XIV Redattore Sociale 30 novembre - 1-2 dicembre 2007

Il Dittatore

Workshop - Mamadou: clandestini, rifugiati, nuovi ghetti, minori stranieri e devianza...

Intervengono Gabriele Del Grande, Francesco Vacchiano, Mussie Zerai

Gabriele DEL GRANDE

Gabriele DEL GRANDE

Giornalista, blogger e regista. Ha fondato nel 2006 il blog Fortress Europe in cui raccoglie tutti gli eventi riguardanti le morti e i naufragi dei migranti nel Mediterraneo. Ha collaborato con varie testate tra cui Redattore sociale, ha scritto tre libri tra cui Mamadou va a morire (Infinito edizioni, 2007). Nel 2014, insieme ad Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, ha realizzato il documentario Io sto con la sposa, finanziato con una raccolta fondi online. Nel 2016 ha lanciato con successo un altro crowdfunding per finanziare “Un partigiano mi disse”, libro-inchiesta sulla guerra in Siria e le origini dell’Isis la cui uscita è prevista nel 2017.

ultimo aggiornamento 06 novembre 2016

Francesco VACCHIANO

Francesco VACCHIANO

Psicologo e antropologo culturale, Centro Frantz Fanon e Università di Torino. 

ultimo aggiornamento 30 novembre 2007

Mussie ZERAI YOSEF

Mussie ZERAI YOSEF

Presidente dell’Agenzia Habeshia, associazione per rifugiati politici eritrei ed etiopi.

ultimo aggiornamento 30 novembre 2007

Gabriele Del Grande*

Vi parlerò sia del libro che ho scritto lo scorso anno "Mamadou va a morire" sia del sito dell'Osservatorio sulle Vittime dell"Immigrazione Fortress Europe fondato da me nel gennaio del 2006. Io vi parlerò delle frontiere e di tutto quello che sta succedendo sulle nostre frontiere non solo italiane ma anche europee, vi dirò chi sono queste persone che arrivano sui barconi e che molto genericamente vengono incluse nel contenitore clandestini. Alla mia destra c'è Mussie Zerai, presidente dell'associazione eritrea Habesha che si trova a Roma e con la quale collaboriamo come osservatorio. Mussie ci parlerà della realtà dei ghetti che si creano nelle nostre società in particolare a Roma dove abbiamo diversi palazzi occupati o anche situazioni di baraccopoli dove vivono anche i rifugiati politici eritrei. L'antropologo e psicologo Francesco Vacchiano che è alla mia sinistra ci parlerà della realtà dei minori stranieri a Torino, in particolare dei giovani marocchini di cui qualcosa abbiamo visto anche ieri con il video sulle fogne. Il senso di questo workshop è duplice: da un lato l'intento è quello di cercare attraverso i nostri interventi di raccontarvi che cosa c'è dietro quei fantasmi che fanno paura a questa società, tentando di decostruire un senso comune che appartiene non soltanto alla società italiana ma anche ai giornalisti perché quando si parla di pensiero unico, si parla di un sentire comune, di una sorta di autocensura, di ignoranza sui temi che appartiene anche a chi scrive sui nostri giornali. L'altro obiettivo è quello, attraverso delle provocazioni, di dare degli spunti critici sul modo in cui il giornalismo racconta questi fenomeni, sul modo in cui la comunicazione contribuisce alla creazione di un senso di allarmismo e di de-umanizzazione di questi contesti.  

Nell'ottobre del 2006 ho fatto un viaggio sull'altra riva del Mediterraneo dalla Turchia fino al Marocco, il mare, il deserto del Sahara, cercando, con l'aiuto delle associazioni locali, di incontrare sui luoghi di frontiera immigranti che stavano viaggiando verso l'Europa e altri che invece erano stati espulsi, tutto ciò per documentare la grande tragedia dell'immigrazione clandestina, le vittime degli ultimi anni nei nostri mari. Fortress Europe, inizialmente nato come blog con il tentativo di fare memoria del presente, sviluppatosi poi fino a raccogliere una rassegna di articoli sulla stampa internazionale che documenta le vittime dei viaggi non solo verso l'Italia, ma anche la Spagna e la Grecia, ci da delle cifre allarmanti: dal 1988 ad oggi sono 11mila le vittime documentate. Una volta raccolti i dati abbiamo sentito l'esigenza di guardarla in faccia la morte, di vedere le famiglie di queste persone e capire le motivazioni che spingono molti ogni anno a partire e a rischiare la vita in questi viaggi, per cui in Marocco ho iniziato ad incontrare le famiglie. Ho scoperto che dietro ogni viaggio ci sono mogli che perdono i mariti, ci sono bambini piccoli che rimangono orfani, ci sono genitori che perdono i figli, spesso senza nemmeno sapere che sono partiti; molti i contesti, molti i giovani che partono alla ricerca di una dignità e di un futuro migliore qui da noi. Grandi le quote dei rifugiati politici, e qui i dati non lasciano spazio a nessun dubbio: dal canale di Sicilia arriva solo l'8% dell'immigrazione cosiddetta irregolare, mentre il 60% sono i richiedenti asilo politico in Italia. Sia il mio libro "Mamadou va a morire", sia il sito internet Fortress Europe documentano con un approccio basato molto sulla cronaca, sui dati di fatto, un'altra realtà, quella della repressione e dei crimini che vengono commessi alla frontiera per bloccare questi flussi, per cui basta citare la notte del 30 luglio di quest'estate quando la polizia marocchina ha sparato su un gruppo di immigranti che si stavano imbarcando per la Spagna, per le Canarie, ammazzandone due ed espellendone immediatamente altri 35 alla frontiera con l'Algeria; sono molte e frequenti le espulsioni. La dinamica è quella di un'Unione Europea che appalta il servizio di controllo delle proprie frontiere esterne, in questo caso, a tutta la riva sud del Mediterraneo, per cui ci sono degli accordi bilaterali che sono firmati con il Marocco, la Tunisia, l'Algeria, la Libia attraverso cui si incarica questi paesi, che certo non sono campioni di democrazia, di controllare le nostre frontiere chiudendo gli occhi su quello che succede. L'accordo tra Italia e Libia prevede che quest'ultima impedisca a chiunque di partire, dovendo inoltre ogni mese presentare il conto degli arrestati e detenuti che risultano circa 60mila l'anno in un paese di 6 milioni di abitanti, il che la dice lunga sulla caccia all'uomo che c'è in questo momento… Per quello che riguarda l'Italia, la maggior parte degli sbarchi che avvengono attualmente sulle coste siciliane sono di persone partite dalla Libia, paese con il quale già dal 2004 il nostro paese, con il governo Berlusconi, ha firmato un accordo segreto per cui si iniziò a mandare giù mezzi per il pattugliamento, fuori strada, gommoni, coperte, materassini ecc. per i centri di detenzione, se ne finanziò la costruzione di 3 di questi che sono stati accusati più volte, la mia è soltanto l'ultima delle accuse.

L'estate scorsa abbiamo fatto un lavoro insieme a Mussie grazie anche ad alcuni suoi contatti in Libia, intervistando un'ottantina di eritrei immigrati in Libia, arrivati poi a Lampedusa: abbiamo raccolto le testimonianze di quello succede in quel paese e ne è emerso un panorama preoccupante. Nei centri di detenzione ad esempio è rilevante il problema del sovraffollamento, 60-70 persone dormono in celle di 6x8m, buttati per terra senza materassi, senza coperte, incastrati uno con l'altro, pestati per qualsiasi motivo… Abbiamo delle interviste, che siamo riusciti a fare grazie a dei cellulari fatti entrare di nascosto, nelle quali le comunità immigrate eritree in Libia ci raccontano delle violenze sistematiche che subiscono le donne, di come vengono accolti appena arrivati: spogliati, riempiti di botte anche usando dei manganelli elettrici… Ci hanno raccontato che si viene arrestati per strada oppure nelle case di notte, porta a porta, vengono portati in commissariato, poi caricati dentro dei camion e dei container per un viaggio che dura circa 2 giorni, sono infatti circa 1.800 i km che separano Tripoli da Cufra città al confine con il Sudan. Una volta trovate queste persone vengono espulse e rispedite in mezzo al deserto dall'Africa occidentale: un paio di settimane dura l'attraversata in mezzo al Sahara per raggiungere poi le coste libiche. Su un totale di 11mila morti tra questi disperati, almeno 1.500 sono quelli del deserto ed è un dato veramente approssimativo per difetto perché nessuno sa che esattamente cosa sta succedendo in questo momento lungo quelle frontiere. Inoltre il viaggio va pagato prima e non sono rari i casi in cui avviene che a un certo punto l'autista chieda un sovrapprezzo da pagare e chi ha i soldi continua mentre chi non li ha viene abbandonato, perché si è meno che merce in questi casi.

Le vittime aumentano sempre di più: nel canale di Sicilia, dove quest'anno gli sbarchi sono diminuiti del 30%, i morti sono già raddoppiati nei primi 10 mesi rispetto a tutto il 2006, questo perché si viaggia su barche sempre più piccole, in vetroresina, proprio per evitare i pattugliamenti e i respingimenti in mare, oppure su gommoni con 25-30 persone. Inoltre è scomparsa la figura dello scafista, le organizzazioni che gestiscono i viaggi non mandano più un proprio uomo seguendo la logica del profitto e degli utili, facendo così un risparmio sia sul costo dell'operazione oltre che evitare la detenzione di chi veniva trovato al timone. Peccato che la Polizia ancora non si sia accorta di questo cambiamento e che puntualmente per ogni sbarco che abbiamo in Sicilia vengono arrestate 2 o 3 persone… Gli sbarchi non esistono più, sono rari, quasi sempre avviene un'intercettazione in mare dato che il canale di Sicilia è completamente militarizzato, ci sono le navi da guerra della marina, la finanza, la guardia costiera. Ultimamente il sistema utilizzato dalle forze dell'ordine è quello di fare una foto a chi sta al timone e poi quelle persone vengono giudicate per direttissima e spesso gli avvocati d'ufficio non si prendono nemmeno la briga di analizzare il caso e con il patteggiamento poi si fanno quei 2-3 anni di carcere con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione anche se sono rifugiati. Recentemente c'è stato il caso di eritrei che sono stati condannati per favoreggiamento dell'immigrazione trovandosi in quel momento al timone. Una volta che queste persone vengono imbarcate, si da loro una bussola, più o meno una rotta da seguire e dei punti di riferimento, come ad esempio le piattaforme petrolifere dell'Eni lungo la rotta tra la Libia e la Sicilia, si da loro un telefono satellitare che serve per dare l'allarme quando poi finiscono alla deriva, quasi tutti ci finiscono non avendo esperienza di mare, spesso basta una notte in tempesta perché la barca si rovesci in mare. La mia grande preoccupazione è anche che nessuno di noi forse sa tutto quello che sta succedendo: quest'estate un peschereccio di Mazara soccorse in mare un uomo che a 70 miglia a largo della costa si teneva aggrappato a un pezzo di legno dell'imbarcazione su cui viaggiava e che si era rovesciata quella stessa notte; gli altri 45 passeggeri erano affondati insieme alla barca, si trattava dell'unico superstite, fossero arrivati alcune ore dopo probabilmente non avrebbero trovato nemmeno lui, e quante di queste tragedie succedono non è dato saperlo. Sicuramente quest'estate abbiamo assistito tutti al ripescaggio in mare dei cadaveri a largo, è successo più volte che venissero trovati dei corpi senza nessuna traccia dell'imbarcazione vittime di naufragi fantasma di cui nessuno saprà niente. C'è poi il discorso del soccorso in mare, ricordate le foto in prima pagina su La Repubblica quelli che vennero rinominati uomini tonno? Erano naufraghi finiti nelle gabbie dei tonni di un peschereccio maltese che li lasciò per alcuni giorni in bilico su una passerella di legno di 30cm che girava intorno a queste reti circolari perché prenderli a bordo sulle proprie navi per quel pescatore avrebbe significato rischiare comunque un'accusa di favoreggiamento. Ricordate quello che è successo quest'anno a 7 tunisini che sono ancora sotto processo per aver salvato la vita a 44 naufraghi? Erano a 20 miglia da Lampedusa hanno fatto quello che la legge del mare impone, soccorrere le persone e portarle nel porto più vicino… sono stati arrestati immediatamente e adesso rischiano 15 anni di carcere, per aver salvato la vita a 44 persone.

Grazie alle interviste che abbiamo fatto questa estate siamo riusciti a ricostruire la mappa dei centri di detenzione: in Libia sono centri segreti dei quali 3 finanziati dall'Italia che ha fatto anche di più, finanziando nel 2004 ben 47 voli che dalla Libia hanno rimpatriato, sempre nella logica di esternalizzare il controllo delle nostre frontiere, più di 5mila persone da Tripoli in contemporanea con le operazioni che vedevamo nel video delle deportazioni da Lampedusa, l'avamposto militare perché più vicina alla Tunisia che all'Italia: la logica era fermare tutte le imbarcazioni, portarle a Lampedusa e con un ponte aereo rispedirle tutte in Libia anche se non è il paese di chi sbarca, anche se già allora c'erano dei rapporti che denunciavano la pratica delle torture nei carceri, anche se sapevano che in Libia non esiste lo status di rifugiati politici… Uno di quei 47 voli è andato a finire in Eritrea dove c'è una situazione di guerra latente fra Eritrea e Etiopia e di coscrizione militare obbligatoria a tempo indeterminato per cui gli uomini a 18 anni vengono mandati nell'esercito al confine con l'Etiopia. La frontiera è militarizzata e ogni anno migliaia di giovani lasciano l'uniforme dopo molto tempo passato nell'esercito a buttare la propria vita e per queste persone essere disertori significa rischiare la vita: solo in Eritrea nel 2005, 161 disertori sono stati fucilati. L'Italia ha consegnato alla morte 109 eritrei rifugiati politici che si trovavano in Libia per salpare verso il nostro Paese che invece ha pensato preventivamente di rimpatriarli in Eritrea su un comodo volo aereo anziché deportarli in mezzo al deserto come fanno i libici normalmente: di quei 109 non abbiamo notizia, non sappiamo che fine abbiano fatto, sappiamo invece che sono ancora in un carcere di massima sicurezza altri 200 eritrei che vennero rimpatriati da Malta nel 2002. Un terzo volo invece sempre finanziato dall'Italia nell'agosto 2004 venne dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri eritrei, non so se c'era a bordo qualche ex dell'aeronautica fatto sta che presero il controllo dell'aereo e lo dirottarono verso Cartum la capitale del Sudan e vennero tutti quanti riconosciuti rifugiati politici dall'Acnur; in Italia non si è saputo niente perché c'è un silenzio totale su queste operazioni, pensate che la settimana scorsa il sottosegretario dell'interno ha fatto una visita in Libia e nessun giornale ha riportato la notizia anche perché lo stesso ministero non ne ha detto nulla.

Tutto questo è stato documentato ampiamente sul sito Fortress Europe che ormai è diventato un punto di riferimento; è tradotto in 14 lingue grazie ad una rete di collaboratori un po' da tutto il mondo che mi danno una mano a portare avanti il progetto e ci sono alcune cose che sono passate ed altre un po' meno e questa può essere una riflessione interessante anche per il dibattito successivo, sul meccanismo per cui si decide che una cosa fa notizia e un'altra no. I dati di quei 11mila immigrati morti alle nostre frontiere, quei 2.500 morti del canale di Sicilia, sono stati ripresi da tutti, dall'Ansa al Corriere della Sera, dai giornali gratuiti fino al New York Times, hanno fatto il giro del mondo quest'estate ma non è passato invece il concetto che quella strage ha delle responsabilità politiche nelle barriere elette dall'Unione Europea, dalle nostre leggi sull'immigrazione che rendono di fatto impossibile la mobilità dall'Africa, da buona parte dell'Asia e anche in Europa. Questo concetto non è passato, salvo certi giornali che sono culturalmente vicini a quest'approccio, come non è passata la gravità di quello che sta succedendo in Libia, la gravità di quello che l'Europa e l'Italia stanno finanziando in questo paese. Dall'anno prossimo poi l'Unione Europea metterà in atto dei pattugliamenti militari nel canale di Sicilia con il chiaro obiettivo di respingere in mare e riportare in Libia tutti gli immigrati fermati pur sapendo che per il 60% sono dei richiedenti asilo politico e che ogni anno fanno richiesta di protezione qui in Italia. Quelle persone verranno affidate alla Libia, poi con fondi europei e con la collaborazione dell'Onu, saranno rimpatriati nei rispettivi paesi d'origine dopo mesi o anni di detenzione. Tutto questo non passa nell'informazione e forse c'è da chiedersi anche perché, perché il sangue e la tragedia fanno notizia invece altre situazioni no. Sulla questione immigrazione non è ancora passato il concetto che stenda la tematica, ancora si affronta la questione come se fosse un problema che non ci appartiene, che non ci riguarda, la questione dell'immigrazione è una questione a sé, tanto più se succede in Libia è un problema dei libici. In realtà si tratta di un problema più generale di erosione del nostro stato di diritto, un problema che va affrontato con una logica diversa. Vedete ad esempio la Spagna che non si inquieta quando l'esercito marocchino spara e ammazza 17 giovani che stavano saltando le barriere di Seat e Merilla, le due città spagnole che si trovano in Marocco, nessuno scandalo, nessuna richiesta, né sulla stampa né nelle aule dei tribunali, parliamo di omicidi, di crimini ed è un problema di diritto questo! Nessuno si è inquietato il 26 settembre scorso quando la guardia costiera greca, in una operazione di routine di respingimento nelle acque turche di rifugiati, spesso afgani, hanno buttato in mare 40 persone ad un centinaio di metri dalla costa turca, 8 persone sono morte annegate sotto gli occhi della guardia costiera che ha girato il timone ed è ritornata verso Chios: non è stata aperta un'inchiesta e non se n'è parlato. La Convenzione di Ginevra vieta il respingimento dei rifugiati, la Carta Europea dei Diritti Umani vieta le deportazioni collettive, vieta l'invio di cittadini di paesi terzi in stati dove possono essere sottoposti a tortura ed è il caso della Libia ma anche della Tunisia, dell'Egitto.

Vi è una chiara contraddizione di termini tra le convenzioni internazionali e le leggi nazionali: il diritto internazionale marittimo ad esempio impone il soccorso, la nostra legge nazionale invece sancisce come favoreggiamento dell'immigrazione clandestina l'aver soccorso degli immigranti senza documenti ed averli portati sul nostro territorio. Tutto questo dovrebbe fare notizia, a partire dalla considerazione che siamo di fronte a reati, a crimini, a chiare violazioni di quello stato di diritto, di quelle convenzioni internazionali che vengono tanto declamate ma che poi nel concreto vengono violate di giorno in giorno; l'ostacolo principale è il far capire ai giornalisti che questa è una notizia e soprattutto come processo culturale. C'è un libro di Marco Ravelli "Lager italiani" il quale denuncia situazioni inimmaginabili sul nostro territorio eppure i Cpt ormai sono assunti come qualche cosa di normale, è normale che ci siano, è normale che una persona che non ha il permesso di esistenza sul nostro territorio, non ha un contratto di lavoro, non ha un reddito venga arrestata dall'oggi al domani anche se sta in Italia da 20 anni, anche se ha una famiglia in Italia, anche se ha dei figli, è normale che venga rimpatriata nel suo paese senza troppe domande… Dovremmo ripartire dal capire che tutto questo deve tornare a fare notizia nel momento in cui riguarda tutti e non è soltanto un problema degli immigrati riguarda tutta la società che sta perdendo umanità di fronte alle tragedie, di fronte a questi morti…bisognerebbe parlare di diritto negato.

Mussie Zerai*

Intanto grazie per questo invito dato che, come ha accennato Gabriele, spesso i diretti interessati non hanno voce, poche volte mi capita di parlare in seminari di questo tipo per spiegare il nostro punto di vista sugli immigrati e su come viene trattata la politica migratoria in Italia. Gabriele mi chiedeva di accennare alla situazione politica in Eritrea: attualmente, dopo 30 anni di lotte abbiamo ottenuto l'indipendenza nel '93 e c'è una dittatura che giustifica la sua esistenza grazie al tema dei confini. E' stata costituita una commissione che doveva ridisegnare i confini e per questioni storiche anche l'Italia è protagonista dovendo stabilire i confini coloniali in Etiopia con le altre potenze circostanti. Sono invece stati privilegiati di più i rapporti diplomatici e i giochi strategici così i problemi per i confini rimangono irrisolti. Siamo in attesa che qualcuno applichi la decisione delle Nazioni Unite sui confini, anche se alcuni paesi hanno il diritto di veto, forte dell'appoggio degli Stati Uniti; purtroppo siamo ostaggio di conflitti economici e politici, questa situazione legittima l'attuale realtà politica del regime che può giustificare la sua esistenza quindi fino a quando non sarà risolta la questione dei confini. Il paese è militarizzato, chiunque al di sotto dei 50 anni deve entrare nell'esercito, chi prova a fuggire al confine viene fucilato anche se grazie alla corruzione si riesce alla fine ad arrivare, poi quei pochi fortunati che arrivano in Italia vanno nei Cpt; grazie alla modifica della Bossi-Fini sono stati accolti i rifugiati politici, è stata velocizzata la prima parte dell'iter burocratico, per cui viene consegnata questa carta dove c'è scritto permesso di soggiorno; alcuni vengono affidati alla protezione umanitaria e in minima parte vengono dichiarati rifugiati anche se in Italia purtroppo c'è un vuoto legislativo sulla materia dei rifugiati. Sono più di 10 anni che chiediamo che si faccia una legge organica sul diritto d'asilo, i vari governi che si sono succeduti hanno fatto orecchie da mercante, l'attuale governo sta verificando delle proposte di legge in parlamento ma essendo già precario di suo, non credo riuscirà a fare qualcosa di interessante rispetto a questa tematica. Questo vuoto legislativo crea i precari di vita, come li chiamo io, perché sono veramente precari non sanno cosa li aspetta, usciti da questi centri di detenzione è ovvio che vanno dove sperano di trovare qualcuno che conoscono e che li possa accogliere, allora si va nei soliti posti: Milano, Roma, Bologna, le grandi città dove c'è un gruppo di connazionali che già vivono lì, è ovvio che non trovando un sistema di accoglienza nazionale che li segue da quando arrivano fino alla loro possibile integrazione sono costretti a cercare l'accoglienza dai connazionali. Oggi nelle grandi città abbiamo un gruppo di rifugiati che vivono o nelle baraccopoli o nelle cosiddette case occupate, a causa dell'assenza dello Stato; ci sono i Centri di accoglienza, almeno 10 anni fa c'erano quelli della Caritas, dei Gesuiti, ecc, mentre oggi è diventato un affare che coinvolge anche i vari comuni e province. I posti disponibili sono 2.430 circa, a fronte di 10mila richiedenti asilo ogni anno, gli altri 6mila che fine fanno? Dove vanno? Devono arrangiarsi in qualche modo, ecco che ieri ci parlavano alcuni relatori del degrado che si crea nelle città: ma chi lo crea?

Quando noi parliamo di sicurezza contro l'immigrazione legata all'informazione purtroppo non ricordiamo che il primo che viene a mancare al proprio dovere è lo Stato stesso, il primo a creare insicurezza su queste persone, non fornendo un sistema di accoglienza nazionale che preveda non solo la semplice identificazione e il rilascio del permesso di soggiorno, processo burocratico indispensabile, bensì anche una accoglienza fatta di strutture e di preparazione alla cultura del paese che ospita. Chi è questo paese che mi sta accogliendo? Quale la cultura, le leggi? Devo conoscere il paese che mi accoglie, ma qualcuno me lo deve far sapere! L'accoglienza dei secondi centri di livello deve prevedere la scolarizzazione, corsi professionali, aiutare ad integrarsi, mentre allo stato attuale i 4.200 posti a disposizione prevedono solo che si può stare qui un anno, non interessa in che stato ti trovi e scaduto questo tempo ti mandano fuori. Tale sistema va ad incrementare il livello di immigranti che vivono nelle baraccopoli e nelle case occupate, e se lo stato non è in grado di fornire accoglienza è meglio che non lo faccia, che non firmi convenzioni internazionali. Se provate a chiedere agli immigrati di Roma se vorrebbero fermarsi in Italia, la maggior parte di essi risponderanno di no ma sono obbligati perché una volta prese le impronte digitali non possono spostarsi verso altri paesi, come effetto dell'accordo tra i paesi europei secondo cui il primo paese di approdo deve esaminare il tuo caso e fornirti assistenza e accoglienza; l'Italia, se non è in grado lo deve dire. In più occasioni abbiamo chiesto allo Stato tramite il prefetto o la questura di restituire le impronte digitali… Ecco la totale precarietà di vita, ed è vero che tutta l'Italia oggi è precaria, anche gli italiani sono precari, ma almeno hanno una famiglia, gli immigrati lavorano in cooperativa e stanno fermi 3 mesi, 6 lavorano… inoltre sono precari anche per quello che riguarda i documenti: ogni volta ad esempio per rinnovare un permesso di soggiorno ci vogliono 8-9 mesi e per quel periodo la vita rimane paralizzata, inutile che il ministro dice che il tagliandino che rilascia la questura vale come documento, perché invece la gente, i datori di lavoro, le banche non li accettano. E' un'esperienza che ho fatto personalmente quando ero a Piacenza e ho chiesto un duplicato del permesso di soggiorno: mi hanno detto che dovevo aspettare 3 mesi per un duplicato, pensate che non era ancora scaduto, per 3 mesi non potevo muovermi dalla città per eventuali viaggi, oltretutto ero andato a comprare una scheda telefonica e mi è stato detto che il tagliandino della questura non è un documento… è stato inutile il mio insistere sul fatto che c'era stata una circolare del ministero, la commessa non ne ha voluto sapere niente, anzi mi ha detto che avrebbe chiamato la polizia…

È il sistema di accoglienza che non funziona, che crea delle baraccopoli, crea delle persone che devono vivere nell'occupazione poi è ovvio che coloro che vedono queste situazioni nelle proprie città si allarmano. Ci sono più di 1.500 persone che vivono in case occupate, quasi più della metà della possibilità che ha il centro di accoglienza, solo a Roma ne vivono appunto più di 1.500 non contando quelli che vivono nelle baraccopoli. Ad esempio La Romanina è una struttura dell'Enasarco che nel 2006 è stata occupata da un gruppo di rifugiati eritrei, etiopi, somali e sudanesi fuoriusciti; 3 giorni dopo sono state reclamate le proprietà del prefetto che li ha sgomberati, così abbiamo fatto una serie di manifestazioni e dopo poco il comune è riuscito in tutta fretta ad affittarlo; tutto questo perché c'era ancora Achille Serra che ha minacciato che avrebbe requisito il palazzo per metterlo a disposizione di queste persone, se in fretta non si fosse trovata una soluzione e dato che Roma era sotto elezioni, il comune di corsa è andato ad affittare la struttura dall'Enasarco. Il comune avrebbe dovuto pagare 300mila euro all'anno per l'affitto di questa struttura che era abbandonata da più di 3 anni. Non ci hanno fatto entrare subito, per più di 2 settimane ci hanno fatto vivere in delle tende, dicendo che stavano sistemando il palazzo per renderlo più accogliente; noi eravamo speranzosi, poi quando ci hanno invitato ad entrare abbiamo trovato che erano stati murati 5 piani su un totale di 7 e così 360 persone dovevano vivere su due piani, 14-15 persone avevano a disposizione 4-5 bagni per ogni piano e c'erano donne incinta, bambini, intere famiglie… Ci siamo allora chiesti se erano consapevoli del fatto che si stava parlando di esseri umani…perchè la sensazione è che spesso si parla di immigrati come problemi ma si dimentica che sono persone che hanno proprie esigenze. La reazione di alcuni è stata quella di demolire la notte stessa tutti i muri costruiti dal comune, il sindaco di gabinetto ha reagito dicendo che eravamo dei fuorilegge, gli abbiamo spiegato che si era dimenticato di avere a che fare con esseri umani che non possono stare ammassati come fossero dei mobili… Attualmente questo palazzo è tornato di nuovo a essere occupato e il comune ha deciso di non pagare più l'affitto.

Francesco Vacchiano*

Grazie a Gabriele perché mi ha dato la possibilità, invitandomi qui, di poter parlare per la prima volta con dei giornalisti. Io non sono giornalista, non sono informato in questo campo e posso portarvi la testimonianza come persona che da 10 anni lavora con migranti a Torino in un centro di etno-psichiatria. La mia testimonianza è finalizzata a chiedervi delle cose, sono molto curioso di conoscere tramite voi alcuni aspetti riguardanti l'argomento migranti. Come vi dicevo io lavoro da 10 anni in un centro che si chiama Franz Fanon che si occupa appunto di supporto alla salute mentale dei migranti e ai servizi di tipo medico e sociale come inserimento e accoglienza degli immigrati. Vi preciso subito il senso di salute mentale per non dare troppo l'impressione che io sia qui per parlarvi di problemi mentali: c'era uno psicologo salvadoregno, il gesuita Ignazio Martin Barò, ucciso a San Salvador negli anni '80, il quale diceva che la salute mentale è un problema di relazione con gli altri che può rientrare nella crisi di un contesto, quindi fondamentalmente qualcosa che ci riguarda tutti e costantemente, riguarda non tanto la questione della malattia psichica o mentale ma le relazioni sociali come si costruiscono, cosa diventano, cosa fanno succedere e che cosa fondamentalmente poi determinano. Il centro si occupa di richiedenti asilo e rifugiati, minori non accompagnati, di vittime della tratta ed essenzialmente con gli utenti e con gli operatori che se ne occupano, facendo un lavoro di consulenza e di accompagnamento dalla presa in carico oltre che di formazione. Il nostro tentativo è quello di costruire una competenza specifica rispetto a questo tipo di problematiche e abbiamo quindi un po' costruito questa doppia professionalità, da un lato clinica culturale, psicologica dall'altro lato più antropologica rispetto ai contesti di provenienza.

Franz Fanon era un medico martinicano che aveva studiato in Francia, amico di Sartre, ha ricoperto un ruolo di direzione all'ospedale psichiatrico a Blida, in Algeria, proprio all'inizio degli anni '50, periodo in cui scoppia l'insurrezione e la guerra in Algeria e lui cittadino francese vi prende parte scegliendo di schierarsi con il Fronte di Liberazione Nazionale. Per noi scegliere il nome di Franz Fanon per un centro di psichiatria significava tentare di osservare, di tenere in mente come lavorare con i migranti da un punto di vista di salute mentale nell'accezione che vi ho detto, ossia nel senso di avere a che fare con delle questioni che sono di tipo politico e che non possono essere eliminate. C'è una importante riflessione che faceva Fanon: uno dei drammi del colonizzato è che per potersi liberare ha bisogno di far propri strumenti e categorie del colonizzatore: il rapporto coloniale produce una dinamica paradossale per cui chi è stato colonizzato per potersi emancipare dalla colonizzazione deve impadronirsi di strumenti e del modo di pensare del colonizzatore. Lo stesso diceva Rigoberta Menchù quando affidava alla sua biografia le parole "il paradosso delle mie condizioni è che per difendere dalla strage gli indigeni del mio paese ho dovuto imparare lo spagnolo che è la lingua dei colonizzatori, di quelli che ci bombardano".

Vorrei porvi delle domande prendendo le mosse da alcune delle riflessioni che Marzio Barbagli faceva rispetto alla questione del rapporto tra comunicazione e il senso di insicurezza; Barbagli ha insistito notevolmente sul fatto che la comunicazione influenza relativamente poco il livello di insicurezza della popolazione che invece è molto più toccato da ciò che le persone vedono intorno a loro. Io credo che questo non elimini una questione centrale rispetto al ruolo della comunicazione ovvero che la comunicazione insegna a vedere quello che ci sta intorno. Nella sua riflessione Barbagli diceva che il senso di insicurezza è stato sempre uguale, ma quello che la comunicazione influenza moltissimo è la qualità del senso di insicurezza ovvero quali sono i reati che vengono percepiti come fonte di degrado, quali sono gli attori di questi reati e qual è qualitativamente parlando la pericolosità che si impara a vedere e a riconoscere. Questo è un aspetto estremamente importante perché possiamo dire in un certo senso che la cronaca è un luogo di educazione dello sguardo ossia c'è una modalità attraverso la quale la cronaca insegna a guardare alle cose e ai problemi con un effetto di naturalizzazione dell'ovvio. Si tende a produrre un effetto nel tempo che rende i fenomeni naturali scontati e non più oggetto d'indagine ma soltanto esclusivamente oggetto di descrizione.

La prima domanda che vi voglio porre è questa: perché non c'è spazio per un'indagine che invece di descrivere, rinforzare e nutrire l'ovvio cerchi di problematizzarlo?Quest'ovvietà che viene costruita e che diventa inconscia non viene interrogata dalla stampa cercando quali sono i meccanismi che hanno reso ovvio qualcosa dal punto di vista dell'occhio. Come diceva prima Gabriele ad esempio è stato reso ovvio che degli esseri umani possano essere deportati, qualcosa che fino a 20 anni fa avrebbe fatto gridare vendetta e che ci avrebbe scandalizzato. Qual è il senso di tutto ciò? A volte noi osserviamo che la semplice descrizione di questi fatti con una colorazione qualitativa di tratti peculiari non consente di comprendere questi fenomeni. Io vi chiedo come è possibile che i giornalisti rinuncino a un compito che è così fondamentale, accontentandosi di descrivere, di colorare un fenomeno che conforta l'ovvio pubblico invece di spiegarlo. La colorazione di tratti qualitativi attraverso l'utilizzo di alcuni termini, metafore che tipo di effetto retorico produce nel rendere scontato il fatto che delle persone siano assimilate a dei tonni che galleggiano? Perché il giornalismo non può impegnarsi a de-nutrire un pensiero convergente che è quello che conforta l'ovvietà e il sapere condiviso, le rappresentazioni sociali egemoni? Perché il giornalismo non può impegnarsi in una vera comunicazione sociale nel cercare di mettere punti interrogativi invece di mettere punti esclamativi, di leggere dietro i fenomeni, invece che descriverli con certi tratti e secondo certe caratteristiche? L'antropologo Gregory Bedson, uno dei fondatori della cibernetica, del pensiero sistemico, si interrogava sull'informazione da un punto di vista tecnico: il suo problema non era l'informazione come comunicazione, diceva che l'informazione è differenza, tutto ciò che per l'uomo diventa informativo è fatto di differenza. Mi sembra una riflessione interessante ovviamente intendendo l'informazione più come il compito del giornalista, rispetto alla possibilità di produrre differenza: le differenze che fanno la differenza e che producono pensiero. Perché non danno spazio utile per nutrire queste differenze? Molti gli esempi concreti di costruzione dell'ovvio,  facilmente rintracciabili negli articoli che sono stati recentemente pubblicati da un noto giornale torinese per mostrarvi poi fondamentalmente come questa dinamica funziona. Sono certo che lo sapete molto bene anche voi, ma credo che sia estremamente importante ragionarci sopra, ammesso e non concesso che si riesca a vedere tutto ciò. Come avete visto nel documentario di ieri, la cronaca di Torino racconta di questi ragazzini marocchini che svolgono le loro attività di spaccio utilizzando i cunicoli fognari nei pressi del fiume. In molti degli articoli e dei servizi giornalistici che hanno trattato questo tipo di fenomeno ci si è concentrati molto su quanto di scandalistico o di esotico potesse avere l'idea di passare attraversano i cunicoli fognari per lo spaccio, aiutando tuttavia molto poco a capire cosa sta accadendo e perché proprio a Torino. Un esempio è dato da questo articolo il cui titolo dice "Catturati nelle fogne i re dei pusher" dove si fa riferimento agli inseguimenti nei cunicoli: i ragazzini marocchini sono stati fotografati e riprodotti tanto che ne ho riconosciuto uno con cui ho lavorato e che è stato uno dei miei interlocutori presso il carcere minorile di Torino, il cliente è l'unico tra queste foto ad avere la faccia oscurata e dato che stiamo parlando di minorenni ci troviamo di fronte ad una palese violazione dei codici deontologici. Ricordate le allusioni di Oriana Fallaci quando parlava di immigrati che si riproducono come topi che entrano e degradano le città? Lo stesso concetto che questi ragazzi vivono sempre nei cunicoli fognari come topi è lo stesso che vuole comunicare il servizio giornalistico proiettato ieri, mentre la verità è che li utilizzano solo per il tempo strettamente necessario per spostarsi da un luogo all'altro, in genere per tratti molto brevi. Si tende però a costruire questo immaginario pervasivo di qualcosa che si muove e brulica sotto la città visibile, negli spazi angusti e nascosti, abbandonati dagli uomini e riservati ai rifiuti. Un altro esempio è tratto da un articolo che è stato pubblicato qualche giorno dopo l'uscita di questi servizi e di cui voglio leggervi l'inizio per poi tentare di ragionarci sopra: "Sono tutti marocchini ma lo stile con cui si contendono il mercato dell'hashish rievoca abitudini mafiose, non tollerano sgarri e invasioni di campo e pur di difendere il loro territorio sono disposti a tutto anche a cercare di ammazzarsi a colpi di machete, sono due le bande di maghrebini che si combattono per il dominio dello spaccio del fumo: da una parte la gang che domina a San Salvario i Red Death, un nome americano che serve per distinguersi dal più tradizionale Maroud degli avversari che spadroneggiano a Porta Palazzo". Quando ho letto quest'articolo, avendo lavorato con molti di questi ragazzi, non ho potuto che mettermi a ridere di fronte a questa esotizzazione evidente del problema perché l'autore interpreta Red Death, Morte Rossa, come nome di gang mentre non è nient'altro che il nome dello spacciatore dal quale i ragazzi si riforniscono ossia Mustafà Redded. Vedete però come l'atteggiamento interpretativo dell'autore in questo campo tende a produrre l'effetto di naturalizzazione della cattiveria e dell'odio tanto che l'articolo è infarcito di termini e aggettivi che rimandano a quest'immaginario di odio, di violenza, vendetta, pericolose bande, commercianti impauriti, paura… Io credo che questo sia un esempio di comunicazione che parla da sé rispetto a quello che stavamo dicendo di naturalizzazione del sentire comune e del senso di insicurezza che questo tende a produrre, nelle associazioni di idee e nel modo in cui viene educato il lettore a vedere questi ragazzini.

Per cercare di fare da contro altare a questo tipo di rappresentazioni vi voglio leggere, visto che prima abbiamo detto che spesso si tratta di attori che non hanno voce, quello che dice un gruppetto di ragazzi del quartiere popolare a nord di Casablanca da dove molti provengono: raccontano di come si sentono nel loro paese, raccontano del senso di vuoto che percepiscono nella loro esistenza quando si trovano a vivere in una grande periferia urbana senza nemmeno poter raggiungere il centro, raccontano di non essere mai stati in centro a Casablanca perché si vergognano di andarci con le ciabatte, moltissimi parlano dell'Europa come il posto dove si possono avere le scarpe, e tornare dall'Europa significa poter conquistare il centro della città, quel luogo dove sono stati banditi fin dalla nascita; è più facile pensare di attraversare lo stretto di Gibilterra piuttosto che non la barriera di classe che divide il loro quartiere da quello più agiato. Io questi ragazzi li ho incontrati nei loro quartieri e mi hanno raccontato di come tutti i giorni vanno al porto per provare a bruciare, hreg il termine comune in Marocco per parlare della migrazione clandestina. Hreg significa bruciare ed è estremamente interessante osservare che esiste tutta una mitologia della lingua islamica che parla dei conquistatori come di coloro che bruciano le navi per non essere tentati dall'idea del ritorno e questo dal punto di vista immaginario richiama per certi aspetti anche l'idea del ritorno impossibile, che non sia un ritorno a mani piene, che non sia il ritorno di colui che ha vinto perché la migrazione produce come effetto su chi migra la responsabilizzazione, la soggettivizzazione, l'individualizzazione delle responsabilità di chi è migrato. Non sono più le condizioni sociali ad essere intollerabili per gli immigrati ma per il paese di origine, è la responsabilità del migrante e non è possibile tornare a mani vuote, è impossibile il ritorno dello sconfitto. Noi conosciamo bene questo ragionamento che non è altro che la nostra sindrome dello zio d'America; avevo uno zio che negli anni '60 dopo l'immigrazione si faceva fotografare di fronte a una bellissima villa negli Stati Uniti dove lui lavorava come giardiniere ma non lo diceva, e questo è un po' il segno del compito storico ed epocale che grava sulle spalle di un migrante: questo è da capire. Ho chiesto a questi ragazzi di Casablanca cosa ne pensano i loro genitori e ci sarebbe da parlare per ore rispetto all'inversione genitoriale che si produce: i genitori non hanno più potere da un punto di vista sociale, sono spogliati completamente di potere e di possibilità sociali, e quindi moltissimi dei ragazzini che incontriamo sulle strade parlano del loro compito come di salvataggio della propria famiglia, dei propri genitori. Mi hanno detto che i loro genitori hanno paura ma non possono fare niente, sono poveri, invocano soltanto Dio che li aiuti! Uno di loro mi ha detto: i nostri genitori non hanno paura sanno che io in fondo me la cavo, poi se arrivo in Europa trovo qualche lavoro buono… Mi hanno raccontato che tanti ragazzi se ne sono andati e tornano con macchine, soldi, scarpe! Ho anche chiesto loro come immaginano l'Europa e uno di loro mi ha risposto: "voglio vederla, mio fratello mi ha detto che è un posto bello, che i marocchini li sono puliti, qui non possiamo nemmeno fare la doccia, e poi li hai tempo libero, internet, giocare a calcio, divertirti, qui non puoi fare niente, giri a vuoto, ti arrabbi". Mi hanno raccontato di tutte le volte che hanno cercato di fuggire ma sono stati beccati, portati in caserma per tre giorni e poi di nuovo fuori a rischiare. Riskè è l'altro termine che viene usato a Casablanca per parlare dell'immigrazione, rischiare è migrare per antonomasia e dietro ovviamente c'è tutto un complesso di significati che è molto importante. Tutto questo per dire che c'è un mondo immenso dietro alle storie che noi vediamo per strada e che vengono raccontate come appunto storie di odio a morte, di violenza, di cunicoli e di spazi sotto i piedi dei passanti e lontane dal mondo visibile; c'è un mondo enorme estremamente complesso, ricco di immagini di desideri, un mondo che noi dobbiamo assolutamente impegnarci a conoscere.

La seconda domanda che vi faccio: perché è così complicato impegnarsi per conoscere a fondo queste realtà, nel momento in cui è pieno di attori, di interlocutori a cui possiamo chiedere, che accolgono estremamente volentieri la nostra curiosità e la nostra vicinanza aldilà dell'esotizzazione di categorie come quella di cultura di differenza che spesso vengono utilizzate come barriere, come problema? Lavoro moltissimo con operatori dei servizi sanitari che dicono che ci sono donne col velo che non sanno come approcciare poi si rendono conto che quando lo fanno in una maniera umana tutte sono estremamente disponibili ad avvicinarsi, a parlare, a raccontarsi, a lasciarsi toccare, curare, a raccontare la propria storia. E' un compito importante rispetto al quale non bisogna sottrarsi perché c'è un mondo di valori e di significati. Vi porto l'esempio di un signore congolese che ho seguito anni fa e che mi ha raccontato della sua esperienza di richiedente asilo in Italia e delle vessazioni che si è trovato a vivere in quanto tale; una storia estremamente ricca con delle vicende molto dense, la cui esplorazione è importantissima per capire cosa c'è dietro quel vissuto tangibile. Richard, come ho chiamato quest'uomo, racconta: "Sono stanco, mi sento affaticato, non dormo mai la notte, ho paura, spesso al centro di accoglienza entrano i militari, no volevo dire la Polizia, entra controlla se ci sono i permessi di soggiorno, ad agosto sono entrati di notte e frugavano tra le stanze, entravano nelle camere con le torce elettriche, sollevavano le lenzuola di chi dormiva, avevo paura non sono tornato al dormitorio per 3 giorni, poi qualche giorno dopo mi hanno fermato per strada, un agente ha detto che la ricevuta del permesso di soggiorno era falsa, e che dovevo seguirlo, io avevo di nuovo paura, gli ho lasciato il foglio e sono scappato, in quei giorni ero spaventato, tremavo, ho preso tutte le gocce che restavano! Penso sempre a mio fratello a come è morto, sono venuti a prenderlo a casa quelli dell'esercito, io e mio fratello gemello ci assomigliavamo moltissimo, i militari ci dissero che ne avrebbero salvato solo uno e ci hanno chiesto chi avrebbe voluto morire, mio fratello ha detto che lui era nato prima e che io avrei vissuto di più così loro mi hanno obbligato ad avvolgerlo in un materasso, pensavo scherzassero…".


* Testo non rivisto dall'autore.