XI Redattore Sociale 26-28 novembre 2004

Nascondigli

Workshop: Ragazzi di famiglia. Il coinvolgimento dei giovani nella criminalità organizzata

Incontro Giacomo Panizza. Conduce Santo Della Volpe

Santo DELLA VOLPE

Santo DELLA VOLPE

Caporedattore cronaca del Tg3.

 

Giacomo PANIZZA

Giacomo PANIZZA

Sacerdote, è presidente della Comunità Progetto Sud di Lamezia Terme, insegna all’Università della Calabria.

 

Santo Della Volpe*

Io vorrei cominciare dando un'occhiata al depliant, cioè cominciando a togliere la testa da sotto la sabbia: questa la provocazione di "nascondigli". Non possiamo tenere la testa sotto la sabbia quando abbiamo a che fare con alcuni problemi come quelli che affronteremo oggi.
Sono problemi di grande attualità per noi che siamo operatori dell'informazione, o che comunque dall'informazione siamo toccati perché lavoriamo nel sociale.
Ci sono delle aree di disagio di fronte alle quali non si può mettere la testa sotto la sabbia ovviamente. Allora che si fa? Io farei un percorso insieme a don Giacomo Panizza. Cercheremo di vedere la realtà facendo delle ipotesi di comportamento da assumere di fronte a certi problemi, come potremmo o come vorremmo, o come non possiamo comportarci di fronte a una realtà sociale di questo tipo.
Vorrei però fare una premessa, perché le premesse servono sempre per sgomberare il campo da cose che possono essere d'intralcio ai nostri pensieri. La premessa potrebbe essere il riassunto delle puntate precedenti di Capodarco come di altri seminari su questi argomenti e cioè quel bagaglio di diritti e doveri che ciascuno nell'informazione piccola o grande si porta quando sta di fronte a una questione sociale, come quella dei minori, o del disagio giovanile, o delle carceri. Se non si hanno chiari i diritti, se non si hanno chiari i doveri del giornalista, di fronte a un argomento di questo genere ci si perde, perché è troppo forte se si ha coscienza, oppure se si prende con superficialità si rischia di fare dei danni.

Diritti e doveri . I diritti sono secondo me, la parte più importante di fronte a sé stessi, cioè la coscienza individuale del giornalista. Questo è un lavoro, quello del giornalista, che è profondamente individuale ed è profondamente gerarchizzato, è un punto di partenza che dobbiamo dare per accertato. Non esiste all'interno di una redazione qualsiasi, il principio assembleare. Ci sono delle gerarchie che devono essere tali perché altrimenti non va in stampa il giornale, non esce il telegiornale. C'è sempre qualcuno che dà il placet, dà il via, schiaccia il bottone, il pulsante del computer e fa partire l'input e più si è in alto nella scala di gerarchia all'interno delle redazioni, meno diritti si ha di sbagliare.
C'è il diritto ad essere liberi, perché se si hanno dei condizionamenti che vengono da un direttore o da un redattore, un editore che ti indirizza ad andare in un posto, perché ti dice che devi trovare la notizia, beh in questo caso non si è liberi, e tu come giornalista sei condizionato.
Come viene garantita questa libertà? Dalla propria coscienza, dalle garanzie che si hanno di tipo professionale e quindi sindacale, dalle garanzie che si hanno di tipo professionale e quindi di status norma di assunzione. Voglio dire, oggi si tendono a fare molti servizi nei giornali e telegiornali con persone che sono precarie, quindi ricattabili, mentre invece è un diritto di poter fare questo lavoro sapendo di avere un contratto che anche se tu non fai il servizio come vuole il capo redattore o il direttore, sei comunque garantito perché il posto non lo perdi.
Se sbaglio perché ho interpretato male è un conto, ma se sbaglio perché sbagliare è dire quello che vuole il direttore altrimenti lui mi licenzia, io non sono libero. Questo è un punto di partenza che è fondamentale per poter affrontare qualsiasi discorso di fronte ad argomenti seri come questo.
Un'altra delle cose fondamentali per esempio da questo punto di vista è avere una contrattualizzazione e anche un adeguato stipendio perché se tu sei pagato poco sei ricattabile. Badate non sono cose corporative, sono cose essenziali per la libertà di stampa nel nostro paese.

L'altro problema, grosso, enorme, è quello dei doveri che abbiamo . I doveri sono tutti più o meno all'interno di questo libro che vi consiglio sempre di leggere "Privacy e giornalismo". C'è tutto qui dentro. Più si va di fronte a questioni spinose che toccano minorenni o problemi e questioni personali di disagio delle persone, più bisogna avere sensibilità nei confronti della persona che sta dall'altra parte. Noi da questo punto di vista, come giornalisti dobbiamo essere forti con i forti e attenti con i deboli. Purtroppo oggi la moda è quella di essere forti con i deboli e deboli con i forti. Lo dico con molto rammarico, perché dietro questo ci sono 20 anni di discussioni e di conquiste che stanno purtroppo andando perdute ma siamo ancora in tempo per cambiare. Io sono ottimista e probabilmente ci saranno tempi migliori in futuro.
Per quanto riguarda i giornalisti, bisogna avere sempre la sensibilità e l'attenzione adeguata alla situazione e ciò significa cercare di capire, di comprendere e di interagire con chi ci sta di fronte, come un giovane che ha avuto dei problemi e che non vuole farsi riprendere per televisione, che non vuole dire come si chiama.
Io ricordo solo viaggi passati, parlo di esperienze personali minime all'interno delle istituzioni che una volta si chiamavano carceri minorili. Ricordo il Ferrante Aporti. Vi sono entrato la prima volta nel 1976 in occasione di una rivolta e una fuga. Don Ciotti entrò nel carcere con la comunità del Gruppo Abele, a fare un certo tipo di azione mentre io, che ero praticante in un giornaletto da un anno e avevo 21 anni, ho varcato quella soglia con grandissima paura. Sono tornato al Ferrante Aporti nel 1998 e ho visto nuovamente le celle aperte e ho visto un altro clima: i laboratori, la città che entrava, i ragazzi che uscivano, facevano televisione e poi proiettavano, cinema giovani, la panetteria, la pizza.
Che abbiamo fatto? Abbiamo usato il simbolo e in questo caso il simbolo erano le scritte sui muri. Abbiamo fatto vedere in quel servizio televisivo soltanto le scritte sui muri, anche in altre lingue straniere, a nome dei ragazzi, è stata una scelta così anche di linguaggio televisivo. Far vedere le scritte invece che le facce è servito molto di più. Far vedere i simboli invece delle facce è servito per far capire che si può fare con attenzione un'informazione utilizzando dei simboli invece delle persone, ma senza dimenticare che dietro il simbolo c'è una persona.
È facile mettere una taglia sulle persone, è facile nei film, forse per noi è traumatico. La semplificazione dei problemi produce delle risposte spesso negative, spesso sbagliate. L'interpretazione dei problemi è il compito del giornalista, il quale è mediatore tra il fatto e il mondo sociale, la società, quindi quello che c'è dall'altra parte del tubo catodico per quanto riguarda la televisione, o della carta stampata, per quanto riguarda chi lavora all'interno del giornalismo scritto.
Adesso parliamo di quello che succede all'interno di questo mondo; andremo, attraverso Giacomo Panizza, dentro a Lamezia Terme, un posto difficile per la condizione dei giovani. Cerchiamo di capire cos'è davvero questo mondo e come è fatto perché non lo conosciamo.

Giacomo Panizza*

Sono nato nel 1947 e ho abitato in questa casa a Capodarco per un periodo della mia vita, quando poi arrivò la richiesta da parte di un gruppo di scout di Lamezia Terme, persone in carrozzina, di ricoverarsi qui, invece di farli venire, mi sono spostato io, con qualche obiettore di coscienza.
A Lamezia Terme li ho incontrati: ragazzi con i loro linguaggi, con i loro giri di clan.Tutte le cose che vedevo e che mi accadevano non le interpretavo automaticamente.
Ho provato direttamente perché andando in quel posto non potevo non fare i conti con questi gruppi organizzati. Sono andato in Calabria per aiutare un gruppo di persone in carrozzina e con l'idea di mettere su una fabbrichetta, un laboratorio. L'ho fatto ma naturalmente dopo 3 mesi mi cominciano ad arrivare postulanti, mi arrivano ragazzetti che chiedono soldi per gli amici in carcere. Io non capivo che era la tangente. Non capivo, parlavamo due linguaggi totalmente differenti. Tenete presente che i primi due anni a Lamezia Terme a dir messa lì in cattedrale ho confessato senza capire quello che mi dicevano. L'impatto è stato così, è stato quello di vedere ragazzetti che ti chiedono dei soldi, che ti chiedono il pizzo, che ti chiedono la tangente e vedere che poi vengono uccisi, vanno in prigione, ecc. Ecco le carceri minorili le ho incontrate andando a tirar fuori questi ragazzi.
Io comunque sto parlando dei ragazzetti di famiglia povera, non dei figli dei boss che adesso fanno i criminal manager. Famiglie povere, disagiati, sfigati, incasinati, piuttosto che essere capaci di mettere su qualcosa, perché quelle volte che hanno messo su qualcosa, li hanno uccisi in piazza alle 6 del pomeriggio, capito?
Le famiglie che contano in Calabria tutti le conoscono. Io mi ricordo proprio nel '76 la seconda messa che ho detto. Uscendo dalla cattedrale, erano le 10.30 del mattino, è stato ucciso uno sul corso, era pieno così e nessuno aveva visto niente. Certamente la paura di dire, ecco questa paura di dire non è tanto legata alla paura di dare un identikit, ma alla paura di far risalire ai mandanti.
Io riesco a dire queste cose solo perché faccio il prete e non è che ho fatto indagini. Vengono dalla mia vita, non vengono da studi.

Santo Della Volpe*

Questo è quello che noi di solito ci troviamo di fronte e che nei giornali finisce per diventare l' "omertà".
Serve o non serve far sentire, far vedere, intervistare le persone che dicono non ho visto niente? Direi che dovremo dare una risposta a questo, sull'approccio che noi abbiamo nei confronti di questi fatti. Allora andiamo avanti nella descrizione di quello che abbiamo di fronte. Abbiamo di fronte a un certo punto una realtà fatta di ragazzetti che vengono utilizzati, abbiamo visto dei fatti che avvengono, che sono gravi, di fronti ai quali c'è l'omertà. Ad un certo punto noi quando cerchiamo di capire questa realtà dobbiamo avere delle fonti. Come facciamo a distinguere se c'è una fonte positiva e una negativa?

Giacomo Panizza*

La cerchia del clan non entra direttamente nelle pubbliche amministrazioni, ma lì certamente c'è gente catturata, presa, mediata, circuita, con la quale si è patteggiato. Sono persone che non possono dire di no, perché hanno visto con i propri occhi cosa significherebbe dire di no.
Non si può dire di no perché ti uccidono, o sennò uccidono qualcuno dei tuoi, ecc. Ecco io conosco gente a Lamezia, ragazzi che sono stati un po' bruciacchiati, ma sono ancora vivi, che gli stavano tagliando le braccia.

Santo Della Volpe*

Un altro dato che ci serve per capire: quali sono i valori? La cultura media di queste persone che vanno in giro a chiedere il pizzo, qual è? Che cosa fanno, che cosa vedono? Vedono la televisione, leggono libri? Vanno a scuola? Qual è il tipo di rapporto che hanno con i propri simili? Come sono queste persone quando le vedi tu nella realtà e ti vengono a parlare?

Giacomo Panizza*

A Lamezia Terme c'è il 32% di disoccupati su 72 mila abitanti e c'è una mortalità scolastica della scuola dell'obbligo del 27%. Ecco moltissimi vengono da questi ambiti, anche se non tutti. Quando il ragazzetto chiede al papà se gli compra il motorino e il papà non ci riesce, il ragazzetto se lo procura il motorino, non si scappa da lì. Il modello culturale è quello di un disagio, di una carenza e di un voler ricopiare gli altri, sentendosi all'altezza di quello status symbol. Non sono tutti criminali, qui ci metto la mano sul fuoco, questi ragazzetti, non sono tutti criminali. Fanno queste cose per una mentalità, per una cultura adesiva, copiano pari pari quello che vedono e non vogliono sentirsi inferiori, è brutto essere inferiori. A 16-17 anni, essere non soltanto differente dagli altri, ma inferiori e l'avere o no un certo tipo di orologio, il motorino, l'automobile crea disagio. Nel '77 è uscita una legge, il Dpr 616 del luglio 1977, che chiudeva i riformatori. Io mi sono trovato in parrocchia e per strada, ho visto quella gente che non andando in riformatorio andava in carcere. Mi sono ritrovato con mamme di ragazzetti della parrocchia che mi dicevano dei loro figli in carcere. Prima erano più tranquille di saperli al riformatorio, una specie di collegio per loro del carcere invece hanno iniziato a preoccuparsi.
In quel momento mi sono detto: "Che facciamo?". Con un altro prete a Reggio Calabria che si chiamava don Italo Calabrò, abbiamo messo su due specie di collegi. Li abbiamo chiamati gruppi famiglia, gruppi appartamento: Non si potevano più chiamare riformatori perché la legge li aveva cancellati. Coi giudici e con la polizia abbiamo patteggiato che invece di portarli in carcere ce li saremo presi noi. Adesso in Calabria ce ne sono 20 di questi servizi.

Santo Della Volpe*

La terza domanda: quanto emerge di tutto questo nei servizi giornalistici che noi di solito leggiamo o vediamo? Come far emergere in maniera pulita, cioè con un'informazione pulita, vera, la realtà dei fatti?
Inoltre, ci sono delle possibilità per questi ragazzi di uscire da quel mondo e di fare il salto dalla parte pulita della società? Tutto questo è possibile? E quando avviene che cosa si lasciano alle spalle? Oppure c'è sempre un cordone ombelicale con quel mondo di provenienza?
Tu dici a un certo punto: alcuni di questi ragazzi usciti dal clan vanno a fare i poliziotti. Allora io mi chiedo, dato che poi il poliziotto diventa dopo anche una mia fonte, faccio il discorso utilitaristico di giornalista: questo ragazzo che fa il salto, lo fa veramente, oppure è ancora legato al cordone ombelicale? Magari poi fra l'altro, si fanno due anni al nord e poi tornano in quella realtà del sud.

Giacomo Panizza*

Ci riescono pochissimi. All'inizio sono proprio i ragazzi che cercano soldi per comprare qualcosa, come vi dicevo prima, per lo status simbol e vengono utilizzati per portare una bomba, una pistola, e guadagnano bene e facile. A seconda di quello che si fa i ragazzi sanno che dietro c'è un prezzo da pagare. All'inizio c'è la fase delle prove, prove di abilità, poi da quel momento in poi è difficile se non impossibile tornare indietro. Ci sono delle cose che neanche si riescono a scrivere. A volte si fanno passare per tossicodipendenti per poter andare al Sert ed essere presi in carico in strutture come la nostra così che il clan li ritiene inaffidabili e non traditori, due concetti ben differenti in Calabria. Ci sono altri che mi chiedono di scomparire, il che vuol dire andare in zone del mondo, differentemente dalla tipica emigrazione calabrese che è fatta di colonie. Quando qualcuno prova a tornare anche per il matrimonio di qualcuno, anche per una ricorrenza, viene ucciso.

Santo Della Volpe*

Tutto quello che ha detto Giacomo in realtà costituisce materia per un reportage. Mi chiedo quante volte c'è da parte di noi giornalisti la curiosità di andare di persone come Giacomo.
Ricordatevi sempre che, questo per inciso, quello che dà più fastidio alle organizzazioni malavitose è che si scriva sui giornali di loro, come adesso ha fatto Giacomo.
Questa è una delle domande a cui dovremo dare una risposta ossia: quante volte c'è stato chiesto di farlo, o quante volte noi abbiamo proposto di farlo? Spesso c'è una forma di autocensura.

Intervento

Premesso che non sono un giornalista, ma sono diciamo un ricercatore sociale prestato agli uffici stampa della pubblica amministrazione, dato che attualmente lavoro per il Dipartimento Nazionale per le Politiche Antidroga della Presidenza. Vorrei parlare di una ricerca che abbiamo fatto negli anni passati: una ricerca sul coinvolgimento dei minori in operazioni di narcotraffico e il primo problema era proprio quello di capire dove prendere le informazioni. Siamo partiti conducendo un'indagine qualitativa utilizzando dei testimoni privilegiati e quindi dei giudici, dei sacerdoti, degli operatori sociali anche in alcune zone della Calabria.
Il tema dell'informazione, dell'approfondimento e anche del portare diciamo all'opinione pubblica questi aspetti all'interno delle zone interessate da problemi di criminalità organizzata, è fortemente condizionato.
Penso che don Panizza mi possa dar ragione, proprio per il tipo di codice culturale che viene utilizzato in quelle regioni che spesso viene chiamato "cultura submafiosa", il sentire mafioso, che in qualche maniera accomuna tutte queste persone e che rende estremamente difficile lo scambio diciamo proficuo tra persone che appartengono appunto a codici culturali fortemente diversi. Per cui come si fa a superare la barriera delle istituzioni? Perché ci si rivolge più ad un prete o ad un vescovo nelle situazioni difficili piuttosto che alle istiuzioni, manifestando così una non fiducia nello Stato.

Intervento

Questo è uno dei problemi su cui bisogna che riflettiamo tutti quanti, perché noi non siamo contigui a un'istituzione. Noi giornalisti facciamo parte del gioco democratico dei poteri, il nostro ruolo è quello di guardare, vedere, far capire. Però vedere non vuol dire autocensurarci per quello che vediamo, quello che si vede e si sente deve uscire fuori.

Giacomo Panizza*

Il ragazzetto che non è il boss, che non è quello che tira, non è il capo clan, non è il capo bastone, non è uno di quelli che comandano, è un gregario, è un assoldato, non va nei carceri di massima sicurezza ma in carceri normali. Ecco, nelle carceri normali loro sono più controllati dagli altri mafiosi che dai secondini, che dalle guardie carcerarie, questo è tranquillo, su questo non si discute.
La scuola nella scalata della mafiosità avviene anche in carcere, tenendo anche presente che i ragazzetti vanno in carcere a testa alta, fieri, perché sanno che quando usciranno saliranno un gradino o due gradini all'interno dell'organizzazione, che vuol dire magari meno azioni, ma più remunerate, più considerazione per fare delle azioni più pagate.
Il carcere è proprio un punto debole dello stato, perché all'interno del carcere agiscono solo meccanismi di repressione. Questi meccanismi non hanno la capacità di sostituirsi al controllo dei carcerati stessi su gli altri carcerati.

Domanda: Qual è il tipo d'intervento dello Stato all'interno delle carceri per controbattere questo tipo di situazione?

Lo Stato non è che non abbia predisposto delle iniziative, delle attività, ma probabilmente la cultura, l'organizzazione rigida del carcere fa a pugni con un'organizzazione più flessibile come quella educativa o pretesca. Quegli interventi di sicurezza pubblica fanno a pugni con l'intervento che utilizziamo noi nei gruppi, nelle realtà, o negli approcci personali di educazione o di aiuto, che sono molto più flessibili, elastici, o al limite della legalità.
Oggigiorno la cultura maggioritaria è quella di chiedere la pena e non la riabilitazione. Le stanze migliori vanno bene, poi però altre lotte come quella del permesso di uscita per lavorare e tutto ciò che permetta una proiezione nella vita al di fuori, del dopo carcere determina dubbi o contrarietà.

Santo Della Volpe*

Questo argomento ci porta all'ultimo che volevo trattare.
L'educazione sembra che vada in secondo ordine rispetto ai valori della società, e allora cosa può fare il giornalista o l'operatore sociale? Si adatta a questo cambiamento di priorità sociali oppure continua a ribadire un concetto che è quello che magari è suo personale, o che fa parte del bagaglio culturale che ci viene dal passato, perché tutti noi siamo cresciuti all'interno di una stessa società, senza rischiare di divenire un giornalista militante? Oppure osserva la realtà e cerca di far emergere questi dati come dati della società e li pone come se fosse, come dire uno schiaffo in faccia al lettore, per dire questa è la realtà e quindi andiamo a vedere se era migliore l'opzione di prima o l'opzione attuale? Il rischio, il tentativo di essere militante c'è.
Se viviamo in un giornale, in una realtà operativa d'informazione, che deve essere d'informazione larga, d'informazione di massa televisiva o giornalistica, o carta stampata, quale dei due tipi di giornalismo riteniamo che sia più importante oggi? È chiaro che se uno lavora per una rivista, apro una piccola parentesi, dell'associazionismo oppure addirittura di un'associazione che si occupa di carceri, è chiaro che è militante.
C'è una via intermedia?

Giacomo Panizza*

L'operazione che ho tentato a Lamezia Terme, in carcere, era proprio culturale.
Con i giornalisti delle tre testate locali, che sono testate regionali oltretutto, La Gazzetta del Sud, Il Quotidiano e Il domani che scrivono per tutta la Calabria, io avevo pensato di poter fare questa operazione: entrare a fare delle attività in carcere sapendo che poi avrei portato a una discussione anche l'esterno.
Che è accaduto? È accaduto che abbiamo fatto gli incontri, il carcere è migliorato come vivibilità interna, però non ho avuto dai giornalisti l'intesa, non ci siamo capiti. Hanno pubblicato la mia velina pari, pari, non si sono spinti poi nel discorso tematico culturale.
Perché vado a far sei mesi di volontariato in carcere, per fare il prete che fa la buona azione? I giornalisti non sono nemmeno entrati.

Santo Della Volpe*

Qui si tocca la questione: quando il giornalista vede soltanto l'aspetto della rinfrescata delle celle e allora si sta meglio, si vive meglio, il riscaldamento c'è, magari c'è anche la televisione. Intorno al carcere c'è un'economia, perché c'è chi fa il pane per il carcere, ci sono le guardie che ci vivono, ecc.
Il giornalista che non avverte questo rapporto educativo di interazione fra la società e il carcere, significa che, a mio modo di vedere, non ha un'educazione tale dal punto di vista giornalistico per affrontare appunto discorsi come "educare non punire". Perché questo? Perché il giornalista non è preparato? Perché c'è una pressione dal punto di vista editoriale alle spalle? Perché non se ne vuole parlare? Perché non si vuole che questo sia il tema, perché oggi in questo tipo di società conta più punire, quindi anche il giornalista deve fare un certo tipo di discorso? Qual è la coscienza individuale che ti porta ad opporti? Sei pronto a fare questo? Sei preparato per sostenere uno scontro anche col caporedattore?

Giacomo Panizza*

Quello che si sa e quello che si può scrivere non sono la stessa cosa. C'è una paura e una temerarietà dei mondi sconosciuti, dei mondi nascosti. C'è chi si butta dentro poi non scrive più niente. I giornalisti vedono però poi non scrivono niente. A me è capitato alcuni anni fa con Il Manifesto quando mi hanno intervistato su una cosa e poi alcune persone direttamente coinvolte ci hanno pagato personalmente.

Santo Della Volpe*

Questo è il problema finale.

Intervento

Mi chiedevo quale fosse a proposito della - io dico - assenza o non presenza dello Stato in quella realtà, mi chiedevo quali reali alternative hanno le persone, i ragazzi che crescono e vivono in quella città, che vivono a Lamezia e che magari non sono figli di boss, non hanno nulla a che fare storicamente con i clan di Lamezia, quale realtà culturale e sociale hanno di fronte. Il dato sulla disoccupazione è anche un dato che parla dell'assenza di strutture, quindi anche l'assenza di interventi culturali dello Stato e che secondo me dice molto anche rispetto poi al futuro di questa gente.

Intervento

Io invece avrei una domanda sul ruolo del giornalista. Noi abbiamo detto che il giornalista incontra una cultura dominante secondo la quale la detenzione è uno strumento più punitivo che educativo e che qui ha due scelte: essere militante o osservante. Io credo che il ruolo del giornalista a volte vada oltre. Il giornalista crea cultura e a volte alimenta una cultura dominante e questa è una grande responsabilità.
A me è venuto in mente il caso di Erika e Omar, sicuramente ve lo ricordate. Io vi chiedo di pensare a come la stampa ha risposto a questo caso, che poi era un caso eclatante. Pochissimo tempo dopo questo caso il ministro Castelli ha fatto una proposta di legge di riforma della giustizia minorile che andava proprio in questa direzione, cioè il principio punitivo veniva anteposto a quello educativo. Che ruolo ha avuto la stampa in questo? Non è stata scavalcata anche un'ondata di panico mediatico?

Nanni Besostri*

Ora sappiamo tutti benissimo che le carceri non sono affatto rieducative, ma anzi, facciamo solo l'esempio banale di chi ha dei problemi di droga nel carcere li aumenta, quindi già questo è un dato abbastanza triste. Rispetto al problema del giornalista io ritengo che noi dovremmo trovarci là sul posto, neanche tanto come l'inviato Della Volpe che fa il reportage e va via, pur rischiando di proprio. Un conto però è andare per due giorni a Lamezia e dover scrivere di quella realtà, un conto è conoscerla veramente. Non si ha neanche il tempo probabilmente di assimilare la paura.
Però se io vivessi là, non sono affatto convinto di quello che scriverei, probabilmente sceglierei di dire al mio capo redattore: scusami dammi un altro servizio, perché io di scrivere baggianate, o di scrivere cinque pagine su uno che ha spacciato 5 grammi di coca, non me ne frega niente, ma voglio parlare un po' più seriamente.

Giacomo Panizza*

Non spiazzatemi. Tullia parlava di assenza dello Stato. E' difficile dire che non c'è lo stato a Lamezia Terme. Il problema è una certa modalità di esserci. Ecco questo lo si tocca con mano, cioè l'esistenza di uno Stato non è automatico come presenza, come presenza costruttiva, attiva, ecc. Il problema è la modalità della presenza, la qualità della presenza e anche il controllo del territorio che non ce l'ha lo stato. Il problema è questo.
Quali alternative per i non figli del boss? Non ci sono alternative attive perché devi fare a meno di un circuito di denaro, di un circuito di protezione. È tremendo, ma io rimango come un cretino quando un papà o una mamma che collaborano con me mi dice: "Don Giacomo magari se studia ingegneria poi c'è un lavoro su dalle tue parti a Brescia?" Perché è il non rimanere in Calabria l'importante. I calabresi nel mondo stanno facendo un sacco di cose belle, lì invece non le fanno perché è quasi impossibile.
Una volta sono stati uccisi due ragazzi e si sapeva che erano stati gli stessi cugini.
Abbiamo fatto in quell'occasione una marcia contro la mafia e una delle due mogli, era presente ma nessun giornalista l'ha scritto, Io l'ho detto poi in chiesa. Quella mamma senza dire niente portando la figlia ha voluto mettersi dall'altra parte.

Santo Della Volpe*

Ma allora come si deve articolare secondo la tua esperienza la presenza dello Stato? Tu parli di modalità diverse, quali dovrebbero essere? Quali potrebbero essere le modalità diverse di presenza che non sia la macchina della polizia o la guardia carceraria.

Giacomo Panizza*

Lo Stato è presente con 100 mila scuole. Lamezia Terme dà scuola a tutto il circondario, quelli dei paesi vengono tutti giù. In molte di quelle scuole la didattica ad esempio è debolissima. In molte di quelle scuole gli insegnanti hanno paura degli allievi, ecco perché poi le mamme vengono a dirti mio figlio non vuol più andare.

Santo Della Volpe*

La famiglia interagisce con la scuola per cercare di cambiar strada al ragazzino, oppure impone la figura del bulletto dentro la scuola? O invece è contro l'insegnante che vuole correggere un certo atteggiamento?

Giacomo Panizza*

Secondo me certamente dovrebbe chiedere maggiore professionalità ad esempio al corpo insegnante stando nella scuola.

Santo Della Volpe*

Scusate ma vorrei rispondere alla domanda su Erika e Omar: Si è andati in quel caso sul problema dell'educazione, si è gradatamente virato per andare sul problema punitivo. Il giornalista ha fatto cultura in questo senso. Se ha fatto cultura in questo senso è perché rappresentava come cultura personale il singolo giornalista, il telegiornale, o il giornale nazionale che ha fatto il servizio, rappresentava la cultura che lo circondava, che dominava in quel momento.
Se il giornalista va a Lamezia Terme a viverci, come ha fatto Giacomo che è sceso per viverci, che fa? O è scortato tutta la vita e scrive o se ne và. Però come fa un giornalista a scrivere da scortato? Oppure rischia la pelle come è successo appunto a tanti. L'informazione che ruolo ha in tutto questo? L'informazione tende a vedere il bianco e il nero, i buoni e i cattivi?

Giacomo Panizza*

Abbiamo fatto un'operazione sui giornali della Calabria nei primi sei mesi del 2004, adesso non so se pubblicarlo o no.
Abbiamo chiamato dei giornalisti e abbiamo visto che la giornalista di Rai3 diciamo ha fatto una specie di autocritica: ha detto noi della Rai sappiamo già dove andare a portare il microfono, sappiamo già a chi far occupare i tempi del telegiornale della sera.
Allora che succede? Il servizio della Rai ci sembrava più impacchettato, più ingessato, mentre gli altri giornalisti erano più disponibili ad accettare i discorsi di lavoro sui fianchi.

Serena Termini*

Sono il direttore responsabile di un settimanale, di un piccolo settimanale siciliano. Parlo come rappresentante della Sicilia dove magistrati e anche giornalisti sono morti nell'esercizio del proprio lavoro, ricordiamo Falcone e Borsellino, ma anche i giornalisti Mario Francese, Ferdinando Fava, che tutti conosciamo benissimo.
Vorrei chiedere a don Giacomo di approfondire proprio un aspetto in particolare, cioè quali possono essere le strade percorribili per trovare un punto d'incontro tra magistrati, assistenti sociali e in questo caso un sacerdote impegnato nell'effettivo recupero dei giovani, in maniera tale che si possa anche favorire il mestiere nostro di giornalisti. E' una domanda difficile, però è giusto che si trovino alcuni punti d'incontro che possono anche far arricchire il nostro lavoro verso gli altri.

Intervento*

Ho un conflitto d'interessi anch'io perché faccio il giornalista, o almeno sto imparando, però vengo dalla provincia di Napoli e quindi diciamo sono uno di quei ragazzi che ha lasciato la propria città per imparare a fare il giornalista. Però ci torno, ci torno spesso e insomma ho trovato tante cose che ho vissuto sulla mia pelle in questo racconto, per cui mi sento molto toccato. Volevo raccontare due cose al volo e poi provare a capire come comportarmi come giornalista insieme a voi.
Sui beni confiscati è capitato a un collega di Avvenire di venire a Casal di Principe con la direzione investigativa antimafia, ovviamente fingeva di essere anche lui un poliziotto; è andato a prendere le chiavi per entrare in questo bene a casa della moglie del boss, perché le chiavi al comune non gliele davano. Quando è entrato nel bene il vigile urbano e il responsabile tecnico del comune sono rimasti in macchina. Questa è l'aria che si respirava a marzo scorso a Casal di Principe nel decennale della morte di don Beppe Diana.
C'è tanta paura anche a fare i giornalisti se lo vuoi fare bene. Ho tanti amici che lo fanno, provano a farlo bene, altri invece che si sono adeguati e penso che sia umano e che bisogna provare a far funzionare quella rete che spesso è sgangherata, questa zona rosa che esiste, una sacca di resistenza che va avanti.
Io conosco gente che fa giornalismo lì da anni, fa inchiesta, una volta ci dà dentro in maniera più incisiva, alle volte si trattiene però se si crea quella rete tra la società civile, i preti, l'informazione...non credo che si tratti però di un giornalismo militante, perché se uno fa ascolto attivo trae delle conclusioni in coscienza, dopo di che tratte queste conclusioni agisce, cioè fa giornalismo.

Intervento

Io lavoro in un giornale ambientalista e non temo di essere filo-militante, però non è una militanza preconcetta, viene sempre dopo questo lavoro, appunto, di ascolto attivo, di analisi con tutti i limiti e i mezzi che mi sono messi a disposizione. Per cui io penso che si può fare buon giornalismo anche in questo modo.

Nicola Moncaldi*

La piccola esperienza a Napoli, città da cui provengo, è una testata il cui editore di riferimento è un comitato integrato composto da istituzioni, comune, Asl, scuola, tribunale e organizzazioni del terzo settore.
E' un'esperienza interessante anche se in qualche modo circoscritta in un contesto ristretto di addetti ai lavori: è una rivista specializzata che si occupa di politiche sociali; è un tentativo così embrionale di creare questa rete di risorse che cercano prospettive diverse. Rispetto al dibattito di stamattina io ho provato un grosso disagio per tre quarti della discussione, prima che fosse tirata fuori la tematica della zona rosa, o grigia, perché prima di allora mi sono registrato una serie di parole tipo "buoni e cattivi", "presenza dello stato e assenza dello stato", "situazione avanzata e situazione arretrata", che insomma mi stavano molto stretti, che mi restituivano una lettura bipolare, una lettura semplicistica della realtà e se penso che c'è un'azione di militanza che il giornalista deve avere è proprio quella di una militanza contro lo stereotipo, contro la semplificazione della realtà. Quando il giornalista è militante perché si schiera da una delle due parti è sconfitto in partenza secondo me. Allora ci sono delle ragioni del pensiero perché penso siano l'armamentario fondamentale di un giornalista che in contesti come quelli che ci ha descritto il nostro relatore oggi, dovrebbe portare innanzi tutto ad interrogarsi se veramente c'è solo assenza di qualcosa in quel contesto, o ci sia anche, per fortuna, credo, presenza di molto altro. E se quella che io leggo come assenza, come ieri ci suggeriva molto acutamente la Sclavi, dipenda da un mio sistema di vedere le cose, da una mia cornice che non mi permette di leggere altro.
A questo punto faccio una provocazione a Panizza.
Io conosco un po' le cose che fa in Calabria e mi chiedo perché non ci ha parlato di quello che si sta facendo all'università di Cosenza con il prof. Piero Fantozzi.
Mi sembra un'esperienza bellissima in cui una parte d'istituzione, l'università appunto, solidarizza in maniera molto efficace con l'associazionismo locale e si prende la briga di formare nuovi quadri che opererinno nell'ambito del servizio sociale proprio per approcciare in maniera totalmente differente la questione della presunta illegalità e abbandono del territorio da parte dello stato.
Mi rendo conto che può essere un po' forte, un po' provocatorio rispetto a mondi che noi oggi siamo abituati solo a stigmatizzare, ma la prospettiva multiculturale di riconoscimento, la prospettiva che aiuta il giornalista a fare meglio il suo mestiere, aiuta anche gli operatori sociali, quelli che stanno in queste zone di frontiera, ad ottenere dei bellissimi successi.

Intervento

Io sono volontaria in una fondazione a Verona sorta in un quartiere di periferia intorno a una parrocchia e per esperienze di volontariato ci siamo avvicinati al mondo del sud, in particolare ai maestri di strada di Napoli come Cesare Moreno. Abbiamo fatto due convegni insieme, uno due anni fa che si chiamava "Passione e intelligenza". Noi siamo mossi dalla passione, poi l'intelligenza è la competenza di istituzioni, professionalità, ecc., Quest'anno abbiamo fatto "Legge del villaggio e città", legge del villaggio significa, in pratica, rete.
Ecco la notizia forte quando leggo il giornale non è la notizia del boss ammazzato, dei beni confiscati, non mi fa più nessun effetto. Mi fa più effetto l'attenzione sui problemi che sono a monte e quindi in particolare per quello che riguarda i giovani di cui io mi occupo, la scarsa attenzione e investimento dello stato, ma anche attenzione dei media, sulla scuola ad esempio.
La cultura non è protettiva, alla cultura scolastica mancano i fondi e viene penalizzata.
Ecco quindi io mi riallaccio brevemente al discorso di prima perché questa cittadinanza attiva, associazioni, volontariato, maestri di strada, persone che sul campo hanno elaborato un metodo di penetrazione in certi ambienti non solo ma anche di utilizzo delle risorse esistenti sia nelle famiglie di questi ragazzi, sia nel quartiere, sia nella città stessa, tutte queste persone e situazioni dovrebbero creare notizie, cultura, creare imitazione, creare modelli.

Santo Della Volpe*

A questo proposito scusate stavo pensando e volevo chiedere a don Giacomo cosa intende quando dice che noi giornalisti non raccontiamo.
Noi non le raccontiamo, ma forse anche perché non ci viene né chiesto, né quando chiediamo di raccontarle ce le fanno raccontare.
A questo proposito mi chiedo da lettore, da ascoltatore di un Tg Rai regionale o nazionale, li voglio ascoltare, perché poi mi chiedo chi abita a Lamezia Terme li legge i giornali? Guarda la televisione? E' interessato a sapere quello che c'è dietro? Cioè dobbiamo relazionarci anche con quello che è il nostro ambiente circostante. C'è dietro anche tutto un discorso di cultura di chi legge, di chi guarda la televisione, di chi ascolta la radio, di chi usa internet, per nominare i 4 media.

Giacomo Panizza*

Siamo tutti d'accordo con quello che hai detto, che va benissimo. Invece Nicola dov'è finito? Ah, sapevo che mi spiavi; quell'operazione ti dirò che l'ho inventata io. Ho fatto una testa così a quelli dell'università dicendo: ma è possibile che a Cosenza si stanno utilizzando testi che vengono scritti altrove o tradotti addirittura dall'estero su questi temi? Su questo ci siamo sfidati vicendevolmente. Il punto qual è? Il punto è che le operazioni strategiche possono accendersi solo quando si crea un contesto e non quando le vuoi o quando le intuisci. Io mi sono permesso di premere su quel contesto.
Tutto è nato dalla voglia di sfidare attraverso un'operazione strategica e non popolare. Io credo che bisogna davvero lavorare sui fianchi e fare delle azioni buone nel contesto ponendo anche delle domande che circolino così da trovare delle soluzioni.
Accantoniamo l'idea degli eroi e cerchiamo di individuare dei meccanismi anche, per così dire mixati come nel caso della collaborazione con le parrocchie.
A noi per esempio è capitato di togliere degli alberi di ulivo da un terreno di una delle nostre Comunità che rientra nel Progetto Sud e che si trova davanti alle case di alcuni boss mafiosi. Nello stesso terreno abbiamo costruito un Parco giochi e adesso vi passano il tempo i bambini di una e dell'altra parte. E' stata questa una vera e propria operazione culturale.
Però ai giornalisti devo spiegare quello che c'è dietro e li devo supplicare di non scrivere che quello è un parco giochi antimafia: è un parco giochi. Io so che per disgregare la generazione dei papà da quella dei piccoli, si attua una vera e propria operazione antimafia.

Santo Della Volpe*

Io vorrei riprendere due questioni. Una è quella delle parole chiave.
Nell'esempio del parco giochi, se io dico al giornalista questo è un parco giochi, non un parco giochi antimafia, gli spiego questa realtà se così vogliamo dire zona rosa o grigia, allora faccio in modo che il giornalista vada dal caporedattore e gli presenti una notizia. E perché c'è notizia? Perché hanno fatto il parco giochi su un terreno confiscato. L'hanno chiamato Falcone-Borsellino? No, parco giochi. E quello dice: va bene facciamo un pezzo.
Il giornalista della televisione non è quello delle mie amatissime letture del commissario Montalbano Quello è uno stereotipo che va pure bene nei romanzi gialli ma nella realtà non è così.
C'è un mercato che viene lasciato libero di agire illecitamente nonostante ci sia la reazione da parte della popolazione e fare la cronaca di questi fatti non è facile per il giornalista.
Se hai un rapporto di fiducia con il tuo capo puoi anche andare allo scontro se lui ti cancella alcune righe e ti dice rifallo sempre nel caso in cui tu giornalista non sia un precario dunque senza garanzie. Ci deve essere una forza redazionale, sindacale, che tu giornalista costruisci.
Bisogna avere anche un po' d'iniziativa su questo no? E magari andare dal capo redattore addirittura dirgli in faccia che si vuole far uscire quel pezzo sennò si sciopera.

Intervento

Vorrei fare un appello per il ritorno al giornalismo militante. Sono un giornalista militante per una testata di un'organizzazione sindacale e faccio il giornalista osservante per un importante settore dell'Espresso.
Per anni ho vissuto una schizofrenia pazzesca.
Non posso parlare di queste realtà così complesse, però credo che lo scontro tra redattore, precario o meno, collaboratore o via dicendo, spesso non passa anche perché il capo redattore non lo fa passare.
Credo che chi ha una cultura di giornalismo militante può dare un valore aggiunto, non c'è contraddizione con il giornalismo osservante, è un valore aggiunto per poi contaminare il giornalismo osservante e generalista.
Non sono contrario alle scuole di giornalismo, assolutamente hanno dato una regolamentazione importante, però è importante che poi gli si dia una passione da militante che alle università o nei laboratori non si studia, non viene fuori.

Intervento

Il mio direttore editoriale con cui lavoro da 5 anni come direttore responsabile è un sacerdote di frontiera a Palermo. E' uno di quelli che bruciavano le pistole giocattolo.
Ci sono piccole realtà che lottano continuamente in maniera anticonformista creando questa sintonia.
Il direttore generale è un sacerdote, io sono direttore responsabile e sono laica, quindi esiste la possibilità di trovare delle strade, però lottando continuamente, essendo anche anticonformisti.

Intervento

Spero che si possa arrivare anche per il Giornale di Sicilia a fare questo discorso, però lì c'è anche un problema di potere.
Il povero Siani era precario del Mattino ed è morto da precario facendo però un giornalismo che era del più alto livello professionale di questa terra, a livello di quella buonanima di Giovanni Marrazzo: andare a verificare le cose e parlarne. Quello è un esempio per tutti noi, per me continua ad essere un esempio anche per smontare l'idea dell'eroismo.
Noi siamo oggi nella fase in cui dobbiamo seminare, altrimenti non saremmo qui.

Giacomo Panizza*

Un altro aspetto importante è quello delle collaborazioni tra giornalisti, comuni, Asl, tribunali. Per la storia delle parole chiave volevo dirvi: quella casa confiscata l'ho chiamata "Pensieri e Parole".
Mi è capitato un mese fa circa di portare in giro per la Calabria un gruppo di fotografi di Contrasto per fare del foto-giornalismo. Mi è piaciuto un mondo stare insieme. Quelli fotografavano, mi dicevano "portaci dove vuoi".
Io credo che lavorare non soltanto per rendicontare, ma anche per prefigurare che uno sia militante o no, sia una delle modalità di scrivere per fare cultura.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.