XVIII Redattore Sociale 25-27 novembre 2011

Bulimie

Per una nuova frugalità

Giulio Marcon intervista Anchille Rossi

 
Parte 1
Durata: 18' 22"
 
Parte 2
Durata: 17' 31"
 
Parte 3
Durata: 15' 17"
 
Parte 4
Durata: 16' 17"
 
Parte 5
Durata: 15' 18"
 
 
 
 
Achille ROSSI

Achille ROSSI

Sacerdote, scrittore, tra i maggiori esperti del pensiero dei filosofi Bellet e Panikkar, è responsabile della casa editrice e della rivista l’altrapagina. Ha approfondito in particolare i temi della decrescita, dello sviluppo sostenibile e della condizione dell’uomo nella società di mercato.

ultimo aggiornamento 25 novembre 2011

Giulio MARCON

Giulio MARCON

Presidente del comitato tecnico-scientifico della Scuola del Sociale della Provincia di Roma.

ultimo aggiornamento 18 aprile 2013

SCARICA IL PROGRAMMA COMPLETO (PDF)

 

LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Giulio Marcon

Buonasera a tutti. Quest'incontro con don Achille Rossi penso che sia particolarmente importante e forse uno dei modi migliori per aprire queste giornate di Redattore Sociale . Il tema è quello della frugalità che è ovviamente speculare a quello delle bulimie, riprendendo il titolo di questa edizione. Molti sono i temi che possono essere ricondotti a questa discussione che faremo questa sera con don Achille Rossi, un profondo conoscitore di importanti filosofi di riferimento per riflessioni che hanno come baricentro anche il tema della frugalità: ricordo figure come Ivan Illich , Raimon Panikkar, Maurice Bellet, cioè filosofi, pensatori, che sui temi di cui discuteremo questa sera si sono interrogati.

Il tema della frugalità della comunicazione sta al centro del dibattito ma ciò interroga ovviamente tanti altri aspetti: quello economico, politico, sociale, spirituale… Ci sono tante sfaccettature e dimensioni di cosa significa la parola frugalità che poi ha tanti sinonimi come sobrietà ed austerità, parole che richiamano l'esigenza di ricondurre la propria condotta nella vita e quindi anche nel proprio lavoro. Ad esempio, nel lavoro di giornalista si riconduce alla selezione di priorità, ma anche a quella scelta di valori, princìpi e temi che rendono il lavoro e la vita che ognuno di noi fa, degna di essere fatta e di essere vissuta.

Ci sono diversi aspetti che puntano alla riflessione che don Achille farà questa sera, poi cerchiamo di interloquire, di rendere questa chiacchierata un vero dialogo. Don Achille Rossi si è preparato alcune riflessioni che possiamo in qualche modo prendere come spunto per questo dialogo e poi nel corso del dibattito avremo modo anche di sentire voi e le vostre opinioni. Lascio la parola a don Achille.

Achille Rossi

Il mondo è impossibile…

Iniziamo con il contestualizzare la parola frugalità.

Noi viviamo un mondo che a me sembra impossibile secondo tre profili: etico, ecologico e spirituale. Messa in luce questa impossibilità poi vediamo da che dipende, da dove nasce.

secondo il profilo etico…

Esaminando la condizione di metà dell'umanità, vediamo che questa vive in condizioni praticamente sotto umane, nel senso che c'è un miliardo di persone garantite, forse meno di un miliardo ; ce ne sono poi 2miliardi che trafficano col primo miliardo, quindi sono a posto, in qualche modo se la cavano, poi ci sono 3miliardi e mezzo di esuberi che cioè, secondo la logica del mercato, danno solo fastidio. Quella manica di comunisti del Credit Suisse hanno fatto recentemente una ricerca che ci dice che l'1% dell'umanità controlla il 38,5% della ricchezza mondiale. Vedete già che delle cifre di questo genere ci danno l'idea che il nostro mondo così fatto, che divide le risorse così, veramente è insostenibile, sempre se noi avessimo ancora un qualche minimo principio etico. C'è un'altra bella indagine che ha fatto Susan George, questa studiosa americana che lavora in Francia, la quale ha detto che ci sono 10milioni di esseri umani che possiedono 24,7 triliardi di dollari, una ricchezza che ammonta a questa cifra stratosferica ossia 247 e metterci dietro 11 zeri. Vedete quindi il livello di squilibrio che c'è nel nostro mondo contemporaneo. Se fossimo persone con un'etica, dovremmo dire onestamente che questo mondo è impossibile.

…secondo quello ecologico…

Il nostro mondo è impossibile anche perché ha rotto un equilibrio ecologico . Ci dicono i fisici che la percentuale di Co2 in atmosfera è di 380 parti per milione, 40-50 anni fa era di 280, quindi c'è un'attività umana che ha squilibrato un po' tutto. Il video di Al Gore "Una scomoda verità" ci fa vedere appunto che questo tempo, in qualche modo, è il più caldo degli ultimi 600mila anni: il Pentagono, che non è un'associazione di climatologi, ha fatto dei carotaggi sui ghiacci e ha previsto gli scenari di una guerra futura. Questo documento che doveva rimanere segreto, in italiano è comparso con il titolo "Immaginare l'impensabile", per dire quanto questo scenario delle guerre del futuro è inimmaginabile. E' veramente un documento che ci impressiona. Questo mondo, quindi, non si sostiene nemmeno dal punto di vista ecologico.

…e quello spirituale

Se poi uno lo guarda da un punto di vista spirituale, cioè da un punto di vista della vivibilità , questa società del possedere, dell'avere, genera persone avide, aggressive, abitate da un vuoto interno, preoccupate solo di garantirsi solo una maggiore rata di consumo e così si perdono i significati. Imperversa così quello che Pietro Barcellona chiama non tanto il nichilismo teoretico bensì un nichilismo affettivo, secondo cui non c'è niente per cui valga la pena d'impegnarsi.

La Terra è stressata, non ce la fa più

La conclusione è semplice: non si può continuare così, produrre sempre di più e sempre più velocemente, cose che servono sempre meno, per fare sempre più soldi.La Terra è stressata, non ce la fa più, le materie prime vanno verso l'esaurimento, l'energia scarseggia e il clima è impazzito. Io una volta mi son divertito coi ragazzi del mio doposcuola, a misurare l'impronta ecologica: ci siamo resi conto che ci voleva almeno un altro pianeta in soccorso, perché la Terra da sola non basta. Se noi andiamo verso questa prospettiva, dobbiamo prendere una decisione rapida e semplice, dobbiamo prendere congedo dall'idea di crescita illimitata, dall'idea di sviluppo, perché la crescita vista da questa angolatura non è più la soluzione, è piuttosto il problema. Poi però guardo le prospettive della Banca Mondiale che dice che fino al 2050 dobbiamo crescere del 3%, è una pura follia, è un delirio quantitativo. Se le cose stanno così, prendere congedo dallo sviluppo è un imperativo categorico, dobbiamo farlo e alla svelta.

Il linguaggio deve essere bonificato

Esprimo a questo punto il mio timore: credo che non sia facile perché gli archetipi della crescita dello sviluppo illimitato si sono radicati profondamente nella nostra cultura, il nostro immaginario in qualche modo è stato colonizzato dalla crescita . Per andare verso un altro stile di vita che privilegi la frugalità, non ce la possiamo cavare con la mentalità che abbiamo adesso, con la quale possiamo solo mettere delle pezze, e non basta, è insufficiente. La prima cosa che mi viene in mente è un'intuizione più forte, la dico con le parole del filosofo Raimon Panikkar che è scomparso l'anno scorso: ascoltare il divino. Ascoltare il divino non significa fare parte di una confessione specifica, significa bensì riprendere contatto con quella dimensione ultima che sta nel cuore di ogni persona, ma che rischiamo di soffocare dietro quest'ansia di consumo e di possesso. Quindi ascoltare il divino, coltivare l'umano, sempre parole di Raimon Panikkar e recuperare la dimensione cosmica. Questa visione più profonda che prende sul serio l'impossibilità di crescere dove ci può condurre? Io credo che sul piano personale ci conduce verso uno stile di vita che privilegia la qualità e non l'accumulo, la qualità e non la quantità. Uno stile di vita che scelga volontariamente la semplicità come stile di vita, ci conduce a mio parere, a recuperare 5 verbi del quotidiano che sembrano di una banalità assoluta, come mangiare, parlare, respirare, camminare e riposare. Mangiare non è ingozzarsi di cibo, mangiare è un sacramento, è la relazione, se noi perdiamo il senso di questa capacità di stare in relazione nel momento in cui celebriamo il sacramento del mangiare, se perdiamo il senso di questa capacità di convivere in quel momento lì, abbiamo perso un pezzo di vita profonda. Parlare non è io vi do delle notizie, questo è l'aspetto più banale, parlare è mettersi in questo rapporto di invocazione, per cui invoco la vostra attenzione, il vostro silenzio, la vostra premura. Respirare per l'Oriente è il principio della religiosità. Il camminare è seguire un ritmo. Riposare, in un mondo iperproduttivo, è camminare verso un pizzico di saggezza; se sul piano personale può essere questo, sul piano culturale io credo che significhi svelare il mito dentro cui noi siamo imbricati, compiendo una bonifica del linguaggio. Qui mi viene in mente quella frase che Confucio diceva ai suoi discepoli: "Cominciate col mettere ordine nel linguaggio ", che significa chiamare le cose con il loro nome. Noi veniamo da una ventina di anni in cui veramente è stato strapazzato il senso più pieno perché non abbiamo chiamato le cose col nome che avevano. E allora ecco, bisogna svelare questo mito.

Scardinare e sostituire la mentalità dominante

C'è una forte confusione tra l'interesse privato e l'amore del prossimo . L'economia ci ha predicato, da Adam Smith in avanti, che chi faceva il proprio interesse, in qualche maniera realizzava il miglior lavoro per il prossimo ed era quindi il più utile per la società. Sotto questo profilo, si è rovesciato il Vangelo. Ci hanno detto che la libertà consisteva nella libertà di mercato e anche qui grande mistificazione del linguaggio. Ci hanno detto che le leggi del mercato sono naturali per cui non si possono cambiare. Ci hanno detto che il mercato è una specie di attrezzo sacrificale, tribola oggi perché domani starai meglio tu, oppure i tuoi figli domani. Ecco allora che sul piano culturale significa non solo bonificare il linguaggio ma anche scardinare i punti salienti della mentalità dominante e sostituirli. Oggi si dice che se vuoi vivere bene devi vendere e comprare tutto. Tutto deve stare nel mercato, la salute, l'educazione, tutte le cose più importanti e invece dobbiamo sostituire quello che sta nel mercato, sostituirlo con altro, non si può vendere e comprare tutto: le cose più umane non sono in vendita, come l'amore, la fede, la scienza. Sono in vendita altre cose, ma che hanno un valore molto più relativo. Non si lavora per arricchirsi, si lavora per essere, per sviluppare le proprie capacità umane. Non siamo fatti per competere, grande parola che ci viene detta da tutte le parti, non si compete, si collabora. Lo posso dire qui, in questo luogo, in maniera molto forte: la società non può essere affidata solo a quelli che si considerano più belli, più forti, più ricchi, la società è di tutti, tutti siamo artefici della polis, della nostra convivenza. Sul piano politico, quindi, dobbiamo ripensare radicalmente la produzione, il consumo. Finora abbiamo prodotto per i bisogni individuali, dobbiamo invece iniziare a produrre per i bisogni collettivi. L'Italia sta cadendo a pezzi ma noi il territorio non lo proteggiamo, eppure sarebbe quella un'opera importante invece delle cosiddette e sbandierate grandi opere, no? Se l' Italia va in pezzi ci sarebbero da riparare i bisogni collettivi, i consumi sociali; le attività sociali vanno finanziate, gli ospedali, i trasporti, le scuole, la protezione del territorio, delle foreste… Vedete dove può andare a finire questa frugalità, non è soltanto mangiamo meno, è tutta un'ottica, è rilocalizzare l'economia, in fondo ridiventare cittadini preoccupandosi dei beni comuni.

Giulio Marcon

Tu citavi , come me, Ivan Illich, filosofo, sociologo, profeta, archeologo della modernità, in fondo diciamo uno dei più importanti pensatori del '900 che ci ha disvelato appunto tutte le trappole e le contraddizioni della modernità . In un suo testo fondamentale "La convivialità" in un certo punto Illich parla della comunicazione e riflette sulle contraddizioni dello sviluppo e del sistema economico che in qualche modo ha distorto i valori fondamentali anche dell'umano in quanto tale. La sua proposta è quella di una convivialità che sia in qualche modo l'opposto, appunto, di una pratica economica sul concetto di limitatezza dello sviluppo, di rottura di ogni confine naturale e sociale. Ad un certo punto dice: " La stampa, la radio e la televisione non sono più soltanto mezzi di comunicazione dal momento che li si mette coscientemente al servizio dell'integrazione sociale. I settimanali aumentano la loro diffusione riempiendosi di informazioni stereotipate, diventano dei prodotti finiti, che forniscono già bella confezionata un'informazione filtrata, asettica, predigerita. Questa migliore informazione soppianta l'antica discussione del foro dei semplici, della plaza, con il pretesto d'informare e suscita una docile bulimia di alimenti precotti e uccide la capacità naturale di scegliere, padroneggiare, organizzare l'informazione ". Il testo è del '73, quindi 38 anni fa già Illich usava proprio questo termine che usiamo qui, bulimia, per segnalare il rischio appunto di un'informazione, di una comunicazione che offre un prodotto di fatto già avariato o già consumato che quindi in questo caso dà anche un cattivo servizio a chi ne deve fruire.

Ci sono alcuni aspetti che poni che secondo me sono molto importanti, anche rispetto alla discussione di oggi . Il primo è la concezione che noi abbiamo della frugalità, che può essere appunto come dicevo all'inizio, sinonimo di sobrietà o di austerità o anche di altri concetti che richiamano questa dimensione. Il concetto di frugalità si associa molto anche a quello di povertà. Che cos'è la frugalità? È una forma di povertà, vissuta diciamo in modo dignitoso. Qual è il rapporto tra povertà e miseria? C'è un libro dal titolo "Quando la povertà diventa miseria" uscito 3 anni fa, di Majid Rahnema, anche lui collaboratore di Ivan Illich, che ha lavorato a lungo sui temi delle contraddizioni dello sviluppo. In questo libro si differenzia in modo abbastanza netto il concetto di povertà da quello di miseria: la miseria come prodotto sociale e anche stigmatizzante mentre il concetto di povertà come un qualcosa che ha una sua dimensione e dignità, legato anche al rapporto con la cultura, con i mezzi e con gli strumenti che ognuno di noi può avere, pensiamo soprattutto alle società di paesi africani e asiatici. La riflessione che Majid Rahnema fa è come differenziare, come articolare un ragionamento sulla povertà e sulla miseria, che tenga conto di una contraddizione che si è creata nel corso degli anni, cioè quando sostanzialmente le politiche liberiste, come anche quelle precedenti, hanno trasformato progressivamente le condizioni di povertà che avevano una loro dignità, un loro spessore dal punto di vista culturale, sociale, umano, in condizioni di miseria, in cui la persona viene privata della sua dignità, della sua identità e di una sua condizione. Quando andiamo in un paese povero appunto cosiddetto, abbiamo questa percezione della povertà perché magari non troviamo in quella casa quel numero di beni di consumo, quel numero di oggetti che noi siamo abituati ad avere, scambiando appunto la ricchezza per il consumismo, cioè per l'accumulo come tu dicevi, di beni, di merci, che vengono prodotte. Qui c'è una prima trappola, che è quella che in qualche modo ci ha condotto a un pensiero e a un regime economico che tu prima citavi, fondato sostanzialmente sull'accumulo e sulla produzione di merci, negando di fatto il benessere e il ben vivere a paesi, civiltà e popolazioni che hanno una condotta di vita diversa dalla nostra. La parola sviluppo di cui tu hai parlato, in molte lingue africane non esiste, è una parola diciamo occidentale, sostanzialmente, che noi abbiamo imposto a molti di questi paesi. Interrogarsi su questo è in qualche modo importante anche da un punto di vista strettamente antropologico per capire come il concetto di frugalità o di sobrietà può essere rivalutato all'insegna di un diverso modo di vivere e di concepire il rapporto con la realtà.

Il secondo punto è capire come con questo concetto di frugalità oggi interagisce con la crisi economica che stiamo vivendo . Già in questo paese negli anni scorsi si parlò di sacrifici; negli anni '70 il sacrificio era un tema dell'agenda politica con il governo dei sacrifici, quello di Andreotti. Proprio nel '77 Enrico Berlinguer parlava di austerità e oggi si ritorna a parlare di sacrifici e di un modello di sviluppo che non è più sostenibile. L'esempio che si fa solitamente è che quando in Cina o in India, come è giusto che sia, ci sarà un televisore,un frigorifero, un condizionatore d'aria, una macchina, questo paese, a meno che non ci sia una grande rivoluzione dal punto di vista dell'innovazione tecnologica in campo energetico, subirà un collasso, uno shock e potrà in qualche modo subire il rischio di nuovi conflitti, perché sull'energia, sul petrolio e sulle fonti di approvvigionamento, come ci diceva anche Ennio Remondino, si sono giocate molte guerre negli ultimi anni. Il tema è proprio su come ci si interroga a partire dal concetto di frugalità, sul modello di sviluppo diverso che cambia i nostri comportamenti, i nostri stili di vita. Cito molto brevemente un passo di Alexander Langer che tu hai conosciuto molto bene, di cui hanno appena pubblicato un libretto che è andato in distribuzione gratuita, ossia la lettera "Caro San Cristoforo": " Il motto dei moderni giochi olimpici è diventato legge suprema e universale di una società in espansione ed imitata: più veloci, più alti e più forti. Si deve produrre, consumare, spostarsi, istruirsi, competere insomma. La corsa al più trionfa senza pudore. Il modello della gara è diventata la motrice riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che supera, che sembra irreversibile e incontenibile. Superare i limiti, allargare i confini, spingere in avanti la crescita, ha caratterizzato in misura massiccia il tempo del progresso dominato da una legge dell'utilità definita economia e da una legge della scienza definita tecnologia ". Langer chiude dicendo: " Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti, rallentare i ritmi di crescita di sfruttamento, abbassare i tassi d'inquinamento di produzione di consumo, attenuare la nostra pressione presso la biosfera, ogni forma di violenza, un vero regresso, rispetto al più veloce, più alto, più forte. Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi ". Anche la conversione ecologica, di cui si parla in questo testo, deve essere desiderabile. Per vincere, la conversione ecologica non deve essere imposta dall'alto bensì desiderata da ciascuno di noi.

Secondo te, non si pone oggi questa desiderabilità rispetto a una civiltà che sull'onda del consumismo più feroce, più cinico, più esasperato, ha portato in realtà a una forma moderna anche di schiavitù? La frugalità nella sua accezione buona, vera, è anche sinonimo di libertà, libertà di scelta, perché hai meno lacci, hai meno schiavitù, no? Il consumismo invece con questa compulsività diciamo appunto dell'acquistare, del consumare, del cambiare in continuazione, di fatto introduce in tutti i modi delle forme di schiavitù dalle quali non riusciamo più a liberarci. La desiderabilità di un modello diverso di sviluppo, di un'economia che metta al centro le cose che tu dicevi prima, in un momento di crisi così drammatica, può essere messa nell'agenda politica, sociale, culturale di oggi?

Achille Rossi

La povertà contrapposta alla miseria

Quello che tu dicevi sulla povertà contrapposta alla miseria, è il grande tema che Majid Rahnema ha posto anche nel nostro convegno 4 anni fa , quando lo invitammo a parlare sulla convivialità delle differenze. Le società umane hanno vissuto sempre con la povertà, che significa non la mancanza di grande abbondanza di mezzi come è venuta fuori nella nostra società, ma il vivere con dei mezzi limitati. La miseria, invece, è una cosa molto diversa, la miseria è la disumanità, perché impedisce che l'umanità delle persone possa fiorire. Un conto è dire che una società ha dei mezzi limitati e un conto è dire che non ha l'essenziale perché le persone possano vivere. Il grande discrimine sta nel capire che la povertà può essere umana, può essere gestita, mentre la miseria è disumana e deve essere necessariamente superata. Quali aspetti positivi si possono intravvedere nella povertà? Nella non grandissima abbondanza di mezzi, potrei intravvedere il fatto che l'uomo è più attento alla relazione, che è la vera ricchezza degli esseri umani. Quando una persona è completamente proiettata nella conquista dei beni in questa avidità insaziabile, è chiaro che non è pronta a ricevere, è come se lo spazio interno della persona umana fosse completamente occupato dalle cose. C'è una frase che secondo me è straordinaria "Chi conosce Dio diventa Dio" perché se tu conosci e traffichi determinate realtà, diventi in qualche modo quelle realtà. Se tu traffichi, come noi oggi, soltanto con gli strumenti, finisci per diventare un oggetto, uno strumento anche tu. Io credo che il destino della nostra civiltà, per rispondere alla tua domanda, è quello di aver oggettivato a tal punto tutto, che non ci rimane più spazio per la relazione umana, abbiamo a che fare soltanto con oggetti e quando abbiamo a che fare con le persone le oggettiviamo, e questo è fatale. La povertà intesa nel senso che dicevi tu, non nel senso di miseria, può avere questo pregio ossia la possibilità di recuperare lo spazio della relazione.

Sullo sviluppo mi vengono in mente anche dei colloqui che feci con Pannikar nel '96, su come appunto sopravvivere allo sviluppo. Pannikar cercava di farmi vedere come è monoculturale il concetto di crescita e di sviluppo, diceva che gli occidentali desiderano soltanto crescere e svilupparsi. Diceva: "Voi ci dovreste parlare di risveglio dei popoli, non di sviluppo dei popoli. Se voi parlaste di risveglio noi capiremmo, se voi parlate di sviluppo non vi capiamo", perché è evidente che lo sviluppo di cui parliamo noi va verso l'aumento delle cose e del consumo e non verso il risveglio dell'essere umano, delle sue potenzialità più profonde.

L'austerità; imposta non funziona e probabilmente spesso è ingiusta

Per quanto riguarda la frugalità, io avrei un tantino paura dell'austerità dei governi . Quando sono i governi che parlano di austerità, mi si innalza il livello del senso critico, perchè temo che questo sia funzionale ad un loro disegno. L'austerità imposta non funziona e probabilmente spesso è ingiusta. La riscoperta del senso del limite, questo mi sembra fondamentale, ma del resto lo avevano già detto gli antichi greci, il male dell'uomo è la ibris, è questo fuori uscire dalla condizione umana, questa mania di onnipotenza, che tutti gli psicanalisti cercano di sconfiggere nei loro pazienti. E' la mania di onnipotenza, che è insita nel consumo, che fa male, non il fatto che la nostra persona possa evolvere, modificarsi e anche crescere. Questa è una società che predica, come la Banca Mondiale di cui ho già detto, che dovremmo crescere fino al 2050 del 3% e non guarda la città. Parlare di crescita infinita in un mondo limitato, lo possono fare solo due categorie di persone: un folle o un economista, perché solo un economista che è interno alla propria disciplina può dire sviluppiamo, cresciamo, senza vedere che tutto questo non ha radici. Quando si parla di una società che ci spinge verso il di più, questo non è necessariamente il meglio, il di più è solo quantitativo, mentre il meglio è l'umano, che è un'altra cosa. Quindi noi dobbiamo crescere in umanità, crescere in qualità, ma ciò non significa aumentare la rata dei beni di consumo.

Giulio Marcon

Qui c'è un concetto che tu hai intercettato nel tuo ragionamento, che io voglio esplicitare: il concetto di decrescita di cui si parla spesso . Latouche ha scritto numerosi libri su questo tema, a parte che siamo già in decrescita economica perché negli ultimi 3 anni e mezzo il Pil nel nostro paese è diminuito complessivamente di 3,8 punti percentuali. Il ragionamento di Latouche ha come obiettivo una decrescita felice e sostenibile, che punta alla riduzione dei consumi insostenibili. Si tratta di un'idea di economia che non mira alla crescita illimitata ma che si pone, invece, altri obiettivi, quelli che tu dicevi prima, legati alla qualità più che alla quantità. C'è un altro tema che secondo me quando si parla di frugalità bisogna in qualche modo ricordare e che si può opporre rispetto a questo tema della ricrescita: i concetti di sostenibilità, equità, eguaglianza, perché un conto è parlare di decrescita nei paesi ricchi e sviluppati, un conto è ad esempio in Uganda, soprattutto dopo 30 anni e più di politiche neoliberiste che hanno impoverito, nel senso di immiserito, questi paesi portandoli alla rovina. Come conciliare un modello di sviluppo diverso, una decrescita sostenibile, con un discorso di maggiore eguaglianza, di maggiore redistribuzione anche della ricchezza esistente, ricchezza intesa anche come fonti di approvvigionamento di materie prime, come possibilità di futuro? Come costruire tutto questo? Sono sufficienti i comportamenti individuali o serve anche la politica e quindi anche un'azione che sia in grado di mettere in campo diciamo politiche efficaci da questo punto di vista?

Achille Rossi

Non decrescita bensì acrescita

Ti ringrazio per questa domanda perché sulla parola decrescita c'è molta polemica e io sarei tentato di dire si, la parola indica qualche cosa, ma può portare anche fuori strada. Latouche era molto contento di questa parola e anche Illich poi però Latouche ha leggermente modificato il tiro dicendo non decrescita bensì acrescita, cioè uscire da questa concezione dello sviluppo illimitato. Questo è molto saggio, uscire da una concezione di uno sviluppo illimitato per i motivi che dicevo prima, ma se la gente quando tu parli di decrescita pensa che si deve ritornare al lume di candela, allora siamo completamente fuori strada. Le parole non sono solo concetti, hanno una serie di evocazioni di archetipi profondi di cui bisogna tener conto. Temo che la parola decrescita non sia tanto felice, ecco perché poi ci appiccichiamo la parola felice. Io sarei dell'idea di dire quello che la decrescita significa uscire dall'immaginario dello sviluppo, abbandonare questa religione del crescere sempre di più, di produrre sempre di più sfruttando la natura, riducendola a un ammasso soltanto di materia informe, non va bene, questo non si può. Quindi non la parola decrescita perché può essere equivocata, ma la realtà si, quello che c'è dietro la parola si e far capire, perlomeno cercare di prospettare, che decrescita non significa soltanto negare una concezione bensì aprire una nuova visione più profonda del mistero della vita, delle relazioni umane, del rapporto con la natura. Pensate che uno dei primi filosofi della modernità è Francesco Bacone che diceva: "Bisogna affrontare la natura, considerarla come una meretrice e sfruttarla affinché ci sveli tutti i suoi segreti", capite che concezione si ha della natura? È una concezione oggettivante mentre noi abbiamo bisogno di superare tutto questo. Decrescita in altre parole vorrebbe dire usare un altro sguardo, un'altra maniera di vedere la realtà, dalla natura, all'uomo, al divino, ma nello stesso tempo capire che non significa un ritorno indietro, bensì in una qualche maniera, prospettare una nuova civiltà. Noi dobbiamo entrare necessariamente in una nuova civiltà. Se la parola decrescita non ci piace, chiamiamola come ci pare, aboliamola, ma dobbiamo necessariamente entrare in una nuova ottica, sennò c'è il muro di fronte e davanti a quel muro ci schiantiamo.

Rivedere il trinomio tecnologia, finanza, mercato

Giustamente tu evochi la politica. Io sono proprio d'accordo, perché la politica indica questa capacità di armonizzare le cose anche contrarie, di riuscire a convincere il cittadino che il cambiamento va fatto ma con equità . È chiaro che non possiamo predicare la decrescita in Africa, quelli avranno bisogno ancora di tanta energia e di tante risorse, dobbiamo predicarla qui. Siamo noi che dobbiamo uscire dall'immaginario dello sviluppo e della crescita illimitata. Questa mania che è insorta con la globalizzazione di produrre e spostare le fabbriche da tutte le parti, è veramente folle, dobbiamo fare il movimento inverso, cercare di ritornare possibilmente alla produzione locale e questo soprattutto nel terzo mondo, perché lì si sono fatte rapine, distruzioni in base a questo principio. Ecco noi abbiamo fatto questa politica invece bisognerebbe farne una diversa che è appunto quella non solo di decrescere, bensì di rilocalizzare, di privilegiare il locale e soprattutto di mettere il bavaglio alla finanza. Perché? Perché la crescita è fondata sul trinomio che Petrella spiega molto bene: tecnologia, finanza e mercato ossia l'anima della crescita. Dobbiamo rivedere questo binomio nel senso di riportare la finanza sotto il controllo della politica, e questo mi sembra un punto fondante. Pensate che il Vaticano, e non una manica di comunisti, ha fatto un documento una quindicina di giorni fa, in cui sostiene che ci vuole una nuova politica che riporti la finanza a quello che deve essere, cioè la finanza come lubrificante per l'attività produttiva, e non diventare il centro della società perché in tal caso l'assassina.

Giulio Marcon

L'ultima domanda riguarda il tema della comunicazione, il rapporto tra comunicazione e frugalità. Tu sei redattore del periodico "L'altra pagina" e anche di una casa editrice che ha lo stesso nome e poi vai in giro, fai conferenze, incontri, quindi ti confronti con il tema della comunicazione, sia della carta stampata che della comunicazione orale. Questo tema della frugalità e della bulimia come si dice qui questa sera, è molto forte e penso che sia giusto che se ne discuta e che sia stato scelto questo tema. La teoria di Ivan Illich della contro produttività si potrebbe applicare al tema della bulimia della comunicazione e dell'informazione, cioè in presenza di un eccesso di offerta, in questo caso di comunicazione e informazione, si produce esattamente l'effetto opposto, quello dell'impoverimento dell'informazione e della comunicazione. Significa che più metti a disposizione una serie di informazioni, più fai comunicazione inondando in qualche modo la pubblica opinione e più in qualche modo impoverisci e rendi poco decifrabile l'informazione. Tant'è vero che noi siamo tutti i giorni subissati da tantissime informazioni che ci vengono dalla televisione, dalla carta stampata, dalla radio, così via, però spesso ci accorgiamo di non sapere bene come stanno le cose anche sui temi che interessano di più.

Qual è secondo te un punto sul quale riflettere rispetto alla necessità di costruire un'informazione frugale cioè un'informazione sobria? È solo un problema di scelta di linguaggio, di selezione dell'informazione, di scelta dei temi, di dimensione appunto dei mezzi d'informazione? Quali sono gli aspetti che tu vedi come problematici e come però potenzialmente positivi rispetto a una comunicazione che ponga al centro questa nozione della frugalità, della sobrietà, di un'essenzialità come elemento centrale per fare informazione in questo paese? Il rischio altrimenti è quello che ci dicevi all'inizio, cioè tu pensi di avere tante informazioni, tanta comunicazione, poi ti rendi conto in realtà di non sapere niente e di essere semplicemente il consumatore, di avere solo informazioni precotte, diciamo predigerite e quindi di essere sostanzialmente un consumatore bulimico di tanti oggetti d'informazione, di consumo, che in realtà non ci dicono come stanno le cose, ma che soddisfano solamente la nostra pancia. Qual è la tua opinione rispetto anche all'esperienza?

Achille Rossi

Maggiore pensiero, maggiore silenzio e maggiore dialogo

La tua domanda mi sembra molto importante e mentre tu parlavi mi è venuto in mente un proverbio popolare della nostra terra che dice "il troppo stroppia" , il troppo, l'abbondanza di notizie, l'abbondanza di cose, di comunicazioni, rende come dicevi tu la comunicazione inutile. Spesso scrivere è riempire il foglio perché c'è la fretta, perché la redazione deve concludere o perchè il giornale va in stampa. Noi siamo purtroppo in un mondo produttivo anche a questo livello, produciamo informazione, ma penso che la pensiamo troppo poco. Io vorrei dire a quelli che fanno comunicazione, che bisogna pensare di più. Pensare richiede una condizione importante: il silenzio. Il silenzio noi l'abbiamo completamente perduto. Qualche volta bisogna andare nei paesi dell'Oriente per rendersi conto di quello che significa il silenzio. Io ho visto un contadino indiano di sera sopra l'aratro che guardava verso il tramonto e i due buoi fermi, pensava, pregava, certamente non lavorava… Bisogna fermarsi, ricordate quello che dicevo prima a proposito del riposare. Riposare è riconquistare il ritmo, mentre noi andiamo a un ritmo troppo veloce. C'è una cosa che mi ha molto colpito, la dico per come l'ho letta su dei libri dei fisica: il ritmo normale e regolare della terra, il campo magnetico che avvolge gli esseri viventi alla terra, ha 7,8 pulsazioni al secondo, però; sembra, in base a delle misurazioni che stanno facendo, che questo ritmo si sia accelerato fino ad arrivare a 11 pulsazioni. Che significa? Che anche la terra è stressata, abbiamo bisogno davvero di fermarci, di maggiore silenzio, di maggiore pensiero e forse anche di maggiore dialogo. Io credo che la frugalità in questo campo significhi maggiore pensiero, maggiore silenzio e maggiore dialogo.

Intervento

Rivolgo idealmente la domanda a entrambi, riferendomi soprattutto a quanto detto poc'anzi sul fatto che la politica dovrebbe riappropriarsi di quella funzione di controllo soprattutto nei confronti della finanza. C'è però un problema di fondo perché è sotto gli occhi di tutti che in Italia la politica ha perso autorevolezza. Quello che è successo nei giorni scorsi è la riprova del fatto che la politica non ha più quella capacità di accettare né il comune sentire, né l'esigenza reale dei cittadini. Quando la politica perde di autorevolezza, capita come in Italia, che i tecnici vanno al governo sancendo in qualche modo questa crisi totale della politica. La domanda è questa: come se ne esce? Qual è una strada possibile? Grazie.

Intervento

Rossi ha detto che occorre riportare la finanza sotto la politica, per la tecnologia e per il mercato che facciamo? Qual è la nuova visione?

Intervento

Sono laico, sono sposato da 31 anni, però ho trovato in un libro di Panikkar un fondamento essenziale per quella ricerca del silenzio, per quella capacità di prendermi una pausa, un distacco, che mi ha portato molto lontano anche dal mondo del lavoro. Questo mi ha aiutato ad integrarmi in una dimensione altra dell'uomo, non la mia, quella che mi ha dato il Padre. Volevo chiedere a lei se questa può essere una risposta significativa anche da un punto di vista professionale, riallacciandomi magari all'altro profilo che è quello del mistico e che non mi sembra così estraneo alle parole che lei ha detto, grazie.

Intervento

Ultimamente un antropologo americano di cui adesso mi sfugge il nome, ha pubblicato un libro sulla storia antropologica del debito che è diventato famoso soprattutto tra i ragazzi del movimento antiglobalizzazione. Qui si afferma che in realtà il debito è stato imposto dalle banche, soprattutto dai ricchi, insomma traccia un'altra storia del debito. Alcuni usano il suo ragionamento per affermare che il debito non è giusto pagarlo. Volevo sapere che cosa ne pensava lei, ossia se è giusto o meno pagare il debito.

Giulio Marcon

Io credo che il tema di oggi sia riportare la finanza sotto il controllo della politica, cosa che non sta avvenendo perché la finanza di fatto ricatta il mondo della politica e quello dell'economia reale. C'è un intreccio d'interessi evidente, direi un conflitto d'interessi, tant'è vero la crisi è iniziata 3 anni fa e dopo alcuni timidi tentativi di mettere la finanza sotto controllo, soprattutto negli Stati Uniti, si è ritornati al vecchio modo di procedere, per cui non ci sono in campo iniziative né politiche adeguate per fare questo tipo di operazione. Oggi si continua ancora a lisciare il pelo alla finanza, bisognerebbe fargli invece il contropelo; anziché accontentare a più riprese i mercati finanziari, bisognerebbe essere in grado di porre delle regole molto stringenti e anche di colpirli in qualche modo. La logica sarebbe quella di colpire questi comportamenti negativi della finanza. E' estremamente grave che l'Unione Europea non riesca a mettere in campo una politica incisiva, attraverso un ruolo di garanzia della BCE e del bilancio europeo, intervenendo per stoppare la speculazione dei mercati finanziari. Questo è il sintomo di una grave condizione del sistema europeo che non ha una politica economica e fiscale comune, si trova ad avere una moneta comune senza strumenti adeguati per evitare, appunto, quello che è successo in questi mesi. Se si fosse intervenuti molto prima ad esempio sul caso della Grecia, avremmo speso molto meno soldi e avremmo garantito maggiore stabilità. Se oggi si mettesse sul tappeto una politica fondata ad esempio sull'Eurobond, una politica di garanzia attraverso non un fondo salva stati ma attraverso la garanzia diretta del bilancio europeo verso i paesi in sofferenza, una politica comune di carattere fiscale, si arginerebbe molto questa speculazione che in realtà ha come obiettivo quello di guadagnarci il più possibile su una situazione di sofferenza che è reale. Ricordo che in questa sofferenza reale, in realtà c'è qualcuno che ci guadagna e chi ci ha guadagnato in questi mesi è stata la Germania, che ha visto andare molti investitori dalla Grecia, dall'Italia, dalla Spagna, dal Portogallo, verso i Bund tedeschi e questo ha significato, dicono gli economisti, un risparmio di circa 20miliardi di euro in un anno. Il problema è proprio questo, come costruire una politica comune che non faccia questa cosa dei tagli. E' un problema la riduzione della spesa pubblica ma per certi versi minore rispetto all'esigenza che oggi si ha, che è quella di avere una politica comune, anche di crescita economica che sia degna di questo nome e che sia capace appunto di riportare i mercati finanziari alla logica del profondo delle regole dell'economia e della politica. Penso che questa sia la questione fondamentale.

Sul debito io penso che non possiamo fare paragoni tra la situazione europea e italiana e la situazione dei paesi appunto cosiddetti in via di sviluppo, che in alcuni casi hanno scelto anche unilateralmente di non ripagare il debito, vedi il caso dell'Ecuador, ma lì si trattava di circa 20miliardi di dollari di debito e soprattutto con investitori internazionali. Nel caso dell'Italia parliamo di 1900miliardi di debito, di cui metà è in mano italiane, famiglie private o banche, ma le banche poi siamo noi perché abbiamo i conti correnti. Fare una politica che punti sostanzialmente al default, quindi al non ripagare il debito, potrebbe essere molto rischioso, io dico anche drammatico per tutti noi. Non è il modo per affrontare una crisi che ha bisogno di strumenti molto più complessi e molto più diversificati rispetto alle esigenze che abbiamo.

Sicuramente si possono fare due cose: intanto si può fare una commissione d'indagine per capire come si è generato anche il debito del nostro paese, perché c'è una componente fisiologica d'indebitamento che nel nostro paese ha origine negli anni '70 e '80, per far fronte all'esposizione crescente sul fronte della spesa pubblica, ma dall'altra parte c'è anche una parte appunto di carattere speculativo di cui bisogna sapere, di cui bisogna conoscere chi sono i responsabili, come si è generato. Scopriremo delle cose molto interessanti. Si potrebbe inoltre concertare con gli altri paesi in difficoltà, cioè Portogallo, Spagna, Grecia, un'azione verso i creditori attraverso la mediazione dell'Unione Europea, poi si tratta di investitori spesso istituzionali, banche, fondi pensione, per capire come rinegoziare questo debito, cioè i tempi, le forme della sua restituzione. Credo che da questo punto di vista il problema principale è appunto politico, come si diceva nel primo intervento, cioè come si rimette al centro un'azione politica in grado di riportare il sistema finanziario nell'alveo di una sostenibilità dal punto di vista sia appunto del rapporto con l'economia reale e sia rispetto alle decisioni che il sistema politico prende. Altrimenti qui spariamo con un fucile a tappi contro un "nemico" che è molto più potente, adesso è la volta della Germania, e il rischio è che questa situazione si avviluppi in una dimensione che ad un certo punto non sarà più controllabile. Il problema del default si porrà, ma in modo drammatico, perché appunto si tratta dei risparmi delle famiglie, dei soldi di tutti noi. Se si trattasse solo di colpire gli speculatori va bene, si trova la soluzione e li si fa piangere, ma se a piangere non sono solo gli speculatori, allora diventa diverso e bisogna mettere in campo politiche che abbiano questa capacità.

Come se ne esce? Io credo che sia una domanda che merita un convegno di qualche giorno, perché in realtà c'è molta confusione a intraprendere le strade giuste. Una secondo me è quella che ho appena detto, l'altra è interrogarsi sul modello di sviluppo, perché questa crisi non è semplicemente finanziaria, è anche una crisi di modello di sviluppo, una crisi che i classici direbbero un combinato di eccesso di capacità produttiva e sottoconsumo. Pensiamo alle automobili: abbiamo in Europa una sovrapproduzione di automobili del 30-40%, la Fiat se ne sta andando per vari motivi molto legati agli interessi a breve termine di carattere finanziario, però il problema non è che si risolve producendo più macchine, si risolve appunto, e qui torniamo al discorso consumi e produzioni, cambiando il modo di produrre e di consumare. La stessa Fiat chiude una sede che è un'industria che fa autobus, di fronte a una situazione come quella del nostro paese dove ci sarebbe una domanda pubblica di sostituzione di almeno un 30% di veicoli ormai vecchi. Siamo però di fronte ad una situazione che è paradossale, per cui noi abbiamo gli incentivi più alti d'Europa per il miglioramento dell'eco efficienza delle nostre abitazioni, per i pannelli solari e così via e invece importiamo più del 90% di questi pannelli dalla Germania, dalla Danimarca e dalla Cina. Se ci fosse una politica intelligente per dire come se ne esce anche con piccole misure, bisognerebbe dire alla Fiat che può fare i suv sperò noi i finanziamenti non te li diamo, se invece decidi di riconvertire una parte dei tuoi stabilimenti nel fare pannelli fotovoltaici, piuttosto che autobus che servono, perché il nostro sistema pubblico specie nelle grandi città sta messo molto male, allora si, possiamo intervenire con una politica industriale che ha questi obiettivi. Questo significa interrogarsi su un modello di sviluppo non di domani, ma di dopodomani. Non possiamo pensare di fare con l'industria dell'automobile quello che abbiamo fatto con la siderurgia 30 anni fa, cioè di assisterla, assisterla e assisterla, poi si sono resi conto che quella cosa lì non stava più in piedi, abbiamo chiuso Bagnoli, abbiamo chiuso una serie di stabilimenti che non avevano più ragione di essere perché il mondo stava cambiando; lo stesso vale per l'automobile e per tanti beni di consumo che non hanno più ragione di essere prodotti in quel numero, in quella dimensione. Bisogna interrogarsi quali nuovi beni e consumi è necessario sostenere oggi, significa fare un ragionamento su quale tipo di economia vogliamo domani, significa uscire dalla crisi in modo diverso da quello col quale ci siamo entrati. La crisi quindi non è solo finanziaria, è anche economica, di modello di sviluppo, di visione.

Interrogarsi su questo significa ragionare su come se ne esce. Non c'è la bacchetta magica, ma bisogna pensare a un modello di sviluppo industriale, economico, di consumi, di produzione diverso. E qui forse un piccolo legame col concetto di frugalità c'è.

Achille Rossi

Quello che ha detto Giulio con questo intervento, è quello che avrei voluto dire per quanto riguarda la necessità della politica . Giulio ha spiegato molto bene con un discorso politico quello che la politica dovrebbe fare. Faccio la battuta che si applica alla politica quello che Hegel diceva della filosofia: " La filosofia è come la nottola di Minerva che scende al calar della sera " cioè arriva sempre ultima. La politica arriva sempre ultima, ma ha bisogno di una precondizione importante, ha bisogno di una cultura veramente diversa, come quella a cui accennava Giulio, che renda possibile prendere quei provvedimenti. Il lavoro politico ha come precondizione un profondo cambiamento culturale di cui siamo attori tutti noi, non dobbiamo delegarlo a un governo più illuminato, a qualche politico che ha carisma, no, questo è quello che dobbiamo fare noi, è il nostro compito come cittadini. Quando prima dicevo che dobbiamo rimettere al centro i beni comuni, l'acqua, la terra, l'aria, il cibo, la sanità, è questo. E' un lavoro che prepara la politica. Senza questo lavoro preparatorio, la politica non può agire. Avete visto che fine ha fatto il buon Obama? Doveva fare grandi cose, ma aveva a che fare con una cultura popolare estremamente regressiva e di destra che lo ha fatto fallire. Se non c'è un lavoro culturale, non possiamo avviarci verso il cambiamento.

Il secondo intervento mi diceva che ho parlato della finanza, ma non della tecnologia del mercato. Che si fa con la tecnologia e col mercato? Con la tecnologia credo che si debba fare quello che si fa con alcune realtà che hanno avuto un'escrescenza: bisogna emanciparsi dalla tecnologia, cioè non assolutizzarla. Non bisogna dire che siccome questo ritrovato tecnologico è stato inventato, si deve usare. Bisogna emanciparsi, la vita umana non è rendersi schiavi del compresso tecnocratico e delle nuove macchine, di quello che l'ultimo modello della tecnologia ci proporrà, no, è vivere una vita pienamente umana. Senza quest'emancipazione dalla tecnologia, noi diventeremo servi di essa e non c'è di peggio, perché è un modo di vivere che si priva delle finalità e ci aiuta soltanto a maneggiare i mezzi. Noi siamo abilissimi nel maneggiare i mezzi, ma alla fine diventiamo mezzo. A fine di maneggiare strumenti, la vita umana diventa strumentale. Emanciparsi dalla tecnologia non significa negarla, dobbiamo solo utilizzarla in maniera diversa, cercando di vederne le storture. Bisogna giocare il gioco senza osservare le regole, è una bella espressione per dire che non si può stare completamente fuori, ma nemmeno completamente dentro.

A me il mercato appare come un grande mito nel senso dato dagli storici delle religioni, cioè il mito è qualche cosa che tu ci credi senza essere consapevole di crederci, per te è la realtà. Per un bambino che sta dentro l'utero, l'orizzonte della realtà è l'utero, non pensa che ci sia altro fuori, così per noi, il nostro utero che ci conchiude e ci avviluppa è in qualche modo il mercato. E allora che cosa si fa col mercato? Bisogna demitizzarlo, rendersi conto che è un mito. Il mito si può rappresentare con quest'immagine fisica di due donne in un quartiere di Napoli che si parlano dalle rispettive finestre: una vede il vano da cui parla l'altra interlocutrice e quello è il mito dell'amica, ma non vede il suo. Il nostro mito noi non lo vediamo, lo vedono solo gli altri. Questo è molto interessante. Qualche volta, dunque, anche quelli che noi consideriamo come malvagi, sbagliati, è semplicemente che sono dentro un mito differente, bisogna in qualche modo aiutarli a svelare il mito in cui vivono. Col mercato bisognerebbe fare questa operazione che più che politica, è ancora una volta un'operazione culturale.

Nell'altro intervento si è parlato del silenzio, della mistica. Panikkar usava un'espressione già una trentina di anni fa: "Questo è un mondo in cui solo i mistici sopravvivranno" , per dire che è un mondo in cui solo le persone che scendono molto in profondità, recuperano le radici, le sorgenti della loro umanità, possono sopravvivere, sennò siamo condannati allo sfacelo. Io credo che sia molto vero e naturalmente questa parola "mistico" non sa di aggregazione a una chiesa, è qualche cosa di più profondo anche se non la nega. Le religioni non hanno il monopolio della mistica, della religiosità, la fede è ancora più profonda ed è dono di ogni uomo. Su questo però potremmo discutere, ma m'interessa la sua obiezione, perché mi riporta a quelle cose che io non ho potuto esprimere. Quando io dicevo che ci vuole un nuovo sguardo, intendevo che l'uomo deve rendersi conto che non tutto si ragiona, non tutto si conquista con i concetti e che in un punto della sua esperienza, l'essere umano tocca qualche altra cosa di cui non sa dire, che non è manipolabile, non è concettualizzabile, è soltanto percepibile come quella realtà che ti attira come una calamita e che tu non potrai mai possedere e che eppure è là. Ecco questo in qualche modo è rendersi conto che si può ascoltare il divino e a quello affidarsi. Il suo intervento mi porta a questo punto.

Per quanto riguarda il debito ne ha parlato benissimo Giulio. Io dico soltanto che è vero, il nostro debito non è come quello dei paesi latino-americani o quelli che erano sotto aggiustamenti strutturali. E' interessante, però che pian pianino ci stiamo arrivando anche noi, ci stanno trattando con gli stessi criteri, no? I debiti si pagano, prima regola, ma come si pagano? Si tira la cinghia, quindi si riduce, si privatizza, tutte queste belle cose e poi alla fine si esporta, perché devi pagare il debito. I paesi del terzo mondo sono stati condannati con questo sistema. Susan George che è la più grande studiosa di questi problemi, diceva: "il debito estero ha gli stessi vantaggi della guerra perché sottomette gli altri a condizioni durissime, ma non ha gli stessi inconvenienti" quindi ben venga, no? Adoperiamolo pure il debito perché serve proprio per questo nobile scopo, è una guerra non dichiarata.

Vinicio Albanesi

Io sono un po' più pessimista . Tu don Achille pensi che questa educazione abbia effetto? Oppure, come è sempre avvenuto, la storia a un certo momento rimette le cose in regola e quindi spezza questi pseudo equilibri? Mentre parlavi mi veniva in mente gli Africaner in Sud Africa, a quei 4-5milioni di bianchi che non si rendevano conto di che cosa stava avvenendo intorno a loro, fino a che poi sono stati travolti e si sono dovuti raccomandare per avere salva la vita. Io credo che siamo in una fase in cui questo vecchio mondo sarà praticamente spazzato via, perché è vecchio, perché oramai fa del male a sé stesso, quindi non ha più la capacità di essere critico con sé stesso, continuerà da un punto di vista di miopia a perseguire obiettivi che lo uccidono. Si parlava delle automobili e non l'hanno capito che sono troppe e non lo capiremo mai. La tentazione è di dire, va bene, io metto la coscienza a posto perché vado verso una forma più frugale, ma in fondo ci penserà la storia, come una vendetta terribile, la nemesi, la quale riaggiusterà. Tra 50 anni saremo spazzati via, perché siamo vecchi e ricchi, circondati da popoli giovani e poveri, in cui poi si ristabilisce un equilibrio. Se io penso al nord Africa di Sant'Agostino del '400 spazzato via poi dall'Islam, per cui non troviamo più nemmeno i testi, se non a brandelli, io credo che questa sia la storia, una storia che però non ci sottrae dalle nostre responsabilità. Noi siamo posti nell'Occidente opulento, invecchiato, incartapecorito, inquinato e quindi facciamo il possibile, però non è in nostro potere cambiarlo, perché nella storia arriva un momento in cui la corda si spezza e a quel punto gli spezzoni della corda non li gestisci più, non è depressivo però…

Achille Rossi

Maurice Bellet dice: "E' il segreto meglio nascosto della storia se non lo sappiamo". È vero che noi siamo invecchiati, incartapecoriti, addormentati, però è anche vero che la possibilità, l'unica che abbiamo, è quella di svegliarci e vedere cosa esce fuori . Il futuro veramente non lo conosciamo. Stamattina discutevamo venendo in macchina sul fatto che la Cina adesso farà un programma ecologista, per cui smantellerà il carbone e tutte le industrie inquinanti, diventerà un paese che per il 40% abbatterà le emissioni di CO2, chi l'avrebbe mai detto? L'America, invece, rimarrà il paese che inquina di più perché ha ancora una mentalità legata alle destre. Nel mondo si verificano cose che noi non sappiamo e non sappiamo nemmeno come andrà. Per cui io il tuo discorso lo tengo come monito, però non ci credo fino in fondo.

Vinicio Albanesi

Però questi travalicano il muro e non gliela fai più a fermarli, d'altra parte è avvenuto sempre nella storia come con i Barbari alla fine del Medioevo; sono fatti assolutamente naturali, il problema è come evitare i danni di questo tzunami.

Achille Rossi

Però possiamo provare a gestirlo questo cambiamento . Io credo che rassegnarsi alla catastrofe non vada bene, che invece bisogna cercare di prendere le proprie responsabilità in questo momento difficilissimo, che pare catastrofico. Quel qualche cosa che possiamo, dobbiamo gestirlo.

Vinicio Albanesi

Qui in Italia ad esempio hanno fatto le nuove Frecce Rosse però non abbiamo più i trasporti regionali per chi va a lavorare . Sono cose sotto gli occhi nostri e non c'è persona che riesce a fermarlo; ti alzi alle 3 o alle 4 e mezzo perché è l'unico treno che ci sta, è una cosa terribile e non coinvolge nemmeno gli interessati, perché con la propaganda ti friggono il cervello… Se noi facciamo il calcolo di quanti giubbotti abbiamo per l'inverno possiamo durare fino al 2040, perché alla fine di consumarteli ci arrivi tranquillamente eppure continuiamo a comperarli. Ma perché? Perché ti friggono la psiche, vai in una specie di ansia e te ne accorgi dopo e dici: ma quante scarpe ho? Quanti pantaloni ho? Quanti calzini ho? Quante maglie ho? Però seguiti a comprare, in questo desiderio di consumo che non finisce mai perché è un desiderio… invece tu dici bisogna fare qualcosa… facciamo qualcosa dai.

Achille Rossi

Diceva Pannikar: "La speranza non sta nel futuro, ma nell'impossibile".

Giulio Marcon

Il pessimismo dell'intelligenza e l'ottimismo della volontà..

* Testo non rivisto dagli autori.