XII Redattore Sociale 2-4 dicembre 2005

Meraviglia

Workshop: Giovani/Vecchi (Tra gerontocrazia e non autosufficenza, tra giovani invecchiati e anziani giovanilisti, tra realtà e retorica…)

Incontro con Stefano Laffi. Partecipa Giovanni Sandonà. Conduce Marino Niola

Stefano LAFFI

Stefano LAFFI

Ricercatore sociale presso l’agenzia di ricerca sociale Codici (Milano). Ha collaborato con la Rai, Radio Popolare, con le riviste “Lo Straniero” e “Gli asini”. Si occupa di mutamento sociale, culture giovanili, processi di emarginazione, consumi e dipendenze. Ha scritto, tra l’altro, “Il furto. Mercificazione dell’età giovanile” (2000). Ha curato “Le pratiche dell’inchiesta sociale (Edizioni dell’Asino, 2009) e con Maurizio Braucci “Terre in disordine. Racconti e immagini della Campania di oggi” (2009). Con Feltrinelli ha pubblicato “La congiura contro i giovani” (2014) e “Quello che dovete sapere di me” (2016).

 

Giovanni SANDONA'

Giovanni SANDONA'

Sacerdote, è direttore della Caritas di Vicenza.

ultimo aggiornamento 02 dicembre 2005

Marino NIOLA

Marino NIOLA

Antropologo della contemporaneità, insegna Antropologia dei simboli all'Università di Napoli Suor Orsola Benincasa. Ha approfondito tra l'altro la nascita delle nuove mappe digitali della cittadinanza globale, nonché usi, costumi e consumi dell'umanità interinale. Il suo ultimo libro è “Miti d’oggi” (Bompiani, 2012). Editorialista de La Repubblica, ha  una rubrica settimanale sul Venerdì intitolata Miti d'oggi. Scrive per L'Espresso, il Nouvel Observateur e Il Caffè di Locarno.

ultimo aggiornamento 30 novembre 2012

Marino Niola*

Il tema che questo workshop vorrebbe esplorare è quello del paradosso di una società che è al tempo stesso giovanilista e gerontocratica. Giovanilista negli stili, nei valori, spesso nell'auto-rappresentazione e di fatto gerontocratica, per la questione proprio degli accessi e delle chanches , della distribuzione delle chanches . Basti pensare oggi in Italia, in un paese come il nostro, ma il dato non riguarda solo l'Italia, all'età del personale politico italiano, l'età media della gerarchia ecclesiastica, che evoca effettivamente scenari biblici. La nostra è una società che ha dei valori e si rappresenta in una maniera funzionalista, per cui il mutamento e i fattori di trasformazione sono sempre considerati negativamente e i giovani, quella categoria così poco conosciuta, così indistinta eppure così nominata, sono necessariamente un fattore di mutamento. La nostra però è una società che considera emergenza e anomìa qualunque condizione che invece è strutturale e quindi s'interroga quasi sempre sulle sue parti non riuscendo a vedere l'insieme, a vedere le interconnessioni, s'interroga sui giovani o sugli anziani, o su un'altra parte, o sulle donne, o sugli stranieri, senza riuscire a pensarsi come società. Penso a quello che è successo in Francia di recente, alla rivolta delle banlieu, nelle ipotesi peggiori si invocava una risposta repressiva, nelle ipotesi migliori una specie di legnosissimo mea culpa per quello che non è stato fatto per i giovani, che a mio avviso, nasconde poi una forma di accanimento pedagogico, che è un cono d'ombra, è una cattiva coscienza che impedisce totalmente di comprendere le reali dimensioni di certi fenomeni.

Un'altra questione, che spero oggi verrà affrontata, è quella della trasmissione della cultura , il mutamento dei flussi di trasmissione della cultura. Una volta la cultura, tradizionalmente, aveva un andamento discendente, dagli adulti ai giovani, dagli anziani ai giovani, lo sappiamo benissimo che oggi non è più così; oggi la trasmissione della cultura non è discendente, spesso è ascendente addirittura, negli stili, nei valori, nei comportamenti e qui per certi versi si tocca quel tema del giovanilismo di cui parlavo. Inoltre la nostra cultura è spesso multicentrica e anche in questo caso spesso tutti i mutamenti legati a questa trasformazione e orientamento dei flussi, vengono ridotti ad anomìa senza esplorare le potenzialità positive che tutto questo ha, proprio perché del nuovo si vede sempre ciò che non c'è più del vecchio; si potrebbe dire che questa è una società che si pensa luttuosamente, pensa sempre il presente come scomparsa del passato. Mi piacerebbe che questo workshop, almeno in parte, contribuisse invece a funzionare al contrario, a lavorare sulla decostruzione, invece che sulla reificazione della metafora. Chiamerei in causa subito Stefano Laffi, sociologo, economista, anzi prima economista e poi sociologo, come lui stesso mi raccontava, uno specialista dell'analisi del mutamento sociale, di cui ha studiato sia i processi, sia le risposte.

Stefano Laffi*

Ho pensato nel proporre le riflessioni che adesso vi presento , di congelare una parte di mestiere, che è quello di ricercatore, abituato a trattare dati, numeri, a commentare e ragionare. Ho spesso a che fare con giornalisti, perché da ricercatore provo a raccontare quello che scopro e capisco che il tempo di lavoro che mi è consentito per mestiere è più lungo, rispetto all'intervento più rapido per la necessità di lavoro che compete invece i giornalisti. Penso di poter aiutare il sistema dell'informazione dando per esempio alcuni suggerimenti che sono legati proprio all'analisi dei fenomeni, più che sparare numeri, che è uno dei rischi del dialogo tra scienza e informazione. Provo a dirvi quello che ho capito in questi anni; faccio ricerca circa da 15 anni, ormai rinuncio a qualunque definizione, classificazione e cerco di evitare qualunque frase come: i giovani sono…gli anziani sono… è proprio un meccanismo, un dispositivo che mi impongo perché non vanno mai a parare da nessuna parte; tutti i sistemi di classificazione, definizione non sono assolutamente produttivi dal punto di vista dell'analisi. Noto che c'è moltissima retorica sugli uni e sugli altri, cioè i giovani vengono definiti omologati o mammoni, ma non è vero né l'uno né l'altro in senso pieno, mentre gli anziani o sono da commiserare oppure sono una risorsa. Tutta retorica che non serve veramente a nulla.

Altra questione un pochino delicata è quella delle soglie di età . Insomma alla fine dobbiamo intenderci e quindi è inevitabile che la comunità scientifica, che il senso comune cerchi di definire di chi si parla. L'istituto di Ricerca Iard, che è il principale Istituto di Ricerca sulla fascia giovanile, ha spostato a 34 anni la soglia di gioventù, invece definisce anziani chi ha più di 65 anni. Ora questa cosa serve per intenderci, però mi sembra che non sia lì la questione, non sia questo particolarmente produttivo dal punto di vista dell'analisi. Vale a dire, l'età non è un click, non è che a 18 anni succede qualcosa, a 34 un'altra, a 65 un'altra cosa se non fosse per la pensione; allora piuttosto che ragionare per età, ragiono per passaggi e qui vengo veramente incontro alle discipline che Marino Niola conosce bene. Il modo per intendere la condizione anziana per esempio è quello di ragionare non tanto su chi ha superato una certa soglia, ma rispetto ai passaggi delle principali carriere. Le carriere sono quelle lavorative, quindi per esempio dal lavoro al non lavoro, quelle di salute, da sano a malato, da sufficiente a non autosufficiente, sono quelle familiari, da persona che ha una compagna o compagno vicino, a persona che è sola, sono quelle legate se vogliamo anche alla situazione giudiziaria. La nostra vita è fatta di carriere, rispetto alle quali avvengono dei passaggi ed è rispetto a questi passaggi che si creano situazioni critiche, rispetto alle quali forse ha senso illuminare l'attenzione anche dell'informazione.
Studiando i processi di povertà mi sono reso conto che il problema non era tanto il superamento di un'età e a volte non era neanche il solo passaggio avvenuto in una sola carriera, da lavoratore a pensionato, da sano a malato, ma era piuttosto insito nelle situazioni critiche che si generavano. Credo che un modo per leggere con più attenzione, è controllare le diverse carriere dette morali e vedere quando una crisi che interviene ha conseguenze o è simultanea alla crisi che interviene anche nell'altra. Insomma un ricco se da sano diventa malato non è che perde la casa, perde il lavoro e così via, riesce all'interno di quella carriera a gestire o a superare il passaggio. Un povero invece se per esempio da sano diventa malato, rischia di perdere il lavoro, se rischi di perdere il lavoro, rischi di perdere la casa e così via. La differenza quindi è questa, laddove c'è una crisi di una carriera che tracima anche in un'altra e fa si che il meccanismo non torni più indietro. E' più quello che m'interessa dal punto di vista dell'analisi per esempio della condizione anziana. Sui giovani il ragionamento vale e non vale, ve lo dico subito. Sui giovani si potrebbe fare per analogia esattamente lo stesso tipo di riflessione. Uno potrebbe stare addosso ai diversi passaggi per andare a catturare quella situazione di sviluppo e di crescita per cui si vedono i giovani maturare o non maturare. Questa cosa credo che oggi sia sbagliata, nel senso che quello che è avvenuto è che sono saltati i calendari e le sequenze, cioè le biografie si individualizzano, vale a dire che non c'è più una traccia scontata e non c'è più un timer che si può puntare rispetto ai passaggi di vita, non è più possibile, ma non ha neanche più senso attendere al varco un trentenne dicendo: quand'è che ti sposi! Quand'è che metti al mondo un figlio! Quand'è che compri una casa! Le biografie si individualizzano vuol dire sostanzialmente anche che fra giovani e anziani la cesura sta crescendo molto e soprattutto vale quello che diceva Marino prima, ossia che non possiamo prendere le biografie degli adulti e degli anziani, rimpicciolirle o farle ritornare indietro e dire com'è che i giovani non crescono, perché non ha più senso, non c'entrano niente quelle biografie vissute un tempo con quelle di oggi e quindi non è che semplicemente i giovani ritardano, o sono incapaci di compiere un percorso che sembrerebbe il solco già segnato, si tratta piuttosto di capire come queste biografie si stanno ritrasformando, che cosa sta succedendo lì dentro, per capire cosa vuol dire oggi veramente avere una certa età, indipendentemente dal fatto che si segua un calendario. Fra l'altro a 40, 50 o 60 anni non si ha un ricordo autentico di come si era, c'è un processo di ri-trasformazione, che sappiamo benissimo tale per cui anche quel meccanismo che siamo tentati di fare, di imputare cioè ai più giovani dei comportamenti che si ritiene di aver avuto esattamente a quell'età, è un'operazione delicata, poco produttiva da un lato e forse neanche così autentica nei contenuti.

Ragionerei adesso invece sui dispositivi e sulle dinamiche che Marino segnalava prima a proposito del rapporto fra generazioni e quello che sta succedendo rispetto a giovani e anziani. Prima cosa che è stata ormai anche raccontata in letteratura tematizzata, è l'inversione del ciclo, o l'epoca delle passioni tristi. Forse davvero ci stiamo confrontando con qualcosa che è avvenuto di recente, cioè il fatto che noi siamo cresciuti con un orizzonte mentale nel quale il futuro era sempre promessa di un miglioramento; adesso invece è difficile credere che il nostro orizzonte di riferimento, l'orizzonte mentale, cioè il futuro che ci si disegna di fronte, sia migliore del presente e che ci sia una scommessa vincente di incremento del benessere, incremento delle condizioni di vita, risoluzione dei problemi del pianeta e così via. Il ciclo di sviluppo sul quale credo si giocava anche un certo rapporto fra le generazioni s'interrompe e s'interrompe nel senso che diventa molto più problematico scommettere sul futuro come promessa di benessere, di miglioramento. Se la società si ferma, si blocca, s'ingessa la situazione.

Altra cosa che sta avvenendo ed è avvenuta, è il ricatto del presente . L'ossessione dell'ancoraggio un pochino nel qui ed ora. Il meccanismo con cui si forma questo ricatto del presente a questo punto credo che sia abbastanza evidente. La sensazione di esser sempre sull'orlo della catastrofe ecologica, del disastro, di una guerra che incombe, crea l'impossibilità di pensare serenamente a quello che viene dopo. Inoltre secondo me c'è un'ideologia utilitaristica che è entrata pesantemente nella vita di noi tutti, per cui ci si chiede sempre: a cosa ti serve? La nostra è una società che da un lato ti chiede d'investire tempo nella formazione, nello studio, dall'altro ti dice che devi continuamente inseguire i nuovi segnali del presente. Poi dietro c'è la retorica del benessere, che è una delle nuove parole chiavi sul quale sostanzialmente dovremo esser sempre attenti.

La grandezza del cinema di Stanlio & Ollio è stato quello di dirci che il '900 è stato il secolo degli oggetti , degli oggetti che ci venivano addosso, che ci travolgevano e ci rendevano estremamente impacciati. Il '900 è stato il secolo in cui il nostro modo di vivere quotidiano è stato invaso da oggetti. Gli oggetti sono poi diventati, intorno all'età della plastica e dell'elettronica dopo, macchine che controllano la situazione. Io vi parlo attraverso un microfono, voi siete seduti su delle sedie di plastica, questa roba qui non è legno, è un'altra roba. Non sappiamo nulla di quello che ci circonda, è cambiata letteralmente la cultura materiale. Noi non facciamo caso a tutto ciò, ma è micidiale da un punto di vista di quello che comporta come dispositivo nel mio rapporto col mondo e nel rapporto fra le persone. Questo cambiamento della cultura materiale io ho provato un pochino a smontarlo con la de-costruzione. Ho provato a ragionare, avendo anche un bambino piccolo di 2 anni, su cosa vuol dire crescere sotto una pedagogia del tasto "play", perché tutto è play, è play anche questo pezzo di legno, tutto nasce evidentemente da qualcosa che noi non controlliamo. Questo è stato un mito della tecnica, quello di renderci via via indipendenti, autonomi grazie a soluzioni tecnologiche crescenti, e contemporaneamente sempre in realtà più fragili, perché se questo si rompe nessuno sa ripararlo, nessuno sa far nulla di queste cose qui, qualcuno si, ma è difficile che sia qui presente…

Il tasto play accorcia le catene causali, abolisce la storia e fa del presente il tribunale in cui si è giudicati . Se schiaccio voglio soddisfazione ora. Se le cose devono funzionare io devo solo schiacciare il tasto play; non importa il come e il perché, l'approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che precede, ma solo su ciò che segue da qui a poco. L'origine e la produzione diventano temi desueti, la storia è una materia poco interessante. Il play cancella la storia dal nostro orizzonte di vita quotidiana. La parte di spiegazione è inutile. Insomma si può provare a schiacciare, ma è difficile che una merce attivi un dialogo tra le generazioni. Rimozione della natura. Si cerca il cane che faccia da giocattolo, la pianta a zero manutenzione. Io vivo a Milano, una città che ha letteralmente tolto di mezzo la natura, come se questo consentisse di vivere normalmente fra le persone, come se questo non avesse un impatto nella vita quotidiana, nel rapporto che io ho con gli altri. A Milano gli uffici hanno dei cataloghi dove ci sono le piante con un diverso grado di manutenzione, a zero, a mezza o a manutenzione intera. Ci sono le piante normali, artificiali, semiartificiali. Quindi tu puoi scegliere se occuparti o quando occuparti di una pianta. Il parco artificiale è un'altra delle fantasie del tasto play applicata alla natura. Il problema è però che la natura non ha pulsanti, impone un'attesa, anzi un ciclo di vita, che è distante anni luce da una logica dei comandi.

L'alterazione del rapporto col tempo è un altro dispositivo molto delicato , che sta intervenendo e che crea un problema nel rapporto tra le generazioni e che può essere un problema nella vita dei più giovani. Se il mondo prima di tutto funziona a mio comando, ogni volta che schiaccio, allora muta il mio rapporto col tempo, nasce una nuova nevrosi. Quel mondo deve dare spettacolo e subito, non ammette vuoti, il tempo non scorre, ma scade, perché il timer è brevissimo tra il momento in cui schiacci e il momento in cui voglio che la cosa funzioni. Insomma se io comando e telecomando la recita del mondo non esiste più nemmeno l'idea di fine o di morte. La parola fine-morte è sparita, a scuola non la pronuncia più nessuno, è una parola che in un mondo di merci seriali non può esistere, perché le merci seriali sono fatte per negare l'idea che esista una fine. Le merci si rompono tutte, anzi sono fatte per essere rotte, ma la nostra fantasia è che ce n'è sempre un'altra. Non è così per le persone, non è così per le piante, per gli animali. C'è stato un ribaltamento del sistema dei saperi ossia non conta saper far le cose, ma saperle usare, le abilità sono quelle del consumo. Il sapere dei genitori serve poco o nulla nella tecnologia della vita quotidiana. La loro autorità si sgretola in un mondo di merci che li declassa o a utilizzatori inesperti o a utilizzatori isolati.
Il problema è di quegli adulti che hanno materializzato la vita dei figli circondandoli di merci che per prima cosa dicono degli adulti stessi: tu non appartieni a questo mondo. L'alienazione della scienza, l'estraneità al mondo che deriva dal circondarsi di oggetti assolutamente misteriosi ed estranei nei meccanismi ai nostri saperi non scandalizza nessuno. La trasformazione operata dal mercato di un'intera popolazione resa estranea al suo mondo materiale è passata come nulla fosse. L'aver circondato i figli proprio di questi oggetti è stata la sua legittimazione più grave operata credo dagli adulti. Sapete che nessuno si iscrive più alle facoltà scientifiche? Sono deserte. La scienza non interessa più a nessuno, perché non si ha più bisogno di capire, scoprire, basta saper usare gli oggetti oggi. Ora nell'aver in qualche modo, a poco a poco, alienato dalla scienza l'orizzonte di un sapere desiderato, o utile davvero, o importante, si gioca forse anche un rapporto fra le persone. Il silenzio come normalità. Le merci non parlano. Il tasto play è fatto perché il consumo sia solitario e ognuno comanda il suo, qualunque scritta ulteriore o spiegazione infastidisce. Lo stesso foglio d'istruzioni rischia di essere una mediazione insopportabile. Si evidenzia una estraneità dell'attesa ossia le merci sono fatte per farci felici subito, aboliscono l'attesa, perché chi comprerebbe il vuoto? Rimozione del deficit: la tecnologia nasconde e deforma la realtà nel bene e nel male, perché abitua al superamento magico delle difficoltà, inibisce la formazione a una propria debolezza. Altra cosa che è passata ed è diventata secondo me uno dei problemi nei processi di formazione degli adulti, è la capacità di ammettersi deboli, che è diventata una delle cose più difficili da dire e meno presenti in questa cultura.

Marino Niola*

Questa metafora del tasto play è il pensiero magico che ritorna e proprio dall'interno , irrompe nel cuore della società tecnologica e irrompe come processo di scollamento tra le cause e gli effetti fra noi e le cose e quando le cose diventano autonome siamo in pieno pensiero magico. L'alterazione del rapporto col tempo, che a mio avviso resta oggi un grande problema, è stato già in buona parte il problema del Ventesimo Secolo. Si dice sempre che il problema del Diciannovesimo Secolo era lo spazio, mentre il problema del Ventesimo è stato il tempo, ma noi non ne siamo usciti, anzi viviamo un'accelerazione di questa grande questione, perché oggi in fondo lo spazio non esiste più, esiste il tempo, ma è un tempo che ormai è spazializzato. Tutto questo ovviamente precipita proprio sulla questione che è il tema del nostro workshop sulla questione delle età.
Vorrei aggiungere un altro dato: nelle età spesso restano i numeri e i numeri non significano nulla, le età in sé non sono mai il numero in sé, quello che conta è il senso sociale dell'età, e questo cambia nello spazio da una società all'altra, ma anche nel tempo nella nostra società. Un trentenne di 50 anni fa non ha nulla a che vedere con il trentenne di ora, esattamente come una dodicenne di Ancona non ha nulla a che vedere con una dodicenne che vive nel bassopiano amazzonico, e non ha nulla a che vedere con una dodicenne di una periferia urbana di Palermo o di Napoli, che molto spesso sta per diventare madre di un uomo che andrà in galera nel giro di pochi anni. Questo significa che l'età non vuol dire assolutamente niente e che il timer sul quale si fondavano parte delle nostre sicurezze è saltato totalmente. Anni fa scrivendo un articolo proprio su questo per un settimanale, ho usato la stessa immagine che usava Laffi del timer; una volta le età ci piaceva credere fossero un timer e che quindi segnassero delle scadenze: fino a 21 anni si studia, poi si diventa persone serie, poi via, via così. Questo oggi, lo sappiamo benissimo, non funziona più, però il fatto che non funzioni più dovrebbe indurci invece che a rimpiangere il passato, a farci un'altra domanda: ma funzionava veramente prima? Era così davvero?

Giovanni Sandonà*

Non ci chiediamo più cosa farò da grande, perché è impossibile situarci . E ancor meno ci chiediamo cosa farò da vecchio. Non lo facciamo per due o tre motivi, probabilmente sono già venuti fuori. Primo perché dentro questo fare c'è una complessità di mutamento e una complessità sociale di vita, la cosiddetta tecnocrazia che è venuta fuori, la mercificazione, che non possiamo prevedere. Secondo perché siamo in lutto, nel senso venuto già fuori, cioè l'idea di progresso, di miglioramento non ci sta più. E terzo perché in realtà il nostro "cosa farò" nasconde un chi sarò da grande o da vecchio. Ma non tematizziamo mai la domanda sul chi sarò, perché in realtà il nostro essere è di fatto plasmato da cosa farò e da cosa avrò, perché chi sarò da grande vuol dire che cosa potrò avere e che cosa potrò fare.

Fare è uno dei verbi che coniuga la tecnica . Il nostro fare oggi si è ridotto a tecnica. Una tecnica come detto che ci limita al play, che ci lascia spettatori. Siamo espropriati di un'identità che si è ridotta all'avere e al fare, la mercificazione e la tecnicizzazione ci espropriano gradualmente di un'identità, quindi siamo per forza di cose paralizzati sul presente. Io non voglio ragionar da prete, lo sono da 21 anni, o venir qua a far prediche, però credo che il taglio, almeno quello che mi sento di poter dire, con un minimo di consapevolezza e convinzione, è prevalentemente antropologico. Che cosa farò da grande, che cosa farò da adulto, che cosa farò da vecchio? Sono domande che non si fanno più e giornalisticamente credo siano interessanti.
Io credo che la consapevolezza di un essere che comincia a coniugarsi e a pensarsi riproponendosi un futuro sull'essere e non solo sul fare e sull'avere, dove il futuro resta castrato, vuol dire spostare l'attenzione sulle relazioni e qui probabilmente ci riappropriamo di una capacità di reciprocità fra anziani e vecchi. Diversamente come è stato detto prima nell'inversione del ciclo sul blocco del presente, ecc., non è più possibile interagire, non è più possibile reciprocità. Quindi credo che dobbiamo, a partire dalla domanda "chi sarò" più che "che cosa farò da vecchio o da grande" ritrovare la dimensione della nostra 'creaturalità' che è scandita nel tempo, che è impastata nel tempo, cioè ritrovare un'identità sul primato delle relazioni. Qui sta la nostra identità più vera, se non vogliamo spogliarci di tutto un percorso di senso, di sapere e di identità.

Recuperando il tema di questo convegno, meraviglia , io credo che dovremmo recuperare il senso della meraviglia in una identità sostenibile e riconciliarci col tempo, con l'esperienza del limite inteso anche in senso positivo. Noi siamo onnivori di emozioni, ma non le rielaboriamo, schiacciati in quel presente che si fa tiranno, ma ci fa poi dei ramenghi, dei nomadi. C'è una parola di cui oggi c'è una gran fame, tutti la dicono, ma pochi la praticano: dialogo. Io vedo che nell'ambito della coppia si confonde la comunicazione con la capacità di dialogo. Nell'ambito dei giovani ormai ci sono gli spazi dialogico-virtuali, che però puzzano di quella materializzazione e odorano poco dell'odore dell'altro….

Marino Niola*

C'è questa idea del lutto del progresso che oggi è strettamente legata poi all'insicurezza contemporanea , l'insicurezza e l'incertezza sono questo, i veri toni che danno colore all'orizzonte contemporaneo e quindi non alla semplice insicurezza fisica, ma su questo Zygmunt Bauman credo che abbia detto delle cose magistrali. Per costruire reciprocità occorre limite, non si può essere reciproci se non c'è limite, cioè se non vengono definite delle identità in qualche modo, altrimenti con chi scambio? Dov'è la reciprocità? Su quali basi avviene lo scambio? Non a caso poi oggi il problema dell'identità è uno dei problemi che insorge con più virulenza nel nostro orizzonte, identità che sono quasi sempre inventate; ci affrettiamo continuamente, quasi esorcisticamente ad inventare identità quasi per curare una malattia che non è curabile su quel piano lì naturalmente, anche perché nella maggior parte dei casi le identità che si costruiscono servono ad escludere e non a relazionare.
La sostenibilità stessa ha a che fare con le emozioni, perché fra sostenere, sopportare, patire, c'è tutta una scala che mette in relazione questi concetti. Oggi le emozioni vengono consumate con grandissima rapidità, quindi non c'è una vera esperienza dell'emozione, ma c'è un consumo di emozioni. Pensate a come funziona oggi la televisione generalista, funziona proprio in questo modo qui, vengono consumate senza pensieri, spensieratamente, ma soprattutto senza pensiero, perché oggi c'è una grande, una sorta di opposizione fra l'emozione e il pensiero, come se avere un pensiero diminuisse l'emozione e invece è esattamente il contrario.

Claudio Cippitelli*

Non è il rapporto con gli anziani che mi sembra problematico , quello che scompare è la vera categoria che in qualche modo sta ostacolando come dire la giusta espansione di un pensiero nuovo, di un atteggiamento nuovo rispetto al mondo e che non viene rappresentato e questa categoria di età sostanzialmente sono gli adulti, sono i cinquantenni. Allora non è Biffi, non è Tonini, non è neanche Ruini il problema, il problema sono i Giovanardi, sono i Casini. Con questa fascia di età noi dobbiamo ragionare, perché sono loro che, come dire, stanno reinventando la società e la stanno proponendo, una società giovanilisticamente invecchiata.
Quelli che viaggiano intorno ai 50 anni non si sono abbastanza annichiliti e sono un po' spaventati del mondo che hanno preparato, che hanno apparecchiato per questa generazione che li segue; è una delle generazioni forse più colte, ma anche più arroganti che ha calpestato il suolo italico, è la generazione della grande musica, delle grandi culture, delle grandi aggregazioni giovanili, della grande politica, quindi guardano sempre con diffidenza questi pochi giovani un po' strani che hanno forme di comunicazione e forme politiche molto diverse dalla loro. Il refrain più interessante di questi ultimi 10 anni è quello che ripete che questa è la generazione che per la prima volta non avrà gli stessi strumenti, la stessa ricchezza della generazione che l'ha preceduta. I pensatori che cosa dicono? Dicono che appunto ci deve essere uno sviluppo eco-sostenibile, ci deve essere uno sviluppo che non sia uno sviluppo che guardi dentro sé stesso, allora se sarà così, io penso che la generazione che ci succederà sarà una generazione più ricca, una generazione più colta, una generazione con più strumenti. A mio modo di vedere dobbiamo farla finita di pensare che dopo di noi il diluvio. I cinquantenni di oggi questo pensano, quindi come possono questi ragazzini pensare di avere lo stesso livello che abbiamo avuto noi? Io penso che la generazione che si sta affacciando oggi anche alla politica è una generazione che ha strumenti potentissimi ma no chi guarda la televisione, chi si rimbecillisce davanti alla televisione; chi sta davanti alla televisione non sono i giovani, attenzione.

Emergenza o staticità . Il mondo adulto rappresenta tutto quello che non conosce come un'emergenza che va normata, appena vediamo qualcosa che non conosciamo va fatta una legge; allora come dire, le forme di partecipazione giovanile come si stanno rappresentando oggi, i giovani come partecipano al dibattito, noi non lo conosciamo o ci sfugge.
E' vero, questi ragazzi usano la tecnologia, ma usandola reinvestano ad esempio prendono un computer, ci fanno musica e si fanno una radio… Noi adulti siamo arroganti, profondamente arroganti, per noi ad esempio la musica è solamente quella fatta nel reale, abbiamo paura del virtuale, perché il virtuale semplicemente non lo maneggiamo, non lo conosciamo, quindi lo vediamo come freddo, non ci sono i corpi, non c'è l'odore mentre per i ragazzi il virtuale oggi è reale. Le radio inventate sui web oggi sono davvero un esempio della partecipazione in alcuni contesti. Come risponde il mondo adulto? Con proposte di legge come quella sulla partecipazione giovanile di questi giorni quella presentata dai DS… Che cos'è che non c'è in questa legge? Non c'è la possibilità di una rappresentanza che non sia una rappresentazione dei giovani. Oggi i giovani non vogliono essere stabilmente impegnati in funzioni di rappresentazione. Io appartengo a una generazione che invece stabilmente ha fatto la sua adolescenza rappresentando sé stessa. Da quando si svegliava la mattina e preparava la cartella per andare a scuola, i volantini, ecc., tutto quanto fino alla sera, quando si facevano le riunioni fino alle 2 di notte e non conoscevamo cosa significava lo sfondamento temporale della notte, l'abbiamo appreso dopo che qualcuno l'ha fatto e l'ha fatto in maniera forse più divertente del nostro. In questa legge manca la possibilità che offre la modernità, la tarda modernità di una rappresentanza che non sia rappresentazione, che tenga conto dell'effimero, dell'istantaneo, del momentaneo, del non organizzato, dello spontaneo, cioè tutto quello che fa oggi la vera qualità della rappresentanza. Vedete, noi abbiamo una politica vera rappresentata dal parlamento che tutti quanti abbiamo votato e poi c'è una politica efficace, efficiente che è quella dei sondaggi che sono una roba virtuale. La persona che viene interrogata esprime in quel momento una propensione, una tensione che poi viene rielaborata. Possiamo averne paura, possiamo, come dire, biasimarla, però oggi parte della nostra conoscenza è fatta anche attraverso queste forme.

Il tasto play, il fenomeno magico ; mia nonna mi ricordava la magia della prima lampadina elettrica nella sua casa di campagna, mi diceva: Claudio per me era incredibile che io premendo un tasto riuscivo a vedere contemporaneamente tutti e quattro gli angoli della stanza, per me era una cosa impensabile di notte. Oggi noi non abbiamo la notte, abbiamo la società permanentemente attiva 24 ore su 24, dove si può lavorare e grazie alla generazione degli anni '90 si può anche divertirsi, perché se fosse stato per noi si poteva solo lavorare, quindi altro che strage del sabato sera. Qui rievoco Giovanardi che è un combattente delle battaglie da perdere ed io spero che essendo delegato alle politiche sulla droga perda anche la battaglia sulla droga. Giovanardi professava il bisogno di mettere un limite, mettere il cancello alle discoteche affinché chiudessero alle 3 di sera…. Allora io dico, vedete la tecnologia è qualcosa che a me affascina, mi fa riflettere e un po' mi spaventa, cerco di non farmi spaventare come si spaventano gli adulti; io metto da parte diversi articoli di giornale, sono un maniaco, ho questa forma di feticismo, e ho ritrovato degli articoli che riguardano il walkman, sono spettacolari, bellissimi. All'epoca quando apparvero i primi walk-man si dicevano cose incredibili come "questa è una generazione che diventerà sorda, noi andavamo ai concerti e loro sentono la musica in cuffia, l'onanismo musicale, non c'è più comunicazione, ognuno nella metro con la sua musichetta"… Passano 10 anni, anche il vecchio pescatore si mette il walkman con La Traviata e allora esce l'estetica del walkman, gli adulti accettano che questa roba, questa cultura. Guardate gli sms, anche qua degli articoli di giornale in cui si dice: questi ragazzi non sanno più scrivere, non sanno comunicare, frasi secche… provate voi a scrivere la Divina Commedia con un sms… Passano 10 anni e una pagina intera di Repubblica riporta il titolo: "La nuova semantica del linguaggio sms". Gli adulti hanno imparato e ci costruiscono sopra una cultura. Questo è pericoloso, abbiate pazienza, davvero pericoloso, perché ripeto questa è una generazione che è difficilissimamente mercificabile.

Cerchiamo di non riverberare quelle che sono le nostre paure, le nostre ansie, le nostre ideologie in qualche modo su chi fa fatica già ad avere sulle spalle questo bel corpus ideologico che gli stiamo lanciando addosso. Vedete a una certa età ci si dimentica come si era. Allora è vero che sarebbe meglio conoscere le emozioni prima di praticarle, sarebbe meglio in qualche modo conoscere l'amore prima di fare il sesso. Guardate che è un'acquisizione degli ultimi 50 anni sta roba qua, prima si faceva il sesso e poi si conosceva l'amore. Oggi questa sarà una generazione più potente, più colta, perché non ci sono più le case chiuse, dove prima si faceva sesso e poi forse, se eri fortunato, scoprivi il piacere e oltretutto l'amore. Il tasto play a me sembra faccia paura a noi. Il tasto play è una metafora che, come dire, per una generazione che è spaventata di quello che è capace di produrre, può dire qualcosa a noi. Questa è una generazione contenta che pensa che il tasto play non debba appartenere soltanto a sé, ma possa appartenere finalmente all'universo globo. Questa è la generazione che ha fatto nascere i movimenti della non globalizzazione, o meglio, di una globalizzazione diversa, è una generazione che ha sensibilità verso il Terzo e il Quarto Mondo.

Stefano Laffi*

Più mi occupo di giovani, più me la prendo con gli adulti e alla fine penso che è una questione di categorie sbagliate. Essendo padre ovviamente le sollecitazioni dei relatori mi hanno fatto sorgere miliardi di domande su cosa fare con mio figlio. Quel tasto play evidentemente è stato una cosa con cui ad un certo punto mi sono scontrato nello stabilire che mondo consegnavo a mio figlio e che trasmissione di sapere c'era. Poi vedevo che lui a 2 anni sapeva usare cose che mia madre non sapeva neanche cosa fossero. Cosa farò da grande…cosa farai da grande…questa effettivamente è una domanda che non farei mai più a un giovane, nel senso che le analisi sociologiche su questo argomento ti dimostrano che ormai esiste un futuro senza progetto, ma il futuro esiste anche nell'orizzonte dei ragazzi. Il futuro esiste semplicemente, non ha la forma di progetto, cioè non ha la forma di predeterminazione su precisi obiettivi da compiere. Questo per noi adulti è difficile da immaginare, perché siamo abituati a tracciare delle linee, ma non solo noi adulti. Adesso prendo un po' le parti dei giovani; se dovessi fare un'intervista ad un giovane, non riuscirà mai a dirmi esattamente cosa farà da grande come forse si poteva fare prima, è una cosa diversa. Cos'è questa cosa diversa? I ragazzi hanno capito la situazione d'incertezza, di trasformazione e hanno accolto un meccanismo che a noi non riesce, non sappiamo più fare, ci spaventa, la capacità di accogliere l'incertezza come apertura al caso. I ragazzi sanno aprirsi al caso, noi no. E questa apertura al caso è una forza straordinaria, a parte che è la strategia forse migliore per stare in questo mondo, ma il fatto che siano così attenti e se vogliamo schiacciati sul presente, è anche una strategia di sopravvivenza per cominciare a stare in una dimensione di futuro. L'apertura al caso all'accidentale, alle situazioni che via via si costruiscono e si creano. Fra l'altro i ragazzi in effetti stanno tantissimo insieme fra di loro e hanno capito che questa costruzione del futuro passa dal dialogo; non so se quanto dal dialogo o da una situazione di flussi comunicativi costanti, forse non solo di dialogo, questo non riesco a dirlo, però sicuramente hanno capito che il processo di costruzione del futuro, passa da una situazione di uno scambio e di cose che si mettono insieme, non di fili che si tirano, ma di cose, di pezzi che metti insieme.

E' certo che mai come oggi i bambini adorano i nonni, stracerto . È certo che non c'è conflitto su questo fra le generazioni, non stiamo parlando di generazioni assolutamente in conflitto, sono abbastanza d'accordo sul fatto che se c'è un conflitto è con gli adulti. Certo sono gli stessi adulti amministratori delegati e quant'altro che bloccano l'accesso dei giovani nelle aziende, ma poi in privato finanziano i figli per avere la possibilità di vedere un orizzonte di crescita via via progressivo delle proprie condizioni e garanzie materiali. Non faccio commenti su questo, sul fatto che sia buono o cattivo. Io credo che il meccanismo, la non esplosione del conflitto dipende anche da come la macchina familiare, che ancora funziona, ricompone queste cose qui.

Sulla politica vi leggo un passaggio sul rapporto fra giovani e diciamo militanza, un passaggio di un sociologo che si intitola "I figli della libertà" : "I figli della libertà odiano i formalismi delle organizzazioni e il loro modello d'impegno costruito sull'imperativo del sacrificio della singola individualità, che giudicano bizzarra e ipocrita, nel loro essere impolitici c'è qualcosa di molto politico, negano la propria vitalità e le istituzioni chiuse in sé stesse; questa variante occidentale dell'antipolitica è integrata e resa credibile da un volontariato autogestito, che non si lascia impigliare nelle maglie della socializzazione coatta delle grandi organizzazioni, i figli della libertà praticano una morale innovativa e accattivante che riesce a mettere in connessione termini apparentemente antitetici, auto-realizzazione e impegno per gli altri, impegno per gli altri come auto-realizzazione, alla fin fine essi contestano gli amministratori del bene comune, il monopolio della definizione di quest'ultimo".
Sulla tecnologia invece vorrei dire che è importante che gli adulti e gli anziani riflettano molto bene su che messaggio consegnare ai più giovani per stare insieme in questo mondo. E' necessario che ci sia da parte degli adulti e degli anziani la capacità di portare, insegnare qualcosa di forte, di solido e non essere travolti loro dal tasto play, o da un inversione di ruoli che è certo produttiva per i ragazzi, ma come dire, pone a questo punto in difficoltà i più adulti e i più anziani rispetto a cosa dire, a cosa consegnare di sé.

Marino Niola*

Il futuro esiste spesso nei giovani , esiste ma con una forma diversa, cioè senza la forma del progetto, ma con l'apertura al caso. Tutti sanno benissimo che l'epistemologia contemporanea distingue modelli di ordine e modelli di caos.
I modelli caotici degli epistemologi della filosofia della scienza non sono meno rigorosi di quelli fondati sull'ordine e sulla successione prima questo, poi questo, poi questo ancora. Io credo che succeda che una società riflette sempre nell'architettura del tempo. In questo momento proprio il mondo giovanile riflette l'architettura di questa società nella sua immagine del futuro. Sul ruolo della famiglia come mediazione dei conflitti, sono d'accordo, spesso c'è il politico che in parlamento contribuisce ad abolire, a tagliare il welfare, ad abolire ammortizzatori sociali e che poi fa da ammortizzatore sociale a suo figlio. Sono anche d'accordo, l'unico mio dubbio è questo: non tutte le famiglie possono fare questo.

Giovanni Sandonà*

Quell'effimero, spontaneo, momentaneo dei giovani non è più semplicemente sinonimo di negativo , ma è un modo diverso di abitare il tempo, però attenzione ai giovanilismi, non deve neanche diventare automaticamente sinonimo di positivo, perché questo secondo me sarebbe altrettanto un giovanilismo pietoso. Torna quella parola limite che dicevo prima, cioè se io adulto, o che mi ritengo tale difendendomi, riconosco queste mie difese, accetto anche di non dovere e potere capire tutto, definire tutto, dar forma a tutto, pesare tutto, ecc.; torna quell'idea di sostenibilità anche in un rapporto non più anziani-giovani, ma adulti-giovani, nella misura in cui accetto che la mia geografia rispetto alla vita, è una geografia limitata e permetto all'altro d'insegnarmi per esempio un modo di abitare il tempo diverso, senza la pretesa di doverlo valutare, pesare e tanto meno dargli un indice. Sono d'accordo anche sul fatto che i giovani hanno bisogno di essere capiti ma credo che abbiano comunque anche bisogno d'identità adulte, quei cinquantenni che mancano e che pretendono di normare e strutturare tutto. Quando dico identità non intendo staticità. Qui mi riferisco al fatto che da 21 anni sono in mezzo al disagio sociale, malattia mentale, tossicodipendenze, sono stato tutore di situazioni drammatiche da un punto di vista di persone spaccate dentro. Ho visto che il giovane ha bisogno a fianco d'identità, ma la definirei ancora una volta un'identità sostenibile, cioè un'identità che non si coniuga come onnisciente, ma un'identità che si definisce attorno a quella relazionalità che per natura sua è anche relatività.
Credo che il nostro guaio più grosso come adulti è quello di non accettare di essere relativi, ma un'identità ci deve essere; ecco io non vorrei scambiare e forse mi sto difendendo, non vorrei scambiare quel modo di abitare il tempo che credo sia assolutamente interessante da osservare, da imparare, con l'improvvisazione, con il frammento, con il nomadismo di identità che non ci sono. Cioè, per dirla in termini diversi, imparare a diventare vivi, essere vivi, è una cosa un po' diversa dal sentirsi semplicemente vivi in una specie di compunzione che ti svuota.

Claudio Cippitelli*

Bauman dice che il tempo non è più scandibile come un lungo fiume tranquillo , ma per pozzanghere. Lui non fa riferimento ai giovani quando dice le pozzanghere ma fa riferimento alla società organizzata così con frammento, nomadismo, siamo noi adulti che saltiamo da un corso di danza pro-cubana, al lavoro, alla piscina, i giovani semplicemente come dire riempiono queste pozzanghere con quello che loro sono, ci vivono più agevolmente perché hanno meno retaggi, fanno meno ideologie intorno al lungo fiume tranquillo, sempre per grandissima generalizzazione. Poi ci sono ritorni, movimenti giovanili importanti che tornano a una visione di un fiume tranquillo. Gli elfi che vivono nell'Appennino Tosco-Emiliano fanno una vita da contadini, altro che un reality show all'isola, gli elfi veramente vivono con le lampade a petrolio e con quello che coltivano, marijuana compresa. Quello che m'interessava sottolineare è l'identità. L'identità e il bricolage. Molte delle identità, anzi io direi tutte le identità sono bricolage. Se noi riuscissimo a pensare al nostro presente scevro dalla parola "branco" sarebbe forse meglio. Abbiamo parlato di branco per tutti i giovani di qualsiasi forma e specie, non abbiamo mai parlato di branco d'impiegati per il caso Parmalat e Cirio e francamente è più branco quello. Allora l'aggettivazione, la scelta del termine è importante.

Intervento

Fra le varie cose che avete detto è saltato fuori che i giovani sono bravi perché sono stati capaci di adattarsi al cambiamento e a superare il momento di crisi adattandosi al cambiamento. Però secondo me è una necessità, lo dico da trentaseienne.

Intervento

A me quello che ha incuriosito è che il mondo della gioventù e quello dell'anzianità sono quelle che di solito sono legate a degli stereotipi molto forti. L'anziano come la persona bisognosa di aiuto e il giovane come il branco, il gruppo, la massa. Ero curiosa di vedere come sarebbe stato trattato questo tema e ho visto che invece fortunatamente gli stereotipi sono stati smantellati.

Intervento

Io non credo che i giovani stiano peggio dei loro padri, perché si sentono meno garantiti, forse cambiano i parametri di riferimento. Credo però che ormai si è creato un sistema che si sta avvitando su sé stesso e non se ne sa come uscire. Da un lato la vita si allunga, è un bene, lo dicono tutti e quindi qualcuno dice: proviamo a far lavorare di più la gente, sia allungando l'età pensionabile, sia magari dando questo famoso bonus che ha offerto il ministro Maroni, però questo fa storcere il naso ai giovani, perché in qualche modo fa da tappo e questo è inevitabile non c'è dubbio; allora io mi chiedo: ma non è che il sistema in realtà si auto-regola, cioè ha nel suo seno degli anticorpi che in qualche modo poi le cose almeno in parte le sistema? Quando un giovane, soprattutto se è precario, chiede un mutuo se non c'è la garanzia come terzo datore d'ipoteca da parte del genitore che garantisce col suo stipendio e con la sua pensione, la banca si guarda bene dal dartelo, così come qualsiasi altro finanziamento. Quindi mi sembra quasi che si stia creando un sistema per cui c'è una sorta di prelievo dal basso verso l'alto, quello che tu in qualche modo mi hai tolto prima creando anche una montagna di debito pubblico, io me lo riprendo, perché comunque ti chiedo delle garanzie quando poi a me serve una cosa. C'è però il punto che non a tutti è possibile farlo, perché c'è una fetta delle famiglie italiane dove anche i genitori sono un po' out, sono tagliati fuori, non riescono a garantire alla banca un mutuo a un figlio. Allora in realtà secondo me, più che giovani-vecchi, bisognerebbe parlare di giovani garantiti e non garantiti e vecchi che stanno bene e vecchi che stanno male, perché quando una famiglia non ce la fa, perché uno ha perso il lavoro, l'altra deve magari accudire tre figli e non può lavorare, voglio vedere che tipo di garanzia possono dare al figlio.

Intervento

Per quello che riguarda il nostro lavoro di giornalisti, raccontare appunto dei giovani e delle vecchie generazioni può rappresentare un rischio a causa degli stereotipi, anzi non il rischio, di fatto si fa, si racconta solo per stereotipi. Io lavoro per l'Istituto degli Innocenti, abbiamo appena pubblicato il secondo rapporto su cosa scrive la stampa italiana dei bambini e dei giovani ed è abbastanza desolante nel senso che prevale questa connotazione del rischio, i giovani sono come una bomba innescata, cioè si trattano come esseri sempre pericolosi.

Intervento

Mi permetto di aggiungere la considerazione sul nostro parlamento che è vecchio, i politici che stanno lì in finale ce li mandiamo noi e il problema secondo me è che siamo noi stessi cittadini a votare sempre le stesse persone, sempre le stesse facce, sempre gli stessi nomi. I giovani si sono allontanati dalla politica, anche a livello pratico, anche a livello operativo. E' difficile vedere il giovane di 30 anni, di 25 anni che fa come negli anni 60-70, non è più attivista. L'attivista è il trentacinquenne, è il quarantenne che porta avanti la sua storia, quindi avremo un sistema politico sempre più anziano con pochi giovani.

Intervento

Curo la comunicazione per un gruppo di cooperative sociali che si interessano sia dei problemi dei giovani che degli anziani. La mia provocazione è questa: a 18 anni i miei genitori mi imponevano di andare a letto al massimo a mezzanotte ed io andavo a letto a mezzanotte, ma se non c'erano i miei genitori andavo a letto a mezzanotte lo stesso perché avevo sonno come tutti quelli della mia età. Se avevo qualcosa da fare e non c'erano i miei genitori, forse andavo a letto alle 2, quindi al di fuori dei miei genitori mi sentivo libero di regolamentarmi quando avevo sonno. Ho l'impressione che adesso con questa scomposizione, dilatazione del tempo, i giovani non si sentano più liberi di andare a letto quando hanno sonno e di svegliarsi quando devono andare a scuola, o andare a lavorare, mi sembra che ci sia dell'altro.

Intervento

Sono rimasta un po' spiazzata dall'affermazione di Stefano Laffi, che diceva che lui non chiederebbe mai a un giovane cosa farà da grande. E' una domanda che io faccio molto spesso ai ragazzi, perché secondo me il che cosa farai da grande, chi sarai, li obbliga a riflettere proprio su quello che oggi sono, cioè dà spazio ai loro desideri, poi il fattore del cambiamento comunque interviene nel momento in cui probabilmente si scontreranno con quella che è la differenza fra la loro progettualità e la realtà e quindi saranno comunque costretti a fare i conti con il cambiamento.

Intervento

Penso esattamente il contrario, nel senso che credo sia una domanda a cui non c'è risposta, perché non c'è una capacità di prevedere il futuro. Immaginare come sarò tra 10 anni, quando non so in questo momento in cosa credo, cosa il destino mi avrà messo davanti, quali saranno le prospettive che mi si sono aperte e le prospettive a cui ho dovuto rinunciare, significa forse fantasticare sul mondo irreale e non concentrarsi magari sul presente da cui si può iniziare a progettare qualcosa. Paradossalmente secondo me c'è molta più progettazione se m'impegno nel presente, che in un'ipotesi di progetto futuro, che non so mai come potrà realizzarsi.

Stefano Laffi*

Cosa farò da grande non la farei mai come domanda da giornalista , non so se lo farei da genitore o da insegnante. Il meccanismo che mi viene da fare da adulto o da educatore, o da pedagogista, ma io non lo sono, sono solo adulto, è quello di aiutare le persone a scoprire la propria dimensione di piacere che poi è la propria dimensione di talento, di vocazione, cercando lì ovviamente qualunque sospensione su ciò che è bello o non bello, giusto o non giusto. La questione del tasto play, vorrei fosse un pochino più chiara.
Non è una demonizzazio ne delle tecnologie, il tasto play per come lo penso io è anche il conferenziere che parla e dice la stessa cosa, è anche l'insegnante che ripete la stessa lezione, quello è il tasto play. Il tasto play ti vende lo sconto dell'esperienza, cioè la necessità di non sapere e non capire perché tanto fanno tutto loro, in un mondo che però tu non capisci più come è fatto, da chi è fatto, dove è fatto, che è il famoso codice a barre, come dire, ti fa sparire l'origine delle cose e ti rende assolutamente alieno al tuo mondo. Allora questo sconto dell'esperienza a me un po' preoccupa, perché ci rende molto manipolati da un punto di vista di quello che ci viene presentato. Io vedo il consumo di sostanze come un tasto play su sé stessi. Voglio divertirmi schiaccio. Mi sto chiedendo, non è che questa cosa può ridurre l'empatia col mondo? Facevo l'esempio dell'insegnante perché io credo che questa sia un'epoca di maestri e non d'insegnanti, nel senso che credo che la comunicazione verbale sia entrata in crisi, o comunque che la comunicazione verbale non sia il canale diretto della relazione fra adulto e il ragazzo su cui scommettere tutto e che comunque nel codice relazione il ragazzo abbia ancora il suo cuore elettivo con cui si esprime. Il ragazzo è corpo, è movimento, è danza, è sport, è gioco e queste cose qui. Gli adulti parlano. Negli ultimi tempi forse hanno parlato troppo, hanno scritto troppo, cioè ci sono stati troppi flussi di parole. Io ho l'impressione che la comunicazione verbale oggi stia un pochino declassando e in una crisi della comunicazione verbale, prevale il non verbale. Prevale il non verbale vuol dire il prevalere dell'esemplarità dei comportamenti rispetto all'abilità del retore, questo in realtà è un cambiamento anche positivo, perché vuol dire che i più giovani si stanno addestrando a riconoscere il falso o il non corretto, in un momento in cui stanno mentendo tutti, gli uomini politici che si smentiscono il giorno dopo, mentono anche i giornali diciamo la verità, che magari sono costretti a comunicare questo e a riportare continuamente smentite, si mente nei colloqui di lavoro, i datori di lavoro ti raccontano robe che non saranno mai vere, ti raccontano degli stipendi che non esistono, mente la pubblicità che oramai non è assolutamente informazione, è pura seduzione sessuale. I luoghi di menzogna sono aumentati all'infinito, è difficile credere alle parole degli adulti. Allora forse questo meccanismo fa si che ritorni forte il non verbale dove prevalgono i comportamenti, cioè prevale la coerenza dei comportamenti, molto più che l'abilità retorica. Allora maestri non insegnanti, persone che sanno fare quello che fanno e lì forse sta il gioco dell'identità di cosa porti.

Claudio Cippitelli*

Vorrei aggiungere un altro elemento di cui a voi giornalisti chiedo di tenere conto : i giovani stranieri, mettiamo sempre l'accento sul fatto che sono stranieri e mai sul fatto che sono giovani.

Giovanni Sandonà*

La provocazione che più mi ha colpito è il passaggio dalla pedagogia all'ideologia , che non sono la stessa cosa e io aggiungerei ipocrisia, perché io credo che oggi non viviamo più in un mondo di ideologie nel senso accademico del termine, ma nel senso più brutto del termine, cioè l'ideologia è una forzatura della realtà. Questa ideologia oggi è prima di tutto ipocrisia. Non solo l'ipocrisia di cui faceva cenno Stefano sulla comunicazione verbale, ma perché noi siamo dentro, siamo passati dallo scientismo, al tecnicismo, adesso siamo nell'estetismo liberista, cioè la nostra vita è un po' una vetrina. La vetrina ha senso non solo se attira l'attenzione, ma se vende. Io credo che questa ideologia/ipocrisia sia anche dentro la chiesa. Per esempio io mi ostino a dire al mio vescovo, con qualche timido piccolo successo, che deve smetterla di parlare di famiglia, non esiste la famiglia, esistono famiglie, con canoni relazionali di identità professionali, economici, abitativi, affettivi diversi. Questa ideologia-ipocrisia, non ho difficoltà a dirlo, la trovo anche in questa battaglia contro i Pacs che mi pare tanto penosa quanto inutile. Vedete cosa intendo per parlar male della "mia categoria" quando dico una ideologia-ipocrisia? Intendo questo. Ma poi la troviamo in tanti altri aspetti. Per esempio una parola interessante a cui mi ha educato la Caritas è bisogno. Io ho imparato a leggere il discorso povertà non solo come un deficit ma come una questione ambientale, di opportunità date o negate, perché noi di solito anche dietro la parola povertà interpretiamo il discorso mancanza di qualcosa, mancanza di qualcuno. Il discorso bisogno io lo interpreto si come anche una mancanza però mi accorgo che poi lavorare nel disagio vuol dire imparare a percepire il bisogno come invocazione di vita. Ecco un'altra forma di strumentalizzazione ideologico/ipocrita ossia il bisogno scambiato semplicemente come deficit.

Nella mia provocazione cosa farai da grande o da vecchio , intendevo dire che nelle ipocrisie ideologiche ci dobbiamo riconciliare con l'esperienza del limite e quindi con la sostenibilità di una progettualità, cioè imparare a riconsiderarci penultimi, perché noi siamo comunque figli della cultura del self-made man, del farci tutto, noi ci facciamo il corpo, l'identità con quei piccoli deliri di onnipotenza che fanno diventare il nostro mondo di relazioni quell'ideologia pratica che poi diventa ipocrisia. Allora il chi sarai non vuol dire definirmi grasso, magro, alto, basso, ma è il dire sei d'accordo che la tua identità è un'identità progressiva che deve accettare questa sostenibilità di un farsi graduale, quindi penultima? Quindi non più onnisciente, non più self-made?
I nostri bisogni sono invocazioni di vita, di una vita però che non è cantiere, che non è materialità e basta, che non è geografia già definita e confinata e catalogata. Quindi il che cosa farai da grande, che è la stessa cosa che diceva lui, è un po' con chi starai? Quali saranno i tuoi punti di riferimento?

Intervento

Vorrei fare una riflessione sulla chiusura nei confronti dei giovani da parte dei cinquantenni nell'ambito delle professioni , mi chiedevo se è uno specifico italiano. Intervistavo un ricercatore che è da 15 anni all'estero, prima negli Stati Uniti, poi in Francia, mi diceva che una delle tare italiane è che a 30 anni i ricercatori sono ancora dei ragazzi, il cui lavoro viene utilizzato dai professori e mai citato e a cui non viene data responsabilità. Altro esempio: la BBC in Iraq aveva persone di 26 anni come inviati. Terzo esempio: l'idea di mettere nel sommario tra parentesi l'età del giornalista e della persona intervistata. Voglio capire se è una tara, se è un problema nostro italiano quello dei giovani responsabilizzati e messi in condizione di diventare classe dirigente, o seppure è un problema, cosa di cui dubito, delle democrazie occidentali. Altro esempio è la Spagna, è un paese giovane e ne ho molte conferme.

Claudio Cippitelli*

Noi abbiamo un problema specifico, che è un problema oggettivamente più europeo , cioè la moratoria nella fuoriuscita dalla condizione giovanile è cosa diversa dall'accesso alle professioni e il successo in alcune professioni, in particolare della politica per quanto riguarda i giovani. Il fatto che Zapatero abbia 40 anni più o meno, non mi dice che la Spagna sia così profondamente diversa da noi per quanto riguarda la permanenza dei giovani in un certo clima culturale. Il fatto che poi loro hanno una mobilità interna all'età maggiore della nostra, questo dipende da molti fattori. Noi abbiamo una storia molto particolare, il nostro dopo guerra è immobile per tanti versi, per l'ingessamento della politica, dei quadri politici che hanno fatto la Costituzione, non si sono più allontanati da quegli schemi e via discorrendo.

Giovanni Sandonà*

Io ho la sensazione che nei sistemi di potere la gerontocrazia sia direttamente proporzionale al tasso di ideologia , ho in mente anche la Cina, la Russia, oltre che la Chiesa, ecc.

Marino Niola*

Il tema dell'ideologia mi sembra una cosa di grande interesse perché resta uno dei termini più abusati, si parla continuamente di fine delle ideologie, in realtà non sono affatto finite le ideologie e fra l'altro, a parte quelle che ci ricordava prima Sandonà, c'è un'altra ideologia che a mio avviso gode di ottima salute ed è l'anticomunismo.
Per quanto riguarda la famiglia che è un feticcio evocato continuamente, quante cose che avvengono vengono addebitate oltre che alla solita solfa della crisi dei valori, anche all'assenza della famiglia? Ora io vi faccio un solo esempio. Io collaboro con l'Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Campania e spesso tocca di occuparsi di questioni giovanili che riguardano aree particolari, le periferie napoletane e altri luoghi che poi si conoscono bene per i servizi dei Tg. Ora nella maggior parte dei casi quei ragazzi di cui ci occupiamo non soffrono assolutamente né di assenza, né di latitanza della famiglia, anzi si parla di eccesso di presenza della famiglia, a questi ragazzi infatti farebbe molto bene non avere avuto quella famiglia. Certo quando noi lamentiamo l'assenza e la lontananza ci dobbiamo chiedere di quale famiglia stiamo parlando.
L'altra riflessione riguarda i giovani stranieri: quando ne parlano le cronache nere, di questi stranieri non se ne parla né come giovani, né come anziani, ma stranieri e basta, soprattutto stranieri e tutto ciò è vero. Ultima osservazione: la comunicazione verbale o non verbale, tema su cui sono in lieve dissenso con quello che dice Stefano, perché non sono convinto che oggi la comunicazione verbale abbia perso pregnanza. Tra l'altro io faccio un lavoro all'Università in cui mi tocca verificare continuamente quanto invece sia fortissima la domanda di comunicazione verbale, come la parola non abbia perso assolutamente pregnanza.


* Testo non rivisto dall'autore.