XVI Redattore Sociale 27-29 novembre 2009

Disorientati

Il disorientamento della comunicazione

Intervento di Fabio Merlini. Conduce Giuliano Battiston

 
Parte 1
Durata: 18' 54''
 
Parte 2
Durata: 13' 32''
 
Parte 3
Durata: 14' 38''
 
Parte 4
Durata: 26' 55''
 
Parte 5
Durata: 30' 56''
 
 
 
 
Fabio MERLINI

Fabio MERLINI

Docente di filosofia morale all’università dell’Insubria di Varese, il suo ultimo libro è “L’efficienza insignificante. Saggio sul disorientamento” (Edizioni Dedalo, 2009), alla cui analisi è ispirata parte dell’introduzione al programma di quest’anno.

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

Giuliano BATTISTON

Giuliano BATTISTON

Giornalista free-lance, collabora tra l’altro con "Lo Straniero" e "Lettera Internazionale". E' autore del libro-intervista "Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione" (Edizioni dell'Asino, 2009). Lavora alla Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso.

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

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LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Giuliano Battiston

Sia l'intervento di Carlo Verna che quello di don Vinicio hanno sollevato già questioni molto pertinenti rispetto al libro di Fabio Merlini. Da una parte Carlo Verna sottolineava l'incapacità di gestire strumenti tecnologici che spesso ci sembra ci scappino di mano, quella che Fabio Merlini definisce una sorta di squilibrio, di contraddizione tra la potenza dei mezzi e invece la povertà di senso che riusciamo ad attribuire a questi mezzi. Don Vinicio, invece, da una parte appunto parlava dell'inquinamento dell'informazione e dall'altro della possibilità costruttiva del giornalismo che passa attraverso la memoria, uno dei concetti chiave che attraversano questo testo di Fabio Merlini "L'efficienza insignificante, e la necessità della coscienza critica". Prima di dare la parola a Fabio Merlini volevo riprendere alcune cose di cui parlava don Vinicio l'anno scorso presentando il seminario intitolato Algoritmi. Io non c'ero, però ho rivisto, ho riletto alcune delle relazioni dell'anno scorso e degli anni precedenti e mi ha colpito quando don Vinicio parlava della mancanza di un linguaggio comprensibile che spiegasse la crisi finanziaria in termini corretti, rigorosi, trasparenti. Don Vinicio presentava la crisi finanziaria come una vera e propria storia da banditi, e allo stesso tempo reclamava un ritorno ad una dimensione reale, la necessità di leggere la realtà, di leggerla così com'è. A distanza di un anno è sempre più evidente che la crisi finanziaria è anche una storia di banditi, quindi di responsabilità, però credo che qui piuttosto che interrogarci sulle responsabilità da attribuire agli attori economico-finanziari o a quelli politici che non hanno saputo controllarne l'operato, è interessante interrogarci sulle responsabilità di ordine etico-culturale, professionali, quelle dei giornalisti, che non solo non sono riusciti a tradurre in linguaggio comprensibile i meccanismi economici-finanziari spesso complessi, ma che finché hanno potuto ossia finché le cose non sono diventate eccessivamente pressanti, hanno evitato di mettere in discussione lo stesso sistema economico che produce fisiologicamente, quindi non in maniera occasionale o eccezionale, delle crisi e che mette in crisi ogni giorno i più vulnerabili. Se uno s'interroga sulle ragioni per cui questa messa in questione, questa mancanza d'istanza critica non c'è stata, ci si accorge che le ragioni sono molto vicine a quelle di cui vi parlava don Vinicio, ovvero la mancanza di curiosità, di onestà e di memoria. Per riprendere un altro dei temi discussi qui negli scorsi anni, sottolineo anche la mancanza dell'ascolto, della meraviglia e del coraggio, le qualità perdute del giornalismo su cui Capodarco aveva già lavorato.

Un altro elemento, che va più in profondità e che spiega l'incapacità del giornalismo di ragionare nei termini dovuti sulla crisi, lo troviamo in quello che Merlini in questo e in altri testi precedenti chiama una temporalità abbreviata , in cui l'intelligenza dell'implicazione ad ampio raggio e a lungo termine, viene sostituita con un'intelligenza della risposta fulminea e puntuale che è un'esperienza del tempo che si configura secondo i modelli del consumo che deve essere puntuale, onnivoro, deve pretendere di essere assoluto. Prima Verna parlava del particolare che ci aggredisce e mi sembra che ci siano delle interessanti analogie, perché Merlini parla di un momento del qui e dell'ora irrelato dal resto del tempo che pretende esclusività, che si dispone, si presenta come autarchicamente autosufficiente. Questo orizzonte temporale, scrive Merlini, impedisce di contrapporre all'immediatezza del vissuto la critica e la riflessività, la distanza riflessiva che sono appunto le qualità di un buon giornalismo. Di questo orizzonte temporale, di questa trama temporale basata sulla discontinuità piuttosto che sulla continuità progressiva, Merlini si è occupato in diversi testi a partire dalla metà degli anni '90 con " Incanti della storia e patologie della memoria " del '97 e poi più recentemente con "La comunicazione interrotta: etica e politica nel tempo della rete" uscito nel 2004 per le edizioni Dedalo e ancora più recentemente con "L'efficienza insignificante, saggio sul disorientamento".
Io cederei la parola a Fabio Merlini a cui chiederei di cercare di aiutarci a muoverci in queste coordinate sfuocate e di spiegarci quali sono le conseguenze, le ragioni di questo squilibrio tra la potenza dei mezzi di cui disponiamo e la povertà, l'incapacità di attribuirgli un significato coerente.

Fabio Merlini

Vi ringrazio per questo invito che mi ha molto lusingato. Quando un testo esce dalla comunità ristretta dei filosofi e incontra altri interessi, è sempre un motivo di grande soddisfazione, per cui io sono davvero grato agli organizzatori per l'invito. Sono stato colpito da quello che ho sentito precedentemente per una grande assonanza, per un simile sentire che credo ci accomuni; sono stato colpito anche, nella pars construens della relazione di don Albanesi, per aver sentito che in fondo al centro dell'interesse di chi pratica la professione come si dovrebbe o si vorrebbe poter praticare, vi è la nozione di dignità, di memoria, di onestà, di competenza, di curiosità e infine ma non da ultimo, la nozione di coscienza critica. Trovo estremamente interessante questa selezione di parole perché definiscono un orizzonte che io credo non sia più quello nel quale noi oggi siamo chiamati a riprodurre le nostre conoscenze e le nostre pratiche, che è quello della verità.

Ho costruito il testo dell'introduzione al programma del seminario di quest'anno pensando al destinatario , quindi cercando di riarticolare alcuni temi del mio libro pensando a voi, al pubblico che mi sarei trovato di fronte. Vorrei proprio costruire questa relazione attraverso il declino di questo orizzonte della verità, vorrei cioè far vedere come molte delle abitudini di lettura e di scrittura hanno a che vedere col declino di questo orizzonte. Vedrete nel corso della relazione che verità non sarà un concetto astratto bensì una nozione piuttosto concreta.

Una comunità che chiede all'informazione e alla comunicazione di impegnarsi nella produzione della verità

Possiamo cominciare col dire che quando la comunicazione e l'informazione vengono consensualmente poste in relazione alla questione della verità significa che da qualche parte deve già essere stato deciso un comune interesse per la verità. Tramite la comunicazione l'opinione pubblica chiede qualche cosa, chiede di poter essere coinvolta nella produzione di verità, nell'atto della lettura chiede di poter essere coinvolta nella produzione di verità perché in un modo o nell'altro l'opinione pubblica, cioè i suoi attori, fanno propria l'idea che la condivisione della verità sia in grado di, come dire, riverberarsi sulla loro esistenza e sul modo nel quale vivono, ossia promuovendo sia il mondo nel quale vivono sia la loro forma di esistenza. Ecco questo è il caso di una comunità che chiede all'informazione e alla comunicazione di impegnarsi nella produzione della verità. Vi è un interesse per la verità che non è separabile dall'interesse per una valorizzazione virtuosa della propria vita: dignità, memoria, onestà, competenza, curiosità, coscienza critica, queste sono parole che fanno segno su una valorizzazione virtuosa della propria vita proprio perché hanno a che vedere con una valorizzazione orientata a contenuti informativi, capaci di avanzare pretese di validità accertabili, cioè che siano accertabili nell'atto della lettura e quindi che diano anche il tempo per l'accertamento.
Prima si è parlato in modo molto pertinente di questa mancanza di tempi, vi è l'idea che da qualche parte nell'atto della lettura ma anche nell'atto della scrittura, il concorso della ragione mette in gioco le diverse ragioni analitiche che permettono in un certo senso di dire che l'informazione è dentro un orizzonte della condivisione e non semplicemente della ricezione, che è una cosa evidentemente diversa. Questa è quindi una valorizzazione di sé, una valorizzazione del lettore, una valorizzazione del giornalista che trova proprio in questa accertabilità il suo punto di forza: nell'accertabilità di quello che dico, nel fatto che io espongo quello che dico, vi è in fondo il punto di forza del mio dire e del tuo leggere. In questa misura siamo in una dimensione perfettamente dialogica. Questa che ho raccontato è la scena di una comunità di soggetti razionali disposti a riconoscersi in un uso del linguaggio che sia attento a non lasciarsi deviare dall'inganno e dalla strumentalizzazione. Ho esordito con questo riferimento che può sembrare un po' astratto alla verità perché la filosofia ha riflettuto proprio questi problemi che sono stati posti da chi mi ha preceduto.

Ci sono culture che non si sono mai confrontate con il problema della verità

Questa comunità razionale di lettori e di produttori di notizie è stata rappresentata in una scena filosofica che però oggi stentiamo a riconoscere nel mondo. Faccio una citazione filosofica che ha direttamente a che vedere con lo sviluppo del discorso che vorrei proporre: Habermas nella sua celeberrima, ormai un classico, teoria dell'agire comunicativo, osserva che " sono costitutive dell'agire comunicativo soltanto quelle azioni linguistiche con le quali il parlante avanza pretese di validità criticabili ". In tutti gli altri casi, pensate a quanto ci ha detto Albanesi nella prima parte del suo intervento, in cui un parlante persegue fini non dichiarati sui quali il destinatario non può assolutamente prendere posizione, come ad esempio dinanzi agli imperativi, dove tu non puoi prendere posizione ma devi soltanto eseguire, non viene attivato il potenziale per un legame motivato da un'analisi di ragione. Questa è la comunità razionale della comunicazione e dell'informazione e questo tipo di comunità è attraversata dall'ideale della verità. La domanda che dobbiamo porci noi è che cosa succede a questa comunità quando l'interesse per la verità decade. Ora il fatto che l'interesse per la verità decada non è di per sé tragico, ci sono culture che non si sono mai confrontate con il problema della verità, come ha fatto la cultura occidentale. Il fatto è che a partire da un certo momento, direi a partire dagli ultimi 20 anni, l'interesse per la verità decade e di per sé non sarebbe un problema ma lo diventa se questo è l'effetto di tutta una serie di pratiche, di procedure, di interessi che producono una figura del destinatario problematica sotto diversi riguardi.

Una comunità di destinatari assenti

Oggi la comunicazione e il suo contenuto informativo desiderano ancora essere posti in relazione con la verità? La preoccupazione di chi mi ha preceduto quando si è trovato in pieno disorientamento, era quella di non poter rispondere in un certo senso all'imperativo della verità. Questo è un imperativo che appartiene a un'etica giornalistica ormai desueta o è un imperativo che attraversa ancora le nostre preoccupazioni non solo di giornalisti ma anche di cittadini e di consumatori? Siamo ancora preoccupati rispetto al problema della verità o sono tutt'altre questioni quelle che orientano e come dire stilizzano le nostre esistenze? Io credo che dobbiamo riconoscere che l'orizzonte attuale della comunicazione e dell'informazione è retto da un'intenzionalità che privilegia un'altra costruzione del destinatario.
Se ci spostiamo dalla comunicazione al terreno dell'informazione vediamo come il problema oggi sia paradossalmente quello di una comunità di destinatari assenti. Lo dico paradossalmente perché mai come oggi in fondo siamo tutti agganciati alla corrente della comunicazione. Questa comunità risulta continuamente distratta da un bersagliamento mediatico che, come ha detto chi mi ha preceduto, impedisce all'attenzione di stabilizzarsi durevolmente su informazioni passibili di essere inscritte in un disegno di senso compiuto. L'effetto che ne deriva è quello di una diffusa iperattività che coinvolge tutti, non solo i giornalisti, che coinvolge direi tutte le figure professionali, una diffusa iperattività che sottrae allo sguardo e quindi al pensiero e alla parola la sua forza riflessiva, come proprio capacità di messa in prospettiva delle cose che richiede per esempio l'esercizio continuo della memoria. E là dove declina la memoria viene meno questa capacità di mettere in prospettiva gli eventi del mondo, di assicurare una individuazione di nessi significanti tra evento e evento, tra notizia e notizia e quindi di comprensione interpretativa di messaggi e di comportamenti. In queste condizioni il destinatario non è più un partner della comunicazione, quello da cui sono partito con la costruzione ideale di questa comunità della comunicazione, si trasforma invece in una preda che occorre saper catturare sulla base del continuo affinamento concorrenziale di strumenti, pensate ai nostri strumenti quotidiani di comunicazione e di modalità comunicative. Allora ci si deve chiedere a questo punto che fine faccia quel potenziale di cui parlava Habermas che secondo questa costruzione molto ideale della ragione comunicativa sarebbe racchiuso nella comunicazione linguistica per un legame motivato dall'analisi di ragione.

Gli strumenti comunicativi

In questa nuova scena che sto cercando di descrivere, a livello di strumenti e di modalità comunicative succede ciò che segue: a livello degli strumenti che usiamo quotidianamente non possiamo non vedere come tra le principali preoccupazioni della comunicazione vi è quella che potremmo chiamare la comunicazione di sé stessa; in fondo, cioè dal punto di vista degli strumenti, la comunicazione è prima ancora che comunicazione di informazioni, comunicazione di sé stessa, ossia l'esibizione della potenza della sua infrastruttura che può andare dai cellulari, ai nuovi ordinatori, ai nuovi sistemi integrati, è l'esibizione quotidiana della potenza dell'infrastruttura comunicativa. La comunicazione mette in scena sostanzialmente prima ancora di informazione, l'incessante innovazione dei mezzi di cui si serve, che sono gli strumenti ma anche gli utenti: l'innovazione dunque concerne contemporaneamente gli strumenti e gli utenti. In questo senso la comunicazione si afferma come uno straordinario operatore di connessioni che guadagna la sua efficacia attraverso questo straordinario lavoro di sofisticazione della funzionalità mediatica, la velocità di cui si parlava prima, quindi della sua performatività, ma anche dell'abilità degli utenti, cioè la loro alfabetizzazione tecnica. Il che crea poi, tra l'altro, delle differenze evidentemente enormi, non solo a livello culturale ma anche a livello generazionale.

Da questo punto di vista la comunicazione, e di riflesso anche l'informazione, è operatore che introduce la tecnica in una storia lineare e cumulativa. Questo è un altro paradosso perché è chiaro che dal punto di vista dell'abilità dell'utente e della performatività dei mezzi, siamo all'interno di una storia cumulativa e lineare, basta confrontare le diverse generazioni di competenza e le diverse generazioni di cellulari. La cosa interessante è che questa linearità dello sviluppo tecnico corrisponde al contrario a una discontinuità dei vissuti temporali, anche in virtù di quanto è stato detto prima e cioè che la notizia e l'informazione irrelata è anche l'esperienza irrelata, è anche il vissuto irrelato, è anche la difficoltà di raccontare storie che concernono lo sviluppo del proprio sé, il riconoscimento della propria identità. La comunicazione da questa prospettiva è prima di tutto una funzione della tecnica nella sua versione di operatore di connessione, si pone cioè al servizio, per usare un'espressione niciana , della sua volontà di potenza. In un certo senso si potrebbe dire che comunicazione e informazione dal punto di vista degli strumenti si pongono al servizio della sua volontà di potenza. Tornerò più avanti su questo aspetto, quando brevemente parlerò delle nostre situazioni con le relazioni del mondo e del significato che dobbiamo oggi assegnare alla natura di questa relazione, se è vero che appunto, come è stato gentilmente ricordato, prima ancora di significare la nostra relazione con il mondo, una relazione mediata dall'informazione e dalla comunicazione è prima di tutto una relazione che è chiamata a funzionare. Parlo di declino dell'orizzonte della verità perché il nostro rapporto con il mondo mediato da informazioni e comunicazioni, prima ancora di significare, in un certo senso, è appunto chiamato a funzionare. Di qui tra l'altro il titolo del libro che è stato ricordato "L'efficienza insignificante".

Le modalità comunicative

Sul versante delle modalità comunicative, il discorso ci riporta immediatamente alla questione della verità. Che cosa possiamo intendere quando diciamo che oggi la preoccupazione per la verità tende ad abbandonare la scena della comunicazione e dell'informazione? Intendiamo prima di tutto osservare che comunicazione e informazione sono, come ho detto prima, mosse da un'altra intenzionalità che è rivolta prima ancora che alla condivisione di specifici contenuti di verità, ad un'incessante ricerca continua d'impatto sul pubblico. L'informazione sul mondo diventa intrattenimento sullo spettacolo del mondo, vale a dire, selezione di un mondo rappresentabile attraverso la comunicazione dei suoi eventi spettacolarizzabili. Allora io definirei la spettacolarizzazione quel processo che mobilita l'attenzione attraverso i due canali estetici della sensibilità e dell'emozione, è la figura di un destinatario che viene reso accessibile secondo le condizioni poste da questa disposizione selettiva all'ascolto; c'è dunque una dimensione pedagogica, perché questa è un'educazione al negativo nella misura in cui è selettiva all'ascolto che privilegia questi due canali. Tenete presente questo fatto per il sistema comunicativo, significa evitare che i messaggi semplicemente cadano nel vuoto, o potremmo dire, inversando la prospettiva, come abbiamo visto nei filmati che hanno preceduto questo pomeriggio, significa assegnare in modo intenzionale al vuoto, al nulla, all'invisibilità, interi capitoli d'informazione sul mondo, neutralizzarli, non renderli visibili. Possiamo dire allora che lo scivolamento dall'informazione all'intrattenimento opera questo oscuramento di parti di mondo, sulla base di un riorientamento emozionale dell'interesse.

La menomazione dell'informazione, perché questo assegnare al vuoto, al nulla, al silenzio, interi capitoli di mondo, è una menomazione dell'informazione, è anche una forte menomazione degli stessi destinatari della comunicazione: una doppia menomazione dunque.

Esattamente come le merci, l'informazione vive nella misura in cui viene consumata

In questo momento occorre puntare i riflettori sull'interesse. L'interesse per gli eventi del mondo viene ridefinito, letto alla luce di uno stile comunicativo che ha, sicuramente nell'eccesso mediatico, proprio come enfatizzazione morbosa dell'informazione, un principio d'ordine rilevante perché seleziona il tipo d'informazione passibile di essere comunicato. D'altra parte, come abbiamo già detto, l'interesse sul fronte invece degli strumenti mediatici è continuamente sollecitato all'interno di una infrastruttura impegnata a incrementare sé stessa, cioè ad aumentare la potenza della propria funzionalità. La cosa curiosa è che questa potenza dei mezzi che si incrementano quotidianamente non ha nulla di minaccioso, non è il potere minaccioso che spaventa, ma in fondo ha un volto piacevole e seduttivo. Questa è la sua astuzia, quella di prestare una grande attenzione ai risvolti ludici, ai risvolti giocosi delle operazioni di trasmissione dell'informazione e per questo si diffonde così facilmente. La usabilità come evasione e divertimento e in questo caso la menomazione di cui ho detto, assume una forma specifica, quella della infantilizzazione dell'utente. Se la via estetica dell'emozionalità, perché opera in fondo attraverso questi canali, si afferma come vettore strategico di accesso all'interesse, allora possiamo dire che il trattamento che l'informazione riserva ai suoi contenuti concerne non solo i criteri di selezione, cioè quella che potremo chiamare la notiziabilità della comunicazione, ma anche la curvatura che mi garantisca l'impatto.

C'è quindi un effetto di selezione e anche un effetto che potremmo quasi dire di riconfezione ossia questa curvatura che occorre assegnare all'informazione notizia. In questo modo viene veicolato un mondo che è sempre più oscillante tra il polo della commedia e il polo della tragedia, come se in fondo, informazione e comunicazione funzionano nella misura in cui si danno entro questa oscillazione: commedia da una parte, tragedia dall'altra. Sempre un problema di enfatizzazione, potremmo dire la rappresentazione di un mondo tragicomico dove si ride e si piange, è come se in un certo senso siano questi due i poli che educano l'interesse. Vedete bene che l'interesse alimentato da questa rappresentazione del mondo vive prevalentemente di immediatezza, cioè si accende e deve accendersi con la stessa rapidità con cui sfuma e declina. L'interesse in un certo senso quando si dà all'interno dell'immediatezza ha questo destino, non può che avere questo destino, non tollera indugi. Da questo punto di vista le informazioni condividono esattamente lo stesso destino delle merci, nel senso che sono organizzate da una medesima logica temporale: esattamente come le merci vivono nella misura in cui vengono consumate. Del resto ci è stato anche detto che oggi l'informazione è una merce per il modo in cui viene acquistata, per il modo in cui viene venduta o messa sul mercato.

Imperativo del tempo reale

Questo spiega un'altra cosa come è stato detto in conclusione da chi mi ha preceduto, cioè che oggi non sono tollerati nel mondo dell'informazione i tempi morti; questo è interessante perchè significa che la continua ingiunzione ad accedere all'informazione sul mondo in tempo reale, è un imperativo. Oggi essere informati in tempo reale è la grande sfida, è il quotidiano che non riesco in un certo senso a mantenere alla stessa accelerazione di internet. Che cos'è questo imperativo del tempo reale, se non orrore nei confronti dei tempi morti ossia nei confronti di ciò che contrasta la repentina condanna all'inattualità della singola informazione? È anche l'effetto che fa il giornale del giorno dopo che guardiamo con un certo fastidio, con uno sguardo un po' preoccupato, tra l'infastidito e il preoccupato; mentre stai leggendo il giornale del giorno prima ti accorgi di essere quello del giorno prima o essere quello del giorno dopo, è la totale inutilità della tua azione, del girare a vuoto, dello stare proprio dentro il tempo morto, quello spazio di riflessione che invece occorre invocare come condizione stessa per attivare una coscienza critica e riflessiva e quindi per poter dare prospettiva e spessore alla nostra lettura delle informazioni oltre che alla loro scrittura. Questo interesse, che si costruisce dentro questa tragicommedia dell'informazione, è interesse per il presente, per quel presente che solo è in grado di destarla. Si può dire che questo è un interesse che dipende, sottolineo dipende, interamente dalla forza di cattura del presente, un interesse etero diretto, non autonomo, che non nasce dalla coscienza critica; è un interesse privo di autonomia cioè incapace di assegnarsi da sé la direzione del proprio movimento, del proprio orientamento. La comunicazione quindi da questo punto di vista è informazione del presente tragicomico che non racconta più il sistema di relazione dell'attualità bensì mobilita l'interesse su episodi che si affermano in modo autosufficiente, perché altrimenti sarebbe interessantissimo il giornale di 2 giorni prima. E' un mondo che in un certo senso si costruisce nella sua assenza di durata: abbiamo una fortissima elisione della durata che spiega il declino contemporaneo della memoria, del valore della funzione rammemorativa.

Nessuna possibilità di rielaborare giudizi fondati

Questa elisione della durata coincide sostanzialmente proprio con la cancellazione della possibilità di rielaborare elementi di giudizio fondati. Fuori della dimensione della durata ossia se l'informazione non è più investita della dimensione della durata, viene meno questa capacità di elaborare giudizi fondati. Il fatto che non ci siano giudizi fondati non significa che non vi sia una moltiplicazione del giudizio sull'informazione. Voi sapete che proprio perché ha un effetto emotivo, l'informazione provoca subito il giudizio, prima si diceva innocentisti e colpevolisti. Il problema è che si tratta di un giudizio che si costruisce sul fondamento dell'immediatezza dell'effetto emotivo e non più a partire da un effetto di conoscenza; come dire è un giudizio che cresce sul suo terreno, sul terreno di ciò che l'ha provocato, senza potersi fondare su altro, quindi su effetti di conoscenza e di relazioni, non è messa in prospettiva. Dobbiamo concludere che è un giudizio che si dà soprattutto nella forma del pregiudizio e non è un caso che l'informazione propria del presente tragicomico è un potentissimo produttore di ideologia. Questa ideologia noi la vediamo all'opera nell'esemplificazione col quale noi poi comprendiamo la realtà, laddove la complessità oggi non si conta più, la vediamo in quella semplificazione che può assumere il volto dell'aggressività, dell'indifferenza, della chiusura, della paura, e tutti questi sono purtroppo comportamenti che contraddistinguono le reazioni oggi dell'opinione pubblica nei confronti delle emergenze, siano esse di tipo sociale, interculturale, economico, ambientale. Sono semplificazioni di giudizio, perché quel giudizio che nasce sul fondamento esclusivo dell'impatto emozionale è poverissimo di elementi di ponderazione, vive di paure, è un giudizio che si costruisce in un mondo tragicomico. Il giudizio può vivere di paure, di esaltazione, di disgusto, di entusiasmo, di risentimento, di euforia, se sono queste in fondo le oscillazioni che un presente tragicomico può dare luogo. Vedete allora che alla menomazione dell'informazione sul mondo e a quella del suo destinatario dobbiamo anche aggiungere la menomazione della capacità di reagire con coscienza di causa alle situazioni problematiche del mondo. Vi ringrazio per l'attenzione.

Giuliano Battiston

Grazie a Fabio Merlini, sembra che la diagnosi concettuale che ha fatto sia molto articolata e molti di noi immagino vi ci siano ritrovati . Gli elementi che ha sollevato sono diversi e importanti. Io vorrei cominciare con una domanda per poi dare la parola a eventuali altre domande dal pubblico, per passare in qualche modo dalla diagnosi alla parte costruttiva. Lei ha ragionato intorno a questa trasformazione dell'orizzonte temporale che si riflette anche nei modelli comunicativi, che passano per strumenti e modalità comunicative che tendono ad alimentarsi della propria volontà di potenza di questa autosufficienza autarchica. Vorrei sapere dove possiamo trovare le risorse per una cultura critica che si sottragga a questo automatismo funzionale.

Fabio Merlini

E' difficilissimo, probabilmente lo sapete meglio voi, nella misura in cui chi opera in contesti come quello che ci sta accogliendo sicuramente sa dove attingere per poter assicurarsi queste risorse . La mia risposta dunque è più semplice, quella che utilizzo sempre quando sono sottoposto a questa domanda: è proprio nella prassi che noi possiamo reagire, come succede qui, come chi ci ha introdotto che incarna questa figura in un certo senso del fare, nella misura in cui riconosciamo che ci sono degli spazi che ci interpellano e a cui possiamo rispondere. Questo esiste continuamente voglio dire, non vorrei che lo scenario che io ho tratteggiato risultasse come uno scenario totalizzante dove non esistono più margini, altrimenti non avrei potuto dire quello che ho detto, non avremmo organizzato questo seminario; i margini esistono però è chiaro che non dobbiamo sottovalutare le forze che sono in gioco. Chi ha preceduto il mio intervento ha messo bene in relazione che cosa significa un continuo scontro di poteri: ci sono poteri che hanno una capacità di affermarsi, una capacità d'intervenire secondo queste logiche che altri poteri non hanno, poi, ripeto, rimangono gli spazi quotidiani in un certo senso del nostro vivere, del nostro abitare, che sono pieni di domande, d'interrogativi, di momenti in cui la nostra azione ha ancora la possibilità di essere una risposta indifferente, interessata, etica, opportunista e qui non c'è menzogna che tiene, qui noi siamo molto consapevoli, coscienti di qual è la risposta che diamo di volta in volta a questo tipo di richieste. È chiaro che non possiamo più pensare a grandi effetti corali.

Ecco in questo senso dobbiamo elaborare fino in fondo il lutto della storia, cioè non siamo più negli anni '70, questo è chiaro, perché non riusciamo neanche più a credere alla forza di una certa idea di comunità, perché ci sono state le repliche della storia come si dice, perché c'è stato il disincanto, il disorientamento e anche continuamente il doversi confrontare con questo declino e in un certo senso della partizione fra verità e menzogna. Quando lo schema del progresso era chiaro alle nostre coscienze era facilissimo decidere da che parte sta una decisione, da che parte sta quell'altra. Quando questa linea orientativa che poteva essere il progresso, che poteva essere l'emancipazione, viene meno interviene il disorientamento, quindi da un certo punto di vista un ripiegamento dal macro al micro. Per questo prima parlavo del fatto che ci sono le singole situazioni che ci interpellano, non è più la storia come grande processo di emancipazione, sono le singole situazioni. Il documentario sui medici che abbiamo visto prima è sintomatico, sono sempre le singole situazioni che si danno nella loro località che ci interpellano e che richiedono in un certo senso un tipo di relazione piuttosto che l'altro. Certo che l'orizzonte va piuttosto nella direzione che ho cercato di tracciare, cioè quello di un addormentamento delle coscienze. Prima di venire da voi con la mia compagna, dato che il viaggio da Locarno è molto lungo, ci siamo fermati in un ristorante a mangiare qualcosa, era accesa una televisione con uno spettacolo della Maria De Filippi "Uomini e Donne"… ma queste sono cose scandalose però sono cose diventate normali… abbiamo visto ragazze piangere, ragazzi baciarsi, che va benissimo per l'amor di Dio, però alle 3 di pomeriggio mentre tu mangi un panino vedere lo spettacolo tragicomico del mondo non è il massimo… E qui cosa si può fare? Si può spegnere la televisione. Di fronte alle grandi battaglie che hanno messo assieme appunto grandi racconti, grandi narrazioni, ritrovare questa dimensione d'intervento nel micro significa educarsi a questo appello continuo, senza bisogno di andare chissà dove, anche se è importante andare chissà dove.

Giuliano Battiston

Le chiedevo appunto delle risorse a cui eventualmente attingere proprio perché mi sembra che sia dall'intervento di don Vinicio che dal suo testo emerga questa constatazione, che lo stato delle cose non è necessariamente così . Nella sua relazione don Vinicio scrive: l'essere disorientato è uno stato provvisorio non definitivo . Lei stesso ripete più volte che nonostante questo orizzonte si imponga, non è metafisicamente fondato, non è necessario che sia così. Mi piacerebbe però che tornasse sulla relazione tra queste modalità comunicative e i mezzi attraverso i quali si esprimono, perché in un passaggio del suo testo lei dice che sono legate queste cose, cioè che queste modalità si rafforzano in ragione della fisionomia dei mezzi attraverso cui vengono espresse. Che rapporto c'è dunque tra questo tipo d'informazione e i mezzi attraverso i quali passa?

Fabio Merlini

Io credo che ci sono diverse relazioni che noi possiamo sperimentare ogni giorno. È chiaro che l'immediatezza a cui abbiamo fatto riferimento questo pomeriggio non ha a che vedere con i contenuti, con la loro autosufficienza ma materialmente con i nostri mezzi. Io faccio sempre l'esempio del supporto della scrittura: con la vecchia penna stilografica - a me capita di prendere degli appunti ancora con la vecchia penna stilografica, questa è una resistenza - il rapporto tra gestualità e pensiero è costituito da un'altra temporalità diversa da quando digito sulla mia tastiera una risposta a una mail che ho ricevuto in tempo reale. Non so se l'avete fatta questa esperienza, ma veramente voi siete più concitati quando scrivete, perché la velocità del mezzo si traduce sulla velocità del pensiero, sulla velocità del gesto, sullo stile del testo che non è indifferente. Quindi è chiaro che bisogna soprattutto non cadere nell'equivoco della neutralità del mezzo. Certo che la televisione la puoi utilizzare per vedere un documentario di Piero Angela oppure per darla sulla testa della tua ex moglie, però non è questo che spiega qual è la pregnanza del mezzo tecnico. Quante volte abbiamo cliccato poi ci siamo pentiti perché il messaggio è partito e la gomma non sarebbe servita a cancellare…

Giuliano Battiston

C'è un altro elemento che emerge con forza dal testo perché forse nella sua relazione era meno esplicito: abbiamo parlato molto della centralità del presente e della relazione che c'è tra questa centralità del presente con il declino della memoria . Questi due elementi però si sono collegati ad un altro elemento che è l'esaurimento della spinta verso il futuro. Lei si interroga sull'utopia, può tornare su questo aspetto? Sui legami che corrono tra un presente che tende a estendersi e pretendere esclusività, una memoria che invece sparisce e allo stesso tempo un futuro che non appare più all'orizzonte o su cui quanto meno ci interroghiamo con minore intensità del passato.

Fabio Merlini

Si, questo è un tema che quest'ultimo libro rielabora rispetto ad un libro di almeno una decina di anni prima, che era quello di cercare di capire che cosa sarebbe successo con la cosiddetta fine della storia , che cosa sarebbe successo quando improvvisamente ci si accorge che appunto tutti questi grandi progetti che hanno informato il tempo della modernità a partire dal '700, ma già a partire dal Rinascimento, hanno portato all'idea che vi possa essere un processo di civilizzazione. Il disorientamento parte anche dalla constatazione che non c'è stato il processo di civilizzazione perché quando ci confrontiamo con i danni ambientali dobbiamo riconoscere che in verità tra storia della civilizzazione e storia naturale non c'è convergenza, la crisi ambientale è forse stata anticipata come è stato detto da questi esagitati… vi ricordate quei gommoni su cui facevano queste azioni…e oggi la troviamo come limite stesso della civilizzazione. Questo ha prodotto nell'immaginario intellettuale evidentemente borghese-moderno, una grossa ferita narcisistica. Eravamo convinti che scienza, sapere, conoscenze ci facessero procedere verso il meglio e oggi vediamo che questo meglio presenta tutta una serie di incompatibilità sociali, ambientali, ecc.

Vinicio Albanesi

Insisto che attraverso il limite insito nella natura umana questo processo non è lineare, perché lo diceva Ivan Illich negli anni '60, ci sarà un momento in cui il progresso ci si ritorcerà contro e la bicicletta sarà più veloce dell'automobile , oppure moriremo di medicine, perché nella modernità manca il senso del limite, perché il peccato è un concetto cattolico non razionale; in realtà questo progresso poi ha la natura che è costretta ed è lei che fa da coscienza, una coscienza che ti dice che il tuo progresso nella realtà sta inquinando e quindi non stai progredendo bensì regredendo. Questo avviene in molti processi come nel banale esempio delle cure dimagranti quando prima ti abbuffi, poi spendi per dimagrire, poi soffri, poi ricominci a ingrassare…

Giuliano Battiston

Quindi la distanza riflessiva che noi non riusciamo a esercitare la esercita la natura per conto nostro…

Vinicio Albanesi

E' evidente, perché la natura ha le sue leggi di equilibrio. L'esempio classico è il legno che è una misura non infinita, se tu non ne regoli l'uso arriva la desertificazione, quindi il benessere che il legno ti dà rispetto alla pietra cesserà nel momento in cui il tuo ambiente sarà talmente inquinato che la tua casa fatta con il parquet diventa inutile perché vivi in un deserto. Tutto questo non può avvenire solo in termini razionali. Altro concetto è la distinzione tra penalmente rilevabile ed eticamente rilevabile, vedete il caso Marrazzo, si dice penalmente rilevabile, ma già i filosofi greci dicevano che le leggi sono fatte dai potenti per sé stessi, non è che abbiamo scoperto l'acqua calda. Altro esempio la crisi della Fiat: disoccupazione, famiglie rovinate… ma volete inventare qualche altra industria o ci volete far comprare 7 macchine a testa? E poi dove le mettiamo? Allora nessuno a cui venga in mente di dire trasformiamo parte della produzione delle automobili in non so che. E tutto perché? Perché in questa razionalità poi l'interesse è legato all'immediato e quindi non c'è la visione globale e non c'è il senso del limite. Perché non esiste un'etica laica universale? Perché se la razionalità è l'unico elemento noi siamo capaci di commuoverci per la coda del cane e non per i bambini che muoiono ogni 5 secondi. Questa sarebbe la razionalità? Io mi ci appassiono, noi ci commuoviamo per la cagnetta che è stata arrotata e non ci commuoviamo per 17 milioni di bambini che muoiono ogni anno… allora quando scrivi sulla cagnetta non ti viene in mente di collegare con quanta gente muore di altro? Domenica lo diremo al direttore de La stampa che ha la rubrica "La zampa" in cui ti dicono di tutto e di più sugli animali… adesso stanno facendo la legge che non si può tagliare la coda al cane entro certi limiti ma è vero che non bisogna tagliare la coda al cane, ma forse non bisognerà tagliare pure qualcos'altro o no?

Fabio Merlini

Vorrei intervenire su questa osservazione della coscienza del limite, questa dimensione che abbiamo scoperto a partire da un certo momento della nostra storia :alimentata la civilizzazione la stessa subisce come dicevo una profonda ferita narcisistica. Questo lutto è stato elaborato attraverso due strade: poteva essere quella che ci è stata adesso descritta, quindi assunzione di questa coscienza perché non si può negare che c'è stato ad un certo livello assunzione di questo limite e ripensamento delle nostre categorie, dei nostri modelli di comportamento, di produzione, questo avrebbe potuto essere una strada, che per lo più nei poteri forti non è stata imboccata. E' stata invece imboccata la strada di dire: bene, allora se non esiste più civilizzazione, se non esistono più i grandi racconti, le meta narrazioni, vuol dire che erano tutte cavolate, erano tutte storie i grandi progetti di rigenerazione dell'umanità, della storia della società. Questo è stato il modo con cui per lo più è stato elaborato il lutto, cioè allora si è detto basta con le ideologie, basta con questi racconti di rigenerazione, emancipazione, guardiamo il nostro presente poi naturalmente ne è uscito vincitore l'occidente apparentemente, guardiamo al nostro presente come l'unico presente che si è affermato perché sostanzialmente era in diritto di affermarsi. Ci siamo ritrovati con questa autosufficienza del presente, come dire: bene allora non ci sono più grandi racconti, c'è il presente, in fondo questo presente ha dimostrato di superare le prove della storia, mentre il partito per così dire antagonista ha dovuto soccombere, crollo del muro di Berlino, adesso poi stiamo festeggiando l'anniversario in cui ci sono i vincitori della storia i quali riscrivono la storia. In questo caso la storia è coincisa con questa enfatizzazione di un presente autosufficiente che non ha più bisogno di racconti, che non ha più bisogno di grandi narrazioni, che si diceva deve finalmente uscire dall'ideologia e qual è stata la fuori uscita dall'ideologia? Quella della costruzione di un'altra immensa ideologia, il presente come mercato universale, il presente come mondializzazione, il presente come universalizzazione a tutti gli angoli del mondo della propria logica, delle proprie forme di pensiero, dei propri processi di produzione e di consumo.

Il declino della memoria parte proprio da lì, perché se il presente diventa autosufficiente e questa autosufficienza io la vedo nella performatività degli strumenti che mi circonda nella loro efficienza, io mi accorgo che il presente ha sempre qualche cosa da insegnare al passato, non è più il contrario. Questo lo vedo quando facevo l'esempio del mettere su un tavolo i diversi computer delle ultime generazioni o i diversi cellulari, che è ancora più evidente perché lì c'è un'accelerazione velocissima delle forme nelle funzionalità, ecc., lo vediamo benissimo, quello dell'ultima generazione ha tutto da insegnare a quello della generazione precedente. Quindi in un certo senso il passato è condannato da questo presente, perché questo presente ripeto, non ha nulla da apprendere da quel passato, perché questo presente in un certo senso costituisce già la totalità del tempo, per quello che viene meno anche la capacità d'immaginazione utopica, che decadono parole come rivoluzione e utopia, e nel mio libro dedico un capitolo a questo. Decade perché non è più spendibile il termine di rivoluzione oggi, proprio perché non possiamo più contare su quello schema culturale che era quello della modernità da cui è venuta fuori almeno nel suo senso moderno il termine rivoluzione. Stesso discorso per il concetto di utopia. In un certo senso come dicono le pubblicità molto bene, il futuro è sempre già qui. È chiaro perché questo presente è comprensivo sia del futuro che dei passati nella misura in cui lo condanna. E allora la funzione della memoria può tranquillamente decadere ed è l'epoca dell'immediato, del presente che riproduce continuamente sé stesso. L'unico modo in un certo senso di vedere ancora trasformazioni in questo presente è il continuo riferimento che viene fatto all'innovazione, in fondo l'innovazione ha sostituito il concetto di progresso, ma l'innovazione non è autentica trasformazione, bensì è quello che abbiamo detto prima, è dentro questo presente raggiungere soglie di efficienza, di performatività, di efficacia sempre superiore, questa è l'innovazione oggi, niente di più, niente di meno.

Giuliano Battiston

In questo caso dunque non è il nonno ad avere la meglio sul nipote come diceva don Vinicio, ma il nipote ad avere la meglio sul nonno…

Fabio Merlini

Dipende da quale punto di vista…

Vinicio Albanesi

Uno degli elementi diretti proprio ai giornalisti qui presenti è questa capacità di essere degni di sé stessi, perché questo processo che il professore ha descritto ti riduce te giornalista, a un volgare scribacchino che conosce tutto sulle modalità, sugli strumenti, ma che non ha contenuti se non quelli suggeriti da chi in qualche modo impone le notizie preconfezionate o interessate. Io insisto su questo concetto della dignità perché brucia proprio il tuo mestiere, brucia proprio la tua missione, diventi cioè anche tu cliente, utente che viene utilizzato nel meccanismo nel quale tu non sei più nulla. Allora almeno, se non per virtù, per orgoglio io dico qualcuno dovrebbe ribellarsi, proprio per il loro benessere, perché l'appiattimento infinito di queste funzioni pensanti alla fine ci riduce e riduce la nostra dignità, la dignità del sé, del conoscere, della propria coscienza, della propria criticità, anche della propria emotività, perché se ci fate caso, l'emotività stessa viene condizionata, perché se tu vai in una strada e incontri un ragazzo nero ti piglia la paura perché te l'hanno inculcata, anche se quello magari è tutto fuorché un delinquente. Quindi almeno fare appello all'orgoglio.

Giuliano Battiston

Osservazione interessante e mi permetto di fare un'ultima domanda a Fabio Merlini e poi diamo la parola a chi vuole fare domande, perché nella sua relazione ha parlato molto degli utenti spiegando come questa innovazione delle comunicazioni si rifletta sugli strumenti e sugli utenti, però si riflette anche sui giornalisti, sui produttori. C'è un capitolo del suo libro molto interessante in cui spiega come gli strumenti, i mezzi siano diventati fini, il soggetto che dovrebbe essere un fine è trasformato invece in un mezzo. Significa quindi che anche il giornalista semplicemente è diventato uno strumento di questa modalità comunicativa?

Fabio Merlini

Senza voler drammatizzare troppo, io credo che il giornalista condivida con gli altri professionisti tutta una serie di questioni e di problemi nei confronti dei quali oggi noi siamo stati sollecitati e ci confrontiamo in modo serio . Gandhi ci ha insegnato che ogni uomo non può essere utilizzato come uno strumento ma come un fine, ma probabilmente ce lo ha insegnato perché non è mai stato così, perché sappiamo che purtroppo le condizioni reali vanno in senso contrario. Tuttavia è chiaro che oggi noi siamo costantemente confrontati con questo fatto, la sensazione partiva proprio da un tentativo di concettualizzare, ma che ormai la forza di affermazione dei mezzi comunicativi abbia prima di tutto a che vedere con l'affermazione dell'infrastruttura stessa è evidente, in questo senso dico è lo stesso meccanismo delle merci perché i bisogni sono indotti. Recentemente ho avuto un colloquio con una persona che deve riorganizzare un certo aspetto della comunicazione tecnologica all'interno dell'istituzione in cui lavoro, era chiaro che era lui che mi stava dicendo di che cosa io avevo bisogno, mentre lo ascoltavo era veramente ovvio, dico ma guarda te, non c'è un'attenzione per i miei bisogni, c'è un'attenzione solo per i bisogni dell'infrastruttura che ha bisogno di affermarsi attraverso di noi.

Senza dover drammatizzare questo fatto perché lo si può anche non drammatizzare, dato che è uno stato di fatto, cerchiamo di starci dentro nel modo più ragionevole, però è evidente, è inutile stare a raccontarsi delle storie. In verità siamo ancora dentro la vecchia logica del bisogno indotto ma qui evidentemente assume una forma particolare perché abbiamo la percezione che invece sia necessario: ad esempio di fronte a un paio di scarpe nuove non ho quella sensazione che sono pigliato per il naso da qualcuno, credo invece che sia un mio bisogno perché questo mi rappresenta, m'identifica. C'è questa sottile strategia di diffusione che tra l'altro utilizza come dicevo la dimensione ludica, perché tante volte è sorprendente vedere questi adulti che si guardano gli ultimi palmari, è una cosa idiota, perché dobbiamo entusiasmarci, eccitarci per questo, ma dentro questa eccitabilità ludica, ecc., le cose poi si affermano e questo è un po' l'effetto, ce ne son molti altri, però è un effetto di quella che i sociologi oggi chiamano l'infantilizzazione degli adulti, per cui competono con i figli mentre i nonni perdono in questo tipo di competizione.

Intervento

Sono infantilismi maschili più che altro se me lo permettete, ne abbiamo senz'altro altri, infiniti, però la modalità è sempre la stessa ossia quella ludica del divertimento. La domanda è un'altra, sempre sugli strumenti. Parto dall'iperattività: non è che questa iperattività è una modalità cognitiva legata al mezzo che riguarda solo la comunicazione. Lei parla più dell'informazione televisiva o dell'informazione internet o comunque legata alle nuove tecnologie multimediali? Mi sembra che parli di più di televisione. Mi stupisco che lei si stupisca della notizia del giornale che è vecchia, il giornale era vecchio anche 10, 20 anni fa, in realtà internet fa questa cosa strana che la notizia resta sempre, la notizia che si esaurisce in quel secondo poi resta per sempre in internet e molto spesso per motivi di ricerca noi andiamo in cerca proprio di quelle notizie vecchie; io lavoro su un canale internet e so che è così, come so che utilizzo molto abilmente l'emozione per attrarre, anche perché io devo acchiappare nella rete a uno a uno i miei utenti.

Rispetto a quello che ha detto Verna: io non son sicura che non ci siano più i maestri . I maestri ci sono, però i giovani gli sputano in faccia, perché se seguissero i consigli dei maestri andrebbero nella parte opposta della notizia precostituita come l'ha chiamata Vinicio, della notizia interessata che è quella che segue il meccanismo per cui bisogna immediatamente introiettare per essere assunti e per fare carriera.

Vinicio Albanesi

Da noi c'è stato un grande maestro come Kapushinsky il quale per scrivere un libro di 120 pagine è stato 3 anni in Africa, però non si è accontentato di 3 giorni in un albergo a 5 stelle di Nairobi, è andato in giro per capire, e per questo si diventa grandi.

Gianfranco Bucich

Io volevo dire soltanto una cosa su quella questione della memoria che mi ha colpito, vorrei però che si andasse a fondo della questione. Tutti i problemi che noi ci poniamo con altri termini è difficile rispetto a questa situazione estremamente brutta e disagiata in cui ci vediamo a trovare un colpevole, un qualche cosa diciamo che rimuovendolo riesca a risanare tutto. Io penso che praticamente la memoria implica tempo, implica riflessione e questo è un mondo che a mio avviso non è più in grado di farlo da 2-3 secoli. Noi siamo rimasti imbrigliati, incastrati nello schema, nella gabbia della catena di montaggio e da qui ancora non riusciamo a uscire, siamo all'interno di un insieme di abitudini che ormai scandiscono la vita quotidiana minuto per minuto e all'interno di questa situazione ovviamente alcune tecniche possono deteriorare ulteriormente il quadro. Vorrei fare soltanto un esempio banalissimo di situazioni dove ad esempio c'è la libertà di scegliere, e vedere come si può comportare una collettività, cioè ad esempio il modo in cui noi ci comportiamo nei confronti del traffico, se venisse il famoso extraterrestre direbbe questi sono pazzi, perché uno l'ingorgo può accettarlo una volta, due volte, tre volte, ma poi alla fine… non c'è un'intelligenza collettiva, una reazione…

Altra questione: uno dice i giornali, il potere, tutto quello che vogliamo, però poi se andiamo a vedere esistono fatti assolutamente folli o esilaranti, è possibile, capita ripetutamente di trovare sullo stesso quotidiano, a distanza anche di 2-3 pagine, oddio cala la produzione di auto, andiamo tutti a malora, qui non c'è pane più per nessuno o magari addirittura i consigli che i cani non possono camminare per strada perché l'inquinamento non si sopporta più… Ecco a mio avviso noi siamo veramente in una nuvola molto difficile da cui uscire, tutto quello che diciamo è eversivo rispetto alle abitudini, diverso rispetto a tutto ciò che è codificato e penso che la tecnica abbia questa capacità, in particolare la rete e anche altre situazioni stanno anche creando delle situazioni di eversione, è chiaro che il fenomeno è lento e complesso e ancora poco visibile.

Fabio Merlini

Comincerei con la questione dell'iperattività : è sicuramente un comportamento che in parte è quella che chiamo l'infrastruttura, perché spesse volte soprattutto pensando agli esempi cui faceva riferimento lei, la dimensione sincronica è la dimensione dominante, quindi gioco forza come se uno sguardo dovesse tenere presente diciamo così alcune dimensioni però diventa un problema quando incide sull'incapacità di collegare il tutto, ma soprattutto di mantenere desta l'attenzione senza essere continuamente distratti, per questo avevo insistito sulla dimensione della distrazione. Io penso che da una parte c'è questa dimensione tecnologica infrastrutturale potremmo quasi dire, proprio dell'infrastruttura che veicola questo tipo di comportamenti, che poi però si traduce anche in termini di contenuti. Vediamo di fare un esempio: lei diceva certamente anche il giornale di 10 anni fa era dominato dalla stessa logica, ma quando prima si diceva che la lettura quotidiana del mattino costituiva la preghiera giornaliera del buon borghese si intendeva dire che attraverso la lettura del giornale era possibile avere una mappa in un certo senso del mondo, cioè era possibile leggere il tessuto della contemporaneità, leggere le relazioni che in un certo senso informavano l'attualità, c'era cioè una dimensione organica, che era veicolata da questo mezzo comunicativo, cui evidentemente il filosofo era interessato proprio perché come nella preghiera tu definivi, stabilivi un legame con la preghiera quotidiana e mattutina, quello che in un certo senso non c'è più oggi. C'è laddove l'interesse morboso costruisce la dimensione della puntata, allora si, allora andiamo a vedere, è quasi come questi filmati a puntate, per cui andiamo a vedere che cosa è successo. Quindi c'è questa dimensione, poi certamente ha ragione a sottolineare la capacità registrativa di queste nuove tecnologie. È vero che tutto si conserva, lei dice io vado a cercare perché m'interessa, ci vuole un interesse, ci vuole una forma di vita che è educata alla memoria, cioè la registrabilità in se per se è una sicura ricostruzione della memoria, cioè alla memoria ci si deve educare e dico questo perché la memoria è una di quelle funzioni che non è un dato immediato della coscienza e non è neanche una facoltà naturale dell'uomo.

Ci sono stati secoli e secoli in cui l'uomo per un certo verso non se ne faceva nulla della memoria; la coscienza storica come attivazione della funzione della memoria è tutto sommato un'acquisizione così come la pensiamo noi, relativamente recente, cioè inizia con il Rinascimento. Perché dico questo? Perché noi lo vediamo molto bene quando andiamo ad analizzare le pratiche di scrittura della storia. Io mi sono occupato di questi temi perché m'interessava vedere quali erano le pratiche di scrittura della storia, e si scopre che fino ad un certo momento gli uomini si accontentano di un passato in cui eventi di natura diversa potevano tranquillamente convivere, elementi tratti dalla cronaca, dalla favolistica, dal mito, dalle leggende… in fondo durante tutto il Medioevo noi vediamo un soggetto la cui identità si può costruire dentro questa forma ibrida di memoria in cui l'oggettività è il fatto. Il fatto, l'oggettività del dato non esiste, vuol dire che la memoria così come la conosciamo noi, è veramente il prodotto di un'educazione che ha costruito una forma d'identità che ha bisogno di genealogie certe. Pensate a perché la borghesia a partire da un certo momento imitando la nobiltà ha dovuto ricostruire la storia, inventando magari pure, però ha bisogno di questo. È questo che è interessante, a partire da un certo momento si ha bisogno di una memoria storica, questo per dire che la registrazione di per se può benissimo riprodursi in un contesto di soggetti smemorati e dopo bisogna vedere chi va a cercare quei dati, oppure basterà un nuovo programma per cancellarli tutti in un colpo solo, nella misura in cui sappiamo che il problema dei supporti è che spesse volte tu li perdi nella misura in cui cambi, come se tu cambiassi completamente di paradigma. In fondo poi ci sono gli storici che fanno adesso questo lavoro, che cercano di recuperare, però questo è il dato di fatto perché fondamentalmente la tendenza è quella di una riproduzione del registrato indipendentemente da un soggetto che è appunto ancora intenzionato dalla sua memoria. Evidentemente come dicevo prima viene fuori questo presente con questa forza di affermazione, con questa indipendenza da tutto il resto, con questa capacità anche in un certo senso di tagliare i legami con un passato e pensare al futuro, cosa stranissima perché ciò che ha sempre contraddistinto il presente è la sua vocazione a passare. Il presente si sacrifica sempre, si è sempre sacrificato per il futuro. Il presente è condannato a passare, perché sa che passando in un certo senso riesce non solo ad assicurarsi il suo superamento, ma anche a informare il suo superamento, per quello si diceva che la storia era maestra di vita.

Intervento

Non è vero che i giovani non cercano i maestri o ci sputano in faccia, cercano invece un buon maestro che è difficile da trovare; il problema è che ce ne sono pochi. Anche il discorso che abbiamo sentito nonostante sia colto, pieno di citazioni filosofiche, non mi sembra colga in pieno le cose. Lei dice che il presente si vota al futuro, è rivolto al futuro ma non è così, perché il presente è l'unico tempo che abbiamo a disposizione di vivere e dobbiamo farlo al meglio. Quindi io mi trovo d'accordo con don Vinicio, mi trovo di dire che non è vero, non so lei che giovani conosce onestamente, ma mi sembra che sia così.

Raffaella Cosentino (Redattore Sociale)

Ho ricevuto pure io un bel pugno nello stomaco alla frase i giovani non vogliono maestri, mi trovo d'accordo con lui che mi ha preceduto. Io ho preso la decisione abbastanza tardi d'intraprendere la strada del giornalismo, perché per molto tempo ho cercato un maestro, cioè qualcuno che mi dicesse: tu lo puoi fare questo lavoro, tu non lo puoi fare… a un certo punto ho capito che dobbiamo essere maestri di noi stessi, quindi così diciamo sono andata avanti. Ritornando a tutto il discorso che è stato fatto sulla comunicazione su internet: ok internet è meglio della tecnica, però noi sicuramente come giovani giornalisti ci troviamo a confrontarci con questo mezzo di comunicazione applicato al sociale tra l'altro, quindi cosa c'è di positivo in questo e come può essere sfruttato questo per invertire la tendenza?

Fabio Merlini

Forse c'è un po' un equivoco nella misura in cui questo presente che si vuole affermare, questa autosufficienza non è carpe diem o il presente che tutti noi sentiamo di dover vivere istante dopo istante caricandolo di qualità, per poterci espandere, per poter far si che la nostra coscienza riesca ad avere quella pienezza che in fondo è il sogno dell' intera storia dell'umanità; non è tanto questo il presente che mi preoccupa, anzi io ho proprio il sospetto che laddove non c'è capacità di articolare anticipazione e memorazione, quindi laddove non c'è capacità di fare interagire anche la nostra capacità d'immaginare oltre ciò che ci si presenta come totalità, non c'è rammemorazione perché la forza la si prende sempre in un certo senso guardandosi dietro le spalle, per cui non c'è neanche la capacità d'investire qualitativamente il presente.

Il guardare al futuro non è semplicemente l'essere sempre orientati dalle preoccupazioni del dopo, che questo sappiamo bene è un nostro grande limite, come insegnerebbe la saggezza orientale, centrarsi nel momento presente e quindi non credo che siano così in contraddizione le due prospettive. Per quanto riguarda i maestri anch'io non credo che si sputi addosso ai maestri, sono assolutamente d'accordo con lei che c'è un gran bisogno di maestri, devo però constatare anch'io che oggi siamo un po' dentro il declino, anche perché il maestro ha uno stile d'insegnamento che non è prioritariamente orientato all'efficienza di una competenza che dovete apprendere, alla funzionalità dell'informazione che dovete acquisire, alle competenze tecniche che dovete poter spendere sul mercato del lavoro. Il maestro probabilmente è orientato a un'altra costruzione del sé nel rapporto con il discepolo, con lo studente, con l'allievo e ha tutto un altro tipo di messaggi che viene veicolato e purtroppo non c'è più molto spazio per questo tipo di messaggi, questo semmai è il problema. Io lo dico e lo può confermare chi lavora all'università, il sistema modulistico di organizzare i contenuti della conoscenza non va in direzione di un rapporto allievo-maestro, anche perché alcuni sono forse preoccupati da questo tipo di rapporto di potere tra maestro e allievo, quindi c'è anche una certa preoccupazione nel gioco della distribuzione dell'acquisizione dei poteri a far proliferare le figure dei maestri. Oggi si sta dando all'università una struttura dove vale lo scambio dei crediti, il mercato del valore che puoi dare al singolo insegnamento in termini proprio numerici; leggevo due anni fa, un bellissimo articolo che reagiva al fatto che gli universitari erano invitati a non chiamarsi più professori, ma operatori della conoscenza. E questo è il declino, questa è la ghigliottina dei maestri.

* Testo non rivisto dagli autori.