stili di vita degli adulti ci rendiamo conto che non sono tanto dissimili da quelli dei ragazzi. Anche gli adulti nella loro dimensione quotidiana hanno un lavoro da una parte, poche relazioni significative e poi alla fine questi week end, questi momenti di svago, che devono esser vissuti sempre in modo abbastanza sopra le righe, o comunque con una grossa ricerca di quelli che sono divertimenti o occasioni mercificate, più che una valorizzazione di spazi veri di affrancamento, di riposo, di possibilità di trovare gratificazione. Tutto questo, vi ripeto, si sconta e si sconta moltissimo proprio per quanto riguarda le possibilità di relazioni significative.
Negli ultimi anni mi è venuto da pensare che, per come sono i modelli che si sono venuti a creare, la famiglia ha sempre più abdicato al ruolo educativo, senza che ci fosse per altro nessuna agenzia in grado di raccogliere questo tipo di ruolo. Volendo ragionare per assurdo, tenendo conto dell'esperienza degli studi sociologici, non sarebbe ipotizzabile la valorizzazione di un'esperienza come quella dello stato che si fa educatore? Quando nacque lo stato di Israele bisognava creare una coesione fra le persone e lo stato si assumeva il compito di educare, lasciando alla famiglia soltanto il rapporto affettivo e ludico.
I bambini vivevano all'interno della settimana, in particolari strutture che, in modo europeo potremmo chiamare collegi, istituti, e poi il fine settimana tornavano a casa e stavano con i genitori. Da parte di questi ultimi non c'era nessun tipo di dovere o di obbligo educativo: si venivano, così, a instaurare rapporti che non erano dell'effettivo stare insieme, del parlare, del relazionare, del giocare visto che l'aspetto educativo era tutto quanto demandato allo stato. Lì c'era una logica, ovviamente, di una realtà che si doveva affermare, si doveva creare un'identità che andava riaffermata e una reazione rispetto alle persecuzioni della guerra. Oggi noi stiamo vivendo una situazione nella quale la famiglia esercita il suo ruolo educativo, o tenta di farlo, lo fa attraverso degli stereotipi e comunque in modo estremamente ansioso. Alla fine anche chi si sforza di dare delle regole non può fare a meno di manifestare tutte le tensioni, le difficoltà e tutto il peso di portare tali regole. Tutto ciò, il manifestare tale malessere, incide e condiziona negativamente anche la ricaduta che si riesce ad avere sui figli, perché il ragazzo percepisce tutta la fatica - da parte dei genitori - dell'educare, tutta la fatica del dover vigilare. Spesso, poi, si manifestano in loro, nei figli, anche sensi di colpa, come a dire: "Bhe' se io non ci fossi non gli darei tutti questi problemi". Questo in una relazione affettiva, in una relazione educativa, significativa, ha un peso perché alla fine condiziona la relazione.
Il figlio potrà non dire certe cose per non dispiacere il genitore e nello stesso tempo condiziona il genitore che deve sempre tenere sotto controllo la situazione per evitare determinate reazioni. Tutto ciò rende meno autentico il rapporto e meno gratificante la relazione genitore-figlio.
E' proprio un problema di relazione. Assumono sempre più importanza gli adulti significativi. Chi sono gli adulti significativi? Sono soggetti che sono fuori, possono essere anche nella famiglia, nell'ambito familiare, ma che spesso si devono trovare anche fuori della famiglia e che il ragazzo stesso sceglie come persone che possono dargli qualche cosa, con le quali riesce a dialogare, dalle quali riesce ad apprendere qualcosa. Moltiplicare le occasioni di incontro fra ragazzi e adulti ha sempre dato una possibilità ai ragazzi di creare, prima o poi, questi legami significativi che spesso servono a colmare quelle che sono le carenze da parte dei genitori nell'esercizio dei ruoli.
E' importante il rapporto diretto che si viene a creare con l'adulto, un adulto che, peraltro, non ha nessun dovere particolare nei confronti del ragazzo, per cui il rapporto non nasce condizionato da un ruolo precostituito.
Una volta gli adulti significativi erano in tanti luoghi, ce li siamo scelti, li abbiamo trovati. Li abbiamo trovati nella scuola, li abbiamo trovati nell'attività sportiva, ma anche semplicemente in strada, perché l'adulto manifestava una certa disponibilità al ragazzo e tale disponibilità consentiva di stabilire un rapporto. Si poteva stabilire un rapporto col barista, col giornalaio ed era un rapporto che andava al di là dell'occasione, andava al di là del fatto che uno era lì per vendere e l'altro doveva comprare. Diventava un modo per coinvolgere, per essere coinvolto ciascuno nella vita dell'altro, sia pure per un pezzettino. Una volta, tanti anni fa, quando i rifiuti venivano raccolti porta a porta, addirittura io ricordo da bambino, si stabiliva una relazione con la persona che veniva a casa a raccogliere i rifiuti. Tutte queste relazioni, solo apparentemente superficiali, alla fine danno a un ragazzo che cresce, a un bambino che cresce, il senso di far parte del mondo in cui vive, di essere riconoscibile, di avere un suo ruolo, che poi si andrà mano mano modificando, ovviamente, ma che comunque c'è fin da bambino. Oggi noi parliamo di diritti dei minori: quando noi eravamo bambini non se ne parlava affatto, i bambini avevano solo doveri non avevano diritti e i diritti erano comunque sempre bilanciati dai genitori, stabiliti dai genitori. Oggi che paradossalmente abbiamo una legislazione che parla di diritti nella quale non dovremmo più avere questo atteggiamento compassionevole, ma un atteggiamento di affermazione di identità e di risposte doverose, paradossalmente si arriva ad avere dei ragazzi che diventano quasi ombre. Ragazzi che noi non vediamo se non per quelli che sono atteggiamenti e modalità esteriori che loro scelgono - come sempre d'altra parte, come avviene per ogni generazione - per individuare il gruppo, per cercare un loro modo di differenziarsi.
Un modo che, però, è sempre più sterile, è sempre meno legato a delle scelte e a delle esigenze reali, è sempre di più frutto di quello che poi viene proposto dall'esterno come simbolo dell'essere giovani, come simbolo dell'essere ragazzi. Dicevamo proprio prima anche la mia generazione aveva certi modi di abbigliarsi e certi modi di essere, però erano sempre proiettati e sempre funzionali a un qualcosa che era fuori, che poteva essere l'ideologia, l'impegno sociale. Attualmente, invece, certe mode sono soltanto incamerate ma non sono funzionali a un qualcosa fuori di noi, a una proiezione di tipo ideale, o di tipo ideologico, o di tipo culturale. In passato vestendo in un certo modo si mandava un certo tipo di messaggio. Oggi non è più così il messaggio che si manda è un messaggio uguale per tutti ed è indipendente da ciò che cerco, ciò che io voglio, ciò che io sono. Voglio concludere per non essere troppo lungo, soltanto con alcuni dati, che però sono secondo me molto significativi Sono dati relativi alla condizione particolare dei minori extracomunitari, quelli che il legislatore ha voluto definire minori non accompagnati, cioè quelli che vengono fatti sbarcare accompagnati o meno da adulti, vengono scaricati sul nostro territorio e dei quali, francamente, nessuno ha voglia di occuparsi.
Non se ne vuole occupare lo stato perché pur definendoli minori non accompagnati, afferma che comunque è compito degli enti locali quello di prestare la risposta assistenziale. Non lo vogliono gli enti locali perché pesa sui bilanci comunali e spesso siccome la competenza è del comune del luogo in cui il minore abbandonato viene trovato, e visto che spesso sono piccoli comuni con risorse molto limitate, quei bambini diventano un problema. In passato quel problema veniva risolto molto facilmente nel senso che questi ragazzini non venivano per nulla segnalati e continuavano a girare sul territorio nazionale fin quando o non commettevano un reato e quindi venivano bloccati, oppure diventavano a loro volta vittime di reati e quindi bisognava occuparsene per forza. Nelle Marche, per esempio, questo non lo abbiamo accettato e abbiamo preteso che i comuni intervenissero su tutte queste situazioni. Ovviamente, pretendere che intervenissero non vuol dire, poi, assicurare un intervento efficace. Nella gran parte dei casi si limita ad un intervento formale. Questi bambini vengono inseriti in strutture, in comunità dalle quali scappano, dalle quali si allontanano o vengono allontanati nell'arco di 24-48 ore, dopodiché continuano a peregrinare per l'Italia. Ma vi sembra che un ragazzo che viene in Italia per cambiare vita abbia interesse ad andar via da un contesto nel quale qualcuno si preoccupi di metterlo in condizioni di impostare un progetto di vita? Non è realistico. Questi ragazzi vengono qui proprio per quello. Nel momento in cui hanno questa occasione cercano di sfruttarla, perché sanno perfettamente che (...)
Non lo possono essere, ma sono giustificazioni in termini di vere o presunte impossibilità economiche, materiali, di tempo, di organizzazione. Tutto questo ha dei costi enormi, perché anche un ritardo di un intervento rispetto a un minore significa intervenire su un soggetto che non è più lo stesso e quindi anche l'intervento va cambiato.
Se si interviene un anno prima o un anno dopo, sei mesi prima o sei mesi dopo, si interviene su una persona diversa, che ha diverse esigenze e che ha bisogno di diverse risposte. E allora - per concludere - è periferico in questo paese, nel senso questa volta negativo, anche tutto ciò che riguarda i minori. È periferica - e infatti la si vuole superare - ogni forma di cultura minorile. È periferica qualsiasi garanzia di diritti per soggetti che non avendo una soggettività giuridica intesa in senso politico, ovviamente non sono in grado in nessun modo di rappresentare il proprio disagio. È un disagio che è sempre filtrato dagli adulti e spesso viene il dubbio che sia filtrato in modo funzionale a quelli che sono gli interessi degli adulti. Se c'è un giudice minorile è comunque un giudice per sua natura molto scomodo per un contesto di adulti i quali vogliono vedere soltanto un interesse del minore legato alle proprie volontà, alle proprie capacità e ai propri interessi. Cosa, questa, che evidentemente non può essere. Fra le marginalità, fra le periferie, metterei proprio questa periferia culturale, perché è tale nella realtà di oggi: quella che riguarda i minori. Come questo si rifletta - venendo poi agli aspetti che interessano voi più direttamente - attraverso i mezzi d'informazione, è evidente. Credo che ormai ognuno di voi si è stufato delle sfilate di persone che parlano di minori, di ragazzi, di Erica, di Omar, degli omicidi. Si è stufato. Capisce, percepisce chiaramente che c'è qualche cosa di falso, se non tutto, dietro a quella rappresentazione, dietro a quegli spettacoli, di una realtà che è enfatizzata in termini negativi o in termini positivi a seconda di come si vuole orientare, e che non si pone mai il problema di cosa c'è dietro. Vi faccio un esempio. Pochi giorni fa occasionalmente è stata fatta un'operazione dai carabinieri in un edificio abbandonato nei pressi di una scuola elementare quasi nella periferia di Ancona, ma comunque sempre vicino al centro della città. Teatro dell'operazione è stato un edificio che praticamente era in stato di abbandono dal 1998, aperto a tutti, dove chiunque poteva andarsi a rifugiare e fare i comodi suoi. I carabinieri lo hanno sequestrato perché avevano avuto una denuncia di violenze a danno di due bambini di quella scuola elementare consumate da altri minorenni all'interno di questo edificio. Bene. Ogni giorno la notizia era capire quali efferate violenze fossero avvenute in quell'edificio. Nessuno che abbia detto: ma come mai un edificio abbandonato dal '98 attaccato a una scuola elementare è stato lasciato così per tanti anni, quando è logica comune che qualsiasi edificio abbandonato diventa il ricettacolo di ogni tipo di comportamenti, da quello che si va a drogare, a quello che vuole trovare il luogo dove consumare altri reati ed altro. Perché? Perché questo non fa notizia. Dipende qual è l'ottica della notizia, perché raccontare queste realtà - come raccontare le periferie e raccontare la quotidianità delle periferie delle grandi città - a volte ha un contenuto giornalistico. Se vogliamo parlare non solo di notizia, ma anche di fare giornalismo, una riflessione di questo genere ha un contenuto giornalistico a mio avviso maggiore e questo non perché lo dico io che sono un profano, ma lo dimostra il fatto che in anni in cui i mezzi d'informazione non erano di più di oggi, e nemmeno più liberi di oggi, comunque certe forme di inchieste giornalistiche venivano fatte. Venivano fatte anche nella televisione quando c'era un solo canale o ce n'erano soltanto due, veniva fatto anche attraverso la stampa, attraverso un racconto che era un racconto di fatti, di persone, di emozioni, ma anche un racconto di responsabilità, una discussione sulle responsabilità.
Se noi inseguiamo solamente l'evento finale, senza riuscir mai a mettere allo scoperto quello che c'è dietro, quello che porta, quello che determina l'evento, evidentemente è un giornalismo sterile, o comunque una notizia fine a sé stessa, che sicuramente non dà un grande contributo.
Accanto all'informazione del lettore frettoloso è necessario sempre un momento di riflessione, un momento nel quale si cerca di far ragionare le persone su quelle che sono le situazioni che portano a determinati eventi. Non possiamo sempre farle passare per disgrazie, non possiamo sempre esorcizzare questi eventi dicendo che sono gli eventi o i fatti di un pazzo, di un mostro. No, queste sono purtroppo realtà quotidiane, a volte sfociano in atti violenti e fortemente traumatici, tante altre volte implodono e distruggono le persone dall'interno. Quindi a volte distruggono l'altro, a volte distruggono te stesso, ma su tutto questo, ripeto, non c'è nessuna attenzione e nessun approfondimento. Significa la marginalità, vivere nelle strade, doversi procurare giorno dopo giorno quello che è necessario per vivere e quello a cui sono costretti per fare questo. E' irragionevole che nel momento in cui c'è l'intervento dell'autorità e a questi ragazzi si possa offrire un progetto di vita loro lo rifiutino. Evidentemente questa alternativa viene offerta solamente sulla carta, solamente in modo formale, sostanzialmente questa risposta non viene data. Ecco un esempio evidente di contraddizione enorme fra quello che si afferma, o quello che la legge garantisce, e quello che si dà in concreto. Ecco un esempio di come le risposte quando si devono dare per forza - perché altrimenti ci si mette contro la legge e ci si può trovare nei guai - vengono ridotte a risposte formali. L'aspetto più frustrante è poi quello che riguarda il giudice minorile, cioè colui il quale poi deve dare indicazioni sull'intervento da effettuare. E' il giudice minorile l'unico che si deve preoccupare dell'effettività dei propri provvedimenti. Ed è l'unico giudice che spreca il 90% delle sue risorse a combattere con chi non esegue i provvedimenti, o chi li esegue in modo soltanto formale, o chi li disattende del tutto, con giustificazioni che non sono mai ovviamente giustificazioni di diritto.

Intervento 

Io ho sempre vissuto l'equivoco che categorie come centro e periferia di per sé - dico forse un'ovvietà - rischiano di creare. Ho sempre vissuto in un posto, nel profondo sud, accompagnata dall'idea di essere nella periferia delle periferie e quando me ne sono andata via ho pensato che fossi al centro del mondo. Giù nel Salento pensavo sempre che tutto fosse periferia. In realtà il discorso era completamente ribaltato: non c'era nessun luogo tanto lontano dal centro da poter essere chiamato periferia e avevo la sensazione di essere sempre al centro di qualcosa. A Roma, invece, ho la sensazione che ci siano tante periferie e penso che la periferia che crei più difficoltà non è quella che si auto impone. Ciò che osservo principalmente sono queste solitudini quasi incomunicabili che si mettono in comunicazione con difficoltà.
Si ha l'impressione che scorrano sempre parallelamente e che l'esistenza dei vari strumenti d'informazione, delle voci in campo, comunichino prima ancora che i fatti avvengano e che abbiano occupato tutto il territorio disponibile. Si ha l'impressione di ciò tanto che poi non resta nulla da occupare, non resta nessuno spazio da vivere e si ha l'impressione che tutto quanto sia comunicato e che nulla lo sia realmente.
E si ha l'impressione che quella silente periferia resti tale davanti alla confusione di tutto il resto. So che è un po' confusionario quello che dico, mi rendo conto che quest'idea è anche difficile da esprimere, ma l'esistenza di tante periferie nello stesso posto, di tanti centri, mette in crisi l'applicazione di queste stesse categorie di centro e di periferie. E le periferie più difficili da vivere sono quelle che non sono esteriori, sono le altre, quelle interiori, che corrono il rischio di restare per sempre tali, rischiano di non essere mai comunicate. Giuseppe Palo - Vengo da quel sud di cui parlava lei prima, sono un lucano della provincia di Potenza e sono un assistente sociale che lavora presso il centro di servizio sociale per adulti del ministero della giustizia, dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Due considerazioni. La prima è questa: all'interno delle nostre regioni esiste anche una periferia. Una considerazione che si lega un po' a quella che è stata la notizia, che tutt'ora è una notizia, che riguarda un po' noi lucani soprattutto, che è la vicenda delle scorie radioattive a Scansano Ionico. Ho fatto una riflessione, ormai è diventato un tormentone, una riflessione che va a toccare anche la classe dirigente politica locale. Ho avuto la vaga sensazione che tutto ciò non sarebbe mai stato una notizia se davvero il popolo lucano non si fosse accorto di quello che stava accadendo. Ho la vaga sensazione che anche i nostri parlamentari - i lavori parlamentari li seguono con una certa attenzione - si comportano un po' da pecore che dicono "si". Sul territorio regionale si risveglia l'orgoglio dell'appartenenza e viene fuori il fantasma di Carmine Crocco che grida vendetta al cospetto di una terra conquistata di cui tutti vogliono abusare. La notizia è diventata veramente notizia perché dal basso qualcuno si è svegliato e ha detto "Basta, è ora di finirla" e si è risvegliato l'orgoglio dell'appartenenza. E poi fatemi passare questa battuta. Forse anche perché alla fine non avrebbe avuto più senso la pubblicità dell'amaro Lucano. Che cosa vuoi di più dalla vita? Il problema però rimane, perché il governo vuole individuare altre periferie, ha l'esigenza di avere altri luoghi. Allora questo mi interroga, mi scombussola, mi agita insomma. E questa è la prima considerazione: esiste anche questo tipo di periferia che diventa notizia soltanto nel momento in cui si risveglia quell'appartenenza - e già questo è un dato positivo - ma il lavoro del giornalista qual è in questo caso? Io lo immagino un po' come una sentinella sul territorio, però a volte il giornalista non è davvero una sentinella, ma è un'antenna che capta segnali preconfezionati. Gli arriva il comunicato stampa confezionato, gli arriva la notizia già strutturata, se ne parlava anche ieri sera, per cui non c'è una ricerca della notizia. La periferia non interessa, diceva il magistrato prima. Diciamo che noi siamo quelli della prevenzione ormai avanzata, terziaria. Molti minori arrivano da noi. O meglio da minori erano affidati al tribunale dei minori, da adulti arrivano in affidamento in prova ai servizi sociali. Fa notizia questo nostro mondo se in un carcere X c'è un suicidio, c'è un atto di efferata violenza, però non fa notizia - lo abbiamo visto anche con l'esperienza che c'è stata nel carcere delle Vallette a Torino - che Telecom che faccia un intervento d'inserimento lavorativo all'interno di questo carcere per mettere in piedi una struttura di call center gestita direttamente dai detenuti. Magari la notizia è stata pur data, ma ci si è fermati lì, all'annuncio. Si è trattato di una notizia che si è bruciata nel giro di 2 minuti al telegiornale senza che ci si prendesse la briga di pensare agli effetti.
Al contrario, però, diventa un tormentone il caso di un suicidio in carcere: quella persona è morta mentre era nel carcere, si è suicidata o è stata suicidata? Da chi? Dalla polizia penitenziaria? No. Dagli operatori che hanno dormito, che non erano svegli, che non hanno seguito il percorso d'inserimento di questa persona? Allora ci sono tutta una serie di dietrologie che vengono fuori e quelle diventano notizia. Poi, però, se in quel carcere si vive una situazione di sovraffollamento, di realtà fatiscente, di celle occupate da 8-10 persone, di percorsi trattamentali con cui non è possibile lavorare perché mancano educatori e perché mancano strutture, a volte mancano anche i fondi, allora tutto ciò non emerge. Bhè, queste cose si sanno, non fanno notizia! Non sono realtà che condizionano, se vogliamo, neanche la politica generale, neanche la politica centrale. La notizia si ferma lì la notizia, poi viene dimenticata, forse sarà recuperata più in là.
C'è una trasmissione televisiva su Rai3 che smonta pezzo per pezzo i casi più importanti, non ricordo il nome della giornalista ma mi sembra che si confronti con detenuti eccellenti. Di sera mi pare, verso una certa ora. Smonta la vita di queste persone, la smonta pezzo per pezzo. E' interessante da un punto di vista criminologico se vogliamo, ma da un punto di vista della ricaduta in termini di affetti, di cambiamento sociale all'interno della nostra realtà, mi lasciano abbastanza dubbioso, mi lasciano un po' con l'amaro in bocca. In quel caso scatta la nostra curiosità di semplici persone, morbosa curiosità, per entrare all'interno della vita di quella persona ammazzata in quel modo, poi fatta a pezzettini, poi l'ha nascosta nelle valigie. Alla fine quello è il fatto, ma tutto ciò che c'è dietro non emerge, tutta la problematica che c'è dietro non emerge, la problematica che appartiene ad un territorio. La nostra regione ha 3 case circondariali abbastanza importanti: il carcere di Melfi, il carcere di Potenza, il carcere di Matera. Sono come 3 città diverse l'una dall'altra all'interno di un'unica città. Sono realtà che non interagiscono con il territorio, hanno una seria difficoltà ad interagire con il territorio e non sono soltanto mura fisiche.
A volte la responsabilità è del carcere, a volte la responsabilità è anche nostra. I giornalisti, le sentinelle di cui parlavo prima, quanta attenzione hanno rispetto a questi mondi? Ne hanno? Oppure si svegliano solo nel momento in cui passa una comunicazione Ansa che comunica un suicidio all'interno del carcere di Potenza? Magari solo in quel momento il giornalista va davanti al cancello per intervistare il direttore ma poi si ferma lì. Allora diventa difficile anche gestirle queste situazioni ed entrarci dentro. Dal punto di vista dell'operatore sociale che ci lavora dentro, poi, diventa ancora più complicato. A volte quella che per noi è la vera notizia - un grosso intervento di recupero e di riabilitazione di un certo numero di ex detenuti - lo mandiamo perché lo pubblichino sulla stampa non solo degli addetti ai lavori ma sulla stampa che parla della detenzione. All'Ansa si fa fare un passaggio ma dai giornali il segnale non viene raccolto, perché?
Perché non è il suicidio di un detenuto. Un detenuto che è riuscito, dopo 10 anni di carcerazione, a trovare un lavoro, lavora in azienda grazie ai servizi sociali, grazie all'intervento degli operatori. Non è notizia.

Corrado Fontana - Giornalista Affari Italiani*

Io volevo chiedere qualche cosa. Innanzi tutto volevo rispondere al ragazzo che ha parlato adesso. O meglio, mi ponevo una domanda: è da ricercare la notizia del carcere fatiscente quando molti carceri sono fatiscenti? Io parlo dal punto di vista giornalistico ovviamente. In questo caso si ricerca la notizia per fare pressione su qualcuno perché qualcuno intervenga, allora la notizia diventa un mezzo? E chi deve intervenire perché diventi un mezzo efficace? Può servire?
È la strada giusta? Non sarebbe meglio avere delle amministrazioni pubbliche che funzionano e che sono loro a intervenire anche quando il giornale non ne parla? La seconda cosa che volevo sottolineare è questa. Si parla di periferie e di giornalismo anche oggi, ieri abbiamo parlato molto di giornalismo, si parla poco di pubblico. Esiste un pubblico periferico ed è così, mi vien da dire, spesso chi sta nelle periferie è un pubblico periferico. E' un pubblico che interessa poco, funziona solo quando c'è il fatto di sangue, consuma poco, fa poca tendenza, oppure fa vedere delle parti poco piacevoli della realtà che abbiamo intorno e che quindi deprime tutto il resto della catena. Io ritengo che la catena non debba essere guidata da ciò che fa tendenza ma da ciò che interessa alle persone che vivono. In questo modo, forse, le periferie diventerebbero più luogo di notizia. Credo che ciò sia possibile. Poi il fatto che l'animo umano s'interessi spesso più del sangue e del calendario è un altro problema, più sociologico. Terza cosa: di periferie che fanno notizia ce ne sono, credo che sia necessario saper parlarne. Cosa, questa, che io non sono capace di fare. Don Rigoldi diceva, giustamente, "bisogna starci". È una cosa fondamentale starci, perché sennò non si capisce.
Il giornalismo, oggi, permette poco di starci perché è veloce, perché chi commissiona un servizio lo vuole in tempi stretti, nei modi che bene o male ti vengono indicati, ecc. Zanotelli ha parlato di Karagocho, ma c'è stato per 20 anni e la ripercussione sui media è stata relativa, gli addetti ai lavori ne hanno parlato, le associazioni ne hanno parlato, certa stampa orientata ne ha parlato, ma per il resto c'erano di mezzo anche le bombe in Iraq che hanno nascosto tutto. L'ultima cosa che volevo dire è a proposito della radio.
È vero che la radio funziona così poco nel grande circuito dell'informazione? Non è che non funziona, forse ha poca ribalta? E' più corretto dire così? Io ricordo, però - perché la radio arriva dalla gente forse più della televisione in certi casi - che in periodo di guerra in Iraq, anzi in pre-periodo, gli americani sovvenzionavano delle radio locali per fare della propaganda in varie forme. Concludo dicendo che, comunque, i media sono uno strumento non solo di giornalismo.

Cristina Floris*

Svolgo l'attività di assistente sociale in un servizio per tossicodipendenti della Asl della città di Milano. La prima cosa che mi è venuta in mente è una domanda forse più diretta all'esperto di radiofonia di Radio Popolare, che purtroppo ascolto sempre, regolarmente. Dico purtroppo perché credo che certe volte sia anche un po' riduttivo soffermarsi ad ascoltare sempre e solo una versione. La domanda era rispetto all'informazione che riguarda le nostre periferie, il fenomeno delle telestreet dette, anche, delle Tv di quartiere: non può essere uno strumento valido ad affrontare meglio, in modo più mirato, più delicato per certi versi, ciò che succede nelle periferie e per valorizzarle nei loro aspetti più positivi? E poi vorrei dire una cosa che forse è un po' impopolare: parliamo di periferie che stanno perdendo la loro connotazione propria naturale di periferia. Alcuni - parlo di Milano - erano vecchi quartieri che avevano un'identità forte. Ve lo dico perché io lavoro in un Sert in una zona estremamente periferica delicata che è a cavallo tra Quartogiaro e Baggio e vivo a mia volta in un altro quartiere periferico a sud zona Corvetto. Con questo voglio dire che potrei anche suicidarmi perché, effettivamente, sotto certi aspetti è una situazione pesante.
Questi quartieri, ad esempio quello dove vivo - dove c'è una fabbrica con tutto un contorno, un contesto arricchito comunque di campagna e allo stesso tempo di attività lavorativa operaia, quindi ha una sua storia - ha perso totalmente questa identità per tutta una serie di fenomeni, ma non ultimo e qui sta la mia affermazione veramente impopolare, per questa invasione di massa - scusate mi vergogno un po' a dirlo ma lo sento - di extracomunitari, per esempio, che provengono dal sud America.
E' una realtà, questa, che ha fatto completamente rivoltare come un calzino il quartiere. La gente ha smesso di uscire, ha smesso di vivere il quartiere per paura, la sera si assiste frequentemente per tutto il venerdì, il sabato e la domenica pomeriggio a pestaggi continui, gente che si ubriaca.
Ciò non facilita la convivenza con queste popolazioni. Non dico queste cose solo in senso negativo, le dico come sfogo perché non so più a chi dirlo. C'è anche l'aspetto positivo di tutto ciò, è vero, questo lo so e lo lascio a voi, so che sapete valorizzare. Tutto ciò per dire che, secondo me, anche le periferie vengono snaturate forse anche da questi nuovi ingressi, questi nuovi inserimenti.

Roberto Morrione - Direttore Rai News 24*

La condizione di vita di grandi masse di paesi non è un problema esclusivamente italiano, questo mi sembra chiaro. Non è solo un problema di collocazione territoriale della popolazione, perché le grandi masse di paesi si portano dietro delle problematiche che attengono a sistemi di valori, a istituzioni, a regole più complessive. L'altro punto che mi sembra molto interessante è l'interrogativo con il quale ci si chiede perché tutto questo resta fuori dall'agenda dell'informazione, di tutta l'informazione. Mi sembra interessante, inoltre, ciò che diceva Rebotti, don Gino e anche il dott. Pastore. Perché ci sono i non luoghi, i non personaggi, perché la periferia è scomposta, perché tutti insieme davanti al televisore ad esempio? Ha detto don Gino..questo è un interrogativo molto importante perché porta una serie di riflessioni. Io però vorrei sottolineare che oggi le periferie sono veramente la condizione del mondo.
Quegli aerei con i kamikaze che sono andati a distruggere le tween towers, al di là di aspetti complessi che tutti noi conosciamo, e parte dei quali non conosciamo, sono un segnale delle periferie del mondo, mi sembra evidente. Hanno colpito nel cuore il meccanismo di sviluppo di coloro che hanno. Siamo entrati in un'era in cui il mondo che non ha, la periferia, attacca quello che ha, o comunque lo vede come un possibile percorso alternativo alla propria vita, il che comporta che sulle nostre periferie si costruisce un flusso di uomini, di donne, di bambini, di persone che comunque hanno rinunciato alla loro vita, al loro passato di cui avranno solo memoria le radici culturali e si inseriscono con contraddizioni gigantesche all'interno del mondo che ha. Solo in Europa, pensate, ci sono qualcosa come 25 milioni di persone lavoratori di fede musulmana, o comunque che vengono dal mondo arabo. 25 milioni. E la crescita è vertiginosa, ci sono i curdi, ci sono problematiche gigantesche. Io credo che non ci sia luogo del nostro paese dove il problema dei ragazzi stranieri di cui parlava don Gino non diventa un problema determinante, lo diventerà sempre di più e sarà così in tutta Europa e a tal proposito le contraddizioni del nostro paese vengono fuori in maniera ancora più drammatica. Ora io mi chiedo, perché il killer di cui parlava Rebotti, Calderini mi sembra, quello che ha sparato dalla finestra, ricordando un formidabile film che si chiamava "Piccoli omicidi", che era di molti anni fa, (...). Adesso l'amica che è intervenuta, assistente sociale, ha detto che le televisioni di strada sono un fenomeno di grandissimo interesse, fanno parte di quel pullulare di iniziative, anche individuali, che nel campo dell'audiovisivo stanno segnando la nostra epoca insieme alle radio. Rebotti aveva ragione: sono, però, una realtà che necessità di tre cose. Le elenco solamente come titoli, perché ciascuno di questi argomenti meriterebbe di essere sviluppato: una volontà editoriale, cioè qualcuno, un'entità che faccia informazione, che voglia andare dentro queste realtà; una capacità professionale di cogliere queste realtà e questo non è un problema da poco, perché richiede formazione, esperienza sul campo, richiede un sistema di valori e un circuito che trasmetta tutto ciò. Oggi, sotto questo profilo, noi abbiamo una potenzialità straordinaria ma assolutamente dispersa. Il rischio di disperdere questa potenzialità che è straordinaria, come se fosse una nuova forma rivoluzionaria ma individuale di percezione che c'è una realtà da sondare e da far conoscere, rischia di essere totalmente dispersa o completamente assimilata da interessi di altra natura come è avvenuto per molti emittenti locali che ci sono state negli anni scorsi. Il rischio è molto alto se non si riesce a trovare dei punti di riferimento, dei circuiti, degli elementi di distribuzione, dei parametri comuni di riferimento. Qui è evidente che si pone il problema del servizio pubblico radiotelevisivo. Purtroppo è un problema da molto tempo drammatico che, oggi, è diventato insostenibile. Pensiamo solo alle 20 sedi regionali della Rai che producono televisione, che producono radiofonia, pensiamo ai nuovi mezzi, ai new media che permettono una moltiplicazione di queste fonti: qui si pone un problema che ha una natura di battaglia politico-parlamentare-istituzionale e anche di rapporto tra il mondo dell'informazione e il mondo della politica che oggi è assolutamente distorto.

Roberto Carderelli

Mi è capitato di occuparmi di periferie scrivendo un libro narrativo tempo fa.
La domanda è forse più per don Gino. Ho scritto il mio libro, tra l'altro, per una casa editrice che si chiama profeticamente "Non luoghi": avevamo pensato di aggiornarlo facendo una specie di casting letterario e c'era questa idea di trovare delle storie, farsi raccontare delle storie di emarginazione di precariato e anche di agitazione. Devo dire che sono usciti tanti articoli ma sono arrivate pochissime testimonianze di agitazione, di precariato, di difficoltà urbane. Ovviamente quando si pensa a del materiale narrativo non è che si ha questo interesse schiacciante per la realtà da volerci mangiare sopra come può essere il caso dell'informazione in senso stretto.
C'è un po' più di distanza, c'è una trasformazione, una metabolizzazione di quello che si sente o si vede, però ciò mi ha fatto comunque molto pensare e forse questa è una domanda che rivolgerei a don Gino: tutto quello che vediamo della periferia, tutto quello che sentiamo, è forse raccontato dall'esterno, è forse raccontato da chi non c'è? Credo che sia questo il problema più grosso, nel senso che dall'interno non interessa raccontarsi come periferia, interessa raccontare la periferia dall'esterno.

Giovanni Vella - Giornalista Rai Net*

Ho colto almeno elementi da questi interventi che volevo condividere con voi, seppur velocemente. Uno è forse un equivoco che sento dentro di me e cioè che probabilmente questo concetto fra periferia e centro, più che un concetto statico, toponomastico, geografico, è un concetto mediatico. Per lo meno dalla parte della mia professione, della mia categoria - sono un giornalista di Rai Net News - probabilmente il centro è l'intensità con cui alcune notizie diventano eventi, vengono raccontate con una capacità di fuoco, un focus immediato e poi subito dopo scompare; tutto il resto entro due giorni diventa periferia. Rozzano, faccio un esempio, secondo me quotidianamente è rappresentato nei falsi talk show della De Filippi; in Distretto di Polizia, nella fiction della Rai e delle Tv commerciali, è rappresentato alla grande quel mondo dell'emarginazione, di solidarietà criminale fra le persone, di piccole storie di sesso, droga e tutto ciò che viene vissuto nelle periferie quotidiane in cui si vive. Il problema è che quando arriva una notizia che diventa immediatamente un evento, il resto scompare. Se si passa dalla Cirami nel parlamento a Rozzano, la responsabilità del Palazzo diventa periferia perché Rozzano è diventato una specie di sgabuzzino sociale, come l'ha definito don Gino Rigodi.
E' l'intensità di fuoco che crea il centro mediatico e tutto il resto diventa periferia. La novità che ho colto io, che mi è piaciuta ed è stata molto utile per questo, è che in questo fluttuare tra centro e periferia dove l'intensità di fuoco mediatico ha sconvolto il nostro modo - che va aggiornato - di considerare il rapporto fra il pubblico, identificazione del pubblico, col fluire della notizia. Se prima noi leggevamo i giornali e ci identificavamo socialmente con ciò che leggevamo - perché era il dopoguerra, perché i giornali crescevano, c'erano dei grandi movimenti politici e sociali e leggere il giornale e avere le notizie servivano per conoscere di più come funziona il mondo - ora la tempesta mediatica è così intensa che non sai più chi sei. Giustamente il cittadino di Rozzano dice: "Io non sono come vengo rappresentato". Ma senza la notizia, se tu fossi andato con la telecamera prima dell'evento, chi avrebbe detto che Rozzano fa schifo, che è pieno di delinquenti, che non ci sono servizi, che non ci sono farmacie e non c'è niente? È chiaro che se sei abituato a pensare che le persone vanno in televisione e stanno di fronte alla mega fortuna, lo sai o non lo sai, vinci o non vinci, tutti hanno i culi di fuori, i maschi sono tutti palestrati, hai pochi minuti per esibirti, sei dentro o fuori, vittorioso o non vittorioso.se questa è la potenza mediatica è ovvio che quando loro presagiscono che sta per arrivare la tempesta perché c'è stato un omicidio sotto casa hanno 2 secondi, sanno che saranno semplificati e si sentono messi in discussione.
E' evidente che poi, nella semplificazione della notizia, non si rivedono nella descrizione che di essi viene data.
Ci può essere un antidoto per questo stravolgimento del vecchio rapporto tra pubblico, lettore, ascoltatore e noi che siamo i trasmettitori delle notizie? La faccio breve. Io credo che don Gino oggi ci abbia dato una straordinaria lezione di giornalismo retorico, diciamo così, perché non ha il pubblico immediatamente presente, ma di leggerezza, di assoluto non giudizio nel raccontarci ciò che accade. Probabilmente noi - io seguo questi seminari da dieci anni quasi - eravamo partiti più dall'imput di denuncia, denunce sociali, giornalismo d'impegno, una prestazione professionale che potesse servire anche a ristabilire un po' la giustizia nel nostro paese. Mi pare che invece don Gino ci dia un'altra strada: di fronte a questa tempesta mediatica, di fronte a questo racconto un po' mediatizzato della realtà che diventa reality, come abbiamo giustamente sentito raccontare ieri, il modo di approccio deve essere diverso.
E' ovvio che se don Gino andasse da questi ragazzi romeni dicendo: "Figliolo sei fuori strada, vieni che t'insegno io a vivere.", non acchiapperebbe nessuno nel suo centro.
Deve prima incontrarli, accoglierli, stare con loro finché non si crea un legame. Noi potremmo raccontare ciò che accade, raccontare semplicemente, perché le persone possano sentirsi rappresentate e non giudicate né vittime di ingiustizie, né relitto sociale, né cadaveri sociali ambulanti o persone che vivono male perché sono sfigati, perché sono clandestini, ma semplicemente raccontare. Questo può stabilire una connessione più leggera fra la tempesta mediatica e il racconto di fiction ordinario che purtroppo invade il nostro palinsesto delle Tv commerciali e della Tv pubblica.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche, se non diversamente specificato, si riferiscono al momento del seminario.