XV Redattore Sociale 28-30 novembre 2008

Algoritmi

Metodi di inchiesta sociale - Schiavi

Intervento di Alessandro Leogrande. Conduce Marino Sinibaldi

Alessandro LEOGRANDE

Alessandro LEOGRANDE

(Taranto, 1977) Giornalista e scrittore, è vicedirettore del mensile Lo straniero, collabora con diverse testate ed è autore di libri di inchiesta tra cui “Uomini e Caporali” (Mondadori, 2008), “Il naufragio. Morte nel Mediterraneo” (Feltrinelli, 2011) finalista al Premio Volponi 2012, “Fumo sulla città” (Fandango, 2013). Ha vinto tra l’altro il Premio Kapuscinski 2012 come autore emergente. L’ultima sua opera è “La frontiera” (Feltrinelli, novembre 2015).

ultimo aggiornamento 03 novembre 2015

Marino SINIBALDI

Marino SINIBALDI

Direttore di Rai Radio Tre, dove ha lavorato per molti anni inventando e conducendo, tra l’altro, la trasmissione “Fahrenheit”. Dalla prima metà degli anni 1980 collabora in veste di autore e conduttore a programmi culturali radiotelevisivi della Rai. Dal 2014 al 2017 è stato Presidente del Teatro di Roma. È tra i fondatori della rivista "Linea d'ombra"; è autore di saggi di storia e di critica letteraria, collabora con quotidiani e periodici. Ha pubblicato nel 2014 per Laterza il libro “Un millimetro in là. Intervista sulla cultura” (a cura di Giorgio Zanchini). 

ultimo aggiornamento 10 ottobre 2018

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TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Marino Sinibaldi

Punto di vista, linguaggio e tempo: le tre variabili fondamentali. Tu ci hai messo un po' di tempo a scrivere il tuo libro, quindi sei il più adatto a parlare della necessità del tempo.
Qual è stato il ruolo dell'informazione, dato che sempre più spesso sentiamo che altri attori - in questo caso Medici senza Frontiere o la Magistratura - quasi avessero come espropriato quello che in altri tempi era lo spazio dell'informazione?

Alessandro Leogrande

Il punto di partenza che mi ha mosso nello scrivere questo libro mi aiuta a risponderealle domande sul tempo, sulla durata, sul punto di vista, sull'utilizzo delle fonti, sul confronto con i numeri che vanno sempre controllati perché è forte cadere nella tentazione - quando una situazione è grave - di spararla grossa per poter toccare il narcisismo di tutti.
Quello che ha mosso il mio interesse è stata una situazione ancora peggiore di quella che raccontava l"ispettore della Coop prima o di quella che è stata percepita da Medici senza frontiere, dalla Caritas, ecc, ossia la forte presenza in Italia, nelle regioni meridionali e ora anche nella pianura padana, di un caporalato agricolo che riprende delle forme che sono quelle del caporalato classico - per quanto riguarda la Puglia quelle dei tempi di Di Vittorio.
La cosa che mi ha impressionato nel sentire i resoconti - ora colti da me o da altri - dei braccianti stranieri che oggi vivono in quei casolari è vedere come il mondo degli oggetti, il mondo delle cose, la descrizione della giornata, cosa mangiano e via dicendo, fossero praticamente identiche alle testimonianze raccolte nel passato (vedi il libro che si intitola "La memoria che resta").
La prima idea di tempo che mi viene in mente è quindi la lunga durata di alcune situazioni, il fatto cioè che dobbiamo confrontarci con della roba che oggi riguarda soggetti stranieri, ma che ripete delle leggi che da noi sono abbastanza antiche e ossidate. Bene o male tutti sappiamo che in Puglia, in Sicilia, in Campania ci sono braccianti stranieri, africani o europei dell'est e caporali stranieri, tutti sapevamo bene o male che si rifacevano a delle vecchie forme come il combinare il lavoro al crocicchio di strade alle 4 del mattino, nel baretto di borgata, che c'è il mercato delle braccia, che è avvenuta una grossa mutazione antropologica della figura del caporale che spesso è della stessa nazionalità dei braccianti sfruttati, che i prezzi sono quelli, che non esiste cioè una paga ad ora bensì una paga a cassone…

I dati Istat ci dicono che l'Italia produce 50 milioni di tonnellate all'anno di pomodoro, secondo produttore al mondo dopo gli Stati Uniti e prima della Cina, e questi 50 milioni di tonnellate per il 30% sono raccolte in Puglia in un modo che è identico nei decenni, si riempie cioè un cassone di pomodoro che raccoglie 3 quintali di frutto e per quel lavoro il prezzo è pari a 3,50 euro che ovviamente non vengono dati al bracciante bensì al caporale, il quale pagherà circa 2,80 euro a cassone. Capite bene che al di là delle condizioni atroci in cui si lavora - chiunque si è fatto un giro d'estate in macchina nel tavoliere anche solo per scendere in Salento, sa quali temperature ci sono - in un'ottica di povertà o di miseria, se ad un bracciante offrono, seppure una piccola parte di quei 3,50 euro, oggi può essere tra i 50 e i 70 centesimi, è chiaro che questo è portato a raccogliere quanti più cassoni possibili.
Tutte quelle storie di collassi, di violenza, di morte ai bordi dei campi, come anche nell'ultima estate del 2008, hanno una prima radice, una prima spiegazione in questa logica di iper-sfruttamento lavorativo. Questo è provato da una delle inchieste della magistratura che cito nel mio libro.
Tra i braccianti agricoli è cominciato a circolare tantissima anfetamina, a volte sono stati costretti dagli stessi caporali a prenderla, è qualcosa che ti fa andare avanti sotto il sole cocente.
Di queste storie qui, che ci fossero queste condizioni di sfruttamento e anche di violenze legate al mondo del caporalato, è qualcosa che sapevamo. Mi sono accorto e se ne sono accorti anche altri prima di me. Si configura come vera e propria riduzione in schiavitù e ce ne siamo accorti non perché ci siamo mossi noi italiani, ma perché in Polonia c'è stato qualche giornalista intelligente e programmi locali tipo "Chi l'ha visto" che hanno montato il caso su della gente che scompariva e non si sapeva che fine avesse fatto.

Dopo che alcuni braccianti sono riusciti a scappare, e hanno raccontato le loro storie, si è venuti a conoscenza dell'ulteriore degradazione dell'istituto del caporalato; molta gente è scappata perché liberata da un blitz dei carabinieri ai quali hanno fornito delle informazioni.
Vedo abbastanza improbabile invece che il giornalista vada ad intervistare qualcuno che è tenuto in schiavitù, e questo è un primo elemento su cui riflettere.
Queste storie vanno moltiplicate per dei numeri enormi, per parlare solo della Polonia, pensate che l'ambasciata parla di 5-6 mila persone a stagione, tutte che raccontavano una storia più o meno identica: hanno raccontato di aver letto un annuncio sul giornale o su un sito internet che diceva: "lavoro agricolo ben pagato nel sud Italia: sarete pagati € 5,00 all'ora….". Vengono poi caricati su un pullman, ognuna paga 200 euro per partire, che per noi è una cifra tutto sommato bassa, ma nella prospettiva del Pil procapite polacco è una cifra elevata. In alcuni di questi campi vivevano 80-90 persone, i cui recinti erano controllati da gente che faceva avanti e dietro con i fucili e tutto ciò avveniva non molto lontano dalle strade statali e provinciali.
Là alle 4 o alle 5 del mattino venivano portati ora su questo campo, ora su quell'altro, in perfetto accordo con i produttori agricoli della zona che chiamano il titolare al cellulare e dicono: domani mi servono 10  uomini, 20, 30… Uno: si tratta di una vera e propria schiavitù controllata con le armi da cui non puoi scappare! Due: la paga diventava ben inferiore a quella dei 2,80 euro a cassone. Nella procura di Cracovia sono state raccolte circa 700 testimonianze di orari di lavoro massacranti, 12-14 ore al giorno e quando dopo 1 o 2 settimane chiedevano di essere pagati, giù botte da orbi.

Uno di quei temi difficile da capire per un magistrato che indaga riguarda le fughe: questa gente poteva o non poteva scappare? La tesi degli avvocati difensori dei caporali è che questa gente poteva scappare, in realtà i caporali sono persone molto furbe, perché sanno che se non c'è domanda di forza lavoro, è un conto, ma se ci sono tanti altri che aspettano di lavorare, possono anche pagare poco o non pagare mai i braccianti, e chi se ne va fa un favore.
Queste storie si sono cominciate a sentire e a raccontare, storie molto brutte, che poi ho raccontato e raccolto nel mio libro.

Quante persone in questo gioco qui sono morte? Perché ci sono stati questi morti?
 Da una parte c'è la polizia e il consolato polacchi che hanno raccolto dei numeri, una polizia polacca che tuttora sul sito ufficiale ha una lista delle persone scomparse in Italia fra il 2000 e il 2006. Questa lista è stata pubblicata ad ottobre del 2006, allora gli scomparsi erano 118, tuttora sono intorno a 90 unità.
Non è tutta gente scomparsa in Puglia e/o fatta fuori, perché ovviamente c'è anche gente che può aver fatto perdere le tracce per motivi personali, però il dato che al consolato polacco hanno ben presente, è quello che non può essere statistica ossia che almeno il 20% di queste persone hanno avuto un ultimo contatto via telefono con la famiglia proprio dalla provincia di Foggia.
Accanto alla lista poi c'era anche la questione che mettendo insieme i dati, in almeno 10 o 15 casi si trattava di morti sospette avvenute nel tavoliere, quindi nella provincia di Foggia; per morti sospette s'intende perlopiù cadaveri del tutto ignoti nel senso che non hanno un nome ed un cognome, di gente che presumibilmente faceva il bracciante, il cui corpo è stato trovato con segni di violenza. Su questa storia delle morti sospette anche qui le indagini, per dire, sono molto difficili, perché come si fa a capire uno come è morto, chi l'ha ammazzato, che cosa ha fatto? Si può fare l'esame autoptico però anche se l'autopsia, per dire, stabilisce che quello è morto perché gli è stato spezzato il collo, come si fa a risalire a chi glielo ha  spezzato, chi è stato? Poi ci sono le voci, le voci dei bar, su cui io però andrei molto cauto.

Mi rendo conto che se uno fa un libro sulla faida di Scampia è difficilissimo ricostruirla, ma in qualche modo lo sappiamo chi e perché è morto; qui invece ho avuto una sensazione di sud diametralmente opposto, cioè di qualcosa che affonda in una bolla di sapone che non riesci a rompere, di dati che a volte si mettono in conflitto, che s'inseguono.
Questo per dire che noi abbiamo incominciato a sapere qualcosa sul fatto che dei caporali avevano ucciso dei propri braccianti, perché c'è stata la testimonianza di un collaboratore di giustizia. Tutta questa vicenda noi non l'avremmo saputa, se non si fossero verificati due situazioni: la presenza a Bari di un console onorario polacco, una figura abbastanza stravagante, un imprenditore agricolo molto ricco che, facendo insieme il lavoro d'imprenditore e di console, ha cominciato a rendersi conto di qualcosa che non andava nelle terre vicine.
Questo imprenditore-console non è del tavoliere ma di Castellana ossia Puglia centrale ed ha una serie di aziende di trasformazione di prodotti agricoli, fa sottolio e sottaceti e lavorando soprattutto con i carciofi e con i pomodori, si è cominciato a rendere conto che i polacchi che scappavano da questi campi ed arrivavano al suo consolato erano gli stessi che lavoravano per i suoi fornitori; ha fatto quindi 2+2 e ha cominciato a raccogliere le denunce. Questo lavoro di raccolta delle denunce è una cosa importantissima perché o lo fa un consolato o non lo fa nessuno; probabilmente ci sono migliaia di romeni che hanno vissuto condizioni anche simili se non peggiori di quelle dei polacchi, però non se ne sa niente perché non c'è stato questo anello della catena.
Quelle persone sono prima di tutto cittadini europei per cui non possono essere espulsi, però non vogliono denunciare i loro caporali e nel 90% dei casi ritornano a lavorare per gli stessi caporali di prima. Qui si è rotto il meccanismo perché in seguito ad uno di questi grossi blitz, l'intervento del console ha permesso praticamente di offrire una garanzia alla gente. I polacchi che erano finiti in uno di questi campi ad Ortanova sono stati portati a Castellana, una zona della Puglia radicalmente diversa, ospitati in una sua foresteria del consolato e nei giorni successivi hanno cominciato a raccogliere le denunce, su questa cosa qui poi c'è stata un'inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Bari, che per le inchieste sul campo nei mesi successivi si è servita dei Ros, dei carabinieri, anche perché uno dei problemi è che a livello locale nelle caserme dei carabinieri, della polizia e nei commissariati di polizia sapevano tutto ma nessuno interveniva, magari perché poi, come alcuni hanno raccontato, gli stessi a cui avrebbero dovuto fare le denunce li vedevano prendersi la busta di pomodori…

Un importante precedente giuridico. L'altro punto su cui riflettere è che tutto il materiale sull'ordinanza cautelare e il fascicolo del PM con verbali, testimonianze e via dicendo, è diventata una forma di reperto archeologico del presente. A mio avviso queste carte sono interessantissime e permettono di ricostruire il mondo della schiavitù e degli sfruttati, ma anche il pensiero, la logica, l'organizzazione degli sfruttatori, che forse è la cosa più interessante.
E qui arrivo al fatto che il processo è stato non solo il primo in Italia e in Europa contro un'organizzazione di caporalato criminale per il quale alcune persone sono state poi condannate per riduzione in schiavitù, ma costituisce anche un precedente giuridico molto importante perché un vice caporale di un caporale capo, siccome è stato minacciato dal suo capo che gli aveva detto di addossarsi tutte le colpe, ha deciso di entrare in un programma di protezione; collaborando con la giustizia, un po' come le prime testimonianze ai tempi di Falcone, è stato ricostruito dall'interno tutto il meccanismo. E' stato il primo che ha incominciato a fare i nomi, a raccontare gli episodi di violenza… Questo per dire che solo dopo un anno e mezzo d'inchiesta si è cominciato ad avere informazioni precise da un collaboratore di giustizia su quanti o su chi fosse morto…
E' opportuno  riflettere su questo elemento, cioè sul fatto che questa volta si è fatto uso di collaboratori di giustizia stranieri in Italia, credo che questo sia uno dei primissimi casi, qualcuno potrà correggermi, ma credo che l'altro caso di collaboratore di giustizia straniero sia quello di un cinese a Prato che ha denunciato lo sfruttamento nei laboratori tessili, dove anche lì si pratica la schiavitù.

Il caporalato come intreccio tra criminalità ed economia. Il tema centrale del mio libro è comunque la questione della riduzione in schiavitù che è alla base di questo mondo agricolo.
L'intreccio tra criminalità ed economia è pieno, non è come quello della cocaina che produce Pil e che viene reinvestito; questo intreccio stà alla base di un sistema agricolo che si fonda sul lavoro straniero, sullo sfruttamento del lavoro straniero, ha un'organizzazione non para-criminale bensì direttamente criminale. Negli anni 2000-2006 un po' limitatamente negli ultimi anni - e vi dirò perché - ha funzionato in questo modo e in parte continua a funzionare così.
Di tutto questo sistema e del successivo processo a 20 caporali, con una sentenza di 150 anni complessivi di condanne, in Polonia sono state fatte trasmissioni su trasmissioni, mentre in Italia è uscito soltanto qualche trafiletto sulla stampa locale pugliese. Ne consegue che arrivano molto meno polacchi però è impressionante vedere come sono stati sostituiti in toto dai romeni - non a caso i morti di questa estate erano romeni.
Ci sono state delle misure importanti adottate della Regione Puglia, però c'è un rapporto Europa dell'est ed Europa dell'ovest, che è un rapporto tra aree ricche ed aree povere di un unico sovra- Stato di cui facciamo parte; in effetti, uno dei punti su cui riflettere è che queste dinamiche avvengono all'interno dell'Unione Europea, non stiamo parlando di extracomunitari o di clandestini, che poi ci sono anche, ma non rappresentano la fetta più consistente.

Marino Sinibaldi

Questo sguardo ravvicinato, paziente e un po' appassionato del libro di Alessandro,secondo me smonta la parola passpartout emigrazione e emigrati che sono diventate parole impossibili ed inutili da maneggiare. La realtà degli immigrati è enormemente differenziata e può essere capita e anche raccontata solo a partire dalle sue differenze; Alessandro ad esempio parla di lavori che gli africani non vogliono più fare e questo perché quella africana è un'immigrazione stabile, che tende a stabilizzarsi e che quindi non accetta le paghe che invece l'immigrazione stagionale accetta; l'immigrazione stagionale non viene da paesi del terzo mondo bensì dall'interno della Comunità Europea, polacchi prima e romeni adesso, una specie di piramide rovesciata dove quindi, in fondo alla piramide, non c'è l'africano che attraversa il Sahara con documenti falsi bensì il polacco che con documenti legali viene qua e muore.

Alessandro Leogrande

Ci ho messo molto tempo per capire perché gli europei dell'est accettassero condizioni di vita e di lavoro inferiori a quelle degli africani - quelli nelle peggiori condizioni come ad esempio quelli che scappano dal Darfur - e la risposta che mi hanno dato tanti lavoratori africani è esattamente quella che diceva Marino prima, ossia che in qualche modo quella è un'immigrazione che ha una sua progettualità sostanziale, è gente che viene in Italia per rimanerci, e se in Italia ci devi rimanere, non puoi accettare di guadagnare meno di 20-25 euro al giorno, perché così non raccogli nessun gruzzolo. Più della metà dei braccianti del tavoliere sono persone venute per raccogliere un po' di soldi e che poi tornano in patria.

L'altro fatto radicalmente nuovo è che le comunità d'immigrazione più complesse nel nostro territorio, si stanno fratturando al loro interno: se c'è un caporale polacco e un bracciante polacco capisci che non esistono i polacchi, ma esiste in quel caso uno sfruttato e uno sfruttatore e quindi si dovrebbero fare leggi che stanno con lo sfruttato e contro lo sfruttatore. Invece noi, nell'analisi di questo fenomeno, tendiamo sempre a generalizzare etnicamente i gruppi presenti in Italia.
Si tratta di un processo discutibile perché le persone arrivano in quanto individui, e se proprio vogliamo dividerli per categorie, rifacciamoci alle categorie socio-economiche come ad esempio distinguendo tra chi sfrutta e chi è sfruttato.

Marino Sinibaldi

Tu collabori con dei giornali, Il corriere del mezzogiorno, Lo straniero, hai fatto pure qualcosa per la radio; vorrei che spiegassi l'idea di usare linguaggi e tempi diversi.

Alessandro Leogrande

Non svelo un mistero se dico che c'è molto più spazio nelle case editrici che non nei giornali per parlare di queste cose; inoltre quando hai tanto materiale non puoi affrontare tutto in un articolo, perché sono tante le complessità delle cose che devi affrontare, e così hai bisogno di un libro.

Marino Sinibaldi

Nel tuo libro c'è una profondità che è data da due questioni: una è la profondità storica ossia il collegare la vicenda dei polacchi, dei caporali e degli immigrati polacchi con storie e situazioni del passato, e tutto ciò con un percorso che parte addirittura da vicende degli anni '20 del Novecento - vedi Biennio Rosso, gli anni della nascita e della crescita del fascismo, lo scontro violento di classe armato tra braccianti e latifondisti, proprietari terrieri, esecuzioni di massa…

Il secondo elemento è ancora più delicato: l'uso di una nuova forma di narrazione non autobiografica ma da dentro le situazioni. Alessandro fa di questo libro un esempio della nuova forma di inchiesta o nuova forma di narrazione della realtà italiana che è quello di starci dentro, cioè di dichiarare un'unità o partecipazione o protagonismo, non nei termini banalmente autobiografici.
Il primo esempio che ha scatenato questo nuovo metodo è Gomorra, dove Roberto Saviano racconta episodi di cui è stato testimone personalmente, è presente nel luogo del delitto e così tutti quegli elementi che tradizionalmente e banalmente sono elementi narrativi, danno invece una forza conoscitiva e una credibilità fortissima. Per il fatto di aver ammesso la sua partecipazione e aver cioè cancellato ogni forma di osservazione esterna, Saviano ha dato una fortissima capacità conoscitiva al libro e una fortissima suggestione. Domani, con Rosaria Capacchione, potrete conoscere un'altra forma alternativa che è quella di trarre la sua credibilità raccontando di fatti che segue ogni mattina in tribunale; il libro di Raffaele Cantone è invece l'esempio del giudice che racconta; un triangolo di persone con la stessa forma di presenza. Nel tuo libro questo lo fai in vari modi, uno dei quali è persino risalire ai tuoi antenati, al fatto che insomma vieni da una famiglia di segni agrari: ci spieghi perché è importante questa dichiarazione di presenza nel libro?

Alessandro Leogrande

Porsi la domanda se l'io è coinvolto o non è coinvolto secondo me è importante, ovviamente io sto parlando di un libro, di un'inchiesta che decide di mettere insieme più piani narrativi, più registri e più analisi. Il libro "Uomini e caporali" è venuto più come una lunga, a volte interrotta, ricerca della verità, perlomeno un'avvicinarsi alla verità, un servirsi dei materiali giudiziari per arrivare alla verità sapendo bene che però non è altro che un brandello di verità che ti ritrovi tra le mani e devi stilizzare, così come la verità di un'intervista, di un incontro. Io mi sono fatto la domanda: io sono un pugliese che scrive una roba del genere e che avviene in Puglia, non sono un milanese o un parigino che scende al sud, fa un viaggio e descrive la terra dei barbari, no, sono uno che in qualche modo lì ci sta. Sono anche una presenza storica, nel senso che le vecchie generazioni della famiglia che sono venute prima di me, in questa terra qualcosa ci hanno fatto.

Racconto quindi un fatto storico che coinvolge anche la mia famiglia che dà il senso di come i veri attriti sociali non nascono tanto tra i braccianti e i ricchi proprietari, ma chi ci sta nel mezzo. .
Nel luglio del 1920, in pieno Biennio Rosso c'è stata una strage particolarmente cruenta a Gioia del Colle, una delle capitali agricole della Puglia, l'altro polo rispetto a Cerignola che è la capitale agricola del tavoliere; non a caso poi sono state i due capoluoghi pugliesi del fascismo agrario negli anni '20. Il vero attrito sociale nasceva allora, come adesso, tra il bracciante e il caporale, oppure tra le masse e i bracciantili che richiedevano lavoro dignitoso e gli ex contadini che diventavano piccoli proprietari. Questo aspetto dell'odio che esplode in maniera più virulento quanto più vicine sono le persone, o quanto più compaiono persone che sono ex, cioè che fanno il salto della palizzata da una parte all'altra, riguarda l'oggi come il passato.
Nel luglio del 1920 in Puglia come in altre regioni d'Italia, c'erano delle forme di sciopero a rovescio. Come ho letto nel libro del sindacalista Giovannini intitolato "l'Italia massimalista", il vero luogo di lotta del Biennio Rosso non è stato nelle fabbriche bensì nella campagna; l'autore elenca nel libro, giorno per giorno, delle morti che ci sono stati sui campi, in parte dovute all'intervento della polizia, in parte dallo squadrismo, come in una vera e propria guerra civile.
Di queste stragi che ricordava Giovannini, c'è appunto questa di Gioia del Colle, una strage in tutto e per tutto pre-politica: allora c'erano degli scioperi alla rovescia, praticamente succedeva che i braccianti in gran parte erano reduci dalla Grande Guerra, occupavano le terre incolte cui era stata promessa dal famoso decreto di Socchi; il loro principale oppositore sociale, diciamo così, non era tanto il ricco latifondista il quale, se venivano occupate le terre, non se ne fregava niente, bensì era o il piccolo proprietario che magari fino a 10-20 anni prima, una generazione prima era stato egli stesso contadino e quindi si vedeva invaso un campo di pochi ettari, oppure i massari che tenevano in gestione, in affitto, alcune masserie per i ricchi latifondisti e che si vedevano occupate le terre da cui dovevano in parte guadagnarci e in parte pagare gli affitti. Successe che in una masseria della zona vennero attirati un largo numero di contadini con la promessa che il giorno dopo sarebbero stati pagati ed andarono in 200-300 persone a pulire la vigna; al termine della giornata si recarono alla masseria dove incontrarono Sergio Ghirardi, un piccolo proprietario, non un ricco agrario, che non voleva pagarli; parte il fuoco, incominciano a sparare all'impazzata come conseguenza di un vero e proprio "patto di sangue" di pochi giorni prima, fra i proprietari e i massari della zona che consapevolmente li avevano chiamati quel giorno a lavorare per organizzare una strage. Il giorno dopo per ripicca in paese i contadini andarono alla ricerca dei padroni o di chi aveva organizzato la strage, 3 proprietari furono uccisi, poi arrivarono tutti i capi dei contadini, arrivò Di Vittorio, arrivò Di Vagno - un po' il Matteotti di Puglia - perché qualche mese dopo sarebbe stato ucciso dagli squadristi. Ci fu un processo anche all'epoca e il mio libro è venuto così, in qualche modo dall'intreccio del racconto a distanza di due vicende processuali, il processo di oggi e quello di ieri. All'epoca ci fu una richiesta di rinvio a giudizio abbastanza progressista, poi praticamente i proprietari terrieri furono tutti assolti perché la sentenza arrivò 2 anni dopo nell'agosto del 1922, ossia poco prima della marcia su Roma, il famoso agosto in cui i fascisti risposero allo sciopero delle sinistre con violenze in ogni città; le uniche città in cui i fascisti non sfondarono furono Parma e Bari. Il mio bisnonno e il mio trisavolo erano fra i proprietari che organizzarono la strage e una delle mie ricerche nel libro è il capire in che modo abbiano potuto farlo.
L'unica persona con cui parlare era mio nonno, che però ha 90 anni ed essendo nato nel 1918 allora aveva 2 anni…
La cosa impressionante è che dei miei parenti, da parte di mia madre, non c'è traccia nelle carte giudiziarie e questo dice molto anche sul rapporto tra verità storica e verità giudiziaria; in effetti, quando si strinse il "patto di sangue", solo una metà dei proprietari decisero di andare di persona a sparare, gli altri pagarono qualcuno per andare a farlo ed è quello che fecero i miei avi.

* Testo non rivisto dagli autori.